Giovanni Bonicelli
Pantalon spezier
con le metamorfosi d’Arlechino per amore
Scenica rappresentanza
a cura di Maria Ghelfi
con un’introduzione di Piermario Vescovo
Biblioteca Pregoldoniana
lineadacqua edizioni
2018
Giovanni
Bonicelli
Pantalon spezier con le metamorfosi d’Arlechino
per amore, scenica rappresentanza
a cura di Maria
Ghelfi con un’introduzione di Piermario Vescovo
© 2018 Maria
Ghelfi
© 2018 Piermario
Vescovo
© 2018 lineadacqua edizioni
Biblioteca Pregoldoniana, nº 22
Collana diretta
da Javier Gutiérrez Carou
Supervisore per i
dialetti: Piermario Vescovo
www.usc.es/goldoni
Venezia -
Santiago de Compostela
lineadacqua edizioni
san marco 3717/d
30124 Venezia
tel. +39 041 5224030
www.lineadacqua.com
info@lineadacqua.com
ISBN dell’edizione completa: 978-88-95598-99-4
La
presente edizione è risultato dalle attività svolte nell’ambito dei progetti di
ricerca Archi-vio del teatro pregoldoniano
(FFI2011-23663) e Archivio del teatro pregoldoniano
II: banca dati e biblioteca pregoldoniana (FFI2014-53872-P)
finanziati dal Ministerio de Ciencia e Innovación spagnolo.Lettura,
stampa e citazione (indicando nome della curatrice e dell’autore
dell’introduzione, titolo e sito web) con finalità scientifiche sono permesse
gratuitamente. È vietato qualsiasi utilizzo o riproduzione del testo a scopo
commerciale (o con qualsiasi altra finalità differente dalla ricerca e dalla
diffusione culturale) senza l’esplicita autorizzazione della curatrice,
dell’autore dell’introduzione e del direttore della collana.
Biblioteca Pregoldoniana, nº 22
Nota al
testo
Edizioni
utilizzate
Di
seguito offriamo l’elenco e la descrizione delle edizioni di cui si è tenuto
conto per la presente edizione del Pantalon
spezier. Si tratta di una tradizione di testi
esclusivamente a stampa che non presentano un panorama significativo di
varianti.
Edizione
siglata S:
PANTALON
/ SPETIER / Con le Metamorfosi / d’Arlecchino per / Amore / Scenica
Rappresentanza / Dell’Eccell. Sig. Dottor / GIOVANNI
BONICELLI. / Dedicata / All’Illustriss. Signor /
GIACOMO DALRÈ / [insegna] / In Venetia, Per Dom.
Lovisa a Rialto / [riga orizzontale] / Con Licenza de’ Sup.
e Privilegio.
Alle
pp. 3-4 si colloca la dedica:
ILLVSTRISS.
SIG. / [segue la dedica che sic chiude con] / Di V. S. Illustr.
/ [e a fondo pagina] / Umil. Div.
& Oblig.. Serv. / Domenico Lovisa.
A
p. 5 si
colloca l’elenco dei personaggi.
A
p. 6 si colloca la descrizione della scena.
La
commedia va da p. 7 a p. 115.
Alle
pp. 116-117 si colloca il listino della libreria.
Dal
Lovisa Libr. à Rialto in Ruga d’Ore<si>.
Edizione
siglata S2
PANTALON
/ SPETIER / Con le Metamorfosi / d’ Arlechino per /
Amore / Scenica Rappresentanza / Dell’ Eccell. Sig.
Dottor / GIOVANNI BONICELLI. / Dedicata / All’ Illustriss.
Signor / GIACOMO DALRE’. / [insegna] / In Venetia,
Per Domen. Lovisa à Rialto / [riga orizzontale] / Con
Licenza de’ Sup. e Privilegio.
Alle
pp. 3-4 si colloca la dedica:
ILLVSTRISS.
SIG. / [segue la dedica che si chiude con] / Di V. S. Illustr.
/ [e a fondo pagina] / Umil. Div.
& Oblig. Serv. /
Domenico Lovisa.
A
p. 5 si colloca l’ elenco dei personaggi.
A
p. 6 si colloca la descrizione della scena.
La
commedia va da p. 7 a p. 115, con la mancanza delle pp. 97-100.
A
p. 116 si colloca il listino della libreria.
L’edizione critica del Pantalon spezier si
è basata su due stampe allestite da Domenico Lovisa. Entrambe le stampe non
presentano né data né dedica. Il testo risulta identico, a parte le varianti
grafiche illustrate sotto. La copia di riferimento per la trascrizione, S, è
conservata al Centro di Studi Veneti e presenta alcune lacune dovute
all’impaginazione che in alcune facciate di sinistra non rende leggibili le
lettere finali delle parole. Mentre la copia conservata nella Biblioteca
Nazionale Marciana, S2, seppur mutila di quattro pagine
nell’atto terzo, è stata utile all’integrazione delle lacune presenti in S.
In
diversi punti è
stato riscontrato un errore nel riferimento al personaggio all’inizio di
battuta. Un filone della trama è costruito sulle relazioni tra Leandro e
Vittoria e tra Beatrice e Celio; ma nei casi sotto segnalati i personaggi
vengono scambiati tra loro. In altri tre casi, invece, vengono scambiati i nomi
dei due personaggi che lavorano nella spezieria di Pantalone, Nane e Manteca.
Si tratta di errori maturati in fase di stampa. Le correzioni sono riportate in
base allo sviluppo dell’intreccio e alle battute dei personaggi:
II.4.1:
nella didascalia di inizio scena compare: «Fenochio,
Leandro»; ma dal momento che nel testo si parla di Celio e Beatrice, è stato
corretto «Fenochio, Celio»;
II.5.2:
la battuta di Fenochio recita così: «Che liei dia buone parole al siur Leander che vive innamurad mort, spant, per lei; [...] za
anche el siur Celi ha impiegad tutti i so affet nella siura Vittoria». Considerando che il servo qui si rivolge a
Beatrice con l’intento di convincerla a cedere ai corteggiamenti di Celio, sono
stati invertiti i nomi dei due personaggi. La frase diventa: «Che liei dia
buone parole al siur Celi che vive innamurad mort, spant, per lei; [...] za anche el
siur Leander ha impiegad
tutti i so affet nella siura
Vittoria»;
II.5.14:
di nuovo viene scambiato Leandro per Celio nella didascalia: compare «Fenochio
parla all’orecchio di Leandro», mentre è stato corretto: «Fenochio
parla all’orecchio di Celio»;
II.6.1:
compare «Vittoria»,
ma siccome Celio parla del modo in cui la sua amata ha cambiato idea nei
confronti del suo amore, è stato corretto «Beatrice»;
II.7.1:
qui al contrario compare per due volte «Beatrice» quando Leandro discorre della sua amata. Inoltre
egli vede Celio e lo indica come fratello della sua amata, quindi è stato
riportato «Vittoria»;
II.8.7:
in questo caso, in un dialogo a due tra Nane e Manteca, il nome del primo ad
inizio battuta compare due volte di seguito. È stato corretto quindi «Manteca» al
posto di «Nane»;
II.9.52:
nella didascalia compare: «Nane le viene a mangiando». Ma dal momento che in questa
scena Nane e Pantalone reagiscono ai dispetti di Manteca, è stato corretto
«Manteca le viene a mangiando»;
II.9.68:
di nuovo ad inizio battuta vengono scambiati i personaggi. Compare «Nane», ma per la stessa ragione
illustrata al punto precedente è stato corretto «Manteca»;
III.3.3,4,6:
anche in questa sequenza di battute vengono scambiati dei personaggi. Dove,
dopo una battuta di Beatrice, compare:
beatrice Son scoperta, oh stelle
vittoria Non vi smarrite, bellissima Vittoria,
s’ alla presenza del signor Celio, a cui son già noti i nostri affetti, vi
porgo la destra di sposo.
vittoria (a
parte) (Io sono la più confusa donna del mondo.)
celio Et
io il più fortunato! Già che voi, divenendo sposa del signor Leandro, e io pure
della signora Vittoria, dobbiamo chiamarsi contenti.
È
stato corretto:
vittoria Son scoperta, oh stelle!
leandro Non
vi smarrite, bellissima Vittoria, s’ alla presenza del signor Celio, a cui son
già noti i nostri affetti, vi porgo la destra di sposo.
vittoria (a parte) (Io sono la più confusa donna
del mondo.)
celio Et
io il più fortunato! Già che voi, divenendo sposa del signor Leandro, e io pure
della signora Beatrice, dobbiamo chiamarsi contenti.
In
alcuni punti, in entrambe le copie, è stato riscontrato un uso imperfetto delle cifre romane ad
indicare il numero di scena. Sono segnalati sotto gli interventi operati.
I.19: si trova XIV, è stato corretto
con XIX;
II.14:
si trova XIIII, è
stato corretto con XIV;
II.19:
si trova XVIIII, è
stato corretto con XIX.
Nella
scena XXII dell’atto terzo manca l’indicazione dei personaggi, che è stata
integrata.
S2 presenta inoltre alcune varianti:
I.1.18:
presenta «sereve», mentre in S si trova «serave»;
II.18.6:
non presenta una parte della battuta. Manca «a impenir el cadavero».
Sono segnalati
in seguito gli altri punti, comuni alle due copie, in cui sono stati operati
degli interventi:
I.4.1:
nella didascalia si legge «sopraginnge», corretto in «sopragiunge»;
II.4.5:
è stata
aggiunta la congiunzione «che» nella battuta di Celio: «l’
amore incessante che porto a Beatrice»;
II.9.6:
nella canzone che canta Manteca, nel secondo verso, è stata ipotizzata una caduta di
carattere così integrata: «in battello i vol andar»;
II.10.14:
è stato
emendato «dofevi» con «dovevi»;
II.13.2:
è stato
emendato «varder» con «vardar»;
II.14.11:
nel testo compare: «elle
nose muschiàe d’India, cosa
ghe diséu?», ma dal momento
che si tratta del resoconto che Pantalone e Nane fanno a Tòfolo
riguardo alle malefatte di suo figlio Manteca, si è preferito dividere la
parola in «e le», espugnando anche una delle due «l»;
II.17.4:
è stato
emendato «vian za» con «vien za»;
III.9.31:
è stato
emendato «retrigerio» con «refrigerio»;
III.9.29:
è stato
emendato «macaroài paìi»
con «macaroni paìi»: la
scelta è stata guidata da un principio logico di senso, nonché dalla ricorrenza
nei testi di «macaron / macaroni».
Per
quanto riguarda gli a
parte indicati
nel testo si è scelto di riportarli graficamente tra parentesi prima della
porzione di battuta sussurrata indicata anch’essa tra parentesi, come
nell’esempio che segue, I.1.23:
pantalone (a parte) (I avvocati, gniente, nana che
sanguisughe!)
Nella
scena ottava del primo atto, dove Arlichino
suggerisce a Celio le parole da usare per il corteggiamento di Beatrice, sono
state aggiunte dove non comparivano le diciture (a Celio) e le parentesi, così come indicato
sopra.
Si
segnala che nel commento si troveranno riferimenti all’edizione: Giovanni Bonicelli, Pantalone bullo overo
La pusillanimità coverta. Comedia di
Bonvicino Gioanelli, a cura di Maria Ghelfi, Venezia
- Santiago de Compostela, lineadacqua, 2013
(www.usc.es/goldoni), indicato brevemente come Bullo.
Mentre
altri riferimenti sono relativi al testo del Pantalone mercante fallito di Tomaso Mondini, di prossima
pubblicazione sempre nell’ambito dell’Archivio del Teatro Pregoldoniano
(ARPREGO: www.usc.es/goldoni). Il testo verrà
indicato brevemente come Mercante, senza l’indicazione della pagina ma
solo di atto, scena e battuta.
Si
ringrazia infine qui Luca D’Onghia per i preziosi suggerimenti in fase di revisione
del testo.
Pantalon spezier
con le
metamorfosi d’Arlechino per amore
Scenica
rappresentanza dell’eccellentissimo Signor Dottor
Giovanni
Bonicelli
Interlocutori
pantalone, speciale, padre di Beatrice e di Leandro.
dottore, padre di Vittoria e di Celio.
celio, figlio del Dottore, amante di Beatrice.
leandro, figlio di Pantalone, amante di Vittoria.
beatrice, figlia di Pantalone, amante di Celio.
vittoria, figlia del Dottore, amante di Leandro.
arlichino, servo di Celio e del Dottore, amante d’Oliveta.
fenochio, servo di Pantalone e Leandro, amante d’Oliveta.
oliveta, amante di Fenochio, indi sposa di Arlichino.
Personaggi
alla spezieria
nane.
manteca, figlio de messer Tòfolo.
fachini.
tòfolo, padre di Manteca.
femine, per medicamenti.
fìsolo.
La scena si finge in Venezia.
Scene
nell’atto primo:
Piazza con case di Dottore e Pantalone.
Nell’atto
secondo:
Piazza con case di Dottore e Pantalone, come nell’atto primo.
Speçiaria aperta.
Nell’atto
terzo:
Piazza con case di Dottore e Pantalone, come nelli
atti primo e secondo.
Speziaria aperta come nell’atto secondo.
Piazza come di sopra.
ATTO PRIMO
SCENA PRIMA
Piazza con le
case di Dottore e Pantalone.
Pantalone,
Dottore.
pantalone Ringrazio el cielo, Dottor mio caro,
ch’essendo arrivào all’età che vedé,
m’ho almanco resparmiào quattro bezzi, che co questi vederò de poder scampar onoratamente anca st’altro
puoco de tempo che m’avanza.[1]
dottore Buona resoluzion, prudent
deliberazion, melior pensier: providere
futuri nam Seneca ait si
sapiens erit animus tuus tribus temporibus dispensabitur. Praeterita cogitabit, presentia ordinabit, e futura providebit.[2]
pantalone Che cade, padre?, sti pochi de bezzi a impiegarli
te vogio; se i dago a rìsego maritimo vago a pericolo
de perder tutto de posta e far una cavriola a rompicolo.[3]
dottore Nil mare instabilius quamvis hoc comune sit et per hoc
pariter littora maris. Paragraphus I De Rerum
divisione, no,
no, no; piutost neguziarli
cola vostra assistenza, né star in ozi. Nam
otiosi utpote inutilia terrae pondera exilio puniuntur. I apud Authentica questore, ecc.[4]
5 pantalone Vu
disé per ben, che no podé
parlar megio; ma in la età
che mi me trovo fa de bisogno un puoco de reposo.
dottore Bon: Iuvenes cito mori possunt, iuvenes diu vivere nequeunt.[5]
pantalone Manco mal daseno, orsù, mogia. Sentì: za
che m’ho fabricào come avé
visto tutto da niovo quel casin,
là per andar in Galonega, gnanca
se l’avesse fatto a posta i mureri, i gh’ha cavào un liogo che può servir giusto una bottega; ghe xe vesin
un inviamento da conzaossi,
sì che se ve paresse a proposito, mi crederia che no starave mal una speziaria da medesina. E, si no fallo, me par ancora d’arrecordarme de saver lezer i recipi dei miedeghi, e far anca
dei decotini, za quaranta anni ho fatto la prova
davanti al prior da quel tempo. Sì che disé el parer vostro, caro vu, de
quel che me va adesso per el cào.[6]
dottore A punt a’ voliva sugerirve ciò; ca sié andad sinur
a fantasticand col cerviel,
sapend benissime che me pader, allevad ne’ primi anni co
vu, spes el me desiva che al ghe recava stupor
che Pantalun no s’aves mai applicad a far el speçial, o el medich,
sapend quanta abilité el se trovava nella vostra persona. A’ farì
molt ben, sed dat Galenus
opes dat Iustinianus honores.[7]
pantalone Graté alla bona memoria del
sior Grazian vostro pare; ve dirò, anca mio pare
voleva che tendesse a bottega, ma mi, per verità, come che m’ha piasso andar sempre a spasso, così ho puoco
atteso ai interessi della casa. Or che me sento vegnìr el pensier,
e che m’arrecordo quel che i me andav
disendo, ho risolto d’abbrazzar
l’occasion, né disperarme
dell’età avanzada, perché tutti semo
sottoposti a morir presto.[8]
10 dottore E
de che fatta no savive quel che poch
anze v’ho det, l’è tutt l’assioma; che se dunque volì
esser speçial, seguitand l’orme de’ vostri mazzuri: speçial, scilicet aromatarius, spetialiter, idest specialiter delegatus, ad redimendam naturam, et salutem corporis. Aromatarius ad corrigendam vocatus naturam. Ego vero per esser avocat,
son quasi, ma che quasi, certamente vocatus
ad deffendendum ius; quod unicuique suum distribui.[9]
pantalone L’è vero, ma dové saver...[10]
dottore Speçial. Scilicet,
vel idest specialiter constitutus ad reprimendum morbos; e sicom non est recedendum a verbis; libenter non aliter, Pandectae De Legibus tertia capitulus vltimo et ibi, glosa De Verborum
significatione, così al sa dieve
dar lod a chi merita e i pregi ai unurad.[11]
pantalone Siben, tutto quel che volé,
presto.
dottore Per quest, però, a’
no è punt inferior l’offizi dell’avvocat, anz del speçial superior.
15 pantalone Chi
ve dise gobbo?[12]
dottore Perché me documenta Iason in
lege quod dictum, Pandectae De Pactis, quod ratio est anima legis, per quest
con le cart alla man a’ favel, vedì, e con la rason in pront ch’advocatorum officium necessarium est, et laudabile, lege laudabile, Codice De Advocatis, et militibus etiam aequiparantur, perché
per bos tanquam per milites vita, et patrimonia hominum defenduntur. Se el speçial defende
la vita, l’avvocat e la vita, e le sustanz, che a’ son la seconda
vita, sed sic est quod
duo vincula fortius ligant, quam unum, per consequens, facend più operaziun per quest gl’avvocat son superior
in omnibus ai speçial.[13] (levandosi il capello si asciuga il volto)
pantalone Mi ve credo e stracredo; me basta. (come
prima ponendo il capello di nuovo)
dottore La serave bella, in fe’
bona, ca ’l spezial, che tutt
el dì manizand onziun, manipuland medicament, preparand lavativi, pestand erbe, netand murtar, al volisse competerla con l’avvocat, ch’innanz el se faz
diffensor de pupil, trattand cause, e formand
scritture, al besogna, che nel
studi de Padova, o de B’logna, al ricevi la
laura dottural.[14]
pantalone E no è possibile che ve possa dir quattro
parole?
20 dottore Sbrighela, sier ciacaron.[15]
pantalone La dìselo s’cietta
la caca.[16]
dottore Aromatari, che contro le tariffe stabilide
dale lieze, i’ sugan le viscere ai pover inferm
prima ca i’ s’cioppi.[17]
pantalone (a parte)(I avvocati, gniente, nana che sanguisughe!)[18]
dottore Pantalun car, a’ no volì che dighi du sule parole?[19]
25 pantalone (a
parte)(Adesso adesso ghe la petto, çerto.)(denota
di volerli dare)[20]
dottore Non niegh che i medich
non siin salutifer al mond, perché conoscend in part la
disposizion dell’amalad,
subito a’ i’ portan el remedi, ma puoch
a’ se n’annoveran ozidì; poiché auri cupiditas insatiabilis, et quantus amor crescit, tantum pecunia crescit, el mal si è ch’al pover inferm,
in vez d’uscir prest d’affan guarind, se ghe celera el mal co più veemenza
che tutt i va liberad, i ered po’ ad satisfaciendum
medicos, et aromatarios
parati. Oh dinèr dispers
al vent! Non è così l’avvocat
che s’ anch per propri dapocagin
al perd la lit, el cliente se ne può appellar, e tornand
o in pristin o alter, l’uttien
quel a’ l’è de giustizia, ma el
speçial...[21]
pantalone E la fenirò ben mi ancùo,
sanguenazzo d’un dìndio.[22]
(Pantalone s’avventa al Dottore ch’ambidoi gettando le vesti si danno molti pugni; a che
accorre Arlichino, che sopragiungendo
in tempo ch’ancor si cozzano, esso li divide, e poi se n’ fugge)
SCENA II
Arlichino.
arlichino Vecci porch,
senza andar al ponte dell’Erba, far i pugn qua in
strada, cospetton. I ha abù
bon ch’a’ no son vegnù a prencipi, che, in verità bona, a’
voliva ch’el pistoresin scorlasse de più la ruzene che el tien
sora.[23]
(Celio che sopragiunge)
SCENA III
Celio, Arlichino.
celio Che si va facendo qui soli senza il patrone?
arlichino Èl
mo tant necessarii
ch’el patron stii col
servitor?
celio Certo che sì.
arlichino Quand
a’ l’è così...
(si leva le braghe, Arlichino,
denotando di voler evacuare)
5 celio Che
fai animalaccio?
arlichino No
disive che ’l patron è necessario?
celio Qual consequenza ne
vuoi da questo riccavare?
arlichino Che
se lei è necessario, de volerle cagar in coste.[24]
celio (ponendo mano alla spada) Sciagurato,
tanto ardisci?
10 arlichino (fugendo dice in disparte) Varré,
varré, varré che
spropositi, se l’è el necessario, no voler che vaga a
cagar: a casa mia, tanto è necessario quanto cagador.[25]
celio Accostati.
arlichino No
me scotto no, ch’ho troppo giazzo.[26]
celio Dico che t’avvicini.
arlichino Ah,
che m’avvesina.
15 celio Sì,
presto. Sbrìghela, spedisciti.
arlichino A pian, sior. Flemma, pazienza. No me parlé su le gambe che vegnerò
rosso in viso.[27]
celio Si può tollerar maggior ballordaggine?
arlichino Se
può sentir omo più indiscret de vu?
celio Temerario, villano, eh.
20 arlichino Se
a’ no volì che caga, e sì
se’ el necessarii, che vu stes l’avì dit.
celio Vien qui, che mi farai impazzire.
arlichino De
quest v’asseguro che a’ no gh’è pericol
de sort. (s’avvicina a Celio)
celio Picchia a quella porta.
arlichino Eh, burlé
vu, sior Selano, che a’ son
el boia, che a’ volì che picchi la porta.[28]
25 celio Dico
che batti a quella casa.
arlichino Mo
disì così alla prima.
celio Eh, Arlichino, Arlichino. (li denota che è in colera)
arlichino Eh,
eh, Sellano, Sellano.
celio Presto, ubbidisci.
30 arlichino Uh,
uh, uh. A’ vad, quant’umor. (poi a parte) (Caldo
bello, col çebibo bello, che el
fuma col pignoletto.)[29]
(batte alla casa di Beatrice)
Cosa volete?
beatrice (di dentro) Chi pussa?
celio (ad Arlichino)
(Di’, presto: un servitor del signor Celio.)
arlichino Un
servitor del mio patron.[30]
SCENA IV
Beatrice
che sopraginnge; Arlichino
e Celio in disparte.
beatrice Chi vuoi? Chi cerchi? Chi t’invia? Presto, di’, parla, rispondi.
arlichino Mi
a’ no vòi negota.[31]
beatrice Vattene dunque alla mallora.
(Beatrice si parte)
arlichino La
vada pur, che starà a mi si vorrò servirla in quel paese.[32]
SCENA V
Arlichino, Celio che s’avvanza.
celio Bene, che ti disse?
arlichino Tante
belle cose che no m’arrecordo.
celio Pure, cosa ti soviene?
arlichino Parla,
di’, che vuoi.
5 celio E
tu che li dicesti?
arlichino Che
a’ no vogio negota.
celio Ah, sciagurato! Torna di nuovo a
battere!
arlichino Eh,
eh, eh, che sprepositi. (ritorna a battere)
beatrice (di dentro) Può far il cielo! Signor padre, date delle
sassate a quel impertinente.
10 arlichino (fuggendo)
Che so pare me daga delle sassade, qualche mincion![33]
celio Eh via, animo, ritorna.
arlichino Ma
le sassade?
celio Non temer di cosa alcuna.
arlichino Arrecordeve che le avem da spartir, vedé, sior.[34]
15 celio Sì,
sì, quello tu vuoi; mi faresti perder la pazienza. (ritorna a battere;
uscendo Beatrice così dice)
SCENA VI
beatrice Sei tu, ancora, o sciocco?
arlichino Non
per i mi’ meriti, ma per la sua larghezza.
beatrice Che hai d’apportarmi?
arlichino Mi, come mi, a’ no vòi niente per mi; ma tutto vuol quel che è viçin a mi. Quei occi, no è per
mi, ma i è per quel che è da drìo de mi; quella
bocca, no è per mi, ma l’è per quel che è da drìo de
mi; quel nas, no è per mi, ma l’è per quel che è da drìo de mi, quel pet...[35]
5 beatrice (partendosi
sdegnata) Temerario, arrogante. Insegneròti
ben io il modo di parlar meco.
arlichino Uh,
uh, uh, ve fùmela forsi?[36]
SCENA VII
Arlichino, Celio.
arlichino La
dis che mai, mai più, la ha visto un omo più çerimonios de mi.[37]
celio E in fine?
arlichino La
m’ha voltad el tafanari.[38]
celio Gl’avrai detto qualche strambarìa.
5 arlichino I
più bei concetti ch’abbia mai ad alcun suggerid la
madre natura.
celio Torna di nuovo a chiamarla.
arlichino Cucù,
cucù.[39]
celio Vanne, o ch’io t’uccido.
arlichino Quand
a’ l’è così...
(si porta a battere; essa uscendo in furia, Arlichino si pone in timore, ma frammischiandosi Celio prega
Arlichino ch’esso li soministri
materia di discorso, onde Arlichino stando dietro
Celio in questa guisa gli suggerisce)
SCENA VIII
Beatrice,
Celio, Arlichino.
beatrice T’arriverò impertinente.
celio Cessate l’ira mia bellissima Beatrice; Arlichino, via, presto, a noi.
beatrice Se quegli è vostro servo, devo credere l’abbi sì bene ammaestrato il suo patrone.
arlichino (a
Celio) Mia cara.
5 celio Mia
cara.
arlichino (a
Celio) Sì come i lusureggianti macheroni.
celio (ad Arlichino)
Che dici de’ macheroni?
arlichino (a
Celio) Seguité, né v’indubité.
celio Sì come i lusureggianti
macheroni.
10 arlichino (a
Celio) Nel mare vastissimo di liquefatto butiro.[40]
celio Nel mare vastissimo di liquefatto butiro.
arlichino (a
Celio) Vanno naufragando.
celio Vanno naufragando.
arlichino (a
Celio) Senza arrivar al porto del delicato gargato.[41]
15 celio Senza
arrivar al porto del delicato gargato.
arlichino (a
Celio) Così io, quasi macarone lusuregiante.
celio Così io, quasi macarone
lusuregiante.
arlichino (a
Celio) Men vado ne’ flutti di mare sì procelloso.[42]
celio Men vado ne’ flutti di mare sì procelloso.
20 arlichino (a
Celio) D’ogni intorno attorniato.
celio D’ogni intorno attorniato.
arlichino (a
Celio) Per poi, oh cara, oh bella.
celio Per poi, oh cara, oh bella.
arlichino (a
Celio) Ad ispaziarvi il cul
con la padella.[43]
25 celio (voltandosi
infuriato) Scelerato, così mi deludi.[44]
arlichino (a
parte) (Se a’ no savì
cerimoniar!)
celio (verso Beatrice) Compatitemi se
prima d’ora mi sono lasciato guidare dal servo sciocco, avendomi di tal guisa
il vostro aspetto annodata la lingua, che non potei prima d’ora scioglierla in
encomiarvi.
beatrice Quest’espressioni sono figliate da core sincero, ma
troppo tardi signor Celio venite ad incensare una deitade,
che da Leandro prima ne fu inchinata.[45]
celio La sicurezza di non esser li miei voti dal
vostro bello sprezzati, mi vi fa comparire tutto propensione.
30 arlichino (a
parte) (L’ha det de sì alla prima.)
(Poi verso Celio) Feve innanz, che per caparra la ve vuol dar un bas.[46]
celio (ad Arlichino)
Verrà anco questo a suo tempo.
arlichino Aspetta,
aspetta Berta, che el filo crescerà.[47]
beatrice Non occorre addurre testimonianze della vostra svisceratezza, già vi
presto tutta la credenza; ma vi ridico ch’altri assalti sono stati dati alla
rocca del mio core, ove infine si è resa. Abbadate dunque a’
casi vostri, già non mancheranno amanti al vostro volto.
arlichino L’ha passad i trentaun, vidì siora; per lu a no gh’è più logh, dighe mo.[48]
35 celio Se
dunque Beatrice mi sprezza, Celio se n’ morirà.
beatrice Mori pur Celio, purché viva con Leandro Beatrice contenta.
celio Se n’ mori dunque Celio, eh.
beatrice Che volete ne facci?
celio Almen, se in voi qualche pietade
alberga, soccorrerlo con un sguardo.
40 beatrice Ah,
ch’amor me l’ vieta.
arlichino Deghe, siura, una guardada, che saré causa, se no ghe la dé, ch’el
devorerà tutti i savogiardi
col çebibo.[49]
(Celio si pone a piangere)
arlichino Puerin, puerin,
puerin, puerin el me sier barba Simon. (avanzandolo)
celio Ed è possibile?
beatrice Vanne,
deh, vanne, oh stolto.
Ch’è follia il vanegiar
questo mio volto.
45 arlichino (a
parte) (Manco umor, paronzina,
sbrìndola, carogna e concobrina.)[50]
SCENA IX
Arlichino, Celio che è fuori di se stesso.
arlichino Sior
patron, sior Celi, ehi, ehi, ehi!
celio Lasciami, che non posso più a lungo soffrire
gli sprezzi di costei.
arlichino Sive
mat![51]
celio E perché idolatrar un nume stimi pazzia?
5 arlichino La
è una carogna, scagazza, che tutt
el zorn no la fa oter che civetar quest e st’alter, e la burla po al fin tutt; e vu volì seguitarla.[52]
celio Tacci. Non articolar accento, o ch’io ti sveno.
arlichino (fugendo) A’ digh la verità. Guardé là, che
bel umor! Alter che amori, andé a pagar la lavandara per i manechini che la
v’ha lavà.[53]
celio (incalzandolo) Ti giungerò, giuro, al Cielo!
arlichino Salvia,
salvia![54]
SCENA X
Arlichino, Oliveta.
arlichino El
credeva lu, sto baban, che subit la cades co’ è i osei in la red; omeni il vol esser a far l’amor,
e no sospiri, pianti, lamenti, coreze, che ammorbi. (Oliveta
in disparte lo sta ascoltando) Mi almanc a’ son tant garbat,
che subit che le me vede le casca morte per amor; quand po a’
averze la bocca, allor sì, che per amor le vien men.
Ma apunt ecco il mio bello. A’ vòi
farm in pop, dirghe quater paroline, che la se despona a averzerme la porta della
so grazia, per poder, nel gabinet
del so merit, descorrer un poch delle guerre de Fiandra.[55]
oliveta Cosa va dicendo questo babuino?[56]
arlichino (aggiustandosi il capellino) Oliveta, me
cara, sì come, e no bestia, no.
Imperciocché, ne manch.
Il sole, oh
bel prencìpi.
Il sole,
dico, delle tue ganasse,
le stelle
delle tue téteme,
la luna del
to col,
insoma, tante belle
cose.[57]
oliveta Guardate, guardate, che bella grazia!
5 arlichino Quand vorrat, cagna assassina,
aver pietà del me amor?
Per ti a’ no magno, a’ no
bevo, a’ no dormo, a’ no vago del corp;
e ti vorrà goder de vederme reduto al fin?
Oh, oh, oh, oh, pover Arlechin![58]
oliveta Puoi far di meno di lagnarti. Io non ti voglio,
sai; m’intendi?
arlichino Cazarghe almanch un poch! Oh bien ch’a to marzo despet te me amarà, cagna,
cagnazza, cagnonazza.[59]
oliveta No, no, no.
E un’altra volta che no t’amerò, no.
arlichino «No, no, no.
Tocca de pifare fa Nicolò.»[60]
10 oliveta Mi
parto per non vederti.
arlichino Mi
a’ rest per non strupiarti.[61]
oliveta Dagl’occhi tuoi m’involo.
arlichino Te
seguirò in cantina.
oliveta Mai, mai sarà Oliveta...[62]
15 arlichino (a
parte) (Ades
la dis de sì.)
oliveta Di quel viso di porco.
arlichino (a
parte) (Cosa vol dir l’esser bel come mi!)
oliveta E se mi seguirai...
arlichino (a
parte) (E che la mor per mi.)
20 oliveta Qual
Diana cangeròti
nel
più brutto Atteone![63]
arlichino (a
parte) (Ho indovinà,
alla moda,
de spos voler farme un bel castrone.)[64]
SCENA XI
Fenochio, Arlichino.
fenochio Co’
diavol, tanto umor per aver quattro sold. Ghe n’ho vist dell’altre aque alt a calar,
verament che a’ no semo in un logh che sie ore la cala e sie ore la
cresce?[65]
arlichino Ah
camerada, che hat? Co chi grìdet? Fors col casalin.[66]
fenochio (verso entro la scena) A’ sem cognossudi tutti, e se se’ fioli de bon par e de bona
mar, venì za, ch’a’ son om de mantenirvel.[67]
arlichino Car
fradel, a pian, a pian, ch’a’
no te vegni sula barilla.[68]
5 fenochio Avì de bon che m’avì trovad sprovist, camerada car; andava disend de
certi carissim che i fa tant
el bel umor per aver quater gazet
al so comand, ch’a’ ’l par
ch’a’ no sippi in sto mond oter dinèr
che i so’.[69]
arlichino Fenochi, Fenochi, lassa
andar al bordel ste frascarie
e attendi a consolar el pover Arlechin,
che l’ha una fam che el
crepa.[70]
fenochio Se ti te ha fam, che tutt i zorni te magni da porch, mi che a’ fagh una vita stentada in ca’ de Pantalon, a’ doverave
esser finid afat d’appetit.[71]
arlichino La
fam ch’a’ ho, a’ no l’è miga de volontà da manzà, ma d’amor.[72]
fenochio D’amor?
Oh, pover om, d’amor, n’è vira?
10 arlichino Cert, a’ ’l se tratta, ch’a’ no magni, perché quand a’ no era inamurad manzavo tre pan al zorn, e adess che son ferid da quel caghèt, a’ no
ne posso fenir quatordes.[73]
fenochio Bon, l’è curiosa a chi la sa tutta. Ma séntime, se poderave mo saver chi è quella che tormenta al to pover coresin?[74]
arlichino Questa
l’è quella coresina de Oliveta.[75]
fenochio Oliveta
te tormenta? Ah, pover sgraziad! (a parte) (Oh,
me vòi ben vendicar. Aver ardir de inamorars in una ch’ha da esser me mugier?)
Quand a’ l’è Oliveta, te ha trovad a pont la to fortuna parlandome de sto amur; e mi,
stand con la medema per servitur
in casa de siur Pantalun, averò più comodità de descriverghe
le passion che per ella a’
te provi. Basta, lassa far a mi, e no
t’indubitar negota; ma besogna, chi vuol zonzer ai so desegni, far a me mod, e star attent a quel ch’a’ te dirò.[76]
arlichino Purch’a’ sii so, a’ farò de tutt. Vot ch’a’
vaghi a cazzarme in un cagador?
Volontiera a’ gh’ andarò.[77]
15 fenochio (a
parte) (Te vòi
ben insegnar el mod de dimandar Oliveta per morosa.) (poi verso Arlichino) Eh, no ’l s’aricerca tante cose, no; te dà l’anim
de finzerte un porch?[78]
arlichino Quand tu me catti far qua a propositi, farò el servizio che te desideri.
fenochio No
digh ch’a’ te frizi un porco; digh se te saverà far da porch.[79]
arlichino Veramente per far al natural,
a’ ’l besognerave ben che a’ venisse un po’ a scola da ti.[80]
fenochio E va’ là, bestia. No dubit
che a’ no te facci più che ben; basta a’ te descoreró più a lungh sopra sto particolar.
20 arlichino Arecòrdet, camerada, de no me
mancar.
fenochio Guarda
pur ti de no pentirt.
arlichino Il
ciel me ne sguizeri.[81]
fenochio Quand
a’ l’è così, va’ pur a far i fat
to.
arlichino A
cagar ti me mandi?[82]
25 fenochio Te
digh che te tendi a quel che te ha da far.
arlichino Te m’ha dit ch’ a’ vaghi a far i fat to; tant’è a
dir va’ a far i to fatti, quant a’
l’è dir i fatti to.
fenochio Eh
va’, che ’l malan t’accoia.[83]
SCENA XII
Fenochio.
fenochio A’
ghe n’ podevio sentir de
più da costù? La sort
propizi m’ha mandad in sta piazetta,
che per alter se costù a’
’l s’ imbatteva in qualche guidon, questi per cavarghe dei dinèr, i averave fors fat
tant ch’Oliveta un zorn a’ gh’averave corrispost,
e ’l pover Fenochi sarebbe andad
al bordel. Te vòi, guidon, insegnar el mod de far l’amor: fint ca ’l
sarà porch, Pantalon, vist che el l’abbi, a’ ’l se n’avederà sigur e, in sta guisa, el lo
bastonerà ben ben.[84]
(Leandro che sopragiunge)
SCENA XIII
Fenochio, Leandro.
leandro Mio Fenochio amato.
fenochio A’ fo umilissima reverenza
al siur Leander, tant patrun; che nove da Pallaz?[85]
leandro Punto non abbado a novelle, avendo pur troppo d’indagare gl’andamenti della mia adorata Vittoria, che, avendo
soggiogato il mio cuore, ne vanta sopra di me gloriose le conquiste; tu,
fedelissimo Fenocchio, già che sempre fosti a parte
di quanto m’accadeva negl’amori di quella giovine a te ben nota, deh, ti prego,
con tue accortezze, ritrovar il modo di penetrar in sua casa, altrimenti sono
per impazzire.
fenochio Se vostra signoria illustrissima vorrà abbadar
a quel li dirò, l’assicur che sarà da vira consulada, basta che...(li
discorre in orecchio)
5 leandro È
bella, per mia fe’, l’invenzione; quanto devo al tuo
amore?
fenochio Tutto quel potrà procedere dalla me sollecitudin, l’assicuri che ’l me sarà impiegad
per liè. Andé dunque a
metter in essecuzion quel tant
che ho det, che fra tant anderò mi ancora a far un oter
servizi.[86]
leandro Sì, sì, spero pietà, ch’il ciel placato
di Vittoria rendrà il cor più grato.[87]
SCENA XIV
Arlichino con un cesto, entro un paro di pernici.
arlichino Ch’a’ faza da porco. Cucù. Ho mèi considerà el
negozi; e se per sort Pantalone el
lo voles amazar, mi a’ doveria restar mort. Va’ al bordel, Fenochi! Ma dall’altra part, se mi no faz
a so modo, no averò al seguro
Oliveta; onde l’è po mèi mèi, che faz quel ch’a’ ’l me dis. Fra tant metterò zù el cest e anderò
a vardar sott l’us della
porta se podese veder quella mariola.[88]
(deponendo Arlichino il
cesto con le pernici, Fenochio pian piano ghe lo leva dietro, ponendoli altro cesto simile)
SCENA XV
Fenochio.
(a parte) (Oh, pover mincion!
To’, impara a abbandonar el cesto; te te n’accorzerà ti, sì, alter che
Oliveta!) (va via)[89]
SCENA XVI
Arlichino.
arlichino Za
che a’ no ho aùd la fortuna
de véderla, andrò a batter alla ca’ de Pantalon, e a’ ghe darò el cest
che ghe manda el siur Duttur, me patrun. (batte alla porta) Oh, de ca’!
pantalone (di dentro) Alesta Beatrice, via
su, sta’ in ton, cosa è, za se sa che mal che l’è el
mal de mare; fatte anemo, che no
ti è miga ti la prima, vé,
a patirlo. Vegno, siori, a pian. No butté zò la porta, in vostra
tanta malora.[90]
(esce Pantalone)
SCENA XVII
Pantalon, Arlichino con cesto.
pantalone Èstu ti che ti fa tanta ruvinaza?[91]
arlichino Per
farle cosa grata.
pantalone Bisogna che ancùo ti abbi magnào un toco de galateo.[92]
arlichino Son
andad più del solit del corp. Qua, sior, m’ha mandà el siur patrun con sta bagatella.[93]
5 pantalone Oh,
che caro sior Dottor; per mostrar che el s’ha co mi rapaçificào, el me manda anca a regalar. Resto ben tenùo
al so affetto, però dighe che co mi no l’averà da far
ste cose, sapendo che l’è tanto mio amigo.[94]
arlichino El dis
che de dusento pernise che a’ gh’è stà
mandà, el ne fa parte con
lei de un par; e mi, sior, le ho portàe subito
subito, voland, e sì a son strach.
pantalone Se ti te vol sentar, ti è paron.[95]
arlichino (a parte) (No ’l me intende.)[96]
pantalone Orsù, dighe che le magnerò stasera per so amor e che ghe farò un prìndese alla so conservazion.
10 arlichino Vado
sior; commàndela altro? (finge di partire, poi si
volta) Me ciàmela, forsi?
pantalone No, fio, va’ pur in pase.
arlichino A’ vad. Oh che consolazion che ho abud, che a’ ’l ve le mande a donar.
pantalone Orsù, me n’accorzo. Vien qua, tió. (li dà un quarto de ducato) Te ’l dono. Co
questo ti anderà a reposarte
a to muodo.
arlichino La, la, la, la, la, la, lalela.
Oh quanto ben ch’a’ ve vòi!
(finge di partire, ricevuto che ha il quarto di ducato, poi ritorna) Me faràvela una grazia?[97]
15 pantalone Di’,
cosa vustu? Parla presto, no aver paura.
arlichino Se m’ha rot le
calzette nel venir prest prest
a portarle le pernis, onde vorria
che la me favorise d’un quart
de ducat imprestid.[98]
pantalone (a parte) (La buonaman ghe par puoca.) Orsù, muora, creppa
l’avarità, questo xe un
altro quarto de ducato, che ti vuol in prèstio; tió, no te ’l dago in prèstio, te ’l dono.
arlichino La me ’l dona? Gramarcé
a vostra signoria! (finge come prima di partire, poi ritorna subito)[99]
pantalone Vogio ben véder se le xe vive o morte.
20 arlichino Siur Pantalun.
pantalone Gh’è altro de rotto? Di’.[100]
arlichino Signor no. Ho fat far
a me mare una sottana; el sartor,
per verità, no ’l me la vol dar se no ghe pagh la fattura. Vorrìa per quest pregarla che la
me imprestas un quart de ducat.
pantalone Ma l’è longa la musica! Per sbrigarte, tió. Questo xe un altro quarto de
ducato, tió, te ’l dono; no te l’impresto, no, te ’l
dono; va’ a pagar la cotolla.[101]
arlichino Sive tant benedet! (come prima finge di partire e poi ritorna)
25 pantalone El
pol ben tornar, che no ’l ghe
ne cava più altri, daseno.
arlichino Pover Arlichin desfortunad, quand te credevi
d’esser consolad, potend farte agiustar le solette, pagar
la sottana, a’ ’l me vien alla memoria ch’a’ no pos andar a ca’ se a’ no pagh el
casalin, che m’ha dà do lire de formài
da far colaziù.[102]
pantalone Per questo ti pianzi? Tió
el mio consegio: fala più
longa. Va’ zó per Stretto de Garipoli,
che no ti ghe passerà
davanti.[103]
arlichino El m’ha det che se a’ ’l me trova el me vol cert tor
el capellin, se no ’l sodisfe questa mattina. Voria che
per l’amor del ciel la me imprestas un quart de ducat.[104]
pantalone Ti me spuzzi da furbo; ma accioché
no se dighe mai che Pantalon no dimostra vero aççetto de quel che ghe manda a
donar el sior Dottor, tió staltro quarto de ducato; tió, te
ghe ne ha bù che t’ho donào, questo te l’impresto, sàstu?
(li dà un altro quarto de ducato)[105]
30 arlichino Ah, la me
l’impresta.
pantalone Seguro.
Cosa voràvistu mo dir?
arlichino Che
a’ ghe ringrazi tant, tant, e po
tant!
(va via; ma nel partire Pantalone aprendo il cesto sperando di
ritrovarvi le pernise, vi ritrova una testa di castrato
con suoi penacchi)[106]
pantalone Ah, queste el ghe dise pernise.
L’ha fallào el paese, l’averà credesto che mi magna de
quelle da Zara; çito, te vogio
ben insegnar el modo de trattar con un par mio. Vien
qua, cosa te laméntistu, che t’ho imprestào
un quarto de ducato?[107]
arlichino (ritornando
subito adietro) A’ digh
che liei avrebbe fat molt mèi a donarmelo, che a’ no è a
imprestarmelo.
35 pantalone Za, dunque, che questo è el to desiderio, dàmeli qua, che
sarà megio che te daga do ducati boni, perché tutti
quei quarti che finora t’ho donào ’i è falsi.
arlichino Tolì,
tolì. Anche burlarme per el negozi delle pernise. (li
restituisce tutti li quarti di ducato)
pantalone Sentì,
caro sier piegoraza, co chi
crédelo el to paron de trattar quando el manda
a donar a Pantalon le pernise?[108]
arlichino Con
vu, signoria.
(Pantalone
aprendo il cesto li fa vedere la testa di castrone)
pantalone Varda
che ale che gh’ha ste pernise!
40 arlichino Eh, eh, eh.
(Pantalon gli dà la testa di castrato sopra la testa e esso si fugge)
SCENA
XVIII
Pantalon.
pantalone In
sta maniera trattar co par mii e po pretender de far
pase. Tasi, che te la vogio ficar
int’el stomego; e se za
poco t’ho dào un fraco de
pugni, per l’avvenir te vogio tagiar
i gàretoli certo. El vien daseno.
Nana, nana.[109]
SCENA
XIX
Dottor,
Pantalon.
dottore A’
n’avrà memoria lui al cert de Pantalon;
a’ li ho mandad quella
bagatella perché ’l me documenta el sapient che consist.[110]
pantalone Sior Dottor caro, mi credo che sapié quanto tempo sia che corra la nostra amicizia; e no solo tra nu, ma anca tra i vostri mazori
e quanto i sappia interessào nei
affari de casa nostra; e quel che i mi’ no podeva far,
elli presto i’ sugeriva senza punto pensarghe.
dottore E de che fatta, sapié
Pantalun car, ch’utile est amicis
vicaria amicorum opera uti
ad negotia illa gerenda, quibus aut ipsi nolunt aut non possunt preesse.[111]
pantalone Per questo, credo, v’abbié
preso un poco de confidenza, ma de quella che no v’insegna el
galateo.[112]
5 dottore Un amigh,
me client, el m’ha fat regal de du para de pernis; per quest mi ancur ho pres espediente resoluzion de far part del me debit
con lié, ed in tal fatta render verificad
quel ascioma: che alienans
nobilior est acquirente eo quia beatius est dare, quam accipere. Titulus: pandectae De Rebus eorum qui sub
tutela et cura sunt.[113]
pantalone Orsù, no tante çerimonie.
Quele pernise che ve xe stà mandà,
ghe n’avéu gnancora magnà?
dottore Miga;
ho però impost a me fiola
che la le cusini, che fatta sii l’ura
de pransar a’ vòi goder le grazie del client.[114]
pantalone Vardé
che le sarà po dure.
dottore Cred
ben che la gh’assisterà col fogh.[115]
10 pantalone Gnanca
tutta la Riva del Carbon le può far venir tenere.[116]
dottore Se
l’è frol frol![117]
pantalone Bisogna,
sior, che vu magné da struzzo e che caghé da diavol. (facendogli
veder la testa di castrào)[118]
dottore Uh, uh, Pantalon, mi a’ v’ho mandad un bon par de pernise squarzadonad, e non una
testa de bech, savive?[119]
pantalone Vostra nona nina nana
in cufolon, che credéu che
sia parente de Cornelio Tacito, disé, sier mandria?[120]
15 dottore Mi a’ no so de Curneli Tacit, né d’ Agrippa; a’ so che
son un galantom, e qua e for de qua. Et sicut olim cum
amicitiae renuntiabantur, denuntiabantur inimicitiae. Svetonius In Vita Claudius Valerius Maximus liber Augustus Capitulus I. Così
ades per semper me
ve dichiaro me inimich.[121]
pantalone Za
dunque che ve dichiaré mio inemigo,
tiò piegorazza! (li dà
pure la testa di castrato sopra la schiena, ed in questa guisa si partono)
dottore Ahimè,
ahimè, a un par miè![122]
SCENA
XX
Fenochio con un cesto levato ad Arlichino.
fenochio Al
l’ho ficada; invece delle pernis
l’avrà trovad Arlichin
l’arma de so pader, a’ ’l
me vien da rider davira. Ma ste pernis
le vòi donar alla mia cara Olivetina, all’anima mia,
al mio cuor.[123]
(deponendo Fenochio il cesto, sopragiunge piano piano Arlichino,
che levandoglielo senza che se n’avvedi, gliene pone un altro simile)
fenochio (battendo
alla casa d’Oliveta) Oh, de ca’!
oliveta (di
dentro) Sei te, Fenochio mio bello?
SCENA XXI
Oliveta,
Fenochio.
oliveta A
punto stavo discorrendo di te con la signora patrona.
fenochio No
se puol de manch quand a’ se xe
ferid d’amor.[124]
oliveta E
come che sono ferita.
fenochio Te
casch forse per quest i budèi?[125]
5 oliveta Tanto male vorresti alla tua
Olivetina?
fenochio Digh
sol per mod de discors.[126]
oliveta Che
peraltro so che m’ami; ma cosa hai di bello in quel cestello? Forsi una scufia, o qualche altra
galanteria?
fenochio Seh
galanteria: qua a’ ’l gh’è
un bel par de pernise, ch’a’
l’ho comprade giust per ti,
acciocché ti le pelli bel bel e che stasira, quand i patron sarà a let, a’ se le magnem.
oliveta E
tu hai fatto questa spesa?
10 fenochio Cara ti, no la
sarà neanch quest la me rovina.
oliveta Lasciamele
vedere.
fenochio Fa’
a pian, che no le te scampa, vè.
oliveta Son
vive, l’ho ben care.
fenochio L’è
proprio de tutte le fomene l’aver appresso de lor i usei vivi. [127]
(levando il coperto del cesto sbalza fuori un gatto, che fugendo
tutta intimorita Oliveta si parte)[128]
15 fenochio Vè, vè, che ved?
A’ ’l besogna ch’abbi pazienza e ch’impari sempre più
che chi la fa l’aspetta.
oliveta (fugendo) Ahi, ahi, ahi, che vedo!
SCENA
XXII
Arlichino che tiene in una mano una delle pernici e nell’altra parimenti l’altra pernice.
arlichino L’è
da rider davira, eh, eh, eh! Quand
a’ ’l crederà Fenochi de
trovar le pernise a’ ’l
troverà gnaù, gnaù, gnaù; l’è pur una bella cosa el prenderse spas co sti bufoni che
i crede cazarla in cò ai
pari nostri. Ah, ah, ah, ah.[129]
(sempre ridendo; in questo punto sopragiunge
Celio, che, senza dar d’occhio ad Arlichino, li dice
passeggiando infuriato per scena)
SCENA
XXIII
Celio,
e Arlichino con le pernici che lo sta osservando.
celio Fa’
quanto vuoi, barbara sorte! Ch’a tuo dispetto farò del mio bene. Né ti creder,
fallace deità, di veder più a lungo agitato questo core, mentre, ad onta d’ogni
tuo attentato, vivrane contento. (prendendo di mano una pernice ad Arlichino,
ch’attonito lo mira passeggiar furiosamente la scena)
Tu, augel infausto, dovrai pagar il fio d’ogni mia sciagura,
poiché
de’ casi miei Beatrice crudel poco si cura.
(partendosi
con la pernice)[130]
SCENA
XXIV
Arlichino.
arlichino Varré, varré: l’è matto. Va’ là, va’
là, giazzo, cosinetel stasera,
se no te gh’ha alter; ma no se tratta così coi poveromeni, vè, fiol d’una brutta lova.[131]
(sopragiunge dall’altro lato Leandro che, facendo lo stesso che fece Celio con Arlichino, così dice)
SCENA
XXV
Leandro, Arlichino.
leandro Sì,
sì, che ben ti si conviene di Vittoria il nome, tu, ch’avendo soggetti più
cuori, di quel di Leandro n’hai fatto ogni scempio; eccomi dunque a’ tuoi piedi. Ma con chi ragiono, forsenato
che sono?[132]
(Arlichino affacciandosegli)
Tu,
tu, mostro, più di Cerbero fiero, custodisci que’ penetrali perché giunger non possi al talamo
fortunato.
arlichino Se
Celii è mat, questo è stramatto!
(Leandro li prende la pernice)
leandro Ma,
se m’è vietato il poter volar al mio bene,
tu,
meno augel sfortunato,
ne
resta acciò abbi compagno anco in le pene.
arlichino Me
dàlla el me osel?
(Leandro nulla abbadando)
5 leandro Ritornerò
ben presto, oh mio tesoro,
per
aver da’
tuoi sguardi un dì restoro. (si parte)
SCENA
XXVI
Arlichino.
arlichino Ch’
a’ me giova far la burla a Fenochi
se ste do arsure i la fa più bella a mi? Paçinzia; aveva fat desegn de darghele a Olivetta, accioché in sta foza la se despones a volerme un poco più de
ben de quel che la dis de volerm.[133]
SCENA
XXVII
Arlichino, Celio che li sopragiunge
restituendoli la pernice
celio Prendi,
oh villano più di me felice,
che
ti rendo bensì la tua pernice.[134]
(si parte)
arlichino Chi
magna al legn a’ caga la
radice.
SCENA
XXVIII
Arlichino.
arlichino Manch mal che l’è vegnud a ca’. Vòi ben vardar se l’è la mia, ch’a’ no vorave che sto zentilomen l’avesse baratada int’un cocal. Ma sia come se
vuol. Za che ho questa, a’ la vòi
andar a donar a Oliveta, cert, cert,
cert.[135]
(Leandro pure che sopragiunge e restituisce
l’altra pernice ad Arlichino)
SCENA
XXIX
Leandro, Arlichino.
leandro Tacci,
deh, non parlar, oh uomo stolto.
Quest
è l’uccel che poco fa t’ho tolto. (si parte)
arlichino (ridendo)
Ovi sarà i frutti del to orto.[136]
SCENA
XXX
Arlichino con le pernice.
arlichino La
sarave ben bella, ch’ades
che m’è stad restituid
tutte do le pernis, a’ ’l venis qualche oter mat a levarmele davanti dalle man. L’è mèi,
senza ch’a’ le daghe a Oliveta, che no se deletta, el so po mi, de sti osei, a’ vaga a ca’, che ’l siur patrun m’aspetta, e ch’a’ ghe raccunti le pezzade che m’ ha dà Pantalun.
Vagh, dunque, cor mio, cara
Oliveta,
che
per el grande amor anderave
a cagar alla seletta.
(si parte; crede che tornino a levarli le pernici)
Scappa, scappa![137]
ATTO SECONDO
SCENA I
Fenochio
fenochio Più
ch’a’ vad fantasticand chi mai possi esser stad
che m’abbi post el gattin
nel cest delle pernis, manch a’ ’l comprendi. Arlechin mai, perché a’ ’l no se
n’ha avedud che sippi stad mi quel ch’a’ gh’ ho baratad del cest in oter con testa de becch. Ma se a’ ’l sairò, zuro al ciel, ch’a’ vòi che i me la paga sigur, mentre ’i è stad cason ch’Oliveta xe fuzida, né ho più anem d’andargh innanz.[138]
SCENA II
Fenochio, Arlichino che sopragiunge.
arlichino Le
ho pellade, le ho cazade in
spied, e l’ho lassad al fogh; fra tant che le se cusina, a’ vòi...
(vedendo Fenochio) Oh barba Antonia, oh barba
Antonia![139]
fenochio Seguité
pur, siur, seguité, ch’a’ no vòi desturbar
i voster discorsi; quand a’ le sarà cusinà, a’ le vorrì certo po anca manzà. (a parte)(Cred che costù al sigura me l’abbi tolte.)[140]
arlichino Za
l’era mie.
fenochio Certe
pernise, no è così? Desì, messer Arlichin.
5 arlichino Cert. Cosa vorravit mo dir?
fenochio Niente, niente. Ma certe burle no le sta ben
coi paesani; massimament tant
fidad. (a parte) (Te me la pagherà, però.)[141]
arlichino A’
te dirò po tut: mi a’ son stad quel che t’ha tolt le pernise e che t’ha cazzad el gat,
perché ti prima te m’avevi baratad le medeme pernis in la testa de to pader.[142]
fenochio Del
to, in mallora![143]
arlichino Za
a’ l’è tutt un.[144]
10 fenochio Viè, viè. Za l’è pan che se rend. N’è vira Arlechin?[145]
arlichino E
de che fatta. Ma quand a’ vot che vaga in ca’ de Oliveta, come ti m’avevi det?[146]
fenochio (a parte) (Ades l’è el temp de vendicars!) Mi a’ ho resolt
de canzar pensier, e de porch, ch’aveva stabilid che ti
te fazezi, a’ vòi che ti te finzi un scheleter, perché a’ ’l sarà più
a proposit; tant più che el siur Pantalun,
me patron, l’ha fat’ Speziaria,
a’ ’l se vorrà deletar
anche de anotomia. Onde, se te vol
goder Oliveta, a’ ’l besogn
far tut quel ch’a’ te digh.[147]
arlichino Cos’è
sto scheleter?
fenochio Una
maschera della Mort. Ti te permetterà sul mustaz, te darò un abit giustad, che me l’ho fat far a posta
per el carneval.[148]
15 arlichino Fa’
ti quel che te vuol, purché a’ vaghi dalle palpebre
dei miei meati a’ farò de tutt.[149]
fenochio Va’
dunque a far i fat to, che co sarà el temp t’aviserò.
arlichino Vad.
Ma a’ no me burlar, vè, Persemol![150]
fenochio Fenochi,
bestia, al me nomer.[151]
arlichino Te
l’ha indovinada alla prima.[152] (si parte Arlechino)
SCENA III
Fenochio.
fenochio Tant’ardir.
Te m’è venud ben, co se sol dir, sul brazal. Desmestegarse con Fenochi; basta, basta, te te n’accorzerà ben, guidon, infam. Quand te sarà fint scheletr el
patron vorrà cert far qualch
esperienzia: el te tagierà el nas
o el picàndol, sigura.[153]
SCENA IV
Fenochio, Celio.
celio Posso dir ch’avendomi il fato capitarmiti innanti, d’aver, in tal guisa, afferrata la sorte per le
chiome.
fenochio Parlela
con me, sior Celi illustrissim?
celio Sì, sì, che teco discorro, poiché essendo tu
servo dell’idolo ch’adoro, oh Dio, quanto invidio la tua felicitade!
fenochio E
me la sua.
5 celio Porrò
palesarti a tal guisa l’amore incessante che porto a Beatrice tua patrona e mia
signora.
fenochio No
’l m’è novo el vostro amor, perché più e più volte la
patroncina la ne discuri in
ca’.
(a parte) (No l’è vira negota,
fazo sol per cavarghe vergota.)[154]
celio Di Celio Beatrice favella, articolando tal nome
che più e più volte professò d’abborrire?
fenochio Non
occur alter, tant l’è; e de
più ch’a’ so ura ch’inanzi a’ passi sta zurnada la sarà vostra spusa.[155]
celio Quando ciò seguisse, vorrei ben darti capparra maggiore delle mie obligazioni,
di quello voglio far in questo punto.
(Celio dà una borsa di dinari a Fenochio che, fingendo non volerla, stende più innanti la mano)
10 fenochio Non
ocurriva che lei s’incomodasse. Per farghe però véder che son om de mantenirghe quel tant che li ho det, la me staga a osservand quel che a’ vòi far.
(Fenochio
batte alla casa di Beatrice)
fenochio Oh de ca’!
celio Che fai sì di repente? Poi non la stimo buona
risoluzione; meglio sia tu gl’esponghi
i sentimenti del mio cuore.
fenochio Tant’è.
A’ ’l besogna, nei negozi d’amur
operar con solecitudin.[156]
SCENA V
Beatrice, Fenochio, Celio.
beatrice Eh, che brami Fenochio?
fenochio Che liei dia buone parole al siur Celi che vive inamurad mort, spant, per lei; mentre l’è om conossud in sta città per molt cortes. Za anche el siur Leander ha impiegad tutti i
so affet nella siura
Vittoria, fé a me mod, ch’a’ no fallerì, cert.[157]
beatrice Quando ciò sii vero, farò quello mi vai sugerindo.
fenochio (a
Celio) Innanz, sot. Anim.[158]
5 celio (a
parte) (Occhi miei, che vedeste!)
beatrice (a parte) (Quanto mi muove, oh stelle.)
celio (a parte) (Si sbandischi
dal cor ogni timore.)[159]
beatrice (a parte) (Dii materia al mio dir
il dio d’amore.)
(avvanzandosi Celio s’inginocchia)
celio Non è stupor, oh Dio,
se tu miri, idol mio,
prostrato
alle tue piante
un più fedel ma sfortunato
amante.
Vidde due volte il sole
di bionda
messe il seno
a Cerere
fecondo.
Da che il mio
cor umile,
tutto fa crocci in voto
al bel della sua diva.[160]
10 beatrice Ah, che soffrir non ponno
queste mie luci. Oh, Dio,
vederti in atto umil
prosteso al suolo.
Sorgi, deh,
sorgi oh caro,
e s’un dì t’abborii,
d’altra suposto amante,
or t’abbraccio, mia vita;
e per sempre
adorarti
non avrò nel mio sen alma bastante.[161]
fenochio Fermeve,
che l’amur non passi avvante.
celio Sarà di Beatrice questo mio cor
piagato.
beatrice E poi di Celio Beatrice ancora.
fenochio Orsù, za ch’a’ ve volì, a’ ’l besogna
trovar qualche stratagema perché la sii vostra spusa; farlo intender al siur patrun, el Ciel me ne vardi, perché l’è un vecc avar, che no l’acconsentirà in mod
alcun a sti trattat; sì che a’
’l sarà mèi...
(Fenochio
parla all’orecchio di Celio e poi a Beatrice)
15 celio e
beatrice Non può esser migliore l’invenzione!
fenochio L’ura è tarda; andem in ca’ siura patruna, acciò no ’l vegni el siur pader
e no ’l ve sgriddi.
beatrice Seguirò il tuo consiglio; mio ben, addio!
celio Conservatevi signora Beatrice, che fra poco ponerò in essecuzione quello sugerimi il vostro servo.[162]
fenochio No
perdem temp, per amur del ciel.
20 beatrice Me
n’ vado, sì, ma a te ne lascio il core.
celio Parti mio ben, e t’accompagni Amore.[163]
(Beatrice e Fenochio
entrano in casa)
SCENA VI
Celio
E come sì di repente nel cielo tubato di
Beatrice n’apparì l’iride foriera di serenità sì inaspetata;
qual telo scagliato dallo strale di Cupido colpì il cuore della mia cara; che
subito di Tesifone, per la sua crudeltà, cangiatto l’aspetto in una delle grazie ritornata all’anima
mia, fela godere sì vaga vista. Oh gran virtù della
costanza! Questa signora è quella che...[164]
(fra di sé va discorrendo il signor Leandro)
SCENA VII
Leandro
e Celio in disparte.
leandro Di Vittoria ne riporterà la palma la perenità
del mio core, e con sì bel trionfo nel carro della gloria arriverò al Campidoglio
del gioire. (a parte) (Ma qui il signor Celio, germano della signora
Vittoria.)[165]
celio Molto frequentate questa piazza, signor Leandro.
leandro E voi pure parmi che stazionate pur a
lungo in queste contrade.
celio Eh, signor Leandro, non so
che, per così dire, di celeste attrae le mie piante.
5 leandro Ed
io, signor Celio, vengo stimolato seguir la fortuna.
celio (a parte) (Certo egli s’avvide.)
leandro (a parte) (Di sicuro scopre gl’amor
miei.)
celio Posso servirla alla lettura de’ folgietti? (a parte) (Oh, si
partisse.)[166]
leandro Vengo ovunque mi comanda.
10 celio Andiate.
(a parte) (Oh Dio!)
leandro Andiamo. Spero di riveder (a parte) (l’idol mio!)
celio Di
mirar non diffido
SCENA VIII
Spetiaria aperta con fachini che
pestano spezie e giovani di bottega che lavorano; Nane e Manteca.[167]
fachini Iò,
iò, iò, oh, oh, oh, oh. (pestando
spezie e passando gente per mezo la bottega li dicono)
Eh, eh, eh, eh, è duro, oh, oh, oh, oh.[168]
nane Via, bravi, cazzéghela
de colla, ch’anca mi no stago de bando a assassinar el pan.[169]
manteca (misciando il tamiso, canta)
«Gh’è certi meloncini
che cola
sesta xe
i magna i moscardini
e i beve drìo el
caffè.
Che che no ne gh’arriva,
adosso el so paron.
Flon flon marié vui belle,
flon flon marié vui don.»[170]
nane Oh caro, l’avéu mo tiolta suso de posta la baronada, viscere mie? (dandoli un scopellotto) Missia ben, finché le passa tutte.[171]
5 manteca Cos’è
qua, sto dar? Avémio forsi magnào el çebibo
in baretta? Mi no vogio che
ti ti fazzi el bel umor; dame da magnar e po
dame del naso, za tanto ti è ti quanto son mi, vè, in
bottega.[172]
nane Tasi, caro carogna; sinò
te dago so sorella. Te par mo
che questo sia el modo de tamisar? Tre
anni che ti è qua, e gnancora no ti sa quel che i fachini impara int’un’ora.[173]
manteca Mi t’ho ditto un’altra volta che no vogio che ti ti me fazi el paron.
No so mo si ti me intendi; se ti vien da Martellago o
dal Zocco, no saverave cosa farte.[174]
nane Vien qua, via. Te vedo a pianzer: femo paze;
zioghemo alla mora una meza.[175]
manteca No scano minga mi i squellotti,
vè, co’ ti fa ti.[176]
10 fachini Oh,
oh, oh, falbò, oh, oh, oh, diridò,
falbò, oh, oh, oh, oh, oh.[177]
nane (verso i fachini,
indi verso Manteca) Bravi, bravi, così, feve
in poppe! Sì ben mi scano
i squellotti, e ti t’impari la sera co to pare a
tastar el polso ai caenazzi?
N’è vero, cor mio vèrzene?[178]
manteca Mogia. Quel che è stào è stào, e quel che è dito è dito; a nu sta meza che ho una se’ che s’cioppo![179]
nane Al primo, vè, che la
vaga!
manteca Sier no, co mi che son putello,
n’è vero, al primo.
15 nane Giusto
co ti, carogna, ti ha fenìo quatordese
anni.
manteca Si ti vol alle sie;
e dàmene quattro.
nane Schizza gazarada! Che
crédistu che mi sia quel bergamasco de Pellada?[180]
manteca Tant’è, ti è baro in sto mestier.
nane Mi taso perché ti è un frasca.
Via, tiòghene do, a andar ai sie.[181]
20 manteca Sier no. O tre, o niente.
nane Farò a to muodo, ma
tioli e tasi.[182]
(s’assedono ambidue sopra il banchetto ove s’attrovano
li crivelli delle spezie e giocano alla mora)[183]
nane Tre.
manteca Sette.
nane Tutti.
25 manteca Cinque.[184]
nane L’è mio: e un!
manteca Quel che ti vuol; za ghe ne vuol altri
cinque, vè, avanti che ti guadagni.
nane No importa niente.
SCENA IX
Nane, fachini, Manteca e Pantalone vestito da speziale che li
coglie a giocare e, dandoli ad ambedue, questi cadono dalla banchetta, e rivoltandosi
li crivelli si sparge tutto quello vi si ritrova.[185]
pantalone Così se tratta, fiazzi, fiazzazonazzi cornùi?[186]
manteca L’è lu, vedé
sior, che l’ha volesto che zioga.
nane Sì ben, mi, mi son stà;
no è vero niente: el perdeva el
tempo a trar sora el capello, e perché mi ghe son andào soradosso,
el m’ha prinçipiào a dir
che el se ciappa un puoco de spasso.[187]
pantalone Eh, sier mandriazza,
vu, che se’ un tocco de asenazzo, inveçe
de dar buon esempio a quel putto, ghe insegné a ziogar alla mora. Che crédistu, d’esser in Furàtola o
al Mondo niovo?[188]
5 nane Oh
via, tante musiche fé, sior, per zogar.
Cosa faressi se fossimo po
de quelli che ve façesse qualche garanghello?[189]
manteca (aggiustando el tamiso seguita la
primiera canzonetta)
«Quando che i
ha marendào
in battello i
vol andar
e veder se el costrào
el sia bon da zapar.
Onzendo po el
remetto,
i’ ’l ciappa pel ziron.
Flon flon, marié vui belle,
Flon flon, marié vui don.»[190]
(Pantalone e Nane lo stanno attentamente
ascoltando, indi Pantalone)
pantalone Oh, siéstu benedìo
cola stanga che se pesa la farina![191]
nane Eh mi sarò, sior, quello che averò poca vogia de ténder a bottega, n’è vero?[192]
manteca Gh’è mal per questo? Se gh’è
mal, a cavàrghelo ve vogio.[193]
10 pantalone Seguita,
seguita, raìse, che ti me piasi.[194]
manteca Co no fago el debito mio, deme; ma quando che laoro e stago allegramente, no me
crié, perché allora mi mo
vago zozo de ton.[195]
nane La salo mo dir più megio de così?[196]
pantalone Chi te dise gobbo?[197]
manteca «Zonti che i xe a Fusina
subito a
ritrovar
i se cazza in
cusina
per véder da magnar.
I varda po se è cotto
cola carne el cappon.
Flon flon, marié vui belle,
flon flon, marié vui don.»[198] (nel terminar di cantar cadde per terra e
rivolta di bel nuovo il tamiso)
15 nane E
zozo a tombolon![199]
pantalone Ohimèi, quella polvere de garòfoli,
come che la va![200] (corre per bastonare Manteca ma questo li
fugge dalle mani)
manteca Za se sa che la xe terra de palùo secada![201]
pantalone Ancora ti me cogióngari; tasi, che vogio che la te costa salada! A
trattar ben co ste frasche se avanza de queste; farghene
bona una, i crede, se se deva andar drìo sempre così.[202]
nane Sior, cosa voléu?
20 pantalone Almanco
un poco de sier Zuanne
dalla Casa.[203]
nane Vegno, sior lustrissimo.
pantalone El mandolato xe fenìo, me contento de clarissimo,
perché la moderazion e la çiviltàe
sempre sta ben, savéu, sier
màmera? Pòrteme qua quel limon dal lago, che vogio che ti el metti in lambico, avendomelo raccomandào el sior Troilo barbier.[204]
nane L’è qua, sior.
(portando una zucca marina)[205]
manteca Òe, siori, a quelli el ghe dise
limoni del lago! Bonissime zucche le xe quelle, vedé, per i porchi, sior paron.[206]
25 pantalone Ai
limoni ti ghe disi zucche? Quando mai imparerastu? Mi credo che ti tocchi certo delle ancore, che
quanto più le sta in acqua, tanto manco le impara a nuàr.[207]
manteca Siben, che le xe zucche!
pantalone Varré che frasca. E come che el
se opunia.[208]
nane No ghe tendé, che el fa per farve dir.
pantalone Dame mo un poco
quelle riose damaschin, che
te ne vogio pesar tre onze.[209]
(Nane li porta due verze intiere)
30 nane Véle qua. Voléu anca la stagera?[210]
manteca No ghe vuol altro perché le xe verze bonissime da çiviera![211]
pantalone E co sguarde che le inamora![212]
manteca Bone, vedé, con do soldi de lardo!
pantalone Tasi, ve’, ti. Che ti ha bon tàser, daseno.[213]
(Pantalone taglia le zucche e le verze con una manera, il tutto ponendo in un mortaro)
35 pantalone (alli fachini) Tiolé, pestelle menùe.[214]
fachini Siur
sé. Oh, oh, oh, oh, falbò; oh, oh, oh, oh, falbò.
manteca Oh, che pùtria![215]
pantalone Manteca, spòrzeme
quella scatola dove ghe xe
scritto zenzero de palùo.[216]
(Portandoli Manteca una scatola entrovi delli caraguoli,
dice)
manteca Vardé che bel zenzero! Questi xe
caraguoli per la signora, da magnar co l’ago.[217]
40 pantalone A
questi, anema, ti ghe disi caraguoli?
manteca A fàrvelo véder.
(incomincia a mangiarne)
pantalone Oh, povereto mi! Così el
me stèrmina la robba.[218]
nane (Dando uno schiaffo a Manteca) Èi boni, caro?[219]
pantalone (a Nane) Veramente adesso cognosso
che ti è un omo.
45 nane Mo
caro sior, chi starave saldo? Gnanca
Gioppo![220]
pantalone Tiò zoso do lire de quei
pestacchi.[221]
(Nane porta altra scatola con zìzole secche)
nane I’ è un poco revegnùi.[222]
manteca Un soldo la quarta le zìzole![223]
pantalone (verso Manteca) No ti la vuol fenir ancùo,
nevero?[224]
50 manteca Invece
de far el spezier, faressi megio, vedé sior, l’erbariol, daseno.[225]
pantalone Tasi caro cagào, che ti me l’ha mo debotto fatta vegnir su. Via presto Nane, quattro nose
d’India, el tutto in infusion.[226]
nane (a Manteca) Tiò,
pòrteghele.
(Dandoli una scatola di nose
feltrine. Manteca le viene a mangiando)[227]
manteca Oh, co’ bone, feltrine,
le nose![228]
pantalone Cazza, ti è pratico del mondo. Gh’è una
bella defferenza da Feltre all’Indie nuove.[229]
55 manteca Savéu quanto viazo ha fatto ste nose?
pantalone Più de tre mille mìa.
manteca Eh, sior no. Cola carretta de quel che sta in Calle dei Fuseri.[230]
pantalone (levandoli la scatola) È megio che no perda el tempo a ténderte.[231]
nane Via, finila, fé sto recipe; voléu le vipere?[232]
60 pantalone Pòrtele, che registraremo po i libri.
(Nane porta un vaso di
vetro, entrovi molti bisatti vivi, che veduti da
Manteca dice)
manteca Sior paron.
pantalone Cosa vùstu, di’, èstu
gnancora stuffo ancùo?
manteca Compatime della confidenza. Mia mare
e mia nona le zuna stasera, e mio pare non è vegnùo gnianca a disnar; mi vorave, sior, che me
dessi un pèr de quei bisatti da portarghe.[233]
pantalone Gramo ti; queste xe vipere da Monçelese.[234]
65 manteca Falé el paese,
daseno. Avé volesto dir da
Comacchio?[235]
nane La volemio fenir, di’, de burlar? Sior paron,
bisogna che al vin de colù ghe
fé tirar el colo quando ghe de’ da bever.[236]
pantalone Tasi, tasi. Dirò co dise quel poeta: che chi
ride al matin pianse la sera.
(Tagiando le teste e le code delli
bisatti cazza tutto int’el morter
a Nane. Manteca piglia due delli bisatti dal vaso e
se n’ parte fugendo)
manteca A bon conto, questa sarà la mia parte.
pantalone Ah furbazzo! Làseli
star.
70 nane E
lassé che el vaga, sto guidon! Za no l’è bon da far altro che malani.[237]
(Manteca fugendo si
rivolta a dietro grignando tanto verso Pantalone,
quanto verso Nane)[238]
manteca E vù, cagài, nasùi, cressùi de lampi e de
toni,
e
de scoreze de capponi![239]
(Pantalone li tira dietro una mulla)[240]
pantalone Se te ciappo. (li corre dietro entro in
scena)
SCENA X
Pantalon, Nane, Fachini.
nane No ve l’hogio dito
tante volte che l’è un frasconazzo, quel Manteca?[241]
pantalone Ti ha rason daseno;
ho imparào a mio costo. Ma che el
vegna a bottega che el vogio ciarir, niente, padre.[242]
nane Mi sior, se fosse in pe’ vostro, no ’l vorave tior più, çerto.[243]
pantalone Che crédistu? Che sia de altra opinion? Varra no, vè.
(un de’ fachini s’avanza)
5 fachino Nu
avem fenìo de pestar. Avéu vu parecià da disnà?
pantalone Nane.
nane Sior.
pantalone Cosa dìseli colori?
nane Che i vorria consolar
el cadavero.[244]
10 fachino Nu,
se sa, a’ l’è passad mez dì, che a’ l’è un’ura.
pantalone (a Nane) Gh’è soldi in cassella?[245]
nane De quali, sior? Giusto un boro ho toccào stamattina.
pantalone Son ben intrigào.
nane Za el savevi che a sto statto ghe dovevi vegnìr.
15 fachino Via,
siur Pantalun, fé prest che l’ura è tarda.
pantalone Andé alla taverna, fioli.
fachino Dinèr, i vul esser.
nane Oh via, sbrighéli,
che i ha fame.
pantalone Si no ghe dago
sto morter, che i se faza
dar da capo Balico qualcosa, mi no so cosa darghe altro seguro.[246]
20 nane E
per bottega, cosa dopererémio?
pantalone Ghe ne tioremo un da
Ponte de Brenta.[247]
nane Cazza, anderà avanti el negozio.[248]
pantalone Cosa t’importa a ti, di’, frascaza?
nane Mi taso, nana.
25 pantalone Çerto che avé da tàser.
(li dà alli fachini il mortaro)
pantalone Tiolé, andé a magnar
quanto ve piase; ma andé
almanco da capo Balico, che el
me gh’averà pietà.
fachini Nun occur oter.
(li fachini partono)
SCENA XI
Pantalone,
Nane.
pantalone No vorave po
minga che i me magnasse tanto che el pitèr andasse da Badanài.[249]
nane Fé giusto sto conto.
pantalone La sarave bella che al prençipio
del negozio i mobili façesse così presto le ale.[250]
nane Bezzi i vuol esser a far andar speziarie, savéu?[251]
5 pantalone Fràchemela anca ti, ve’, che l’anderà
po de trotto![252]
nane E a mi cosa me déu? Vogio che me accordé, vedé.[253]
pantalone Adesso ti me parli?
nane E no altro. E ressolvéve
perché mi ho occasion de andar a star da sior
Ippolito.[254]
pantalone Vaghe, vaghe, che ti starà ben, vè, co
quell’abreo.[255]
10 nane Manco
parole e più fatti!
pantalone Vardé che carogna!
nane Credéu che burla, mi? Fallé
i zorni, veddé.[256]
pantalone Sier no, che ancùo xe ziobba.[257]
nane Ve sento, ve sento, che savé
da ziobba![258]
15 pantalone Tasi,
caro ti, che ti è causa che la zente se ferma per
strada.[259]
SCENA XII
Pantalon, Nane e una giovine.
dona Sete voi il patrone?
pantalone A servirla, siora. (a parte) (Che
tocco!)[260]
nane Cosa voléu, quella zovene?
pantalone (a parte a Nane) Parla co çiviltàe
coi avantori.
5 nane (a
parte a Pantalon) La ve preme.
dona Quando voi, signore, siete il
patrone speziale, io vorrei communicarvi un
male, ma ritiratevi, che non vorrei quel giovine lo sentisse.
pantalone (a parte) (Rotture, certo.) Son qua, la me diga.[261]
dona Mi viene un po’ d’erubescenza.[262]
pantalone Parlé liberamente; fé
conto che sia vostro pare.
10 nane Sior
paron, andéu forsi in volta?[263]
pantalone (a Nane) Tasi, che la vuol saver la dosa.[264]
dona Per dirvi la verità, io patisco un poco di moroide.[265]
pantalone Stimavo de pezo; co no gh’è
altro, adesso adesso ve varisso.
(a Nane) Va’, e tió quel çeroto
cardoso, e pòrtemelo
subito.[266]
dona Insomma bisogna aver pazienza, che il ricorrere
a uomeni asenati s’acquista
sempre qualche giovamento al suo male.
15 pantalone Me
despiase, siora, che se’ vegnùa tardi; vorrave che
m’avessi cognossùo za vintiçinque
anni, mi.
dona Purtroppo, lo credo.
(Nane porta un naone grandissimo)[267]
pantalone (prendendo il naone in mano) Quando
andé a casa, la prima cosa che avé
da far, e subito, infearlo, e po
applicarlo; che se alla prima no ’l zova, iterata vallent, ch’è a dir: replichello.[268]
dona Farò quanto mi ditte.
pantalone Vardé che la va per vu, no
ve digo altro.
20 dona Lasciate
pure la cura a me. Vi riverisco. (si parte)
SCENA XIII
Pantalone e
Nane.
nane E i bezzi chi ’i dà?[269]
pantalone No bisogna vardar tanto per sutillo, za sto novembre me n’ha da vegnìr
una burchiella de quei çeroti
cardài.[270]
nane Co l’è così no parlo
altro. Vardé vu i fatti vostri.
pantalone Fa’ giusto sto conto.
SCENA XIV
Pantalone,
Nane; Tòfolo, padre di Manteca.
tòfolo Siorìa
clarissima.
pantalone S’ciavo, s’ciavo
Tòfolo.
nane Bonzorno compare.
tòfolo Sentì, caro sior Pantalon,
per che cosa, contro i nostri patti, avéu mandào mio fio Manteca via de bottega?
5 pantalone Mi,
in prima, no l’ho mandào. Ma ve digo ben mi che, se
vu se’ omo prudente come professé, ghe remedié; perché vostro fio deventerà un batoccio da forca.[271]
tòfolo Co’
sarave a dir?
pantalone Che el se modera e della lengua e delle
man.
tòfolo In tanti anni che l’è stà
a casa mi no l’ho sentìo mai a dir una parola
cattiva, né mai mi m’ho incorto che el m’abbia toccào un bezzo.[272]
pantalone Basta; se vu no l’avé
sentìo e che no ve n’abbié incorto, mi so che l’ho sperimentào. Co’ diavolo, voler
far el paron lu, in do dì che l’è a bottega, e deçiparme
la robba; ma quel che più importa, contra i primi
avvisi che gh’ho dào, che ghe gieri anca vu, che da murèr no se deve fermar, da favro
no se deve toccar, e da spezier che no se deve
magnar; lu el m’ha toccào e magnào do vipere, che no so come no ’l sia morto.[273]
10 tòfolo Fin
che se magna bisati, mi no credo che se muora.[274]
nane E le nose muschiàe d’India, cosa ghe diséu?[275]
pantalone Mi ve compatisso perché ghe se’ pare, ma no ghe dové
filar tanto el lazzo, che daseno
el vorré desfilar che no ghe sarà più
tempo.[276]
tòfolo A mi me tocca arlevar
i fioli; quando i xe co vu,
déghe, bastonéli, mazéli, che me contento, quando però no i faza el debito soo; ma bisogna considerar, sior Pantalon
caro, che anca nu semo stài
puteli, e lassemola là, che
basta.[277]
pantalone Co’ sarave mo a dir?
15 tòfolo Che
bisogna che sopportemo qualcosa.
pantalone Poder, dise Tecia.[278]
tòfolo Basta, vu l’avé da tior. Za l’avé accordào per cinque anni; cosa voléu
far, esser causa che el se scavezza el collo? L’è pur megio che el ve staga in bottega, che no ’l
vaga a bastonar el bacalào.[279]
pantalone Parlé ben, ma mi no digo mal. Sentì però: quando el putto vogia obbedirme in tutto e per tutto, mi son pronto a tiorlo da niovo; ma se el me consuma la robba, è ben
anca de dover che vu me la dobié pagar.[280]
tòfolo Fin qua vu parlé ben,
no me levo dall’onesto; co l’è così ve prego a sopportar qualcosa.[281]
20 pantalone Farò
de tutto. Ma vu, a bon conto, deghe da çena stasera, che se no l’ha fenìo
da mi la zornada, no è de dover che el magna de bando.[282]
tòfolo Siorìa
vostra, ho inteso.
pantalone Conserveve.
nane Co ’l vien, fé che el se lava le man, che el fazza un poco de onor in bottega,
perché el giera tanto netto
che el pareva un spazacamin.[283]
tòfolo Sior sì, sior sì; che vu le gh’avé
nette, n’è vero, compare benedìo...
25 nane Megio de lu po
certo, veddé.
tòfolo E
de che foza.[284] (si parte)
SCENA XV
Pantalone,
Nane.
nane Avé fatto ben. Za, sinò
altro, l’è bon da ténder a bottega.[285]
pantalone No gh’èstu ti da far sto servizio?[286]
nane Ve poderave po ben tenir el
registro dei libri int’el còmio,
co se sol dir, che squasi l’ho detta brutta, se
avesse da attender alla speziaria.[287]
pantalone L’ha abùo de bon che l’ho accordào per çinque anni, che da resto...
5 nane E
mi, che no ho carta de sorte?[288]
pantalone Ti no te tegno minga per garzon, vè.[289]
nane Che salario pretendéu
de darme?
pantalone No màgnistu? No bévistu?
Te darò do ducati de più de quel che dago alla massera.[290]
nane Falé i mesi, veddé; deme licenzia che za gh’ho paron che m’aspetta.[291]
10 pantalone Via,
via, i farò do dozene.[292]
nane I vol esser almanco quaranta.[293]
pantalone Orsù, se giusteremo.[294]
SCENA XVI
Pantalon, Nane e altra giovine che domanda medicamento.
nane Ancùo xe el dì delle façende.
pantalone Finché le xe done,
me contento che le vegna drette,
ma i omeni no i ha da vegnir
çerto che gobbbi.[295]
dona M’inchino al signor Pantalone.
pantalone Manco çerimonie e più monéa.[296]
5 nane Queste
le xe de quelle solite.
dona Mi sento una tumulatazione
nelle viscere, che mi dà non ordinario tormento.[297]
pantalone Questo l’è mal de mare de posta.[298]
nane Sie’ un poco più modesto, che la xe putta.[299]
pantalone Queste le xe cose naturali.
10 dona Devo
gettar via tutta la mia erubescenza.[300]
pantalone Za semo vecci
d’età, benché zoveni del mestier.
(verso Nane) Tiò Nane quell’eletuario in integrum.[301]
nane Vél qua, sior. (portandoli un cavezone di cuffia)[302]
dona Quella robba sì nera?
pantalone No ve sgomenté, perché se sol dir che un diavolo
cazza l’altro. Magnéla come volé
vu, e se no la ve resana, pago mi.[303]
15 nane E
de che sorte?[304]
dona Farò quanto m’imponete.
SCENA XVII
Pantalone e
Nane.
pantalone Che la faza o che no la faza quel che mi gh’ho dito poco
importa, me basta che vegna aventori
a bottega, e che sti spizieri mi’ vicini se magna da
rabbia; za tanto l’è, si no la m’ha dào bezzi, pò esser che un altro me refaza.
Chi sta sul negozio no deve vardar tanto per suttilo.[305]
nane Co gh’è dei boni cavedali el se pol far, lu. Ma, òe, vardé mo chi vien.[306]
SCENA XVIII
Pantalone,
Nane, Manteca che sopragiunge.
manteca Siorìa sior paron; mio pare m’ha dito che vegna.
pantalone Senti: a istanzia de quel omo te perdono; ma ti sa, vè, ti è indegno d’esser so fio.[307]
nane Mi no ’l posso dir çerto.
manteca Sì, sì, che no ti gh’ha
i déi compagni.[308]
5 nane Frasca,
vardé che muodo de parlar.
pantalone L’è così fatto; cosa vostu
far, aver pazienza, za la gh’ho anca mi co sto tocco
de carissimo. Ma dime, caro ti, perché no aspettar de vegnìr
doman a laorar, che subito
ti ha volesto vegnìr
stasera a impenir el cadavero?[309]
manteca Gnianca pan no gh’è a casa, cosa voléu che faza, che conta i veri?[310]
pantalone Védistu, impara cosa vol dir
a magnar el pan de altri co no se ghe
n’ha a casa; bisogna sopportar qualche scopellotto,
qualche man int’el muso, e qualche pìe int’el culo ancora, se fa
bisogno.[311]
nane E giusta el la dise, vè, el
paron.[312]
SCENA XIX
Pantalone,
Nane, Manteca, sier Fìsolo
che vuole unguento.[313]
pantalone Sier Fìsolo, cosa gh’è da niovo?
fìsolo Tutto
veccio, sior Pantalon.
manteca Co’ xe el vostro braghier.
nane Che creanza da aseno.
5 manteca L’ho
imparada da to pare.
pantalone Voléu taser, e no
confonder la zente che vien a spender?[314]
fìsolo La gran canagia gh’avé, sior. Oh sentì, deme do
soldi de unguento da piatole per mio fradello che l’è
vegnùo za poco dall’ospeàl,
che l’è pien, che no’l sa
che banda voltarse.[315]
pantalone Manteca, bestia, fa’ qualcosa, impiza quel
ceroto da dar a sto patron.[316]
manteca Fate oh, oh, oh, che la malta vien![317]
10 nane Ah,
mandria, crédistu d’esser su qualche fabrica?[318]
(Manteca li porta una candeletta accesa)
pantalone Da’ qua.
manteca Tiolé in vostra bonora,
che me son scotào.[319]
pantalone Questo, sior, xe l’unguento che fazo mi, che el val un tesoro, provelo e si no ’l giova, vegnì
che ve darò i vostri bezzi indrìo.[320]
nane El paron xe sta lu el
primo a far l’esperienza.[321]
15 fìsolo Bon
sior, tanto ghe dirò, siorìa
vostra.[322]
SCENA XX
Pantalone,
Manteca, Nane.
pantalone Tante e tante volte ve l’ho dito, che no vogio
che me fé dottorezi adosso, e massime co gh’è zente; no so mo
se m’abbié inteso, basta. Orsù, andé
a çenar, ma prima portéme
quella cassa co quel scheletro che ho comprào, che no se può véder la
più bella mumia: la m’è costada
dusento çechini; andé, e torné presto.[323]
nane Via Manteca, andemo.
manteca Vegno.
SCENA XXI
Pantalon.
Fin adesso no me posso lamentar della speziaria; gh’ho dào, è vero, a quei omeni el morter, ma cosa vallo certo,
che mi no ghe daria tre
lire: l’è de ferro. Ma l’ho fatto a posta, perché Balico
no ghe darà tanto çerto da
magnar. Inzegno el vol esser a negoziar a sto mondo, mo
Catte, e no altro.[324]
SCENA XXII
Pantalone,
Manteca e Nane che portano la cassa, entrovi Arlichino con abito da scheletro, e portata che l’hanno, si partono.[325]
pantalone Andé, andé in letto, ma arrecordeve de stuàr la lume.[326]
manteca e
nane Siorsì, siorsì, no ve indubité, no.
SCENA XXIII
Pantalone
e Arlichino nella casa.
pantalone Se puol véder
più bella cosa de questa! Chi sa che no ’l sia el
corpo de qualche re o rezina. (va per compassarlo,
ma Arlichino leva un braccio in alto onde Pantalone
s’intimorisce) Ohimèi, cosa véghio!
Oh Dio, oh Dio. Eh che me par così, za l’è morto che l’è ben adesso; anemo, anemo Pantalon;
no far che se diga che ti te metti sti pensieri int’el
cào. (si porta ad un tavolino per disegnar il
corpo, e in questo mentre Arlichino esce dalla cassa
e si nasconde dietro la medema) (tremando)
Ah, che no fallo, no, no, che l’è un
spirito. Oh, povereto mi! (Arlichino
voltato che si è Pantalone ritorna nella cassa come prima) Vè, vè, vè,
vè, certo che l’è un’opunion;
vogio seguitar el mio laorièr. (mentre di nuovo dissegna,
Arlichino uscendo dalla cassa sudetta,
afferra Pantalone nella gola, che gridando fugge dentro della scena, schiudendosi
la spezieria si dà fine al secondo atto) Son morto, agiuto,
son morto! Zente, agiuto! Ohimèi, povereto mi! Ohimèi![327]
ATTO TERZO
SCENA I
Piazza come
nell’atto
primo e secondo.
Beatrice,
Oliveta
oliveta Avete fatto pur bene ad impiegar
li vostri affetti nella persona del signor Celio, fratello della signora
Vittoria, tanto vostra svisceratissima amica.
beatrice Agl’assalti di Cupido, ben sai Oliveta, ch’ogni gran salda
rocca alfin conviene che ceda.[328]
oliveta E quando sarò io fatta sposa di Fenochio, già sapete quanto tempo corre ch’egli di me sen
vive inamorato?
beatrice Bisogna soffrire ancor un poco, verrà pure la tua.
5 oliveta Prima
che venissi a servirvi, m’andava esso inchinando.[329]
beatrice Né mai ardì egli di ricercarti per consorte al signor padre?[330]
oliveta Diròle il vero, ogni volta che mi vede andar a cavar
vino, sempre mi seguita, ed allora mi fa mille scongiuri del suo amore.
beatrice Si ferma poi qui?
oliveta Che volete lui tenti d’avvantaggio?
Tacete e guardate ch’appunto con il signor Leandro vostro fratello sen viene il
vostro adorato signor Celio.[331]
SCENA II
Beatrice,
Oliveta, Celio e Leandro sopragiungono.
leandro Che vuol dire, signor Celio, che vi mutate di colore?[332]
celio (a parte) (Nel mirar, oh Dio,
quasi dissi
il mio ben,
l’idol mio.)[333]
beatrice (a Leandro) Amato fratello. (poi verso Celio, a
parte) (Povero
Celio, come se n’ sviene.)
oliveta (a Celio) Animo, signore.
5 leandro Amico
Celio, qual deliquio vi sopragiunge?
celio È tempo ormai vi scopri
l’intimo del mio cuore. Corre molto tempo ch’io vivo idolatra delle bellezze
della signora Beatrice, vostra germana. Per un tempo rifiutò gl’omaggi
del mio cuore; infine, vedendo la purità del mio ardore, si dispose a divenirne
mia sposa. La tenacità del signor Pantalone, ad ambi voi genitori, può esser di
remora a’ nostri contenti, onde, s’in voi alberga
scintilla di pietà, condonnate all’immensità de’ miei
sospiri, che non sanno ch’articolare di Beatrice il nome.[334]
leandro Dal pari siamo in amore. Se voi, amato Celio, vivete invaghito di
Beatrice mia sorella, io pure sono acceso della venustà più che terrestre della
signora Vittoria, vostra germana.[335]
beatrice (tra sé) (Oh me felice!)
oliveta Io la sapevo che più d’un anno, avendomelo communicato il signor Leandro.
(Vittoria che sopragiunge)
SCENA III
Vittoria e li
sopradetti.
vittoria (a parte) (Se l’occhio non mi tradisse, o l’orecchio non
m’inganna, parmi che il mio Leandro adorato sii
accompagnato con il signor Celio mio fratello; è desso apunto,
sarà meglio mi ritiri.)
beatrice Non più, svisceratissima Vittoria, appellerovi con il nome d’amica, ma doppiamente cognata!
vittoria Son scoperta, oh stelle!
leandro Non vi smarrite, bellissima Vittoria, s’alla presenza del signor Celio,
a cui son già notti i nostri affetti, vi porgo la destra di sposo.
5 vittoria (a
parte) (Io sono la più confusa donna del mondo.)
celio E io il più fortunato! Già che voi, divenendo
sposa del signor Leandro, e io pure della signora Beatrice, dobbiamo chiamarsi
contenti.[336]
oliveta (a parte) (Ma Oliveta se ne sta a labra asciute.)[337]
vittoria Ed il signor padre, quando saprà questa risoluzione, che dirà?
(Celio parla all’orecchio di Leandro)
leandro Non può esser più opportuna la congiuntura.
10 celio (verso
Vittoria) Il tutto appoggiate alla mia fede.
beatrice Per me, lascio la cura al signor Leandro.
vittoria Quando così è, tutta giuliva me n’ parto.
beatrice Se ciò è palese al fratello, tutta contenta me n’
vado.
oliveta In quanto a me, poco vi penso.
15 leandro A
Fenochio appogierò
l’affare.
vittoria (a Beatrice) Pria di partir io v’incateno al core.
beatrice A questo sen voi mi starete avvinta.
oliveta Io v’invoco propizio il dio d’amore.
leandro (a Vittoria) Mia bella, parto.
20 celio (a
Beatrice) Io qui l’alma vi lascio.
vittoria Con voi il mio cor si resta.
beatrice Tutta di Celio sono.
leandro e
celio Addio. Addio.
25 vittoria e
beatrice Addio. Addio.[338]
(si partono Vittoria, Beatrice ed Oliveta)
SCENA IV
Leandro,
Celio, Fenochio che sopragiunge.
fenochio L’è
bella questa; tutt’el zorno
stornirme el cò.[339]
leandro Cosa discorri?
celio Con chi l’hai?
fenochio Cari
siuri, tendé ai fatti voster.
5 leandro Non
ravvisi il tuo patrone?[340]
celio Non riconosci Celio, quello fai eh?
fenochio (a
Celio) Lasseme star, ch’a’ scoprirò el tutt.
celio Già son noti li miei affetti al signor Leandro.
fenochio Disì
da bon?
10 leandro Il
tutto m’è palese.
fenochio A’ i’ dirò: là, in quella stra’,
a’ gh’è quel calzular; a’ i’ ho da dar tre
lire che l’è debot du ann, e tutt’el dì no ’l fa oter che stornirme el cò.[341]
leandro E ti par ch’ormai non sii tempo di sodisfarlo?
fenochio De
quai, se a’ non ho nemanch
un quatrin a me comand?[342]
celio Io sodisferò a quanto vai
debitore; ma teniamo di bisogno del tuo consiglio.
15 fenochio Commandé liberamente.
leandro Noi vorressimo che tu ritrovassi un loco
per riponer nello stesso tanto la signora Beatrice,
mia sorella, quant la signora Vittoria, mia adorata;
perché abbiam risolto di levarle a’ loro genitori,
che renitenti si mostrano a volercele conceder in consorti.
fenochio Quand a’ vu oter siuri a’
sii content, me più che volontieri
a’ ve servirò. Andé in ca’,
ch’andrò da qualche amigh fedel
e troverò el mod de consularve, sigur.
leandro Io vivo sopra la tua fede.
celio Ed io pure sopra la tua lealtà m’appoggio.
20 fenochio Andé pur, che no ’l occur oter.
SCENA V
Fenochio.
fenochio Che
manche se pol far, che consularli
tutti du; son ben però desideros
de saver cosa sii success a Arlechin, avendol fat vestir da scheleter, accioché el siur Pantalun,
avvedendosene, el lo faza
bastonar.
(Arlichino che sopragiunge impaurito)
SCENA VI
Fenochio e Arlichino.
arlichino Salvia,
salvia. Cancar, se a’ no
era lest, a’ podeva dir ben: sier Arlichin, arrevéderse![343]
fenochio Tant’è, quando a’ se esequiss quel che a’ se ghe vien impost, no se falla mai.
Bonzorno messer Arlechin.[344]
arlichino El
malan che t’accoia.[345]
fenochio No
tanto mal, no; za a’ sem camerade fedèi.[346]
5 arlichino Te
m’ha fat quasi ispiritar Pantalon.[347]
fenochio Se t’avessi usad
prudenza, no te sarave intravegnud
quel che a’ t’è success; ma dim
cosa è stad.[348]
arlichino Ancor
ti me buffoni, eh?[349]
fenochio Se
a’ no so negota, davira.
arlichino Mentre ti m’ha cazad
in quella casa, quand a’ era
là denter, e che el siur Pantalun me desegnava, un pedoci me died un morsegon, con tant impete, che a’ ho convenud alzar una man; e ciapad che l’ho abud, subito l’ho
amazad.[350]
10 fenochio No
’l t’averà però vist, el parun?
arlichino E
de che foza![351]
fenochio Oh,
poveret mi.
arlichino Anz,
ch’ a’ l’è cascad subit in terra, quasi mort.
fenochio Pover stramb, desgraziad; in questa guisa t’è stad
causa della to ruina.[352]
15 arlichino E
perché?
fenochio Ma
Oliveta, dove la lasci tu?
arlichino Al
bordel.[353]
fenochio Quest
a’ è dunque l’ardente desiderii
che la sippi to mugier![354]
arlichino No
sat ch’in sta foza l’amur va inte i calzù?[355]
20 fenochio Anim, no te perder. Tenta un po’ de farte
un porch, come prima t’aveve
dit; che così te andrà a trovarla a lett.[356]
arlichino Se a’
l’è così, a’ faz de tutt! Ma senti, car fradel, chi
me scapelerà le giande?[357]
fenochio Oliveta,
el to cor, le to viscere, el to ben.
arlichino Quand a’ l’è così, a’ no penso oter; te ti me
ordinerà el mod ch’a’ ho da operar.[358]
fenochio Va’ in bottega de quel pignatar
dalla scudella; lì, te me attenderà, che fra poch venirò, a fid.[359]
arlichino A’
vad, vè.
25 fenochio Non
occur oter.
SCENA VII
Fenochio.
Vo’ ben che a’ t’impari el mod de amar Olivetina; el me ben, la me anima, el
ventricolo delle me budelle. Guidonaz,
asenaz. A’ ’l sarà mèi ancora
ch’avvisi la puerina de quel ch’a’
ho stabilid. (batte alla casa d’Oliveta) Oh,
de ca’![360]
SCENA VIII
Fenochio, Oliveta di dentro.
oliveta Chi batte?
fenochio Un
voster servidur anticamente
fidelissim.[361]
oliveta (in scena) Che brami, Fenochio?
fenochio Riverirte in prima; e po avvisarte che a’ ho da vestir Arlichin da porch per to amur e consegnarlo al siur patrun. Ti mo, con la siura Beatrice, ti dovrà far la grossolana, finzer de non conoscerlo, tant
che, scoprendolo el patron per Arlichin,
el venghi ben bastonad.[362]
5 oliveta Farò
quanto m’imponi. Lasciami ritornar di sopra per assistere alla signora Beatrice
in quello tu sai.[363]
fenochio Va’,
ch’el Ciel te felicit.
oliveta La sorte per sempre t’assista.
fenochio Va’
come andò to mader. (a parte) (Eh, che burlo, me ben.)
oliveta Ti saluto con tutto il cuore. Addio.
10 fenochio Uh,
uh, cara.[364] (li tra’ un baccio)
SCENA IX
Speziaria aperta, Pantalon, Nane
e Fachini.[365]
pantalone Se saveva così, no te lassava miga andar via de bottega, vè,
Nane.
nane De diana, tanto ve spaventé!
Bisogna che abbié bevùo più
del solito.[366]
pantalone Ve ne tiolé troppe, patron bello, vedé. Basta, so quel che digo, vu me intendé.[367]
nane Volé far el spezier, e po scampé
alla vista de quella mumia!
5 pantalone Eh,
frasca, tanto de occi la averziva,
vè, anzi che una volta la s’ha gratà
el cào.[368]
nane Opinion le sarà stàe,
vedé, che morti no fa sesti, no; sarà megio, sior patron, che registré
i recipe a libro che xe stà mandài sta mattina, che mi po i manipulerò.[369]
pantalone Ghe n’è troppi? Di’.
nane E pochi, vedé; voléu scriver vu o mi?
pantalone Scrivi ti, che mi no so dove gh’abbia el cervello.
10 nane Ve
servo subito.
fachini (fachini
che pestano ne’ mortari)
Ih, oh, ih, oh; oh, oh, oh, oh, oh, falbò, falbò, oh, oh, oh, oh, è ’l duro.[370]
pantalone Bravi, così ve vogio. Cazzéghela
de cola.
(Pantalone s’appoggia ad un tavolino, detta il recipe a Nane)
pantalone (lege) «Per sier Tadìo Smonzùo. Pan paìo disdoto lire; anna sette de roana; semola cariole
disisette per levarghe el mal de stomego, el tutto in infusion; el miedego Sberlào.»
Presto zira a libro.[371]
nane E de ponto, vedé, sior.[372]
15 pantalone (lege)
«Per el zocialer al
Ponte della Late, recipe: scolo d’asena
bastonada, acqua de vacca sfondrada,
sugo de caparozoli, con do drame
de pena de gallina sugada al fuogo,
anna de legno dolçe; el miedego Tròtolo.»[373]
nane Che gh’halo, la spienza marza?[374]
pantalone Fa’ giusto conto che la sia così. «Per Naso frutariol al Ponte delle Tette, recipe:
antene marze destemperàe; pegola
de copani in effusion, dàtoli de corbame
de nose, con dodese lire de
fuogo secco; el miedego Fatte.»[375]
nane (scrivendo) E che la vaga.
pantalone E che la staga, che ste seste alla più longa
i saverà da che odor saverà la medesina. (legendo) «Per
el murèr de casa..».[376]
20 nane Questo
va a macca.[377]
pantalone Co ’l conza i coppi mi ghe
dago i bezzi, no so mo perché lu deva venir a macca
de medesine. Scrivi: «per el
murèr de casa. Recipe:
conchette de malta numero cinque, ogio de calzina
onze trenta, bailàe de fango dodese,
el tutto in un servizial
con do lire de manna drento; el
miedego Manteca.»[378]
nane Èlo parente del garzon?[379]
pantalone Oibò, l’è ben della so casada. «Per Giopo De’ Grandi. Recipe: sugo de
matarana, quintasenza de tròtoli da traena, armonico de vovi d’occa lambicada in pignata niova, con do lire d’ogio de zucca marina; el miedego Pampalugo.»
«Per el magazenier del Gafaro. Recipe: zacchi ruzeni in torretta
numero vinti, fodri de pelle d’anguilla in composta, cocconi
de botta sessanta in bocconi, trenta a disnar, e trenta a çena; el miedego Antian.»[380]
nane De Diana, tutta sta robba?
25 pantalone Se
così i ordina, così besogna far çerto.
nane Ghe ne è altri?
pantalone E no altro, padre.[381]
nane Seguité, da bravo.
pantalone «Per madonna Bettina, la priora delle solenissime
al so mal de corpo, recipe: s’cienze
de rovere, maneghi d’antian,
acqua de calafài, macaroni paìi, anna cariole
due; el miedego Cagarella.»[382]
30 nane Co
sta volta no la varisse; no so quando la possi scapolar.[383]
pantalone Drìo via. «Per Todero Sfondrón
—za semo al fin— che sta sulle Fondamente
Niove. Recipe: estratto de
semola padoana quartieri çinquanta,
çento lire de caligo, do drame
de piova senza gaban, e onzion
de sirocco marzo in effusion
co una torretta de bona buora;
el miedego Tenebrìa.»
«Per Catte Potón in
Calle Valaressa. Recipe: pandoli pesti, sugo de naoni,
scorzi de nose brusai,
sassi passai per el tamiso, anna,
stara vinti a ore tre con un siroppo de mare sbasìa,
e ravani in tocco; el miedego
Tea.»
«Per el favro de Cale
de Mezo. Recipe: capelle de ciodi
in aséo preparàe, onze dusento, calisene
de siroco, ancore destemperàe, con refrigerio d’acqua de caldiere; el miedego Bronzào.»[384]
nane Son stuffo de
scriver.
pantalone Cosa farastu a prepararli?[385]
nane Me consolo, che allora ghe
saré vu e anca quell’aseno
de Manteca.
35 pantalone Oh
via, questo è l’ultimo. «Per la Schizza dal zamberluco
verde, in Calle dei Do Moretti.»[386]
nane Anca quella xe nostra
avventora?[387]
pantalone È possibile che no la gh’abbia el letto da pagarne.[388]
nane Se la s’cioppa, niente no gh’averemo;
se la varisse, el fitto de
casa ne porta via tutto.
pantalone No te prender tanto travagio, za mi no ghe no vogio saver, e ti ti vuol pensarghe?[389]
40 nane Fé giusto pur conto che no v’abbia ditto
niente.
pantalone Per la Schizza, dunque, scrivé. Recipe: «panocie marze, porifighi in effusion, scolamento
verde dalla Colonna e meza, e pillole dal taiapiera in Campiel delle Scoàzze, con un puoco de canella dal Mondo Niovo, e do drame de ogio de seppa; el miedego
Tencariòl.»[390]
nane De Diana!
pantalone Mi che son el paron
taso, e ti sier Tegna, ti
fa tante cagàe?[391]
SCENA X
Pantalone,
Nane, Fachini e Fenochio ch’introduce Celio da gastaldo, con Arlichino finto porco.[392]
pantalone Cos’è Fenochio, che zente
è quella?
arlichino (facendo
da porco) Uhì,
uhì, uhì, uhì.[393]
fenochio Trutta
là! (poi verso Pantalone) El gastaldo, sior, che ha mandà
el so famegio col porco.[394]
nane È ora che se destrighemo
le buelle.[395]
5 pantalone L’ha
fatto ben; perché aponto stava disendo
col mio zovene cosa mai giera
dei fatti soi.
celio El la riverisce tanto saìu,
e po tanto, tanto, tanto; a’
’l ve manda el porco da Nâle
grasso ch’a ho, e èl smalzo.[396]
arlichino (a
Fenochio) Ah, quando vederòi
Oliveta?
fenochio (ad
Arlichino) Abbi un po’ de pazinzia, che ti sarà consulad.
pantalone Che caro gastaldo! Posso ben dir che quest’anno el
m’ha trattào molto ben (tastando il porco).
10 arlichino Uhì,
uhì, uhì, e truù, truù, truù.[397]
pantalone Co desmestego che l’è.[398]
celio L’ha, saìu, molte virtù.[399]
pantalone Co’ sarave a dir? (prendendo
del tabaco, in questo mentre Arlichino
sporge la zatta e Pantalone gli dà la scatola)
celio No veddì, el tuol del spolverazzo;
e el fa millanta altri laori.[400]
15 pantalone L’ho
ben a caro.[401]
nane Che ciama la paroncina, che la ’l vederà co
gusto.
arlichino Uhì, uhì, uhì, uhì.
pantalone Bisogna consolarlo anca lu: el dise de sì.[402]
(al rumore d’Arlichino
esce Beatrice con Olivetta)
SCENA XI
Pantalone,
Nane, Fenochio, Celio, Arlichino,
Olivetta e Beatrice
beatrice Che rumore è mai questo?
fenochio (a Beatrice) Sté
cheta e çita, quel a’ è Arlechin; el fint
gastald l’è el siur Celii; tasì,
per amur del ciel.[403]
beatrice (a Fenochio) Farò quanto mi
dici.
oliveta Oh, come è bello.
5 pantalone E
che cóa che el gh’ha.
celio (a Beatrice) Eccomi, anima bella.
beatrice (a Celio) Or ora vi portarete
in mia casa.
nane Sior patron, cosa voléu
far de costù?
pantalone Tiorme un poco de spasso. Òe
putte, vardè co’ l’è desmestego.
(Arlichino va intorno Olivetta, e Beatrice li fa molte
insolenze tastegiandolo, quale si schermiscono)[404]
10 oliveta Va’
alla buon’ora, animalaccio!
beatrice E bene, impertinente.
pantalone (a Celio) Èlo nassùo de marzo, di’ Togno?[405]
celio A’ no saverave dire
de che mese a’ ’l fosse nassù.
fenochio (ad
Arlichino) Sta’ chet, senò...
15 arlichino (a
Fenochio) A’ no pos
star più così, vedend Olivetta, el
me cor!
pantalone Mi, per verità, vorìa far un casotto, e
sta’ senza véder de poder cavarghe più de quel che el
valesse, tanto che l’è virtuoso. Ma ho paura che el
se cazza sotto le cottole de qualche maschera; onde è megio,
per schivar i malani, che ti vaghi Nane a ciamar el luganegher,
e fin che el tempo è fresco che femo
tanti salài.[406]
(Arlichino sentendo ciò dire a Pantalone si rivolta a Fenochio in disparte e si vole
levar la maschera)
arlichino (a parte) (Ah, paesan,
a sto stad te m’ha redut!
El me vuol far amazar. Tò el to abiti, che a’ no vòi oter.)[407]
fenochio (a parte) (Sta’ quiet;
no aver paura de negota, ma sipi
un po’ pì modest.)
pantalone Fenochio, mena in casa quel famegio,
faghe dar da disnar; e el porco càzzelo in corte, che
stasera po stabilirò quel che doverò
far.[408]
20 fenochio A’
vad.
celio (a Beatrice) Andiane,
mia vita.
beatrice (a Celio) Sì, sì, vieni, mio bene.
arlichino Uhì, uhì, uhì, uhì. (li seguita, insolentandoli)
SCENA XII
Pantalone e
Nane.
pantalone Se pol véder
bestia più cara de quella?
nane Çerto che la me fa stupir, ma la sarìa
megio farla in tante verze.[409]
pantalone No vogio così presto mazzarla.
Oh, me sento pur straco; caro ti, fame un servizio.
nane Comandé sior.
5 pantalone Va’
ti a çena de suso, e porteme
da basso el letto; che me sento çerto
sonno, che no posso star più in pìe.[410]
nane Vago subito, sior.
SCENA XIII
Pantalone.
Pofar Diana, no è gniancora
mo ora che sia de andar a dormir; la paura della mùtria me fa star da basso; e daseno
che no me sento più cuor de andar de suso per adesso, siguro.[411]
SCENA XIV
Pantalone,
Nane che li porta il letto.
nane Se vedessi quella bestia de suso in cusina a scaldarse le zatte,
l’innamora, daseno, gnianca
se el gh’avesse giudizio.[412]
pantalone Tutto me piase, purché no ’l fazza mal.
nane Quel Fenochio,
el xe tanto intento a vardarlo, che el ghe par innamorào.
pantalone Si ti vol che te diga el
vero, el me rende stupor anca a mi; va’ a farghe la vàrdia, e se vien
qualcun a domandarme, se i’ porta bezzi, vienme a desmissiar; ma se i’ ghe ne domandasse, dighe che son fuora
de casa.[413]
5 nane Vago
sior. Bonanotte, siorìa.
pantalone Bonanotte, cagào.[414]
SCENA XV
Pantalone che
spogliandosi si corica a letto; smorzando la lume così dice
L’è pur una bella cosa co se ha fame poder magnar, co se ha se’ poder béver, co se ha sono, come mi, poder
dormir, e quando si ha vogia de andar del
corpo...quasi l’ho ditta, mi. Per dormir el mio
consueto xe prima de çenar,
per no far vegnìr vero in
mi quel proverbio, che chi va in letto senza çena,
tutta la notte se remena. Stasera bisogna che vaga
seconda dell’usanza, za che no çeno perché no ghe n’ho vogia. Prima però de
dormir vogio cantar un poco su l’agere
della «Nina xe instizada con mi, gramo desgrazià.» Ma no, xe megio
de flon; fintanto che me vaga a indormenzando, seguitarò la
canzonetta che cantava ancùo Manteca in bottega,
prima che ghe dasse quel frasco de pene.
«Quando che i
ha magnào
i pensa de
trovar
un qualche bacalào
che no sia da pestar,
se per sorte
i lo trova
i sona de liron.
Flon, flon, marié vui belle,
flon, flon, marié vui don.
Fenìo che i habbù sto ziogo
i se mette a tagiar
con dir in
questo liogo
s’avemo da fermar,
ma presto i
la fenisse
col ziogo de baston.
Flon, flon, marié vui belle,
flon, flon, marié vui don.
Allora la sioretta
co vede alzar
le man
la chiappa la
paletta
che se cusina el pan,
subito i canoncini
i casca a tombolon.
Flon, flon, marié vui belle,
flon, flon, marié vui
don.»[415] (s’addormenta)
SCENA XVI
Arlichino vestito da porco, Pantalone che dorme.
arlichino (a piano) Pover Arlechin,
chi mai te l’avesse dit, ch’arrivand
in casa de Pantalun per abbraciar
la to Oliveta, te avessi da far da porch. El mal è quest: ch’a’ no
so donde me vaga, a’ l’è scur,
ch’a’ no ghe ved negota. (in questo mentre
urta con le mani in alcuni vasi che cadono per terra) Che diavol gh’è qui?[416]
(Pantalone si risveglia al rumore)
pantalone Nane, cazza via sti gatti de bottega. Òe,
bestia![417]
arlichino (a parte) (Per un gat
a’ ’l me stima Pantalun.
Gramo mi se a’ ’l se n’accorze.) (urta in altri vasi che cadono poco doppo
per terra)
pantalone Oh, povero Pantalon! Questi è sorzi che no i pol far altro, i butta le scatole per terra. Ah, bestiaza;
posso ben criar, sbragiar,
che no ’l me sente. (s’alza da letto e battendo l’azzalino
accende il lume, allor Arlichino si nasconde sotto il
letto, e Pantalone si porta a veder il danno patito) Tutto l’ogio de raina per terra, povereto mai mi; vardé qua quel
balsamo de caparozoli tutto spanto, manco mal che l’è
giazzào, che ghe ne poderò sunar un poco. Oh, el malan che ve vegna, bestiaze, a vu e a chi ha vogia de tegnirve in bottega! Vardé, più de tresento scudi de
danno in tutto, tra una cosa e l’altra; chi mai el crederave; ma sorzi no pol esser stài çerto, perché no i’ gh’ha tanta
forza siguro. Sarà megio
che torna a dormir, si no fusse le scanzie rotte; ma no, che i sarave
cascài tutti i vasi per terra.[418] (torna a riposare sopra il letto e smorza
di nuovo il lume)
5 arlichino (uscendo
di casa di Pantalone sotto voce) Cancher,
se a’ no era prest a sconderme, el me la ficava.[419] (di nuovo urta in altri vasi che si rompono)
pantalone Ohmèi, ohimèi, che l’eletuario de seppa xe tutto spanto, seguro![420]
arlichino (a
parte) (Oliveta aiut, dame man, ch’a’ no so dove a’
me sippia!)
pantalone O che le xe imaginazion,
o che me insognio; vaga co
la sa andar, no me vogio levar gnianca
se cascasse tutta la bottega.[421]
(Arlichino gettando per terra tutte le scatole si porta
al letto di Pantalone ed afferrandolo per le fauci lo getta per terra, ed
abbracciati cadono giù della scena)
arlichino Za
ch’a’ no posso aver
Oliveta, ti, razza porca, ti me volevi tagiar quand a’ era nella cassa.
10 pantalone Agiuto. Nane. Beatrice. Oliveta. Fenochio.
Soccorso zente! El porco, el
porco xe in letto, el me
strangola, el me soffega. Agiuto. Agiuto.[422] (precipitano abbracciati dalla scena)
SCENA XVII
Piazza
come di sopra Fenochio, Beatrice, Oliveta, Celio ch’escono dalla casa di Pantalone.
fenochio (sottovoce) Sté çit, çit, za ch’al patron dorme
in bottega, servissim del temp.[423]
celio (abbracciato a Beatrice) Faremo
quanto c’imponi.
oliveta Sono all’oscuro, non so dove mi vadi.
fenochio Vien za, dame man, ti no ti è compatibil se a’ no ti ghe vedi, perché avend con ti la lanterna
te doveravi veder più dei oter;
sta pur çita anca ti.[424]
(Fenochio facendo cenno con un fischio alla casa del
Dottore)
SCENA XVIII
Leandro
abbracciato da Vittoria esce di casa, e li detti.
fenochio Eh,
eh.
leandro Questi deve essere Fenochio,
poiché sono appunto le quatro della notte.[425]
fenochio Fé giust quel cont; andem tutti al casin, ch’a’ v’ho trovad, za a’ gh’è
pur la siura vostra surella
Beatrice e cognat Celii, a
tal effet lori pur.[426]
celio Sete voi, amato cognato?
leandro Per servirvi, o mio caro cugino.[427]
5 vittoria Con
voi pure la signora Beatrice?
beatrice Sì, sì, signora.
fenochio Sbrighémola, venime deter
se a’ volì che la portem fura netta.[428]
celio Partiam dunque al gioir.
vittoria Andiam pure ai contenti.
10 beatrice Oh,
dolce mia vita.
leandro Oh, cor di questo cor,
luce gradita.[429]
SCENA XIX
Arlichino.
Un porch, razza sfondradona. Se a’ no giera quest i me la ficava sigura. Cosa vol dir esser omen accort! Vaga pur al bordel, e
quanti ancor ha vogia del so amor! Ch’ a’ l’è mèi magnar un piat de macheroni senza suspet, che viver co mille spasemi
per una carogna, che l’è giusta così tutte le fomene.
Se veniva el luganegar a’ era conzad co le çeolette mi, segura; l’è qua, a’ ’l corp del bordel.[430]
SCENA
XX
Arlichino, Fenochio che sopragiunge.
fenochio Te
no sii andad al let della
to adorata Oliveta?
arlichino Eh
va’ via, buffon. Ch’a’ credit,
ch’a’ no sappia tut?
fenochio (a
parte) (Çert ch’a’l’ha descovert la fuga.) Co’ sarave mo a dir?
arlichino Che Pantalon me voliva amazar, stimandeme un porch vero e real int’el mustaz.[431]
5 fenochio Per verità, te a’ ghe somegi tant,
ch’anca mi a’ no te saverave
distinguer.[432]
arlichino Mi, co
te ved, a’ ’l me par zust de véder
un asen grande e gros.
fenochio Obligad
della bona memoria che te ha de to pader.[433]
arlichino E
sì, a’ ho ispiritad Pantalun.[434]
fenochio In
che foza?
10 arlichino Son
andad in bottega, stimand
che lì a’ foss el let d’Oliveta; ho rot, al scur, tutto quel ch’attrovava; e po alfin ho abbrazad quel veci biribin, che avendome stimà un diavol a’ ’l gridava alle stelle.[435]
fenochio Te
allor cosa hat fat?
arlichino A’
son fuzid.
fenochio Te
ha fat da omen prudente.
arlichino Sì;
ma a metterme in sto baraz,
no l’è miga azion da paesan onorat.[436]
15 fenochio No
sat, che per amor a’ ’l se
fa de tut?
arlichino Se vada pur a far squartar quanti amor de sta foza ch’a’ se trova, ch’a’ l’è mèi tender a manzà.[437]
fenochio (a
parte) (Desgraziad. A’ te vo’ ben mi insegnar el
mod de trattar.) Mi a’ ho da far una
burla al sior Dottor per parte del me patron, ma çit,
vè.
arlichino Mi
a’ no digh negota.
fenochio Se
ti volessi ciapar sti des
scudi, questa saria la to fortuna.
20 arlichino Diese scud?
fenochio Sigura.
arlichino Za, al Dottor l’è una piatola,
per neguta el se fa vardar deter. A’ l’è tre anni ch’a’ sto con lu e neanche le ho potud cavar negota; a’ ’l sarà mèi che a’ ciappi sti des
scud.[438]
fenochio Che
dit, èt resolt?
arlichino Co
i è des scud, mi a’ faz de tut;
anche el boia, per ti.[439]
25 fenochio Mi
sempre in quest te vorave
servir. Orsù, andem, che a’
no l’è temp de perder; te t’ha da finzer
un orologi.
arlichino Un orologi? Se a’ no gh’ho
i contrapes sufficient![440]
fenochio Te no ha da pensar a contrapesi
de sort; andem subit, che l’orologi è poch lontan.
arlichino Ma
i des scud, quand me i dat’?
fenochio Finid
che t’averà de far el servizî.
30 arlichino Sì,
allura solament. Ma no sarave mèi adess?
fenochio Te
è pur strambe; andem e fem prest.
arlichino Diese scud, orologii, servizii, prest, che sarà la rovina del mond;
per quest, al sangue del burdel,
che a’ vogi vadagnar. A’ vegne.[441]
SCENA XXI
Dottore.
Non omne quod licet est honestum. Lege quod
semper, Digestis De nuptiis. A’ vòi, benché l’amicizia ch’a’ i è tra Pantalun e mié, a’ ’l permetti qualche cosa
de scherz; ma che a’ la
s’avanzi tant, o quest a’ l’è quel, che a’ me despias de sì fatta maniera, che no
avendo riguard immaginabil
alla gravità del me stad, l’abbii
aùd tante ardir de darme
dei cazuoti. Che dirave el mondo tor tutt
quand a’ ’l saisse de sta fatta; a’ i’ perdon, però, ch’ognun uom prudent al dovrebbe far così; poiché odia sunt restringenda, codice Odia De
regulae iuris in 5. Et quia
in odiosis non debet fieri extensio, Lucius Gallus Pandectae
De Liber et possunt. Co a’
consider ch’a’ son stad mi el prim
a offenderl con parole punzent,
allor. Tò, tò. (vedendo Fenochio con altro uomo che conducono Arlichino
finto orologio da mostra quale tiene una campana sopra l’orizonte
del sudetto e con mano elevata percuote la sudetta campana)[442]
SCENA XXII
Dottore, Fenochio,
Arlichino
dottore Che nobil laùr è
quel, Fenochi me car, che ti va menand
per la città?[443]
fenochio Apunt lié desiderava;
questa l’è un piccol contrasegne
del grand affet del siur patrun, che manda a vostra
signoria eccellentissima.
dottore El siur Pantalun,
me amigaz, a mié el destina sì nobil laùr? Oh, a’ no merit tant. Tò.
(li dà due ducati di mancia) L’è ben vira che munera
crede mihi placant hominesque, deosque placatur donis Iuppiter ipse datis.[444]
fenochio Purtropp la vuol lié soprabondar
in cortesie. Comàndela ch’a’
’l fazzi portar in ca’?
5 dottore No,
no, ch’a’ ’l vòi goder
ancor qui un poch in stra’,
e veder l’operaziun, extensione
facti, res melius percipiuntur, quam elocuzione,
codice apostolico De donat. (mentre il Dottore
lo contempla, Arlichino move
la mano che denota le ore e con l’ altra batte le ore)
Vè, vè, Fenochi, l’ha de bisogni d’esser giustad.[445]
fenochio Dal mot del viaz; a’ ’l s’avrà un po’ mos, del rest a’
’l va tant ben, che de più a’
’l no se pol desiderar; e po
se a’ ’l occurresse vergota, quest me compagn a’ ’l ghe
darà una giustadina. (a parte) (Co te vederò accupad, allur sarò content.)[446]
(di nuovo Arlichino
alza la mano e percuote la campana, e con altra scorre per il circolo delle ore)
dottore Za ch’a’ l’è qui l’artefice, a’ ’l sarà mèi che a’ ’l l’accomodi, che fratant a’ farò portar da colazion; sentì
el me om. Artifex industria in sua diligentissimus
esse debet. Liber si merces
25. Paragraphus videlicet Pandectae localiter. Et conducti et ratio est ne decipiantur
liber sed et si II paragraphus I et 2 Pandectae De Instititutiones Auctoritates.[447]
fenochio (all’artefice)
Quel che dis el patrun, via, operé per giustar con più celerità sii possibel.[448]
(l’artefice senza punto parlare prende il
martello per aggiustarlo quando Arlichino dice a
parte a Fenochio)
arlichino (a
parte a Fenochio) Che pensier
ha ’l colù, di’ paesan?
10 fenochio (a parte a Arlichino) Férmet, ch’ a’ no l’è negota de mal.[449]
dottore (battendo alla sua casa) Anzulina,
manda zó quater buzolad e
un fiaschet de prosequi. (verso
l’artefice) A’ ’l vegnirà dei buzolad, via, da valent.[450]
(l’artefice finge di dar con il martello sopra
la testa di Arlichino che la ritira dentro senza
ch’il Dottor se n’avvedi)
arlichino (a
parte) (Fenochi.)
fenochio (a
parte) (Che hat’? In to mallura.)
arlichino (a
parte)(A’
’l me vol accoppar colù.)
15 fenochio (a
parte) (No temer de negota che i ha da esser dies scud.)
arlichino (a parte) (Che i
vada pur al bordel i diese scud, pur ch’a’ scapeli sto pericol.)[451]
dottore Vien za. (ad un giovine che porta li buzoladi
e fiasco di prosequo, ponnendoli
innanti l’orologio) Quand
avrì fenid a’ magnarà sì suppina.
(facendo il Dottore una soppa nel prosequio)[452]
fenochio Non
occur che la s’incommodi, védela siur.
dottore Manch mal. (in questo mentre Arlichino,
vedendo la suppa preparata, si fa fuori con il capo dell’orologio,
prende prima fuori del gotto la suppa stessa, indi
con le mani fa lo medemo in gran fretta) Tò, tò, tò;
l’orologi ha magnà. A’ teme de qualche
assassinii. (di nuovo lo sta osservando) Sì, da fe’ bona, che l’è vira. Ah, guidoni, furfant.
(ponendo mano ad uno stillo, grida) Bricon! Zent, aiut. Soccors.
A’ son tradid. (al rumore esce Pantalone con cinquadea alle mani, Celio, Leandro con spade, Vittoria,
Beatrice con Oliveta) Furb, a’
te conoss, che ti è Arlichin,
me serv. A sta foza finzerte un orologi![453]
SCENA XXIII
Tutti.
pantalone Cos’è? Cos’è?
celio Che v’è di nuovo signor padre?
leandro Questo ferro sì è in vostra difesa, genitor
amato.[454]
fenochio (inginocchiato)
Fermeve siuri, che saverì il tutt.
5 dottore Te
si’ un trist.[455]
pantalone Fenochio, cosa hastu fatto?
fenochio Negota.
arlichino Mazél,
quel furbaz![456]
(avvanzandosi le signore Beatrice e Vittoria)
oliveta Fermatevi signori.
10 beatrice Che
rumor è questo?
vittoria Quali stride feriscono l’etra?[457]
celio (a Beatrice) Non vi sgomentate,
mia vita.
leandro (a Vittoria) Nulla accadé al
vostro genitore, oh mio bene.
dottore Manch espressiun, siur Leander.[458]
15 pantalone No
ve lassé dall’osso, savéu,
sior Celio.[459]
(Fenochio gridando)
fenochio Pietad
s’usi a Fenochi, che a’ ’l
ve raccunterà el success.
dottore Àlzat, ch’a’ te perdon; ma di’ el ver, come la fu
tutta.
fenochio Sapend ch’Arlechin viverà grandement innamurà d’Oliveta, che m’aveva dad
la fede de spusa; mi, per vendicarme
de costù, che la pretendeva, a’
gl’ho mutad le pernise, che
vostra signoria mandava a dunar al siur Pantalun, in una testa de bech.
pantalone Adesso cognosso el
marzo, Dottor.[460]
20 dottore Or
comprende come fo el negozi, Pantalun.
fenochio Ma quest l’è negota; de più l’ho persuas a finzerse un scheleter, disendogh che in sta foza a’ ’l s’averave portad ai abbrazzamenti della so
cara; ma el me fin fo sol, come a’
l’è riuscid, de farlo ben bastonar.
pantalone No ti savevi altra strada che questa, de farme inspiritar?
arlichino Ah, fiol d’un bech!
dottore Abbi flema, che la ho anca mi, vè, Arlichin.[461]
25 fenochio Dopp ancura l’ho vestid da porch, e po infin da orologi, acciocché al siur
Duttur, accorzendosene,
come a’ ’l se n’ha avvedud,
el lo facess copar dal artefese, ch’a tal oget ho condot; ma quel che più
importa, feve innanzi, patruni
belli, za ancù a’ l’è el zorn ch’a’
ho da svelar el tutt, per
me opera, tant el siur Celii, fiol
del siur Duttur, quant el siur
Leander, fiol del siur Pantalun, savend che a’ i’ viveva amant, l’un della siura Beatrice, e el second della
siura Vittoria, i ho fat
intraprender la resoluzion de condur via de ca’ le so
muruse, ma da cavalieri, come a’
i’ è, e parent tutti quater, i s’ha ricovrad in un casin qui vicin.[462]
dottore Dunque Celii è spus
della siura Beatricina?
pantalone Leandro s’ha maridào nella siura Vittoria?
leandro e
celio Sì, genitori adorati.
30 dottore E
el me consens?
pantalone Co che licenza, sier scagaza?[463]
vittoria Da quella legge che disobliga gl’amanti.
beatrice Dall’arbitrio ch’ognuno tiene.
oliveta Dall’amore ch’in essi
ardeva.
35 vittoria Hanno
appreso il sodisfarsi.
beatrice Li fu permesso l’annodarsi.
fenochio (di nuovo inginocchiandosi) Perdon, sior patron.
pantalone Lasseme, Dottor, che el vogio sbudelar.
arlichino Fé pur, siuri, le me
vendette.
40 leandro (denudando
la spada) Opporòmi alla di lui morte.
celio Questo acciaro li preserverà la vita.
dottore Àlzete, ch’a’ no vòi ch’a’ ’l se diga, ma.
pantalone Lévete, che no vogio che el mondo sapia che mi sia più crudel de Neron.[464]
dottore Arlechin, vien zà.
45 arlichino A’
l’hogi mi da amazzar?
dottore No, no, dame la zatta.
arlichino Volìu
ch’a’ batti le lume?[465]
dottore Alter che dire; Oliveta, fatte in zà.
oliveta Oh poverina me.
50 dottore A
confusion de Fenochi, che
t’ha tant perseguità, te
dichiari mugier de Arlechin,
perché ex delicto suo commodum
nemo debet reportare. Liber Auxilium, Pandectae
De Minoribus.[466]
fenochio Pazinzia dirò, come dis el
proverbi, che chi la fa l’aspeta.[467]
pantalone Oh ben, Dottor, ghe l’avemo
giusta cazzada dove che la gh’andava.[468]
arlichino Oliveta
me spusa! Varré, varré! (a Fenochio) Tió, bufon!
oliveta Già ch’il Ciel così destina, io m’aquieto.[469]
55 arlichino Co
mi ti t’ha da quietar, veh, sassina![470]
pantalone Ti Leandro, za che amor t’ha indotto a menar
via la siora Vittoria, prega el
to caro missier che el te
condona, come mi fazo a Celio, so fio.[471]
dottore Oh amur tiranaz!
Nihil est amore vehementius, quam
cohibere est perfectae nam trahit superos,
omniaque vincit amor è tropp potent i
tuo stral; vien za Vittoria, dam la zatta.[472]
vittoria Eccomi a’ vostri ceni.
dottore Siur Leander, feve innanz.
60 leandro Son
qui ad ubbidirla.
dottore Spus e spusa ve dichiar; andé in pas e godive con amur giuvial l’annel nel quarto dit della man
sinistra. Et quia in illo
adess vena, quae ducit ad corpus ut quasi cordibus
sponsi coniunguntur iuxta illud. Aulus
Gellius liber 10, capitulus 10.[473]
leandro Oh me felice!
vittoria Vittoria fortunata!
pantalone Farò anca mi la seconda: Beatrice, mia fia
dolcissima; Celio, zenero mio amatissimo, deve la man
da niovo alla mia presenza, che così finirò i mi’ zorni con più contento de quel ch’averave
fatto se fosse stào senza de ti; vogio
resecar la spiziaria; e vu, sior zenero,
inveçe de darve dotta, ve tiorò in casa, acciò abbié cura
de governarla, e ve darò da magnar e da béver, e sigurandove che doppo la mia
morte, farò no da missier, ma da pare amorosissimo.[474]
65 celio Obligatissimo a tanti favori che lei si degna compartirmi.
dottore A’ no vòi che vu, Pantalon,
a’ me vinçì in cortesia; in
hoc punto ego quoque a’
dichiaro Leander voster fiol,
per me fiol, perché medesimat
ch’a’ ’l farà con Vittoria
me fiola, el farà ita dicam quasi part delle me viscerine.
Benefita tamen debent conferri citra iniuriam et preiuditium alterius, Liber non dubium Pandictae De Legibus; per quest vòi dir se ve contenté. Fenoch, po, sarà spos d’Angelina me serva; ed Arlechin
con Oliveta andrà al servizi della communità.[475]
pantalone Che diavolo diséu?[476]
dottore Ho volud dir del me car Pantalun. Intant, fidelissim amant, andré in ca’, e dié tregua a’ voster suspir;
intré int’el port delle
vostre consolazion, che mi, fratant,
farò le mie con Pantalon.[477]
pantalone Xe alta, disé, la luna? Cosa mai diséu, Dottor caro?[478]
70 dottore A’
digh tut con sincerità d’anim, no mai con fin pervers.
pantalone Godrà chi non dispera.[479]
dottore Giubilerà quel ch’ama.
pantalone E chi sarà costante.
dottore Vivrà per sempre il più fedel amante.
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[1] ho almanco resparmiào
quattro bezzi: ho almeno risparmiato quattro soldi. ♦
scampar onoratamente: trascorrere onoratamente.
[2] Tutte le citazioni latine del Dottore,
deformate secondo il costume della maschera, benché per lo più corrette e
tratte da un corpus di opere giuridiche, sono puro flusso verbale di
erudizione, inserite nel dialogo allo scopo di dimostrare la saccenteria
logorroica del personaggio. providere
futuri nam Seneca ait si
sapiens erit animus tuus tribus temporibus dispensabitur. Praeterita cogitabit, presentia ordinabit, e futura providebit:
provvedere al proprio futuro, infatti dice Seneca che se sarai saggio ti
sarà concesso tre volte il tempo normalmente concesso all’uomo. Si mediti sul
passato, si organizzi il presente, e si provveda al futuro («Seneca videtur concordare Tullio in his tribus dicens: si prudens es, animus tuus tribus temporibus dispensatur», S.
Bonaventura, Opera omnia, tertia pars, sectio 41, edizione 1794, vol. V, p. 169).
[3] Che cade: che accade,
che succede, ma anche cosa serve. ♦ padre: cfr. I.3.12.
♦ i dago a risego maritimo:
li investo in attività marittime; «metterse a risego
o andar a risego, porsi o andar a risico; risicare; arrischiare; avventurare;
essere in avventura o alla ventura, arrischiarsi, giuocar alla sorte» (Boerio s. v. risego).
♦ de posta: avverbio affermativo; «de poste o de posta ed
anche giusto de posta, appunto; giusto; propriamente» (Boerio s. v. posta). ♦ cavriola a rompicolo:
capriola a precipizio, a rompicollo.
[4] Nil mare instabilius quamvis hoc comune sit et per hoc pariter littora maris. Paragraphus I De Rerum divisione: nulla è più
malsicuro del mare sebbene sia cosa conosciuta e allo stesso per lo stesso
motivo modo i lidi del mare. Il Dottore indica un riferimento per la sua citazione:
il Primo paragrafo Sulla divisione. ♦ Nam
otiosi utpote inutilia terrae pondera exilio puniuntur. I apud Authentica questore, “infatti
gli oziosi sono puniti con l’esilio, quanto può l’inutile vastità delle terre”,
anche in questo caso viene indicata la prima parte di un
opera intitolata Authentica
questore.
[5] Iuvenes cito mori possunt, iuvenes diu vivere nequeunt: i giovani possono morire rapidamente, i giovani non sono in grado
di vivere a lungo.
[6] daseno: davvero.
♦ mogia: moia, imprecazione di disappunto
(cfr. Mercante II.8.8: mogia mogia, lassa
che i se destrina lori). ♦ niovo:
nuovo. ♦ casin: piccolo edificio, della
cui destinazione d’uso Pantalone va appunto discorrendo col Dottore. ♦ là
per andar in Galonega: come Calonega (con dissimilazione di l-n) sembra
da intendersi come Canonica, dunque un toponimo: «Canonica (Sottopportico, Corte, Calle, Ramo, Calle, Ponte,
Rio di) a S. Marco. Dalle case ove, col restante del clero addetto alla
Basilica, risiedevano i canonici di S. Marco...» (Tassini s. v. canonica).
♦ mureri: muratori. ♦ i gh’ha cavào un liogo: hanno ricavato una stanza. ♦ inviamento da conzaossi:
impresa da concia ossi; inviamento, «indirizzamento
a qual si voglia negozio o affare» (Boerio
s. v.), conzaossi, «chirurgo
o simile che unisce e riaggiusta le ossa rotte» (Boerio s. v.), si
veda anche Bullo, III.13.5. p. 99. ♦ speziaria
da medesina: farmacia; il termine è
dettagliato con la specificazione di medicina, per distinguerlo da altri
più generici usi della parola, del tipo specier
da confetti, confettiere. ♦ recipi
dei miedeghi: plurale di recipe,
ricetta, prescrizione. ♦ decotini:
decotti, bevande medicinali che si ottengono facendo bollire a lungo in acqua
droghe vegetali. ♦ prior: qui nel senso
del capo dell’arte o della corporazione, evidentemente quella dei medici e dei
farmacisti. ♦ de quel che me va adesso per el
cào: di quello che mi gira ora per la
testa.
[7] speçial, “speziale,
farmacista”; chi vende e appresta erbe medicinali e spezie. ♦ abilité, “abilità”. ♦ sed dat Galenus opes dat
Iustinianus honores, “ma
Galeno dà gli aiuti mentre Giustiniano dà gli onori”: comincia da questo adagio
lo sforzo del Dottore per valorizzare la professione dell’avvocato rispetto a
quella dello speziale.
[8] Graté alla bona
memoria del sior Graziano vostro pare, vale “pescate”,
“attingete”. ♦ che tendesse a bottega, “che mi dedicassi ad aprire
una bottega”. ♦ piasso, “piaciuto”.
[9] mazzuri, “maggiori,
antenati”. ♦ scilicet aromatarius, spetialiter, idest specialiter delegatus, ad redimendam naturam, et salutem corporis. Aromatarius ad corrigendam vocatus naturam, “si pensi allo speziale, specialmente, a ciò è
specialmente incaricato, ad affrancare la natura e la salute del corpo”. ♦
Ego vocatus ad deffendendum
ius; quod unicuique suum distribui, “io sono chiamato alla difesa del diritto;
distribuire a ciascuno il suo”; il Dottore continua a snocciolare il suo sapienziario.
[10] La battuta di Pantalone mostra ch’egli
tenta di prender parola, ma il Dottore lo interrompe, come è d’abitudine nei
dialoghi tra queste maschere, fino al goldoniano Servitore di due padroni,
per cui cfr. ad esempio II.2; una scena analoga si trova anche in Mercante I.1
quando Pantalone cerca di domandare un prestito in denaro al Dottore che trova
mille espedienti per ritardare la formulazione della sgradita domanda.
[11] Scilicet, vel idest specialiter
constitutus ad reprimendum morbos, appunto, “anzi cioè è specialmente formato
per debellare le malattie”. ♦ non est recedendum
a verbis; Libenter non aliter, Pandectae De Legibus tertia capitulus vltimo Et ibi, glosa De Verborum
significatione, “non bisogna allontanarsi dalle
parole; con piacere non altrimenti, Pandetta Sulle leggi, capitolo terzo e
ultimo. E in glossa Sul significato delle parole” (De verborum significatione, opera di Verrio
Flacco di cui rimane un compendio lacunoso in venti libri di Festo Sesto
Pompeo). ♦ cusì [...] nurad, “in questo modo bisogna dare lode a chi la
merita e apprezzare gli uomini onorati”.
[12] Chi ve dise
gobbo, «locuzione famigliare: chi vi dileggia o v’accusa o vi
rimprovera? E vale voi vi lagnate a torto» (Boerio
s. v. gobo); cfr. anche Muazzo, p. 560 s. v. gobbo:
«[...] quando se vede che una persona tol in mala
parte qualcosa che se ghe dise
se zé soliti per via d’interrogazion
usar sta formula de dir “chi ve dise gobbo?”».
[13] Iason in lege quod dictum, Pandectae
De Pactis, quod ratio est
anima legis, “Giasone come si dice nella legge,
Pandetta Sui patti, che la ragione è la legge dell’anima”. ♦ ch’advocatorum officium necessarium est, et laudabile, lege laudabile, C. De Advocatis, et militibus etiam aequiparantur, “che la
funzione degli avvocati è necessaria, e pregevole, e lodata dalla legge, C.
Degli avvocati, e inoltre paragonabile a quella dei soldati”. ♦ per bos tanquam per milites vita, et patrimonia hominum defenduntur, “la vita
e i patrimoni degli uomini vengono difesi tanto dai buoi quanto dai soldati”
(strampalata teoria del Dottore). ♦ sed
sic est quod duo vincula fortius ligant, quam unum, per consequens, “ma
così è ciò che due vincoli legano più saldamente che un vincolo solo”, formula
tipica della retorica giuridica. ♦ in omnibus, in tutto.
[14] La serave bella
... duttural, “sarebbe bella
in buona fede che lo speziale che tutto il giorno va maneggiando unzioni (manizand ontiun),
manipolando medicamenti (manipuland medicament), preparando clisteri (preparand lavativi), pestando erbe, nettando
mortai (netand murtar),
volesse competere con l’avvocato che anzitutto si fa difensore di pupilli (cioè
giovani sottoposti a tutela), trattando cause e formando scritture (sotto il
governo Veneto si chiamavano scritture i documenti presentate dalle parti nelle
cause civili) e che bisogna che nello Studio di Padova o di Bologna riceva la
laurea dottorale”. Il Dottore considera lo speziale un lavoro manuale e per
questo di rango inferiore rispetto alla professione dell’avvocato, arte
liberale.
[15] I.1.19-20 la sproporzione del dialogo, che vede le parole del
Dottore superare di molto quelle di Pantalone, viene sottolineata comicamente
da queste due battute in cui Pantalone chiede di poter parlare e il Dottore gli
risponde sgarbatamente, come se le parti fossero invertite. ♦ sier ciacaron, “signor
chiacchierone”; la forma ciacaron (anziché
ciacieron)
favorisce il gioco di parole per assonanza con la battuta seguente.
[16] La dìselo s’cietta la caca, modo di dire:
“almeno la cacca la dice semplice”, cioè “quando vuol essere chiaro è chiarissimo”.
[17] Aromatari ... ch’a’ i’ s’cioppi, “Erboristi (aromatari) che, contrariamente ai prezzi stabiliti
per legge, cercano di trarre tutto il denaro possibile (i sugan le viscere) ai poveri malati prima che muoiano (prima
ch’a’ i’ s’cioppi)”. Il
Dottore polemizza sul costo dei medicamenti e sulla mancanza di scrupoli degli
speziali che li vendono, magari anche a chi sta per morire.
[18] I avvocati, gniente, Pantalone usa una frase sostantivata, sia
perché tratto tipico del parlato, sia perché costretto qui a condensare le sue
osservazioni, travolto dalle parole del Dottore; egli sostiene che anche gli
avvocati siano senza scrupolo nell’estorcere il denaro a chi è in difficoltà (sanguisughe); nana, espressione di
meraviglia, (cfr. Mercante I.1.39: Nana, che cara bagatela
in cinquecento, cinquanta de stronzaura).
[19] che dighi du sule parole, “che dica due
sole parole”.
[20] ghe la petto, “gliela faccio”, qui vale “lo picchio”,
come esplicitato dalla didascalia (cfr. anche co’
petto man, Bullo II.9.23, p. 88).
[21] salutifer, “salutari”, “che
portano la buona salute alla gente”. ♦ auri cupiditas
insatiabilis, et quantus
amor crescit, tantum pecunia crescit,
“la bramosia per l’ oro è insaziabile, è quanto
cresce l’ amore, tanto cresce il denaro”. ♦ el
mal sì è ....va liberad, “il
male è che il povero malato, invece di togliersi presto dagli affanni guarendo,
gli si accelera il decorso della malattia, in modo che tutti ne siano
liberati”. ♦ i ered po’ ad satisfaciendum medicos,
et aromatarios parati, “inoltre gli eredi sono
preparati a soddisfare (con denaro) i medici e gli speziali”. ♦ Oh dinèr dispers al vent, “oh soldi gettati al vento”: il Dottore, dopo
aver fatto del moralismo sulle sorti del povero infermo condotto a morte invece
che guarito, si preoccupa soltanto dello sperpero dei denari per le cure. ♦
Non è così ... giustizia, “Non è la stessa cosa per l’avvocato il quale,
se anche perdesse una causa per la propria incompetenza (dapocagin),
può ricorrere in appello per il suo cliente, e, riprovando o in pristino (pristin: «voce latina che era usata nel Foro Veneto.
Nelle cause decise alle Quarantie ed ai Collegi, se
la parte appellata rimaneva soccombente, poteva, mediante un atto che dicevasi Costituto di pristino, ricominciar di nuovo la
causa, e far così fino a che fosse pronunziato il giudizio di conferma» (Boerio s. v. pristino) o in
qualche altro modo, ottiene giustizia”.
[22] sanguenazzo d’un dìndio, eufemismo parafonico per sangue di
Dio (con sanguinaccio e dindio, “pollo d’india”, “tacchino”,
cfr. espressioni similari in III.20.32, e Bullo I.3.2, al sangue de
tre lire e do soldi, p. 70, II.9.23, sanguenazzo
da drìo, p. 88). Pantalone perde definitivamente
la pazienza e comincia a picchiare il Dottore; ne scaturisce una rissa, come
descritto dalla didascalia, (si cozzano per “si scontrano, si
picchiano”).
[23] al ponte dell’Erba, è probabile che
qui Arlichino si riferisca a uno dei ponti che a
Venezia erano detti “dei pugni”, perché destinati ai combattimenti tra abitanti
di sestieri confinanti. ♦ i ha abù bon che no so vegnù a prencipi,
“hanno avuto fortuna che non sono arrivato all’inizio”. ♦ a’ voliva ch’ el pistoresin scorlasse
de più la ruzene che el tien sora, alla lettera “volevo che il fornaretto
scuotesse di più la ruggine che tiene sopra”, espressione poco chiara, forse
detto proverbiale; a meno che non si debba intendere pistoresin
per pistolesin, “piccolo coltello”,
cfr. Bullo II.9.23, p. 88.
[24] cagar in coste, “cagare sulle
costole”, oppure in meno truce modo avverbiale «accosto o a costo; a costa; accanto;
allato; a’ fianchi» (Boerio
s. v. costa).
[25] I.3.1-10 Uno dei lazzi più osceni della commedia e del repertorio in
genere, soprattutto per il levarsi le braghe di Arlichino,
per il gioco di parole con necessarii, inteso
da quest’ultimo per cagador, “cesso”,
«luogo da fare i suoi agi» (Boerio s.
v.).
[26] Accostati. No me scotto no: altro qui pro
quo generato dall’idiozia del servo, connesso a ch’ho troppo giazzo, letteralmente “ho troppo freddo”, ma vale “sono
in bolletta” (cfr. Mercante II.2.12 per l’uso metaforico
dell’espressione: Giazzo, giazzo; no gh’è da far ben, no).
Tutta la scena continua con altri giochi di questo tipo: si veda per esempio pichi-impichi della battuta 24.
[27] Flemma, “pazienza”,
(cfr. Bullo II.16.10, p. 92, e Mercante I.8.20). ♦ no me
parlé sulle gambe, forse nello stesso senso di sotto
gamba, per “prendere in giro, farsi beffe, ingannare”. ♦ rosso in
viso, per la vergogna o per la collera.
[28] Sior Selano, espressione di
scherno; il selano è il sedano, deformazione
per idiotismo di Celio. ♦ boia, “carnefice”; per esteso
“furfante”, usato in espressioni volgari d’ingiuria o di spregio (Arlichino interpreta che picchi come “che impicchi”:
uno dei compiti del boia dunque).
[29] Quant’umor, “che irruenza”,
“che modi da persona intrattabile”, cfr. I.3.8. Segue l’intonazione di una
delle strampalate canzonette del personaggio, cfr. Arlichino
anche in Mercante, ad esempio in I.10.8 e 10. ♦ Caldo, çebibo, e pignoletto, sembrano indicare gli ingredienti
del vin brulé: vino dolce e pinoli caldi
fumanti.
[30] un servitor del mio padron, la mancata
designazione che poi prelude a variazioni topiche nel genere fino a Il
servitore di due padroni goldoniano (ad esempio in I.2.17). Queste battute,
insieme alla breve scena che segue, sono dominate dall’equivoco che l’idiozia
del servo crea anche con Beatrice, alla quale egli non ha nulla da dire
personalmente.
[31] a’ no vòi negota, “non voglio
niente”, cfr. Bullo III.10.3, p. 98, «negotta zé l’istesso che gnente, ma qua a
Venezia l’ò sentia doperar
solamente da Truffaldin in commedia [...]» (Muazzo, p.
737).
[32] I.4.3-4 lo scambio di battute finisce con un rispettivo mandarsi a
quel paese.
[33] qualche mincion, imprecazione,
vale “sarei uno sciocco a restare”, a prender le sassate.
[34] le avem da spartir, si riferisce alle eventuali sassate da dividere in due.
[35] pet, “petto”; nella
descrizione delle bellezze di Beatrice, Arlichino
passa in men che non si dica dal romantico al concreto, facendo infuriare
ulteriormente la donna.
[36] ve fùmela, “siete arrabbiata”, “fumate dalla rabbia” (cfr. Boerio s. v. fumar).
[37] cerimonios, “cerimonioso”,
“galante”.
[38] tafanari, “posteriore” (Boerio s. v. tafanario); Muazzo, p. 1028, ci dà una serie di sinonimi:
«tafanario, culo, dadrio, martin; tavarnelle,
roane, persutti».
[39] Cucù, cucù, voce di gioco,
di scherzo, come maramèo: Arlichino si fa beffe di Celio rifiutando di tornare da
Beatrice. La didascalia che segue introduce la modalità di rappresentazione
della scena seguente: la tipica situazione del padrone che suggerisce le parole
al servo rivolgendosi all’amata e di quest’ultimo che le storpia, è
assurdamente ribaltata, proprio in quanto topica, col servo suggeritore; per
questo repertorio cfr. Gli amori sfortunati di Panatalone
e Le scioccherie di Gradellino.
[40] butiro, “burro”.
[41] gargato, “fauci,
gola” (cfr. Mercante I.13.37 e III.3.16).
[42] procelloso, “agitato
dalla tempesta”.
[43] Ad ispaziarvi il
cul con la padella, assai basso, “a
farvi spazio nel culo con una padella” da spaziar, «termine degli
stampatori, spazieggiatura, porre gli spazii ai loro
luoghi nel comporre» (Boerio s.
v.).
[44] mi deludi, “mi
inganni”.
[45] Leandro, Beatrice
rifiuta inizialmente il corteggiamento di Celio, perché si dichiara innamorata
di Leandro; non può che trattarsi di una svista autoriale che utilizza lo
stesso nome, quello del fratello di Beatrice (indicato nell’elenco dei
personaggi come Leandro, figlio di Pantalone, amante di Vittoria), per
indicare un personaggio amoroso che viene qui soltanto nominato una
volta: infatti, già in II.V. Beatrice cambierà atteggiamento nei confronti di
Celio, seguendo il suggerimento del servo Fenochio.
♦ ne fu inchinata, “fu riverita”.
[46] L’ha det de sì alla prima, ironico per “è andata bene al primo colpo”. ♦ bas, “bacio”.
[47] Aspetta, aspetta Berta, che el filo crescerà, modo di dire
per non concedersi un’infruttuosa attesa; Berta è nome proverbiale associato
all’arte di filare, confronta anche no xe più el tempo che Berta filava, qui nel significato di
“campa cavallo che l’erba cresce”.
[48] L’ha passad i trentaun, modo proverbiale per “superare la misura”
(forse reca all’origine, del tutto lessicalizzato, il riferimento ai 31 della Zaffetta, cioè i 31 violentatori della
prostituta infamata in un noto libello di Pietro Aretino. cfr. comunque nel Boerio s. v. trentuno: «avere
un trentauno, avere gran paura»).
[49] savogiardi col çebibo, forse modo proverbiale, “biscotti
savoiardi con vino di zibibbo”; battuta demenziale di Arlichino
per indicare un’azione da amoroso disperato, per il quale è assai più
tipico uno stato d’inappetenza. ♦ el
me sier barba Simon, Arlichino
consola stupidamente Celio, Simon rimane probabilmente un modo di dire
per “stupido, sciocco”, cfr. Bullo II.18.1, p. 93, «Simon detto per
aggettivo a uomo, vale scimunito; balordo. Simona dicesi alla femmina nello
stesso significato» (Boerio s.
v.); e III.22.13, p. 101.
[50] La scena scandita da veloci moduli di botta e risposta secondo i cliché
della commedia all’improvviso si chiude con i due dittici in versi: la pointe enfatica di Beatrice e quella burlesca di Arlichino. ♦ sbrìndola,, «sbrindola,
sgualdrinella, puttana giovane» (Boerio),
come il concobrina che segue.
[51] Sive mat, “siete matto”.
[52] scagazza, “merdosa” nel
senso di “arrogante e presuntuosa” (cfr. Boerio
s. v. scagazzon).
[53] andé a pagar la lavandara per i manechini che la
v’ha lavà, “andate a pagare la lavandaia per i
polsini delle camicie che vi ha lavato”; manecin
«quella tela lina finissima, increspata, nel
quale sogliono terminare le maniche della camicia, e che pende sui polsi delle
mani per ornamento» (Boerio s.
v. manegheto).
[54] Salvia salvia, burlesco per
“salvi salvi”.
[55] baban, “babbeo”.
♦ che subit la cades
co’ è i osei in la red, “che
cascasse subito come fanno gli uccelli nella trappola”. ♦ omeni il vol esser, “bisogna
esser uomini”. ♦ coreze che ammorbi,
“scoregge che ammorbino”, qui il gioco sta nell’assonanza con carezze, e
nel fatto che il commento che ammorbi potrebbe esser riferito all’intero
elenco di gesti amorevoli, che Arlichino qui vuole
denigrare. ♦ a’ voi farm in pop, “voglio
andare in poppa”, nel senso figurato di mettersi in posizione di guida come
nell’espressione montar in pope (cfr. Boerio
s. v.); ma si veda
anche Muazzo,
p. 713, per l’uso dell’espressione: «zé l’istesso che
farse coraggio e animarse a far qualch’impresa.
Adesso che me s’à presentà l’occasion
me metto in poppe come che va». ♦ quater, “quattro”. ♦ la
porta della so grazia, allusivo, osceno. ♦ nel gabinet
del so merit, osceno. ♦ guerre de
Fiandra, Arlichino pensa a un possibile
“combattimento” con Oliveta, riferendosi al confronto amoroso da disputarsi tra
le lenzuola; con fiandra, o intima di fiandra, infatti, si
intende la tela di qualità usata per la biancheria più personale, cfr. Muazzo, p. 1039: «tela canevina,
tela costanza, tela baston, tela carnissa,
tela paggiarina, tela fina, tela de renzo, tela d’Olanda soprafina e stimada da tutte le nazion come zé anca la intima de Fiandra, che se fodera i stramazzi e i
merli de Fiandra»; e ancora (p. 723 s. v. nenziol
o linziol):«l’intima de Fiandra, oltre che la zé d’una tessitura bellissima e d’una finezza
incomparabile, la gà in ella sta proprietà, che per
quanto ghe pissé su e che
la stapazzé no la
se dissipa gnente e la ve fa si che vivé»; di nuovo, p. 575:
«intima de stramazzo zé la fodra
dei medesimi. Mia mare conserva in casa un’intima de Fiandra che credo che la
gabbi la povertà debotto d’un mezzo secolo e per
quanto nualtri fantolini gabbiemo
pissà su e voltada e revoltada a far stramazzi come che se fa nelle povere case
tanto e tanto, la conserva el so lustro e poco l’à
perso e sì la zé una qualità de robba
che la par, se pol dir, una merladura»;
l’espressione guerre de Fiandra, oltre all’uso metaforico allusivo già
descritto, si riferisce con ogni probabilità agli eventi che diedero poi
origine alla Guerra degli ottant’anni, in particolare all’istituzione
delle province dei Paesi Bassi, ad opera dell’imperatore Carlo V. Questa guerra
è descritta nell’opera Aurelius Vrsus accademicus insensatus De bello Belgico. Ad Alexandrum
Farnesium serenissimum Parmæ, & Placentiæ principem, stampata da Andrea Bresciano nel 1586.
Aurelio Orsi è segnalato da Muazzo, a p. 757, come: «poeta latin che
tratta delle guerre de Fiandra».
[56] babuino, per “sciocco,
idiota”; il Muazzo, p. 107, riporta l’accrescitivo
spregiativo babuazzo: «el
zé un babuazzo: o che nol capisce o che el fa finta de
no capir».
[57] strampalato elogio dell’amata imbastito da
Arlichino, dopo una significativa aggiustata del
cappellino, in una serie di tentativi, che egli commenta da sé, montando una
scena demenziale in versi, che si potrebbe presumere accompagnata da musica, se
si considera quanto detto precedentemente in I.III.30 e la chiusa toca de pifare fa
Nicolò (per la ricorrenza del nome Nicolò associato a motivi
musicali cfr. Bullo III.5.20, p. 96, e Mercante I.10.8: Tocca
de pifaro e barba Nicolò). ♦ sì come, sembra
che voglia cominciare con “sei come...”; ma si ferma subito, correggendosi e
giudicando il suo incipit poco convincente: e no bestia, no. ♦
Secondo tentativo: imperciocché, Arlichino prova ad inserire una parola difficile,
probabilmente ricercando un effetto di sorpresa; ma nemmeno questa soluzione
sembra convincerlo: ne manch, “tanto meno”,
“nemmeno”. ♦ Terzo tentativo: Il sole; questa volta
l’approvazione viene immediata e spontanea dal generoso auto-commento: oh
bel prencipii. Scelto un inizio convincente Arlichino comincia il suo discorso di corteggiamento: il
sole delle tue ganasse, “il sole delle tue gote”.
♦ le stelle delle tue téteme, “le
stelle del tuo petto”, probabilmente storpiatura di tette, in relazione
al verbo tetar, “tettare”, “succhiare”;
la tecnica di corteggiamento del servo, già vista nella scena precedente in cui
Beatrice va in collera, è di assai scarsa portata. ♦ la luna del to
col, “la luna del tuo collo”. ♦ insoma,
tante belle cose, il cimento poetico viene ridotto ad un allusivo-osceno sottinteso.
[58] cagna assassina, cfr. Mercante
III.8.46-48. ♦ a’ no magno, a’ no bevo, a’
no dormo, a’ no vago del corp, lo stile inconfondibile di Arlichino
non può sollevarsi dalla bassa concretezza, nemmeno durante il corteggiamento.
[59] Cazarghe, “spingere
dentro”, osceno. ♦ almanch, “almeno”. ♦
a to marzo despet, “tuo malgrado”, cfr. cagna,
cagnazza, cagnonazza, serie di suffissi in
crescendo, per lo più caratteristica della parlata di Pantalone, Bullo
II.11.1, fiazaza, fiazazonaza,
p. 88.
[60] toca de pifare fa Nicolò, cfr.
I.10.3 per la ricorrenza della melodia, qui sottolineata anche dalla
ripetizione dei no in rima, nella battuta precedente.
[61] strupiarti, “guastarti”,
“sciuparti”, “annoiarti”; cfr. Muazzo, p.
989: «l’è struppio d’un brazzo
e d’un pie. Co’ tanti complimenti el
me struppia. Co’l parla el struppia il discorso. El m’à,
l’amigo, struppià l’interesse».
[62] le seguenti le battute mettono in
contrasto l’aperto rifiuto di Oliveta, (mai sarà Oliveta di quel viso di
porco), alle possibilità che Arlichino si
dà nella sua interpretazione (ades la dis de sì, l’essere bel come mi, la mor
per mi).
[63] Qual Diana cangeròti nel più brutto
Atteone, i riferimenti mitologici più
triti e correnti (qui il mito di Atteone trasformato in cervo da Diana per
averla spiata nella sua nudità) sono parodiati nell’assunzione da parte della
servetta: ovviamente ad Arlichino spetterà una sorte
meno truce, senza sbranamento da parte dei cani, ed è lecito pensare con la
sola cornificazione. Da cui la replica arguta di Arlichino: alla moda, “secondo il costume moderno”.
[64] De spos voler farme un bel castrone, in relazione a
quanto detto sopra il riferimento al castrone è da intendersi perché
“cornuto”; D’Onghia annota castron con “imbecille” (III, 98).
[65] Le prime due battute di Fenochio sono rivolte all’interno della scena, come
specificato nella didascalia della battuta 3, per fingere il dialogo con un altro
personaggio, come accadrà anche più avanti (III.4.1). ♦ sie ore la cala e sie
ore la cresse, proverbiale per la marea veneziana
e traslato per le variazione d’umore o di fortuna.
[66] co chi grìdet, “con chi gridi”. ♦ casalin, come casariol,
“venditore di formaggio”.
[67] ch’a’ son om de mantegnirve ’l, “sono un uomo che mantiene la parola, che non scherza”.
[68] barilla, propriamente
il barile, ma in quest’espressione significa “dar di volta”, “impazzare” (cfr. Mercante
I.10.6: che no la ghe saltasse la barila).
[69] gazet, per
“gazzette” (cfr. Bullo II.4.1, p. 82: «Gazzeta
(o da due soldi). Moneta coniata nel 1538, essendo doge Andrea Gritti. Aveva
impresso un leone alato in piedi, e la immagine della Giustizia seduta sopra
altri due leoni, col motto Jiustitiam diligite. Il suo titolo a peggio era di carati 452 per
marca» (Mutinelli). ♦ sippi, “ci siano”. ♦ oter, “altri”.
[70] andar al bordel, “andar in
malora”. ♦ frascarie, “sciocchezze”,
cfr. Bullo II.6.16, p. 85.
[71] a’ doverave esser finid afat d’appetit, “dovrei essere del tutto morto di fame”.
[72] da manzà, “da mangiare”.
[73] caghèt, “cagasotto”, insulto (cfr. II.9.51), qui
riferito a Cupido: altrove definito anche baron
(Mercante III.10.1: Questi xe i pizzegài / da quel baron d’Amor).
♦ tre / quatordes, “tre /
quattordici”: Arlichino dice che non è affamato di
cibo, ma di amore, e dice che anzi, da quando è innamorato non mangia più
volentieri (cfr. anche I.10.5); eppure aumenta abbondantemente il numero di
panini che dichiara di mangiare al giorno.
[74] l’è curiosa a chi la sa tutta, modo proverbiale che sottolinea l’assurdità della precedente
asserzione Arlichino.
[75] coresina, o aggettivo
come femminile di coresin, anche per
“coraggiosa”, “ardimentosa”, nel senso che è risoluta; o come sostantivo
“bambinetto, cuoricino” detto per vezzo (per entrambi cfr. Boerio s. v. coresin).
[76] sgraziad, “disgraziato”. ♦ Aver ardir de inamorars
in una ch’ha da esser me mugier, a quanto pare Fenochio ha delle mire su Oliveta. ♦ medema, “medesima”. ♦ besogna
far a me mod, e star attent
a quel ch’a’ te dirò, comincia da qui,
promettendogli l’amore di Oliveta, la volontà di Fenochio
di prendersi gioco di Arlichino, per vendicarsi delle
sue prentensioni su Oliveta, facendogli fare cose strampalate, allo
scopo di farlo bastonare.
[77] Vot ch’a’ vaghi a cazzarme in un cagador, modo proverbiale, “vuoi che vada a
infilarmi dentro a un cesso”.
[78] te da l’anim de finzert
un porch, “hai il coraggio di fingerti un maiale”.
[79] I.11.16-17 Scambio di battute a partire dal fraintendimento di Arlichino di finzerte per
frizerte. ♦ catti,
“trovi”. ♦ frizi, “friggi”, “cucini”.
[80] al natural, “in modo naturale, verosimile”. ♦ scola, “scuola”.
[81] el ciel me ne sguizeri, “il cielo me ne liberi”,
da sguizzar, “sgusciare, filarsela con un movimento repentino”, «si dice
anche del pesce che guizza» (Boerio
s. v. che dà anche l’equivalenza con sghinzar).
[82] va’ pur a far i fat to, “vai pure a farti i fatti tuoi”, preso da Arlichino,
come già nella scena d’esordio (I.3.1-10), come forma eufemistica: a cagar
ti me mandi?
[83] che ’l malan t’accoia, “che ti venga il malanno” (letteralmente “che ti colga”).
[84] guidon,
“furfante”. Fenochio espone il suo piano di vendetta
nei confronti di Arlichino: fargli prender qualche
bastonata.
[85] che nove da Pallaz, “che notizie
nuove vi sono”; palazzo è luogo del tribunale (cfr. Mercante
I.1.24).
[86] Tutto quel potrà procedere, per altri esempi
di costruzione col che sottinteso (cfr. Mercante I.10.1: Aggiustate,
aggiustate quelle scanzie, scoppatele
e fate quello bisogna, se vi piace). ♦ liè,
“lei”. ♦ metter in essecuzion, “metter
in pratica”.
[87] Anche questa scena finisce con un distico
in rima baciata.
[88] Cucù, cfr. I.7.7. ♦
ho mèi considerà el negozi, “ho considerato meglio l’affare”. ♦ Va’
al bordel, Fenochi,
“va’ in malora Fenochio”. ♦ sott l’us della porta, “sotto l’uscio della porta”, per
spiare. ♦ mariola, “poco di buono”, “cattiva” (Prati, 226).
[89] mincion, “minchione,
sciocco”.
[90] sta’ in ton, “stai su”,
“datti un tono” (cfr. Mercante III.2.1). ♦ za, se sa, che mal
che l’è el mal de mare, “mal di matrice”, per una
donna, dolori mestruali (cfr. più avanti II.16.7 e Mercante II.10.5).
[91] ruvinaza,
“finimondo”, inteso per “grosso rumore”, (cfr. Mercante III.4.14).
[92] bisogna che ancùo ti abbi mangnào un toco de galateo, Pantalone si stupisce dell’inconsueta gentilezza di modi di Arlichino; “un pezzo di galateo”, un pezzo di un
breve trattato che Giovanni Della Casa compose tra il 1551 e il 1554, per
raccogliervi compendiosamente le principali regole da osservare e i difetti da
evitare nel trattare col prossimo; il complesso delle regole del buon
comportamento sociale.
[93] la risposta di Arlichino
non lascia dubbi sulla sua buona educazione. ♦ bagatella, “inezia,
cosa da nulla”.
[94] Resto ben tenùo al so affetto, “sono riconoscente per la sua generosità”.
[95] dusento, “duecento”. ♦ par, “paio”. ♦ strach,
“stanco”. ♦ sentar, “sedere”.
[96] Arlichino ha detto di
esser stanco per provare a farsi dare la mancia; cosa che cerca di ottenere ancora
velatamente nella battuta 10; per essere più esplicito nella battuta 12.
[97] La, la, la, la, la, la, lalela, per le cantilene di Arlichino
cfr. più avanti III.4.15 e Mercante I.10.8 e 10.
[98] calzette, qui non
nel senso comune non di brache ma di “calzerotto” (Boerio registra «calza, vestimento della gamba- calzetta,
calza di materia nobile, come seta e simili») ma, come si deduce anche nella
successiva battuta 26, dove appare solette, indica le calze che «erano “solate”,
provviste cioè di una suola in cuoio così che si potesse fare a meno di
usare le scarpe, che si calzavano più per eleganza che per necessità» (Vitali s. v.) (cfr. ancora Boerio s. v. soletta).
♦ imprestid, “in prestito”, con forma
agglutinata. ♦ buona man, “mancia”.
[99] Gramarcé, “molte
grazie” (cfr. Mercante II.7.6: ve n’amarzé).
[100] Gh’è altro de
rotto,
Pantalone prevede che Arlichino avanzerà un’altra
richiesta, un’altra scusa per aver del denaro.
[101] l’è longa la musica, inteso per la
lunga serie di richieste di Arlichino; cfr. Muazzo, p. 620: «“la musica va longa. Quando
la finimio? Oh la finirò mi, se non la vollé fenir vu!”». ♦ per
sbrigarte, tiò, “per
lasciarti andare, prendi”. ♦ cotolla,
“sottana” (cfr. di seguito III.11.16; Bullo II.15.8, p. 92; Mercante
III.10.1).
[102] desfortunad, “sfortunato”. ♦
solette, “la parte della calza che va sotto al piede”, sopra indicate
come calzette (cfr. I.17.16). ♦ formài,
“formaggio”. ♦ colaziù, “colazione”,
in una storpiatura tipica della parlata del servo.
[103] Pantalone non cede ad altre richieste (come espresso già nella
battuta 25: no ’l ghe ne cava più altri, daseno); e consiglia ad Arlichino
di far la strada più lunga e di evitare di passare davanti alla bottega del casalin. ♦ Stretto de Garipoli, “stretto di Gallipoli” «(Calle stretta di)
ai Frari. Chiamasi anche Stretto di Gallipoli per
la strettissima sua imboccatura. Gallipoli, secondo il Gallicciolli, è nome formato da ca’ (casa) e Lipoli, famiglia che qui teneva domicilio. Altri
vogliono che questo luogo sia stato così appellato per ischerzo
dal popolo veneziano, il quale nei tempi di gran commercio era solito d’udir
nominare assai spesso lo stretto di Gallipoli, o dei Dardanelli, per cui
andavano le nostre navi a spargere le ricche merci dell’Asia a Costantinopoli e
nel Mar Nero» (Tassini); è la
stessa strada menzionata nell’anonima Venixiana,
su cui cfr. la nota di Padoan
II.5 «La calle di Gallipoli, o Stretta di Garipoli,
detta così dall’imboccatura strettissima, dà sul campo dei Frari. Nel
Cinquecento lì erano appunto ‘magazeni’ e ‘inviamenti sive statii’ di malvasia e acquavite (‘magazeno’
dicevasi la cantina di vini e di olii, dove si svolgeva
vendita al minuto, talvolta anche in cambio di roba data in pegno: donde il
detto “vin da pegni”»; sull’uso comune dell’espressione cfr. anche Muazzo, p. 433: «el
me par el stretto de Gallippoli
quella callesella cusì
stretta».
[104] tor el capellin, “prendere il
cappello”, gettare il cappello a qualcuno significa sfidarlo a duello, ma anche
offendere (cfr. Bullo II.4.9, p. 82).
[105] ti me spuzzi da furbo, “mi sai di
furbo”, per l’uso si confronti anche l’espressione spuzzar da morto in Bullo
III.15.1, p. 99. ♦ vero accetto, “una buona accoglienza” (cfr. Mercante
II.12.8: fateli accetto).
[106] penacchi, “ornamenti”.
[107] de quelle da Zara, se inteso
come toponimo, nella Dalmazia croata, rinvia alla carne di castrato (castradina), come vivanda tipica caratterizzante gli
Schiavoni.
[108] sier piegoraza, “codardo, vile”, cfr. Bullo
I.11.20, p. 81.
[109] te la vogio ficar
inte’l stomego, per ficarghela, maniera
bassa e famigliare per “ingannare”, cfr. Boerio
s. v. ficar (forma evidentemente
attenuativa per «fichèvela in tel...oh che quasi ti me l’ha fatta dir», ivi
registrato). ♦ tagiar i garetoli, “tagliar le gambe”, cfr. Bullo II.6.7,
p. 84. ♦ Nana, nana, come sopra, I.1.23.
[110] perché ’l me documenta el sapient che consist, “perché mi documenti in cosa consiste il sapiente”; probabilmente il
Dottore vorrebbe riprendere la conversazione della prima scena.
[111] utile est amicis
vicaria amicorum opera uti
ad negotia illa gerenda, quibus aut ipsi nolunt aut non possunt preesse, “agli amici è
utile l’opera sostitutiva degli amici, in modo che possano gestire quegli
affari, in cui o i primi non vogliono o non possono occuparsene.”
[112] galateo, cfr.
I.17.3.
[113] ascioma, per
assioma; la pronuncia del nesso -cs- per -ss- è tratto tipico del bolognese. ♦ alienans nobilior est
acquirente eo quia beatius est dare, quam accipere. Titulus: pandectae De
Rebus eorum qui sub tutela et cura sunt, “è più nobile essere l’acquirente dei beni
altrui, per questo motivo: poiché è più gratificante dare che ricevere. Titolo:
raccolta degli averi di quelli che sono sotto tutela e cura” (probabilmente
preso da un compendio di opere di Giustiniano).
[114] fatta sii l’ora de pransar, “quando arriverà l’ora di pranzo”.
[115] la gh’assisterà col fogh, “ne controllerà la morbidezza con la cottura (col fuoco)”.
[116] Riva del Carbon, a San Luca:
«[...] Sulla Riva del Carbon tuttora si fa spaccio di questo
combustibile. Esiste una legge del Magistrato delle Acque, 5 aprile 1537, con
cui comandavasi che le zattere cariche di carbone non
possino fermarsi dinanzi le bocche de Rivi, e due
solamente per tessera possino trattenersi per vender
alla Riva del Carbon. Sul margine della medesima eranvi
eziandio alcune botteghe di legname, ove vendevasi
carbone, due delle quali appartenevano ai Bembo, ed una ai Donà» (Tassini); qui nel senso di “nemmeno
tutto il carbone della riva bruciando potrà farle venir tenere”.
[117] Se l’è frol frol, frollo
«zé un aggettivo che denota stagionà
e maturà, ma che s’unisce sempre col pollame, massime
col salvadego. Ò mangà do gallinazze che giera frolle» (Muazzo p. 523); e anche: «bisogna lassarlo
infrollir quel pollame. La giera frolla quella gallinazza, quella pernise, quel cottorno» (ivi p. 601). Si dice di carne che ha raggiunto
il punto giusto di frollatura, ovvero il periodo, da uno a tre giorni,
di stagionatura della carne macellata che si pratica soprattutto per la
selvaggina.
[118] che magné da
struzzo e che caghé da diavol, secondo il
luogo proverbiale dello struzzo che mangia chiodi.
[119] squarzadonad, aggettivo
usato per indicare la qualità della carne di volatili, cfr. squarzadonazze
(Bullo I.11.13, p. 80).
[120] Vostra nona nina nana in cufolon, variazione
dell’espressione per cui cfr. Bullo I.1.4, p.67. ♦ cufolon, “coccolone, coccoloni”, avverbio:
“seduta sulle calcagne”, cioè nella posizione del
defecare; espressione registrata da Boerio
s. v. nona, «ghe xe
mia nona in cuzzolon, ribobolo triviale, modo di
rispondere con disprezzo, per dire non v’è nulla; non ho veduto o trovato
nulla». ♦ parente de Cornelio Tacito, storico latino dell’età postaugustea; secondo arguta interpretatio
nominis, con cornuto e silenzioso. ♦
sier mandria, “bestia”; cfr. I.12.23.
[121] Agrippa, console
romano, noto per la sua famosa orazione in cui paragona lo stato al corpo
dell’uomo. ♦ Et sicut olim
cum amicitiae renuntiabantur, denuntiabantur inimicitiae. Svetonius In Vita Claudius Valerius Maximus liber Augustus Capitulus I., “e così come una volta venivano disdette
amicizie, allo stesso tempo venivano annunciate inimicizie. Svetonio, Sulla
vita di Claudio Valerio Massimo, Libro di
Augusto, Capitolo I” (Il riferimento qui è alle Vite dei Cesari di
Svetonio, però con riferimenti errati). ♦ per semper,
“per sempre”. ♦ inimich, “nemico”.
[122] a un par miè, “a un mio pari”, “a un uomo della mia sorta”.
[123] a’ ’l l’ho ficada, “gliel’ho fatta”. ♦ l’arma de
so pader, “lo stemma di suo padre”, cioè il castrone,
o le corna.
[124] no se puol far de manch, “non se ne può fare a meno”.
[125] te casch fors
per quest i budèi, “stai forse per questo perdendo le budella”, arguzia che presume il
senso letterale di ferita d’amore.
[126] Digh, “dico”.
[127] L’è proprio de tutte le fomene l’aver appresso de lor i usei
vivi,
qui pro quo osceno; per la variante fomene,
cfr. Bullo III.10.3, p. 98.
[128] fugendo, “mettendo in fuga”.
[129] gnaù, gnaù, gnaù: Arlichino riproduce il verso per indicare l’animale, cfr.
l’espressione le scarselle fa el verso del gatto in
Bullo I.1.4, p. 67. ♦ cazarla
in cò, “cacciarla in capo”, in senso triviale,
come ficar.
[130] La battuta di Celio termina col il classico distico in rima, già commentato per altri
luoghi; qui si aggiunge il lazzo del furto della pernice da parte del padrone,
che vuole consolarsi delle pene amorose con la selvaggina.
[131] giazzo, “poveraccio”,
cfr. più avanti I.3.11-12, e Mercante II.2.12; sembra che Arlichino ammetta il furto per fame, spiegato all’interno
di battuta con: cósinete ’l sta sera, se no
te gh’ha alter. ♦ fiol
d’ una brutta lova, “figlio di una brutta lupa”,
espressione spregiativa, vale “figlio di puttana”, cfr. Mercante
I.11.10.
[132] si ripete la stessa scena che vede Arlichino
perdere anche la seconda pernice per mano di Leandro, anch’egli innamorato disperato
che parla in versi.
[133] arsure, “poveracci,
squattrinati”, cfr. Bullo III.5.30, fiori arsure, p. 97. ♦ paçinzia, “pazienza”. ♦ aveva fat desegn, “avevo
progettato”. ♦ in sta foza, “in questo
modo”.
[134] la rima di Arlecchino con la sua degradazione
oscena chiude la sequenza dei lamenti enfatici per distici dei due amorosi: Chi
magna al legn a’ caga la
radice, “chi mangia il legno caga la radice”, proverbiale sul tipo di “chi
mangia candele caca gli stoppini”.
[135] l’è vegnud a
ca’, “è
tornato a casa”, intendendo che la pernice è ritornata in mano sua, in seguito
alla restituzione di Celio. ♦ zentilomen,
“gentiluomo”, qui in senso antifrastico. ♦ baratada
int’un cocal, “mutata
(barattata) in un gabbiano”. ♦ cert, cert, cert, la chiusa con ripetizione,
considerando che si tratta di Arlichino, fa pensare a
un possibile inizio di canzoncina, peraltro interrotta bruscamente
dall’ingresso di Leandro.
[136] come sopra si presenta una parte in versi
siglata dal commento del servo: Ovi sarà i frutti del to orto, “saranno
uova a crescere nel tuo orto”.
[137] qualche oter matt, “qualche altro matto”. ♦ senza ch’a’ le daghe a Oliveta che no se deletta...de
sti osei, “senza che gliele dia a Oliveta, che
non si diverte con questa sorta di uccelli”: Arlichino,
esprimendosi con un’allusione pesantemente oscena, decide infine di non far
dono delle pernici ad Oliveta, visto il cattivo trattamento che la donna gli ha
riservato disprezzando il suo corteggiamento. ♦ pezzade,
“pedate, calci” (cfr. Mercante III.5.32: a mi una pezzada?). ♦ per el
grande amor anderave a cagar alla seletta,
“per il grande amore andrei a cagar al cesso”; la seleta
è una «seggetta piccola, che ha il forame nel fondo per uso di andare del corpo
i bambini» (Boerio s. v.).
[138] no se n’ha avedud che sippi stad mi: non se n’è accorto che sia stato
io. ♦ baratad el
cest in oter: scambiato
il cesto con un altro. ♦ con testa de becch:
con testa di caprone; qui per la testa di castrone. ♦ ma se a’ ’l sairò: probabilmente
acciufferò, da assalire/assaliare (Du Cange). ♦ i è stad cason: sono stati
la cagione. ♦ né ho più anem d’andargh innanz: e non ho più coraggio (animo) di comparirle
davanti.
[139] le ho pellade,
le ho cazade in spied, e
l’ho lassad al fogh: le ho
spiumate, le ho infilzate sullo spiedo, e le ho lasciate sul fuoco. ♦ fra
tant che le se cusina:
intanto che si cucinano. ♦ Oh barba Antonia: espressione di
meraviglia per essere stato colto sul fatto, forse repertorio delle canzonette
di Arlichino che egli usa per un repentino cambio di
discorso; cfr. I.10.9 e Bullo III.5.20, p. 96.
[140] le vorrì certo po anca manzà: le
vorrete certamente anche poi mangiare; è Fenochio a
terminare il discorso di Arlichino da dove era stato
interrotto, scoprendolo.
[141] massimament tant fidad: riferito al paesano sicuramente in buona fede.
[142] la testa de to pare: il
castrone è detto anche ‘becco’, ‘cornuto’; qui usato per insultare il padre di Fenochio (cfr. battuta II.1.1).
[143] Del to, in mallora: di tuo
(padre), (vai in) malora; la concisa e diretta risposta di Fenochio all’insulto di Arlichino.
[144] Za a’ l’è tutt un: la risposta di Arlichino sembra ammettere che l’insulto possa essere
attribuito equamente per entrambi i padri.
[145] za l’è pan che se rend: espressione
equivalente a ‘rendere pan per focaccia’, per alludere ad una prossima vendetta
(si veda già II.2.12).
[146] quand a’ vot che vaga in ca’ de Oliveta: quando
vuoi che vada a casa di Oliveta.
[147] canzar pensier: cambiare idea. ♦ fazezi: “facessi” ♦ a’
vói che te finzi un scheletre: voglio che tu ti finga uno scheletro.
♦ l’ha fat’ speziaria:
ha messo su una spezieria; la frase indica dunque che, durante lo
svolgimento del primo atto, Pantalone ha messo in pratica la volontà
manifestata nella prima scena e la bottega è già stata avviata.
[148] maschera della Mort:
di
grande interesse il cenno all’abito da scheletro fatto per il carnevale.
♦ ti te permetterà sul mustaz: ti
metterai bene sul muso (per mustaz cfr.
I.5.17). ♦ giustad: aggiustato,
nel senso di ‘su misura’.
[149] dalle palpebre dei miei meati, perifrasi in
stile aulico per ‘la parte più profonda dell’ anima’;
in anatomia le palpebre sono «orifizi che mettono in comunicazione un organo con
l’esterno» (cfr. Gdli
s. v. palpebre) e i meati sono ‘visceri’, ‘budelle’, per cui cfr. Belloni
2003, nota [21], p. 208; l’espressione vale ‘luce dei miei occhi’.
[150] Persemol: prezzemolo;
epiteto canzonatorio e gioco di parole col nome di Fenochio,
che infatti lo rivendica nella battuta seguente.
[151] nomer: nome.
[152] Continua la burla di Arlichino che finge
di essersi sbagliato veramente.
[153] sul brazal: cfr.
l’espressione vegnir sul brazal, «venire a taglio o in taglio; balzar la palla
in mano, venire l’occasione opportuna» (cfr. Boerio
s. v. brazal); significa capitare al
momento opportuno. ♦ Desmestegarse
con Fenochi: prendere confidenza con Fenochio, da desmestego
(per cui cfr. Boerio s. v.);
«desmestegar zé l’istesso
che familiarizzarse con una persona e usar con quella
con piena libertà. L’è un can desmestego, no gabbié paura» (cfr. Muazzo, p. 404). ♦ nas:
naso; il taglio del naso era una pena riservata a chi era condannato per falsa
testimonianza, originaria della legislazione carolingia (Gdli s. v. naso). ♦ picàndol:
«cosa che ciondola pendendo» (cfr. Boerio
s. v.); propriamente una cosa che sta a penzoloni, qui nel
significato anatomico, osceno.
[154] negota, vergota, coppia tipica del cliché bergamasco
(per cui cfr. ancora Bullo III.10.3, p. 98). Fenochio,
che non si esime dal praticare le rime in distico, sa come trattare con Celio
per poterne guadagnare qualche denaro.
[155] ura ch’innanzi a’ passi sta zurnada, “prima che
finisca la giornata”.
[156] nei negozi d’amur,
“negli
affari di cuore”.
[157] mort spant, “morto disteso”, “appassionato”, “pazzo
d’amore”.
[158] innanz sott, “innanzi,
dunque, sotto”: la battuta di Fenochio, che incita il
giovane a farsi avanti nel corteggiamento, dà inizio al topico duetto in versi
degli innamorati, per cui cfr. Bullo I.9.1, p. 78, e III.3.3-9, p. 94;
in questo caso ancora più meccanico considerato che Beatrice cambia
repentinamente idea riguardo all’amore di Celio, seguendo il suggerimento del
servo.
[159] si sbandischi, “si allontani”, forma di congiuntivo
arcaico.
[160] piante, “le piante dei
piedi”, per sineddoche i piedi, aulico; (cfr. Bullo III.1.1, p. 93, e
III.9.1, p. 98). ♦ a Cerere, Cerere antica dea della fecondità e
del raccolto (vedi di bionda messe il seno).
[161] prosteso, “completamente
disteso”.
[162] sugerimi, “mi suggerì”.
[163] II.5.20-21 dopo il duetto in versi anche la chiusa classica in
distico, per cui cfr. I.13.7, I.23.1, I.27.1 e III.23.71-75; Bullo
I.9.13, p. 79, e III.3.12, p. 51).
[164] Tesifone, ritorna un
riferimento alla mitologia classica: Tisifone, dea
della vendetta, una delle tre Erinni, creature mostruose nate dal sangue di
Urano; Celio si mostra felice ma anche un po’ sorpreso per il cambiamento di
disposizione d’animo di Beatrice nei suoi confronti.
[165] la palma, la foglia di
palma in segno di giubilo. ♦ arriverò al Campidoglio, “trionferò”:
salire al Campidoglio significa “ottenere il trionfo”. ♦ germano,
letteralmente è “cugino” (cfr. Boerio s.
v. zermano); ma qui è usato per estensione
fratello, uso che peraltro è registrato in Gdli: «germano, che è nato dallo stesso padre e dalla stessa
madre». Anche Muazzo, p. 776, in un lungo elenco di tipi di
parentela famigliare sembra differenziare i vocaboli «pare, mare, fradei, sorelle, zermana, cuzin, muggier, mario».
[166] lettura de’ foglietti, sono i “fogli
di novità”, “le notizie” (cfr. Mercante I.9.21: Andiamo un poco,
signor Leandro, a legger i foglietti; vediamo se v’è alcuna novità di guerra).
[167] Speziaria aperta, nel senso che il sollevamento del prospetto apre la visione
dell’interno della spezieria (cfr. Bullo III.3.12did, p. 94, e
III.7.did, p. 97; Mercante I.6.1 e I.12.1). Da questa scena
comincia la parte più rilevante e più strettamente legata al genere della
commedia veneziana del Pantalon spezier.
Un’osservazione è da fare per l’apparato scenografico di questi testi che aiuta
ad identificare e a fissare una fase teatrale “di passaggio”. Le indicazioni
scenografiche presentano tratti di tradizione della commedia dell’Arte e dei
suoi scenari, cioè, essenzialmente, fondali che raffigurano il classico “esterno
con case”, generico e adattabile a tutte le rappresentazioni. Ma si trovano
anche indicazioni di cambi di scena che spostano la visuale verso l’interno,
adattando l’ambientazione all’intreccio. Tali cambi sono indicati
esclusivamente nelle didascalie e non lasciano indizi circa la realizzazione
tecnica. Tuttavia alcune ipotesi suggeriscono la possibile presenza di un
prospetto, cioè un divisorio tra scena e platea, che possa venire alzato o
abbassato all’occorrenza. Si può osservare
la variazione di scena attraverso un breve riepilogo delle indicazioni evinte
dalle didascalie: esterno con case (I.1-II.7), interno, spezieria (II.8-II.12),
interno, casa di Pantalone (II.10-13), esterno con case (III.1-III.8), interno,
spezieria giorno (III.9-III.13) e notte (III.14-16), esterno con case
(III.17-III.23). I cambi tra esterno e interno sono numerosi ed è presumibile
un’alternanza realizzata attraverso la discesa e la salita del prospetto, vale
a dire il primo fondale scenografico in rapporto al pubblico. Inoltre si
consideri che spesso, in corrispondenza del cambio si assiste ad un breve
monologo di uno dei personaggi, con funzione di riepilogo, di indicazione di
spostamento e di determinazione di passaggio temporale. Il che non fa che
confermare la possibilità di qualche azione tecnica, cui il monologo rende servizio
di riempimento o copertura.
[168] Iò, iò, iò, oh, oh, oh, oh. Eh, eh,
eh, eh, è duro, oh, oh, oh, oh, ritmica con cui i facchini di bottega
accompagnano l’azione di pestare le spezie nei mortai: ci si trova nel mezzo
del lavoro. La figura dello speziale che si presenta pestando nel mortaio è
ripresa da Carlo Goldoni nelle scene iniziali de Il ventaglio, in cui ci
appare intento alla stessa azione lo speziale Timoteo.
[169] cazzéghela de colla, modo di dire,
“caricate, lavorate bene e con forza” (cfr. Mercante II.10.1: ho
fatto pulito e l’ho cazzada de cola). ♦ no
stago de bando a assassinar el
pan, “non sto qui a sciupare il pane”, nel senso di “anch’io mi do ben da
fare”. Con questa battuta si presenta Nane, diminutivo di Giovanni, il giovane
lavoratore e fidato, a cui si contrappone il lavativo Manteca, connotato dal
nome parlante, “pomata”.
[170] Manteca: il
personaggio ha un nome parlante di origine spagnola che lo colloca a puntino
nell’ambito farmaceutico in quanto significa “pomata”(Boerio s. v.) ♦ misciando el tamiso, “mescolando”,
“scuotendo il setaccio”. Il personaggio intona qui l’aria del flon, che caratterizza il Pantalone mercante
fallito; l’agiare del flon, adattata da
Manteca, come già era personalizzata quella cantata da Pantalone (cfr. Mercante
III.10.1), ha come soggetto ricorrente il dispendio di denari dei giovani alla
moda, meloncini, “sciocchini”, “stupidotti”. ♦
co la sesta xe, “all’ora sesta dopo il
tramonto”. ♦ moscardini: «spezie de bussolà»
(Muazzo p. 666); “biscotti”, «mostacciuolo, pezzetto di pasta con zucchero, spezie ed
altro» (cfr. Boerio s. v. mustazzoni). ♦ adosso
el so paron, “danno
addosso al loro padrone, sparlano del loro padrone”. ♦ Flon flon marié vui belle, flon flon marié
vui don: le improvvisazioni e gli adattamenti
riguardano le strofe, il ritornello rimane lo stesso.
[171] l’avéu mo tiolta suso de posta la baronada, viscere mie, locuzione
proverbiale, “l’avete presa su apposta la bricconata”; forse riferito alla
corrispondenza del suo comportamento con la strofa appena cantata (per viscere
come espressione affettuosa cfr. Mercante I.8.8: care vissere). ♦ scopellotto,
“sberla”, colpo che si da a mano aperta
sulla nuca. ♦ Missia ben finché le
passa tutte, “mescola bene finché non è tutto setacciato”.
[172] cos’è qua, sto dar? Avémio
forsi magnào el çebibo in baretta (cfr. Bullo
III.5.29, p. 96): modo di dire a chi si prende troppa confidenza (in questo
caso anche in seguito alla sberla). ♦ no vogio
che ti ti fazzi el bel umor, cfr. Bullo I.3.6, p. 71. ♦ dame
da magnar e poi dame del naso (in culo): «dar del naso s’intende volerse intrigar nei fatti dei altri» (Muazzo p. 722), anche nella versione: «tettar de nazo, tettar intel culo o intel cesto zé l’istesso che
infastidir e dar noia alle persone che diressimo anca
parlando più schiettamente seccar i cogioni» (ivi p.
1065); «dar de naso a uno, fiutare uno, detto figurato vale seccare, importunare,
molestar uno disturbarlo» (Boerio s.
v. naso); «dar di naso in culo a qualcuno: intromettersi nelle sue
faccende, andarvi a curiosare; recare molestia, fastidio» (Gdli s.v naso) (per cui cfr. Mercante
II.13.35: quando il tuo naso non c’impedisse); qui forse da considerare
anche la sfumatura (Gdli s. v. naso) di “attaccare
qualcuno”, “criticarlo aspramente”. ♦ ti è ti, quanto son mi, vè, in bottega, Manteca non riconosce a Nane alcuna
superiorità.
[173] caro carogna, “brutta bestia”,
Boerio annota il traslato particolare
di «persona intrattabile, difficile, sguaiata» (s. v. carogna). ♦
sino te dago sua sorella: un’altra sberla. ♦
te par mo che questo sia el
modo de tamisar, “ti sembra che sia questo il
modo di setacciare”. ♦ Tre anni che ti è qua, la battuta è
presumibilmente da intendere in senso ironico, dal momento che la bottega è appena
aperta.
[174] no vogio che ti me fazi
el paron, cfr. la battuta 5. ♦ se ti vien da Martellago, paese in
provincia di Venezia; Zocco, paese in provincia di Vicenza; entrambi i
toponimi sono usati per un gioco di parole che allude alla poca intelligenza di
Nane: la prima perché contiene la parola martello e la seconda per pezzo
di legno (per toponimi usati in significato offensivo cfr. B I.11.8, p.
80). Evidentemente Manteca, che è un ragazzino più giovane (ha quattordici anni
come indicato in battuta 15), pronunciando questi improperi scoppia in lacrime;
da cui la battuta consolatoria di Nane che lo invita a giocare mezzo soldo alla
morra per porre fine al litigio (cfr. femo paze della battuta successiva).
[175] zioghemo alla mora
una meza, “giochiamoci una mezza alla morra”: la
morra è un «gioco popolare antichissimo, nel corso del quale due giocatori,
posti l’uno di fronte all’altro, protendono simultaneamente una o più dita
della mano, o anche nessuna, gridando un numero inferiore a 11 e tentando di
indovinare la quantità complessiva delle dita distese» (Gdli s. v.); la posta in gioco è la misura che indica un
tipo di boccale o una certa quantità di vino, come piccola, in Bullo
II.5.5, p. 83.
[176] No scano minga
mi i squellotti (cfr. Mercante
II.1.1: el paronzin
ha fenìo de toccar el pols al scudelot),
espressione per dire “io non rubo i soldi al padrone”; supposizione data dal
fatto che evidentemente Manteca non ne ha da puntare.
[177] Riprende il ritmo dei facchini che pestano
spezie.
[178] feve in poppe, significa
“datevi da fare”, (cfr. I.10.1). ♦ Sì ben mi scano
i squelotti, e ti t’impari la sera co to pare a tastar
el polso ai caenazzi, “se
io rubo i soldi, tu alla sera con tuo padre impari a mettere alla prova i
catenacci”, cioè a scassinare le porte. ♦ cor
mio vèrzene, (cfr. Bullo II.6.3, p. 84)
ironico per “caro fanciullino”.
[179] Mogia, cfr. II.8.8.
♦ a nu sta meza che ho una se’ che s’cioppo, “a noi
questo bicchiere che ho una sete che mi sento morire”.
[180] Schizza gazarada, detto anche
affettuosamente per “faccia”, indica il brutto muso schiacciato e con il naso
in dentro, da chizza, “cagna”; gazarada è usato per eufemismo nel significato di buzarada. ♦ bergamasco de Pellada, probabilmente un altro toponimo parlante: per bergamasco,
cfr Muazzo (p.
126 s. v. Bergamo), «[...] da dove per lo più zé
quei personaggi redicoli che vien rappresentai sulle
scene veneziane, che nel nostro dialetto vien giamai Truffaldin Batoggio e Brighella Gambon, con tutti quei che ghe
someggia in fatti e in parole a sti buffoni [...]. Nella satira che zé stada fatta a tutte le città
principali della terra ferma, a Bergamo g’à toccà “Bergamaschi fa cogioni”»;
per pelar, “pelare”, “rubare”, cfr. Mercante I.4.23; connesso
anche alla battuta successiva di Manteca ti è baro in sto mestier, “nel gioco sei un imbroglione”.
[181] taso, “taccio”. ♦
frasca, “giovane di poco giudizio”, cfr. Mercante I.12.12. ♦
tióghene do, a andar ai sie:
Nane contratta per due “mani” di vantaggio,
rispetto alle quattro richieste Manteca; si accorderanno finalmente su tre,
nelle due battute successive: o tre, o niente e Farò a to muodo.
[182] II.8.13-21 Manteca in quanto più giovane (putello)
chiede il vantaggio di quattro su sei “mani” di morra.
[183] crivelli, sinonimo di tamisi,
per “setacci”.
[184] II.8.22-25 il gioco ha finalmente luogo: i giocatori dicono a un tempo
il numero delle dita, e Nane si aggiudica la prima partita.
[185] Pantalone vestito da speziale, si riporta la descrizione de Lo Speziale, proveniente dal Codice
Gardenigo (sec. XVIII -Muuseo
Correr - Venezia; qui tratto da It): «Il carico del
Speziale non è di poca importanza, poichè dev’essere istruito
assai bene nella Lingua latina, per poter aver intelligenza della gelosa sua
Arte, intendere compitamente quanto viene da Medici ordinato, e non incorrere
in errore alcuno. È similmente necessario, che abbj esquisita cognizione de semplici, perche
non sono tutti d’una natura; ma certi caldi, o freddi, altri secchi, ed umidi.
Pernicioso veleno a questi Operarj, sono i mali
costumi, cioè il giuoco, il vino, ed il tempo perduto, non che la incuria
degl’Infermi. Chi non ha economia, non può fare doverose provisioni,
perche con pochi denari non si comprano Droghe buone.
Egli nel vestire dev’essere netto, civile, e ben all’ordine, onde non senza
cagione in Venezia altre volte andava in questa guisa, e sembrava atto a
servire ogni gran Principe. L’officio di Esso principalmente è leggere, e
raccogliere, comporre, e fabbricare Medicamenti di tutte quelle cose, impartite
dall’onnipotenza Divina, senza la quale è impossibile la conservazione
dell’umana specie. L’Abito de’ Speziali di medicina era a guisa di quello, che
portavano gli Fanti dell’Avogaria;
così che già trenta anni in circa fù l’ultimo a farsi
vedere Nicolò Coradi all’Insegna del Lupo a S.S.
Filippo, e Giacomo; ma con le Mule da camera. Questi operarj,
che prestano rimedij per l’altruj
Sanità, se non hanno in tempo alcuno contratta malatia,
confesseranno d’esser stati gravemente più d’una uolta
mal conzij per far certe preparazioni».
[186] fiazzi, fiazzazonazzi cornùi, “brutti
giovinastri cornuti”, dispregiativo di fioi
(cfr. Bullo II.11.1, p. 88).
[187] II.9.2-3 Nane e Manteca si incolpano a vicenda. ♦ l’è lu che l’ha volesto che zioga, “è lui che ha voluto farmi giocare”. ♦
el perdeva tempo a trar sora el capello, “perdeva il tempo a tirare (nel senso del
gioco della morra)”, sora el capello, per
sottolineare la casualità del gioco, come quella dell’estrazione dei bussolotti
d’oro dalle urne, dette cappelli, per l’elezione dei membri del Maggior
Consiglio del Governo Veneto (cfr. Boerio
s. v. lezion). ♦ sora dosso, “all’improvviso”, per sorprenderlo.
[188] sier mandriazza, “bestiaccia”, cfr. I.12.23. ♦ tocco
de asenazzo, “pezzo d’ asino”, “pezzo di
stupido”. ♦ ghe insegné,
Pantalone indovina che sia stato Nane a indurre il più giovane al gioco. ♦
Furàtola: presso S. Apollinare, «chiamavansi, e chiamansi tuttora furatole
alcune bottegucce simili a quelle dei pizzicagnoli, ove vendesi pesce fritto ed
altri camangiari, ad uso della poveraglia. Deriva il vocabolo furatola o da foro, essendo tali
bottegucce altrettanti piccoli fori, o stanzini, a pian terreno; o dal
barbarico furabola, che secondo il Ducange, equivale a tenebrae,
essendo le medesime oscure ed annerite dal fumo; o finalmente da furari (rubare) per le frodi, o rubarie, che vi si commettevano, punite in antico con
multa, e perdita d’esercizio» (Tassini s.
v. furatola); per Muazzo, p. 523, «zé giamà
quel logo che zé taccà al
ponte della Pagia e alle Prezon,
dove vien venduo vin, trippe e pennini e altra robba da magnar e che se giama
anca la Canevetta e chi lo gà
in affitto tocca dei bezzi assae e sbessola continuamente e me vien dito che l’è soggetto al
Dose, mentre lu tira l’affitto»; caneva,
sta per “cantina, osteria” (cfr. Mutinelli
s. v.). ♦ Mondo niovo, a Santa
Maria Formosa: «[...] scorgiamo invece nella Descrizione della contrada di S.
Maria Formosa pel 1740 che nella Calle del Mondo Novo esisteva il Bastion del Mondo Novo, condotto da Mattio
e fratelli Colletti, detti Quaresima, i quali pagavano pigione a varii comproprietarii. E si legge
nella Mariegola dei Luganegheri
(manoscritta presso il Civico Museo) che fino dal 1590 un Bortolo Scagiante teneva a S. Maria Formosa un magazen chiamato el
Mondo Novo. Ora è probabile che dall’insegna di questo magazzino, o spaccio
di vino, abbiano derivato il nome le vicine località» (Tassini s. v. Santa Maria Formosa); Zorzi (nel paragrafo intitolato Le
“Furatole”) specifica che «nelle furatole si dava da mangiare senza dar da
bere» e aggiunge «Il già lodato botteghino al piè del ponte di San Antonio, a
Santa Fosca, è una furatola, ed altre
ve n’è a S. Bartolomeo, accanto alla Trattoria “da Nane alla corte dell’Orso”,
a S. Lio accanto all’antica “Osteria del Mondo Novo” e in altre parti della
città, sempre vicino a qualche osteria, perché, dopo il pasto, il cliente possa
trovar pronto, alla distanza di pochi passi, un buon bicchiere di vino»;
evidentemente due luoghi allora famosi per il gioco.
[189] tante musiche, fe’, “tante storie fate” (perché giochiamo). ♦
garanghello, propriamente “merenda
abbondante”, per cui cfr. Bullo II.15.2, p. 91; qui probabilmente si
intende “mangiare alle spalle del padrone”, “rubare”.
[190] Manteca riprende a lavorare
accompagnandosi di nuovo con l’aria del flon
(e forse prendendo spunto dall’ultima battuta di Nane parla di “merenda”). ♦
costrào, “tavola della barca”, vedi Mercante
III.12.30. bon da zapar, “abbastanza solido
per pestarlo”, zappare nel senso di “calcare”, “calpestare”; segue
infatti nei versi che chiudono la strofa una descrizione dell’atto di remare: Onzendo, “ungendo”. ziron,
“la parte rotonda del remo, il manico”, “ungendo quindi il remo può esser
maneggiato più facilmente”.
[191] siestu benedìo cola stanga che se pesa la farina, metaforico:
“siate benedetto con un pezzo di legno”; qui comunque in tono affettuoso.
[192] poca vogia de ténder a bottega, “poca voglia di
seguire la bottega”, cioè di lavorare.
[193] Manteca si difende dicendo che non c’è
niente di male nell’accompagnare il lavoro con il canto; a cavàrghelo ve vogio, “vi
sfido a tirarne fuori” (di male).
[194] Pantalone replica divertito: in realtà gli
piace il canto di Manteca. raìse è
espressione affettuosa (cfr. Mercante III.2.1: vòi
chiamar la mia raìse).
[195] Co no fago el
debito mio, deme; ma quando che
laoro e stago alegramente, no me crié, perché
allora mi mo vago zozo de
ton, “quando
non faccio il mio dovere picchiatemi; ma quando lavoro e sono allegro, non
sgridatemi, perché altrimenti divento triste”.
[196] più megio, forma
colloquiale per “meglio”.
[197] Chi te dise gobbo, cfr I.1.15.
[198] Manteca ricomincia a cantare, ma nella foga, o nella distrazione, fa
cadere per terra il setaccio con il composto che stava lavorando. ♦ Fusina,
zona portuale di Venezia.
[199] zozo a tombolon, “e giù di corsa”, andar a tombolon è un’espressione avverbiale che significa
“andare a precipizio”; cfr. Mercante III.10.1.
[200] quella polvere de garòfoli, “polvere di garofoli aromatici”, frutti di un albero esotico, la cui
raccolta e trattamento per uso farmaceutico è descritto in Capello lfc (p.
203). Comincia da questa battuta una serie di divertenti scambi per la quale
gli ingredienti descritti da Pantalone come preziosi e delicati, vengono
contrappuntati da Manteca da una serie di elementi bassi e dozzinali.
[201] terra de palùo secada, “terra di palude seccata”, “fango secco e sbriciolato”.
[202] ti me cogiòngari, per cogiòmbari,
eufemismo per “coglionare”: “mi minchioni”, “ti fai beffe di me”; cfr. Bullo
II.14.3, congiobaré, p. 91. ♦ A
trattar ben co ste frasce se avanza de queste, “si
ricavano di questi oltraggi trattando bene i giovani stupidi”. ♦ farghene bona una, “se gliene si fa passare
una”; Manteca e Nane hanno già rovesciato i tamisi una volta, quando
Pantalone li ha sorpresi a giocare, all’inizio della scena.
[203] un poco de sier Zuanne dalla Casa, “un po’ di
educazione”: Giovanni della Casa è l’autore del Galateo (cfr. I.17.3 e
I.19.4).
[204] El mandolato xe fenìo, “è finito il torrone”, mandolato
qui è usato come appellativo di scherno, (cfr. Bullo I.3.2, è fenìo el mandolato,
p. 70 e I.3.8, p. 71; Mercante II.5.19). ♦ sier
màmera, “brutto muso, faccia da stupido”, (cfr. Bullo
I.2.5, sier muso de màmera,
p. 69). ♦ limon dal lago, limone
che viene dal lago; con ogni probabilità si intende il lago di Garda. ♦ ti
el metti in lambico,
“lo metti in alambicco, lo distilli”. ♦ sior Troilo barbier, figura forse reale, qui chiamata a fare colore
locale; oltre che a dare un’aura realistica alla spezieria, attraverso il cenno
ai clienti.
[205] zucca marina, una zucca da
orti lagunari; la didascalia, presentando il referente reale, mostra che
Manteca in realtà chiama gli oggetti col loro vero nome.
[206] Bonissime zucche ... per i porchi, “zucche buone per i porci” (onnivori per
antonomasia), vale “di pessima qualità”.
[207] Mi credo che ti tocchi çerto
delle ancore ... nuàr, locuzione
proverbiale: “credo che tu sia come le ancore, che tanto più stanno in acqua
meno imparano a nuotare”.
[208] come che el se opunia, “come si oppone, risponde”.
[209] riose damaschin, ingrediente fondamentale della
profumazione antica, nonché ingrediente della «Theriaca
magna d’Andromaco, secondo Gelaeno»,
nella cui ricetta vengono citate le «foglie di rose rosse» in (Capello lfc p.
152). Nane porta due verze,
evidentemente di tutt’altro peso rispetto alle tre once (oncia: la dodicesima
parte della libbra) annunciate da Pantalone e chiede a proposito se desideri
anche la bilancia per pesarle.
[210] stagera, “stadera”; un
tipo di bilancia.
[211] civiera, indica la
barella, strumento agricolo (cfr. Bullo I.5.18, p. 73); qui evidentemente
ad indicare la dozzinalità del prodotto trasportato in grosse quantità.
[212] e co sguarde che
le innamora, “e dal colore vermiglio che innamora”; da sguardo,
(cfr. Bullo II.7.1, sguardolina, p.
86).
[213] Che ti ha bon tàser, daseno, “che faresti meglio a tacere,
davvero”. Si tratta evidentemente davvero di zucche e verze visto che
Pantalone, come nella didascalia di battuta, le taglia con l’accetta (manera); si spiega anche così perché i
facchini facciano tanta fatica a pestare nel mortaio: sono assai grossolani gli
ingredienti che compongono le ricette carnevalesche e truffaldine della
spezieria di Pantalone.
[214] pestelle menùe,
“pestatele in modo che diventino minute”, “minuziosamente”.
[215] che putria, forse per “che puzza”; cfr. Muazzo, p.
827: «putir zé l’istesso che spuzzar» qui riferito al
cattivo odore delle verze; la parola ricorda anche “putrida”, “putridume”, come
se Manteca esprimesse un giudizio sul lavoro della spezieria.
[216] spòrzeme quella
scatola, “sporgimi, allungami quella
scatola”. ♦ zenzero de palùo, “zenzero”;
in realtà (come da didascalia) si tratta di caraguoli,
«conchiglie marine univalvi» (Boerio s.
v.), si tratta di molluschi
molto comuni: «Non vi è punto della città di Venezia ove non si senta gridare: Che
tondi e grossi! I go caldi!» (cfr. Ninni
s. v. caragol tondo).
[217] da magnar col’ago, il caraguolo si mangia effettivamente estraendolo dal guscio
con un ago o uno stuzzicadenti.
[218] el me stermina
la robba, “fa sterminio
della mia roba”.
[219] èi boni, “sono buoni”, forma interrogativa.
[220] chi starave saldo? Gnanca
Gioppo, Giobbe,
personaggio biblico noto per la pazienza con cui sopportò le sue tribolazioni:
la pazienza per antonomasia.
[221] tiò zoso do lire de quei pistacchi, “prendi (tira
giù) due libbre di pistacchi”; (con l’uso del dimostrativo quei si può
supporre che Pantaloni indichi a Nane qual è la scatola contenente i pistacchi,
e cioè che scelga cosa chiamare pistacchi, dal momento che gli
ingredienti si rivelano come di consueto un’altra cosa...).
[222] revegnùi, “rinvenuti, rammolliti”.
[223] un soldo la quarta le zìzole,
richiamo
da venditore di giuggiole: ancora una volta Manteca svela di che cosa si
tratta; quarta, la quarta parte di uno staio: «unità di misura di
capacità per aridi (e, in particolare per cereali), in uso in Italia
anteriormente all’introduzione del sistema metrico decimale con valori diversi da luogo a luogo ([...] a Venezia corrispondeva a l 83,3)»
(cfr. Gdli s. v. staio).
[224] No ti la vuol fenir
ancùo, “non la vuoi far finita oggi”.
[225] faressi megio l’erbariol, “fareste meglio il fruttivendolo”; in effetti per il momento l’unico
ingrediente da spezieria nominato da Pantalone è la polvere di garofoli (II.9.16); il resto sono per lo più normali spezie
da cucina, frutta e verdura.
[226] caro cagào, “caro bambino”, triviale ma
affettuoso. ♦ ti me l’ha debotto fatta vegnir su, “mi hai fatto quasi perdere la pazienza”
(cfr. vegnir su, saltar la barila, Mercante I.10.6). ♦ nose
d’India, “noce moscata”, descritta accuratamente in Capello lfc (p. 192), veniva usata soprattutto per spremerne
un olio che era base di alcuni medicamenti. ♦ infusion,
“infusione”.
[227] nose feltrine, la provincia di Feltre è il luogo di
principale provenienza delle noci del Veneto; contrabbandate per preziose noci
moscate; il fatto che Manteca venga avanti mangiandone alcune può far supporre
che siano già sgusciate, anche se Boerio
(s. v. nosa) ricorda in
particolare che le feltrine sono «noci che
facilmente si rompono con le mani».
[228] Manteca imita la voce del venditore anche per le noci.
[229] Indie nuove: “America”.
[230] Cola carretta de quel che sta in Calle dei
Fuseri, mentre Pantalone sostiene che le noci
vengono addirittura dalle Americhe, Manteca dice che al massimo possono aver
fatto un viaggio sul carro del fruttivendolo che ha bottega in Calle dei Fuseri, a San Luca: calle così chiamata perché «vi
stanziavano i fabbricatori di fusi» (Tassini).
[231] a ténderte, “a starti
dietro”, “a badarti”.
[232] fé sto recipe, “fate questa ricetta”. ♦ voléu le vipere: la carne di vipera era
l’elemento caratterizzante la composizione della «Theriaca
magna d’Andromaco, secondo Gelaeno»,
nella cui ricetta vengono citati «Trocisci di vipera»
(Capello lfc p.
152 e p. 165). Le vipere si
scopriranno essere delle anguille (bisatti).
[233] Manteca, canzonando Pantalone, chiede
provvedere alla mancanza di cibo della mamma e della nonna (le zuna sta sera, “digiunano”) e del padre (che non è vegnùo gnanca a disnar, “ha saltato anche il pranzo”), con un paio di anguille.
[234] Monçelese, Monselice, località
collinare del padovano, evidentemente rinomata per le vipere (cfr. nota
successiva).
[235] Falé el paese, daseno, “veramente
sbagliate il nome del paese”. ♦ da Comacchio, la zona delle valli
di Comacchio, famosissima per le anguille.
[236] bisogna che al vin de colù ghe fé tirar el
colo, quest’ espressione detta del vino vale
“allungarlo”, “diluirlo con acqua”; Nane la usa nel senso di impartire una
punizione.
[237] guidon, “furfante”, cfr. I.12.1.
[238] grignando, “facendo
grugni”, “sberleffi”; Manteca si prende gioco del padrone e di Nane, dopo
essere riuscito a scappare con due bisatti.
[239] Il ragazzo aggiunge agli sberleffi una filastrocca ingiuriosa d’uso
colloquiale: E vu, cagài, ... de capponi, “e
voi cagati, nati, cresciuti di lampi e di tuoni e di scoregge di capponi”.
[240] mulla, «pianella,
pantofola, scarpa da camera» (Boerio s.
v.).
[241] No ve l’hogio ditto tante volte che l’è un frasconazzo, “ non l’ho detto tante volte che è una grossa frasca”, “un
giovinastro”. giusto un boro ho toccào sta
mattina, “non ho toccato nemmeno un soldo questa mattina” (per boro cfr.
Prati e Mercante III.12.28:
un boro de pan traverso). L’impresa della farmacia è ovviamente rovinosa
fin dal principio e Pantalone è costretto a dare ai facchini un mortaio perché
lo barattino all’osteria.
[242] rason, “ragione”. ♦
ho imparào a mio costo, “ho imparato a mie
spese”, qui nel senso concreto delle cose che Manteca ha rovesciato o si è
mangiato. ♦ che el vogio
ciarir, “gli voglio spiegare, voglio fargli
riconoscere il suo errore”; considerando che finora Manteca ha già preso almeno
un paio di sberle da Nane, vien da indovinare quale modo intende usare
Pantalone per far capire le cose a Manteca; in questo viene in aiuto anche la
voce chiarito, 6 di Gdli, che riporta: «reso docile, domato»
(col bastone). ♦ niente, padre, “non ci sono scuse che tengono”; padre
è usato come in Mercante I.3.12: E no altro, padre).
[243] se fosse in pe’ vostro, “se fossi
al posto vostro”.
[244] consolar el cadavero, metaforicamente “mangiare”: riempire il
corpo che è stremato, quasi esanime dalla fame.
[245] Gh’è soldi in cassella, “ci sono soldi in cassetta”.
[246] capo Balico, il capo
dell’osteria (per una carrellata sulle osterie veneziane dell’epoca cfr. Bullo
I.6.13, p. 75); Balico è nome proprio, di
un’altra figura immaginaria o reale, di colore locale.
[247] Ponte de Brenta, Ponte di Brenta, paese in provincia di Padova;
qui è usato per indicare che un mortaio “di campagna” ha di certo meno valore
di quello dato da impegnare ai facchini.
[248] Cazza, interiezione,
(cfr. Mercante I.1.5).
[249] piter, “vaso, pitale”;
qui usato come variazione per indicare il mortaio. ♦ andasse da Badanai,
Badanai è l’ebreo con cui Pantalone impegna della merce in Bullo
II.13.1 (p. 89); quindi: “che il mortaio finisse al monte dei pegni in Ghetto”;
in questo modo sarebbe più difficile da riscattare (anche perché la tassazione
sulle attività del Ghetto era talmente alta che certe volte i pegni venivano
scambiati, Calimani).
[250] i mobili facesse così
presto le ale, “i mobili
prendessero il volo”, nel caso in cui dovessero esser subito impegnati per
debiti.
[251] Bezzi i vuol esser a far andar speziarie, “servono i soldi per far andare avanti
le spezierie”.
[252] Fràchemela, “ficcamela su
anche tu”, locuzione oscena, nel senso di “ripetimela bene la storia, suonamela
anche tu”. ♦ l’anderà po
de trotto, “prenderà velocità, farà alla svelta”, detto per antifrasi: non
è coi rimproveri di Nane che si aggiustano gli affari.
[253] vogio che me accordé, “voglio
che mi remunerate”.
[254] ressolvéve, “fate presto”. ♦ da sior Ippolito, evidentemente uno
speziale, concorrente, forse un farmacista reale.
[255] abreo, “ebreo”; «dicesi
anche in vernacolo figurato ad un usuraio o a chi vende a prezzi esorbitanti i
viveri e le mercanzie» (Boerio s.
v. ebreo), nel senso proverbiale di “taccagno”.
[256] Fallé i zorni, “sbagliate i giorni”, in questo contesto
sembra un riferimento agli arretrati della paga, in relazione con la battuta
seguente.
[257] ancùo xe ziobba, “oggi è
giovedì”.
[258] savé da ziobba, espressione non attestata, che continua
il ragionamento sui giorni della settimana: dal momento che Pantalone sembra
non aver soldi per pagarlo, Nane lo apostrofa con queste parole, che hanno
tutta l’aria di un insulto; si veda l’espressione dar da intender che zioba vien de venere, che vale “dare da intendere una
cosa per un’altra” (cfr. Boerio s.
v. intender); savere odor da zioba, è senz’altro
un’indicazione di cattivo odore, probabilmente saver da grancio,
“sapere di vieto”; forse con connessione alle varie voci derivate da Gioppo, Giobbe (cfr. II.9.45), in riferimento
al supplizio del baco nano, dal quale il personaggio biblico era tormentato sul
letamaio; ovvio che esprime la somiglianza a un odore nauseabondo; ma anche
come riferimento a Zioba (grasso) per
“Befana”, “strega”.
[259] zente, “gente”.
[260] Che tocco, che pezzo di
ragazza, nel senso di «bel toco de dona o de puta, bella tacca di donna; bella schiattona; bella badalona; una femminoccia»
(Boerio s. v. toco);
già dalla prima apparizione della giovane Pantalone si mostra colpito dalla sua
presenza facendosi cerimonioso, da cui l’a parte di Nane, a battuta
cinque: la ve preme.
[261] rotture, “ernie”, «dicesi
per crepatura; allentatura, ernia» (Boerio
s. v. rotura).
[262] Mi viene un po’ d’erubescenza, “mi vergogno un
po’”, “arrossisco”.
[263] la canzonatura di Nane: andéu forse in volta, “state perdendo la
testa”, «andar o menar in volta, andare; girare; mandare o menare in volta,
valgono andar vagando, andare, condurre o mandare attorno, in giro o a spasso»
(Boerio s. v. volta).
[264] che la vol
saver la dosa, “che vuol sapere la dose” (del medicamento).
[265] io patisco un poco di moroide, “soffro un poco di emorroidi”.
[266] Stimavo de pezo,
“credevo
peggio”. ♦ ceroto cardoso,
«composto medicinale, di cui ve n’ha di tante maniere» (Boerio); «preparato medico di uso
esterno costituito da una pasta fortemente adesiva -a base di resine, grassi e
sapone di piombo-, contenente sostanze medicamentose, spalmata, in uno strato
sottilissimo e da una parte sola, su nastri o pezzi di tela da applicarsi sulla
zona malata» (cfr. Gdli s. v.); ma anche in generale “unguento”; cardoso
sembra rinviare a una componente a base di cardi, può riferirsi sia a una
pianta, varietà del cardo, o al verbo cardare, con riferimento alla tela su cui
è spalmato l’unguento (cfr. la variante ceroti
cardài, II.13.2). Si tratta del travestimento più
bislacco, del dato più carnevalesco, poiché il medicamento consiste in una rapa
di grandi dimensioni.
[267] naone, specie di “rapa
bislunga”.
[268] infearlo, e po applicarlo, “infilarlo, e poi applicarlo”. ♦ se
alla prima no ’l zova, “se la prima
volta non da giovamento”. ♦ iterata vallent,
“le ripetizioni giovano”. ♦ replichello,
“ripetete l’ applicazione”.
[269] e i bezzi chi i’ dà: la prima
cliente è uscita senza pagare.
[270] me n’ha da vegnir
una burchiella de quei ceroti
cardai, “me ne deve arrivare una fornitura (un carico in burchiello,
una barca) di quei cerotti di tela cardata”.
[271] un batoccio da
forca,
“un pendaglio da forca”.
[272] né mai mi m’ho incorto
che el m’abbia toccào un
bezzo, “né mai io mi sono accorto che mi abbia rubato un soldo”; il
padre di Manteca è venuto per difendere il figlio e fare che Pantalone lo
riprenda a bottega.
[273] deçiparme la robba, “sciuparmi la roba”; «scipare; sciupare;
lacerare, guastar che che sia» (Boerio s. v. decipar).
♦ da murer, da favro,
da spezier: lista di adagi proverbiali sui
mestieri, “da muratore non ci si deve fermare, da fabbro non si deve toccare,
da farmacista non si deve mangiare”.
[274] fin che se magna bisati, mi no credo che
se muora, “fino a che si mangiano anguille, non credo che si muoia”.
[275] e le nose muschiàe
d’India, cfr. II.9.51; muschiàe, “ricoperte di muschio”, per
“moscate”.
[276] no ghe dové
filar tanto el lazzo, che daseno
el vorré desfilar che no ghe sarà più
tempo, Pantalone compatisce Tòfolo
perché è padre di un ragazzo difficile, ma si sente di dargli questo consiglio:
“non dovete assecondare i suoi difetti, perché poi non vi sarà più tempo di
tornare indietro e di correggerli”; «filar el lazzo a
qualcun, tenere mano o il sacco ad alcuno, vale ricoprire gli altrui difetti, e
dicesi in malaparte» (cfr. Boerio, s. v. filar).
[277] A mi me tocca arlevar, “educare (allevare) i figli è
compito mio”. ♦ anca nu semo stài puteli, e lassemola là, che basta, “anche noi siamo stati
ragazzi, e non dico altro che basta così”, sembra quasi che Tòfolo
sia stato testimone di alcune bravate di Pantalone in gioventù.
[278] Poder, dise Tecia, è evidentemente un modo proverbiale; tecia
è un tipo di tegame; il modo di dire sembra rinviare alla misura di una
quantità: come a dire “fin che ce ne sta”.
[279] l’avé accordào per çinque anni: “l’avete
assunto per cinque anni”. ♦ esser causa che se scavezza el collo, “esser la causa che diventi uno scapestrato”,
cioè che senza lavoro si dia a una condotta criminosa, «scavezzacollo, dicesi a
uomo di scandalosa vita, rompicollo, a persona atta a far capitar altrui male»
(Boerio s. v.); il concetto
è replicato anche nell’espressione gergale: che no ’l vaga a bastonar
el bacalào, il rinvio
ai bastonatori di baccalà, cioè quelli che preparano lo stoccafisso battendolo
col martello, prende il significato di bastonar i pesci per “essere in
galea”, ovvero essere condannato al remo, per esteso “finire in prigione” (cfr.
Boerio s. v. bastonar).
[280] son pronto a tiorlo da niovo, “sono disposto a prenderlo di nuovo” (a lavorare in bottega).
[281] no me levo dall’onesto, “non mi sottraggo a quel che è giusto”.
[282] che el mangna de bando, “che mangi gratis” (cfr. Boerio s. v. bando);
Pantalone prega Tòfolo di provvedere alla cena del
figlio Manteca: oggi non ha finito la giornata e non gli spetta la paga.
[283] el giera tanto netto che el pareva
un spazacamin, “era talmente
pulito e in ordine che sembrava uno spazzacamino”, antonomasia per scarsa
pulizia.
[284] E de che foza, “e in quale
modo”, riferito al fatto che evidentemente anche Nane non è una persona pulita,
(come già detto anche di Pantalone in II.11.14), a differenza di quanto si
richiede a uno speziale (per cui cfr. II.9.did).
[285] za, si no altro, l’è bon da ténder a
bottega, “almeno è bravo a stare in
bottega”, ironico; fin dalla prima scena della spezieria appare chiaro il
giudizio di Nane sul più giovane Manteca.
[286] No gh’èstu ti da
far sto servizio, “non ci sei già tu a farmi questo
servizio”; Pantalone riconosce a Nane una qualità lavorativa.
[287] tenir el registro inte’l còmio, propriamente “gomito”; eufemismo per “potreste
mettervi il libro dei conti nel didietro”, come indicano le formule
attenuative, co se sol dir, “come si suol
dire”, e che squaso l’ho
detta brutta, “che per poco non l’ho detta brutta”.
[288] e mi che no ho carta de sorte, “ed io che non ho nessun tipo di contratto”: si ritorna alla contrattazione
per la paga e la posizione lavorativa, cominciata nella scena undicesima e poi
interrotta dall’arrivo della cliente e del padre di Manteca.
[289] non te tegno minga per garzon, “non ti tengo mica come aiutante”.
[290] massera, “serva”.
[291] Fallé i mesi, “sbagliate i
mesi”, nel senso accresciuto del precedente fallé
i zorni, per “siete fuori strada” (cfr.
II.12.12).
[292] do dozene, “due dozzine”
(di ducati).
[293] I vol esser
almanco quaranta, “devono essere almeno quaranta”.
[294] se giusteremo: “ci metteremo
d’accordo, troveremo il modo di aggiustarla”.
[295] drette, “dritte”: vale
“senza denari per pagare”; il contrario di vegnir
gobbo, puntualmente confermato dal successivo gobbi, per “carichi di
denaro” (per cui cfr. Mercante I.8.4: L’è qua ’l vecc,
e credo che ’l vegna gobbo).
[296] Manco çerimonie
e più monéa, la battuta di
Pantalone sembra smentire quanto detto alla battuta 2; forse sia questa, sia la
seguente di Manteca sono da intendersi come due a parte di commento
all’ingresso della nuova cliente, come già avvenuto alle battute 2,4 e 5 della
scena dodicesima.
[297] tumulatazione, “un
tumulo”, “un rigonfiamento”; confronta con tumulato, tumulazione.
[298] mal de mare, “mal di
donna”, “male uterino”; cfr. I.16.2 e Mercante II.10.5.
[299] anche questa battuta potrebbe essere un a
parte.
[300] erubescenza, ritorna,
come nella scena dodicesima, l’imbarazzo della cliente nel trattar con lo
speziale di argomenti intimi.
[301] eletuario in integrum, nome di un
medicamento: «preparato farmaceutico semidenso costituito di polpe, di polveri,
di sali, di vegetali, ecc. mescolati con sciroppo, miele e, raramente, con una
resina liquida, adoperato in passato nella cura di innumerevoli malattie e
affezioni (e se ne conoscevano di diversi tipi: l’elettuario lenitivo,
l’elettuario di rabarbaro, l’elettuario di teriaca, che era composto di circa
sessanta sostanze diverse vegetali e minerali)» (cfr. Gdli s. v. elettuario).
[302] cavezone di cuffia,
cavezzone, «l’arnese che si mette in testa dei cavalli per
maneggiarli» a cui dunque sembrerebbe appropriata anche la designazione di cuffia;
non si comprende se la signora deve indossarlo secondo l’uso o altrimenti.
[303] magnéla come volé vu: l’espressione sembra riferita non al
mangiare l’oggetto, ma piuttosto essere frase fatta per “prendetela come volete
voi”; frase che non chiarisce affatto quanto detto sopra. ♦ se no la
ve resana, pago mi, “se non vi guarisce, pago
io”, una sorta di garanzia del tipo “soddisfatti o rimborsati”.
[304] e de che sorte, vale “e come”;
il commento di Nane, che potrebbe essere un altro a parte di questa
scena rimasto non specificato da didascalia, è riferito ovviamente all’esser
vuote delle casse della bottega.
[305] che sti spizieri
mi’ vicini se magna da rabbia, “che gli speziali che hanno le botteghe
qui vicino si mangino dalla rabbia”, per il veder i clienti entrare da
Pantalone invece che da loro. ♦ za tanto l’è, “tanto è lo stesso”, forma
lessicalizzata. ♦ si no la m’ha dào bezzi, po esser che un altro me refaza, “se
questa non mi ha dato soldi, può darsi che un altro cliente mi rifonda”.
♦ chi sta sul negozio non deve vardar tanto
per suttilo, “chi è in affari non deve badare ai
dettagli, andar per il sottile”.
[306] Co gh’è dei boni
cavedali el se pol far lu, “quando ci sono
dei buoni capitali si può far così di certo”; lu
è clitico impersonale (cfr. Mercante I.1.37: Mo i vorrai esser
cinquecento, lu).
[307] a istanzia de quel omo, “su
richiesta di quell’uomo”, (cioè per intercessione di tuo padre).
[308] che no ti gh’ ha
i déi compagni, “non hai le dita uguali”; evidente locuzione proverbiale, non
reperita; di certo suona come una sorta di insulto che Manteca pronuncia verso
Nane, vista la sua scontrosa accoglienza, forse riferita ai possibili imbrogli
nel gioco della morra.
[309] sto tocco de carissimo, “questo
pezzo di gentiluomo”, detto per antifrasi, cfr. II.9.4. ♦ a impenir el cadavero,
“a riempire il corpo”, vale “mangiare”, cfr. II.10.9.
[310] Gnianca pan no gh’è a casa, cosa voléu che faza, che conta i veri, “a casa non c’è
nemmeno del pane, cosa volete che faccia che conti i vetri”, probabilmente
intendendo le finestre, riferendosi ad un’azione inutile propria di chi non ha
nulla da fare.
[311] qualche scopellotto,
qualche man int’l muso, e qualche pìe
int’el culo ancora, se fa bisogno, “qualche colpo
sulla nuca, qualche sberla in viso, e anche qualche calcio nel culo, se c’è
bisogno”; Pantalone mette a parte Manteca del suo modo di insegnargli a stare
in negozio; del resto egli ha necessità estrema di lavorare per mangiare.
[312] E giusta el la dise, vè,
el paron, “il padrone la dice proprio giusta, bada”.
[313] unguento, pomata, «preparato farmaceutico per uso esterno, costituito da sostanze
grasse di tipo naturale o artificiale in cui viene disciolto il medicamento» (Gdli s. v.). In questo caso
l’unguento che desidera il cliente, come si evince dalla battuta 7, è quello
contro le piattole.
[314] II.19.2-6: queste battute costituiscono, come già nelle scene
precedenti, il primo commento dei lavoranti all’arrivo di un nuovo cliente; in
questo caso non si tratta di veri e propri a parte, altrimenti non si
spiegherebbe il rimprovero di Nane a Manteca, né il richiamo di Pantalone ai
due. Questa struttura che si ripete, come una sorta di cornice, fa pensare
all’allestimento della scena della spezieria che comprenderà certamente un
bancone, o tavolo, a mo’ di divisorio fra negozianti e clienti, regolando lo
schema dell’azione. ♦ Co xe el vostro braghier, “come la vostra mutanda” (osceno per il
contenuto della stessa), letteralmente il braghier
è la «fasciatura di cuoio o di ferro per sostenere gli intestini e riparare
le ernie» (Boerio); la battuta di
Manteca interviene su nuovo e veccio
delle due battute di apertura. ♦
che creanza da aseno, “che educazione da
asino”. ♦ no confonder la zente che vien a spender, “non infastidire la
clientela”.
[315] la gran canagia gh’avé, “avete un gran briccone”, riferito a
Manteca. ♦ unguento da piatole, probabilmente l’unguento
mercuriale la cui preparazione è descritta in Capello lfc (p. 169), con la seguente destinazione d’uso:
«si adopra dalla più vil plebe per ammazzar i pidochi»; piatola, «specie
d’insetto, che per lo più si ricovera tra’ peli dell’anguinaglia,
e fa molta prurigine» (Boerio s.
v.). ♦ l’è pien, che no ’l sa da che
banda voltarse, “è pieno, che non sa da che parte
girarsi, stare”.
[316] impiza quel ceroto, “accendi quel cerotto”, forse si
riferisce allo scaldare la sostanza medicamentosa per applicarla sulla tela
(cfr. II.12.13); il verbo accendere si mostra nella sua assurdità per il fatto
che Manteca faccia ritorno con una candela accesa (II.19.10did).
[317] Manteca uso a contraffare le voci dei vari
mestieri, canzona qui quella dei muratori, oh oh oh, che la malta vien, evidentemente riferita alla
materia poco plausibile di cui è composto il rimedio medico.
[318] Ah, mandria, crédistu
d’esser su qulache fabrica,
“ah,
bestiaccia, pensi forse di star a lavorare in un cantiere” (per mandria cfr.
Mercante I.12.23).
[319] in vostra bonora,
modo
di dire qui usato al posto dell’imprecazione in vostra malora. ♦ scotào, “scottato” (con la candela).
[320] Pantalone elogia la propria merce e
rinnova la promessa di rimborso in caso di inefficacia del medicamento.
[321] ritorna l’allusione alla scarsa igiene
personale di Pantalone, che evidentemente ha dovuto già utilizzare su di sé
l’unguento.
[322] tanto ghe dirò, “riferirò” (se il rimedio funziona o meno).
[323] no vogio che me fé dottorezi adosso, “non voglio
che vi permettiate di esibirvi in saccenterie”, detto soprattutto quando non si
dà molto credito alla fonte: cfr. Muazzo, p.
395: «no posso veder il pezzo de questi che no ghe ne sa una patacca, gnanca co’ la zé cotta, e i vol dottorar su ogni cosa. No voi che me fé dottoressi, sior frescon».
[324] gh’ho dào, è vero, a quei omeni ...
ferro, “è vero che ho dato a quegli uomini il mortaio, ma che valore
può avere?, certo io non gli darei tre lire perché è
di ferro”. ♦ inzegno el vol esser a negoziar a sto
mondo, “a questo mondo per stare negli affari ci vuole ingegno”. ♦ mo Catte, e no altro, modo di dire,
non attestato, che vale “così è, e basta”; Catte potrebbe essere
diminutivo di Caterina, che rinvierebbe a un “così è Caterina”; oppure potrebbe
trattarsi anche di una forma lessicalizzata del verbo catar,
nel senso di “trovo che sia così”.
[325] Arlichino con abito da
scheletro, le due sequenze di cui è composto il testo, cioè le contese e
i lazzi di Fenochio e Arlichino,
e l’avviamento e gestione della spezieria di Pantalone, vengono finalmente qui
ad incrociarsi.
[326] stuàr la lume, “spegnere la luce”; la precisazione ha
il senso di “riposare”, “non perdere tempo”; ma potrebbe costituire soprattutto
un’indicazione scenica di abbassamento delle luci: fatto necessario per rendere
più credibile ed efficace la scena successiva.
[327] (did): va
per compassarlo, “va per misurarlo col compasso”. ♦ Ohimèi, cosa véghio, “ohimè,
cosa vedo”. ♦ za l’è morto che l’è ben adesso, “già è morto che è
un pezzo”. ♦ anemo, “animo”,
“coraggio”. ♦ opunion, alla lettera
“opinione”, nel senso di apparenza. ♦ schiudendosi la spezieria si dà
fine al secondo atto, la fuga di Pantalone, che dimostra il suo valore di
speziale non distinguendo, seppur al buio, una mummia vera da Arlichino travestito da scheletro, fa abbassare di nuovo il
prospetto che sollevato mostrava la bottega aperta (cfr. II.8.did).
[328] ogni gran salda rocca: metafora
di carattere militare per argomento amoroso, già in I.8.33.
[329] Prima che venissi a servirvi, m’andava
esso inchinando: mi andava corteggiando prima
ancora che io venissi a vostro servizio.
[330] Ne mai ardii egli
di ricercarti per consorte al signor padre: e non
ha mai avuto il coraggio di chiedere la tua mano a mio padre.
[331] il signor Leandro vostro fratello: conferma
evidente del fatto che nella scena I.8.28 il nome è utilizzato per errore.
[332] vi mutate di colore: Celio
diventa pallido per l’emozione di vedere Beatrice, per arrivare quasi a cadere
svenuto nelle battute seguenti.
[333] quasi disci: quasi dissi; in storpiatura da ipercorrettismo.
[334] germana: ritorna
l’uso per ‘sorella’, cfr. II.7.1.
[335] venustà più che terrestre della signora
Vittoria, vostra germana: (per germana cfr. II.7.1);
entrambe le amanti sono descritte come divinità.
[336] chiamarsi: “chiamarci”,
sentimentalismo.
[337] a labra asciutte: vale ‘a bocca asciutta’, senza sposo.
[338] III.3.9-26 La parte finale della
scena è di nuovo scandita dal saluto degli amanti in versi, forse addirittura
cantato; qui la variazione consiste nel fatto che abbiamo una doppia coppia di
interlocutori.
[339] tutt’el zorno stornirme el cò: tutto il giorno a confondermi la testa; cfr. no
me stornì, Mercante III.5.23. Si noti che
il servo entra in scena parlando verso l’interno, lasciando intendere il
dialogo con un altro personaggio, come in I.11.2.
[340] non ravvisi:
non riconosci.
[341] A’ i dirò [...] stornirme el cò:
vi dirò: là in quella strada c’è quel calzolaio; gli devo tre lire che son
passati quasi due anni, e tutto il giorno non fa altro che darmi fastidio,
seccarmi.
[342] De quai [...] a
me comand: con quali soldi, se non ne ho neanche
uno al mio comando.
[343] Salvia, al posto
di ‘salve’, cfr. I.1.9. ♦ Cancar:
interiezione. ♦ se a’ no era lest, a’ podeva
dir ben: se non fossi stato svelto, avrei potuto ben dire.
[344] quand
a’ se esequiss quel che a’ se ghe vien impost, “quando si esegue quello che viene
ordinato”.
[345] El malan
che t’accoia: cfr. I.11.27.
[346] No tanto mal no; za a’ sem camerade
fedei: non augurarmi tanto male visto che siamo
compagni fedeli.
[347] Te m’ha fat quasi ispiritar Pantalon: mi hai fatto quasi uscire di senno, indemoniare,
Pantalone.
[348] Se t’avessi usad prudenza, no te sarave intravegnud quel che a’ t’è
success, “se tu avessi usato un poco di prudenza, non ti sarebbe capitato
niente di ciò che ti è successo”; Fenochio è certo
che Arlichino sia stato bastonato da Pantalone.
[349] Ancor ti me buffoni,
“ancora ti prendi gioco di me”.
[350] Mentre ... l’ho amazad, “dopo che mi hai cacciato in quella cassa,
mentre ero là dentro, e il signor Pantalone mi stava disegnando, un pidocchio
mi ha morso con tanto impeto che ho dovuto alzare una mano, e quando l’ho preso
subito l’ho ammazzato”.
[351] E de che foza, “eccome”, cfr. II.4.26.
[352] Pover stramb,
desgraziad, “povero matto disgraziato”.
[353] Al bordel,
“in malora”, cfr. I.11.6 e I.14.1.
[354] che la sippi to mugier, “che sia tua
moglie”.
[355] no sat
ch’in sta foza l’amur va inte i calzù, “non sai che in questo modo l’amore va nei
calzoni”, detto per “anche l’amore perde d’importanza”; probabilmente rifatto
sul più comune «l’amor ghe xe
andà in ti calcagni, il ruzzo degli amori gli uscì
del capo o della testa. Andar una cosa zò per i
calcagni, venir a noia; stuccarsi; ristuccarsi di che che
sia» (Boerio s. v. calcagno);
si veda anche Muazzo, p. 78: «andar l’amor, la tenerezza o
la voggia de qualche cosa zò
per i calcagni. Zé l’istesso che no sentirghene più gusto né saor
parlando de robba e discorrendo de persone svanir
l’amicizia e la premura che se gavea».
[356] farte
un porch, si ritorna al travestimento suggerito
all’inizio; così te andrà a trovarla a lett, “così
andrai a trovarla (direttamente) a letto”.
[357] chi me scapelerà
le giande, “chi mi toglierà il guscio alle
ghiande”, in dizione fortemente equivoca, come anche risulta dalla risposta di Fenochio nella battuta seguente.
[358] te ti me ordinerà el mod ch’a’
ho da operar, “tu mi suggerirai il modo in cui mi devo comportare”.
[359] a fid:
“a fede”. ♦ quel pignatar dalla scudella, “quel pentolaio” nel senso di artigiano di
pentole e scodelle di terracotta; forse dalla scudella
è riferito all’insegna.
[360] el ventricolo
delle me budelle, espressione equivalente a vissere
mie.
[361] un voster servidor anticamente fidelissim, Fenochio fa leva sulla lunga
durata del suo corteggiamento.
[362] ti dovrà far la grossolana, “dovrai fare la
finta tonta”, cioè far finta di non capire.
[363] in quello tu sai, costruzione con
il che sottinteso.
[364] III.8.6-10: chiusa come parodia dei versi recitati dagli amanti,
aulici amorosi.
[365] ritorna lo spazio della spezieria, (per aperta
si veda la nota a II.8.did). La scena si apre con Pantalone che racconta
a Nane la paura per la vista della mummia e il fatto che avrebbe preferito
averlo con sé.
[366] De diana, eufemisfo parafonico
(anche nella forma Diana de dia).
[367] ve ne tiolé troppe, patron bello, “caro padronicino vi prendete troppa
confidenza”.
[368] tanto de occi la
averziva, “mi guardava con
tanto di occhi”. ♦ la s’ha gratà el cào, “si è grattata la testa”.
[369] Opinion, cfr. II.23.1. ♦
morti no fa sesti, “i morti non fanno azioni”. ♦ sarà megio [...] i manipulerò,
“sarà meglio, signor padrone, che registriate sul libro le ricette che sono
state mandate questa mattina (dai dottori) che io poi le preparerò (manipulerò nel senso dell’approntamento manuale)”.
[370] III.9.11 e seguenti: Per il ritmo dei facchini e le espressioni di
incitamento ad esse legate cfr. sopra II.8.1. Comincia da qui una sequenza di
dettature di ricette assurde e demenziali, dove spesso si passa dalla trivialità
di referenti concretissimi, che alludono alle pratiche o ai mestieri dei
pazienti, a designazioni vuote e puramente metaforiche.
[371] Comincia qui l’elenco dei fantasiosi e
comici recipi preparati da Pantalone, secondo
la tradizione antica della commedia burlesca. Per sier
Tadio Smonzùo [...] el miedego Sberlào:
Tadio Smonzùo, nome
proprio “Taddeo Smunto”; i nomi dei clienti, come pure quello dei medici, sono
parlanti e possiedono sempre una relazione col contenuto dei recipe che seguono; smonzùo
significa “munto”. “18 libbre di pane patito (ovviamente il pane patito come pan
pentito non è un tipo di pane ma è un’espressione metaforica: magnar el pan paìo, legata alle
cattive condizioni del mantenimento matrimoniale o famigliare); anna (“once”: «termine usato nelle ricette
medicinali, per significare che degli ingredienti prescritti occorre prendere
quantità e peso in parti uguali, a dose uguale, grecismo, particella con valore
distributivo e iterativo», Gdli s. v. ana, 2) 7 de roana,
(cfr. Bullo II.5.5, p. 83: roana in questo caso sembra confermare la
valenza che indica un referente concreto e non un colore); 17 carriole di
semola (quantità per contro enorme e scombinata) per togliergli il mal di
stomaco, il tutto in infusione; il medico Sberlào (schiaffeggiato;
«ma indica più in generale dall’aspetto stravolto» cfr. sberlar
i occi, “buttare in fuori gli occhi”). ♦ zira a libro, “trascrivi”.
[372] : e de ponto, “subito”.
[373] Per el zocialer [...] el miedego Trotolo: “Per
l’occhialaio al ponte del latte (latte nel veneziano antico è sostantivo
femminile: «Latte (Ponte della) a S. Giovanni Evangelista. Un Zuane Della Late figura tra quelli che nel
1379 contribuirono prestiti alla Repubblica, in parrocchia San Simeone Profeta,
la quale anche anticamente giungeva co’ suoi confini
a questo Ponte, e sembra essere quel medesimo Giovanni a Lacte,
orefice di Reggio, che nel 1371 ottenne un privilegio di cittadinanza
veneziana», Tassini); ricetta:
scolo di asina bastonata, acqua di vacca sfondata, sugo di molluschi, con due
dramme (drame, “drama”
sta per “un niente, una piccola quantità”; si intende la centesima perte della libbra veneziana, corrisponde circa a tre
grammi. A Venezia era misura usata in campo farmaceutico. Il vocabolo è un
prestito greco, Cortelazzo)
di penna di gallina asciugata al fuoco, una presa di legno dolce (radice di
liquerizia, ma si veda anche Bullo I.5.2, p. 72, dove si indica con bacchettina
di legno dolce un bastone); il medico Trottola”.
[374] Che gh’halo, spienza marza, “che cos’ha la
milza marcia”.
[375] fa giusto conto che la sia così, “tieni conto che
sia proprio vero”. Per Naso frutariol [...]
el miedego Fatte: “Per
Naso (probabilmente un soprannome dato dalle dimensioni del naso, o dal
carattere di impiccione) fruttivendolo al Ponte delle Tette (a San
Cassiano: «Affine di ritrovare l’origine delle presenti denominazioni è da
considerarsi che i posti delle meretrici, stanziate in Carampane, arrivavano
fino a questo ponte ed a questa fondamenta, e che esse solevano stare al balcone
colle tete -poppe- scoperte per
allettare i passanti», Tassini);
ricetta: alberi di barca marci stemperati (antene
marze destemperàe); pece di cofani in infusione (pegola
de copani in effusion),
datteri di scorza di noce (dàtoli de corbame
de nose), con dodici libbre di fuoco secco. Il
medico Fatte, forse qui usato come aggettivo, perché detto di frutta e
verdure significa “troppo maturo”, “andato”.
[376] III.9.18-19: e che la vaga, e che la staga,
botta e risposta usuale nel senso di “fuori uno, sotto un altro”. ♦ che
ste seste alla più longa i saverà de che odor saverà la medesina, “che tra un po’ queste malegrazie
(poco di buono: riferendosi forse agli altri speziali già citati come concorrenti)
sapranno che sapore ha la medicina (inteso come proveranno il sapore
dell’invidia)”. ♦ per el murèr
de casa, “per il muratore di casa”.
[377] questo va a macca,
“questo va a scrocco” (cfr. Bullo II.6.18, a’
volìu che mi a’ faza el macca, p. 85); la
giustificazione è nella risposta di Pantalone.
[378] Co ’l conza [...] medesine, “quando aggiusta le tegole io gli do i soldi,
non so dunque perché egli debba venire a scrocco delle medicine”. Recipe [...] el miedego Manteca: “Ricetta: misure di malta
numero cinque (conchette de malta, le conchette sono dei
contenitori che servono a raccogliere il vino che gocciola dalla botte, cfr. Bullo
II.7.2, p. 86; in questo caso raccolgono calcina); olio di calcina (nel Capello lfc esistono
preparati farmaceutici denominati “calce”, come la «calce d’antimonio
diaforetica», p. 24; ma in questo caso, trattandosi del muratore, bisogna
intendere il materiale destinato all’edilizia) trenta once, dodici badilate di
fango, il tutto in un clistere con dentro due libbre di manna (base di molti
medicamenti: sorta di resina vegetale, «la manna volgare è un sugo gommoso,
dolcissimo, che stilla dall’orno, e dal frassino, cui vengano fatte delle
ferite ne’ giorni più caldi dell’anno» cfr. Capello
lfc, p. 179).
Il medico Pomata”.
[379] èlo parente del garzon, Nane osserva che il medico ha lo stesso nome del ragazzo di bottega.
[380] l’è ben della so casada,
“deve
essere della sua famiglia”. ♦ Per Giopo de
Grandi [...] el miedego
Pampalugo: “Per Giobbe De’ Grandi,
ricetta: sugo di mattarello, quintessenza di trottole (da traena indica presumibilmente la trottola fatta girare
con la cordicella, cfr. le voci traina e trainella
nel Boerio, appunto per
“cavo”, “corda”), suono di uova d’oca passata al lambicco in pentola nuova con
due lire di olio di zucca marina; il medico Scimunito”. ♦ Per el magazenier del Gafaro [...] el miedeo Anzian: “Per
l’oste del Gafaro (cfr. Bullo I.6.13, p. 75),
ricetta: venti misure (torrette) di maglie di ferro arrugginiti (per zacco cfr. Bullo II.9.9, p. 87); numero venti
foderi di anguilla in composta (già in II.9.59 Pantalone scambia anguille per
vipere, prezioso e ricercato ingrediente da speziale), turaccioli di botte (cocconi de botta, “fecciaie”; sono i buchi da
cui esce la feccia, il materiale di scarto, dalla botte) sessanta in bocconi,
trenta a pranzo e trenta a cena; il medico Antiano
(tipo di tegame di terra cotta).
[381] E no altro padre, locuzione
proverbiale con pare nel senso di “compare” (cfr. I.3.12) che indica
“nient’altro”; la battuta è una sorta di pausa narrativa nella lunga lettura dei
recipi.
[382] Per madonna Bettina [...] el miedego
Cagarella: “Per madonna Bettina priora delle Solennissime
(cfr. Bullo I.6.9, p. 74, in cui si usa la medesima designazione) alla
sua dissenteria, ricetta: schegge di rovere, manici di tegame, acqua dei calafati
(“operai addetti al calafataggio” per cui cfr. Bullo I.6.13, p. 75), gnocchi
digeriti (macaroni paìì)
misure carriole due; il medico Cacherella (diarrea)”.
[383] Co sta volta ...
scapolar, “se questa volta non guarisce non so
quando potrà passarla liscia”.
[384] Drìo via, “andiamo avanti”. Per Todero Sfondrón [...]
el miedego Tenebrìa: “Per Teodoro Sforndrone
(mangiatore diluviativo) che abita alle Fondamente Niove («a
S. Giustina. Lasciò scritto il Tentori - Della Legislazione Veneziana sulla
Preservazione delle lagune - che fino dal 1546 aveva decretato il Senato
che si costruissero delle Fondamente da
S. Giustina a S. Alvise», Tassini),
cinquanta quarte (quartieri) di semola padovana, cento libbre di nebbia,
due dramme di pioggia senza cappotto, e unzione di scirocco marcio in effusione
con una misura (cfr. III.9.23) di buona borra (due venti tipici della laguna,
il primo caldo e umido, il secondo freddo); il medico Tenebra”. ♦ Per
Catte Potón [...] el
miedego Tea: “Per Caterina Gran Potta
(cfr. Bullo I.6.9, p. 74) in calle Vallaresso
(cfr. Bullo II.12.5, p. 89), biscottoni
pestati (pandoli pesti, pandoli sono una specie di pasta dolce intrisa di burro e
zucchero; pesti significa “pestati”; per significati metaforici e
allusivi si veda anche: Muazzo, p. 866: «pandolo
po’ se dise a uno che stà
là duro, scempiando, senza moverse e dir gnente»), sugo di rape, gusci di noce bruciati, sassi
passati per il setaccio, idem venti staia alle tre con uno sciroppo di madre
basita e rape in pezzi; il medico Tea”. ♦ Per el
favro [...] el miedego Bronzào: “Per
il fabbro di Calle di Mezzo («in Ruga Giuffa, a S.
Maria Formosa. Dalla patrizia famiglia Da Mezzo. Una Chiara da Mezzo notificò
nel 1566 ai X Savii di possedere alcuni stabili in
la contrà di S. Maria Formosa, in Ruga Giuffa, in Calle de Ca’ da Mezzo» Tassini). Ricetta: capocchie di chiodi
preparate in aceto, duecento once, caligine di scirocco, ancore stemperate con
refrigerio di acqua di caldaie; il medico Bruciacchiato”.
[385] cossa farastu a prepararli, sottinteso “se
si già stufo per così poco”.
[386] schizza dal zamberluco verde, “la cagna dal mantello verde”; zamberluco
«era una lunga veste di origine orientale, larga ed a maniche strette, di panno
pesante per gli uomini, di velluto per le donne, che usavano le persone anziane
per ripararsi dal freddo nei mesi invernali. Col tempo, lo ‘zamberluco’,
venne poi usato come veste da camera e infine cadde in disuso» (Vitali s. v.); cfr. anche il Muazzo, p. 1124: «L’inverno l’è un gran bon
capital, sia per casa sia fora de casa, aver un bon zamberlucco de panno
d’Inghilterra, fodrà de pelle, perché cusì se sta caldi tutta la so vita né se gà bisogno de star tanto col muso sul fogo»
(il zamberluco verde probabilmente
indica la provenienza della cagnetta: la figura potrebbe essere rappresentata
sull’insegna di un esercizio commerciale cittadino). ♦ Calle dei Do
Moretti, “dei do Mori”, alla Madonna dell’Orto: «Qui si scorge un antico
corpo di fabbriche, in gran parte manomesso e rimodernato, che si stende dal Rio
della Sensa a quello della Madonna dell’Orto, ed
ha incastonate nelle muraglie tre statue d’uomini vestiti alla orientale -una
delle quali è conosciutissima dal nostro popolo sotto il nome di Sior
Antonio Rioba- terminando poi con un palazzo
archiacuto, avente scolpito sopra la facciata, dalla parte dell’anzidetto Rio
della Madonna dell’Orto, un uomo, pur esso in costume orientale, che guida
un cammello, nonché un’ara antica. Tutti gli scrittori credettero fin qui che
questi fossero gli avanzi dell’antico fondaco dei Mori, o Saraceni, ma è certo
in quella vece che i fabbricati sopra descritti vennero innalzati dalla
famiglia Mastelli, venuti dalla Morea, e perciò volgarmente Mori appellati» (Tassini).
[387] Anca quella xe
nostra avventora, “anche quella è
nostra cliente”: Nane si stupisce che Pantalone trascriva una ricetta per il
cane.
[388] el letto da
pagarne, il significato è chiaro, cioè “che non abbia nulla con cui
pagarci”, oscuro resta il dettaglio di letto, difficilmente da
intendersi nel senso letterale, a meno di non intenderlo come il leto da cani registrato da Boerio come “cuccia”; vedi anche s.
v. cuzzo dal francese cuche,
“cuzzo delle bestie”.
[389] Se la s’cioppa [...] tutto, “se
schiatta non avremo niente, se guarisce l’affitto di casa ci porta via tutto”:
Nane allude al fatto che per quanto si possano impegnare nel lavoro troveranno
sempre da spendere i guadagni nell’ordinario, come l’affitto, senza prospettiva
di arricchimento o miglioramento delle proprie condizioni; Pantalone a tal
proposito fa emergere un tratto del carattere presente anche nel Mercante:
no vòi saverghene una
patacca, III.2.1.
[390] Per la schizza [...] el miedego Tencariol:
“Dunque per la cagnetta, scrivete. Ricetta: pannocchie marce, verruche
(cfr. Boerio s. v. porrofigo) in effusione, scolamento verde dalla
Colonna e mezza (una farmacia) e pillole dal tagliapietra
in campiello delle scoazze, con un po’ di cannella
del Mondo Niovo (osteria cfr. II.9.4) e due dramme di
olio di seppia; Il medico Tinca (la tenca è un
pesce, ma l’espressione testa di tenca
significa minchione)”. ♦ Con colonna e meza si
indica precisamente la farmacia all’insegna della colonna e mezza in Campo S. Polo:
«antica farmacia cinquecentesca con prezioso stiglio e vasi settecenteschi di
Nove e stampe di squisito gusto riproducenti soggetti di alchimia, si trova
ancor oggi [...]. A proposito dell’insegna scrive Dian che «a due spezierie volevasi porre la medesima insegna
-alle due colonne- , e che un Magistrato, per tagliare corto, come non si usa
certamente adesso, mandò un Fante a tagliare una di queste Farmacie una colonna
per metà, per cui ne vennero e sussistono ancora le due insegne: Due Colonne e
Una Colonna e Mezza; la prima a S. Canciano e la seconda in Campo S. Polo» (It).
[391] Mi che son el paron taso, e ti sier Tegna ti fa tante cagàe, “io che sono il
padrone sto zitto, e tu signor tignoso fai tante cacate”, nel senso di discorsi
inopportuni; sier Tegna,
ingiuria; dire tegna di una persona significa
considerarla avarissima (cfr. Boerio s.
v.).
[392] arriva Fenochio
con Celio travestito da contadino (gastaldo) e Arlecchino da porco.
[393] uhì, uhì, uhì, uhì,
Arlichino riproduce così
il verso del maiale.
[394] Trutta là, “trotta,
muoviti”, comando per far muovere l’animale; vedi Muazzo (p. 1032): «“trutta là, porco scroa!”». ♦ El gastaldo, sior, che ha mandà el so famegio
col porco, “il castaldo, signore, che ha mandato il suo famiglio col
porco”; famegio, “servitore di una
famiglia”, «zé quello che tende alla stalla e governa
i anemai fora in campagna», (Muazzo p. 508).
[395] È ora che se destrighemo
le buelle, “è venuto il momento che ci consoliamo
lo stomaco”, espressione che significa “finalmente mangiamo”, “ci togliamo il
pensiero del cibo”.
[396] Celio imita una parlata rustica che può
ricordare il pavano, cfr. saìu. ♦ da Nâle le grasso, Nale per Natale (con concrezione). ♦ smalzo,
“morbido come il burro” (cfr. Bullo I.11.3, p. 79).
[397] Arlichino, visto
l’avvicinarsi di Pantalone per osservarlo meglio e toccare con mano la
consistenza delle carni, continua la sua recita facendo di nuovo il verso del
porco.
[398] desmestego, “domestico”,
cfr. II.3.1.
[399] L’ha, saìu,
molte virtù, “ha molte virtù, credete”, (cfr.
III.10.6).
[400] tuol, “prende”.
♦ spolverazzo, “polvere di tabacco da
fiuto”, di cui Arlichino-porco ha afferrato una presa
con la zampa.
[401] L’ ho ben a caro, “è cosa a me
gradita”.
[402] III.10.17-18: el dise de sì, con gioco di suoni e significati tra il
verso del maiale e il francese ouì.
[403] Sté cheta e çita, “state calma e zitta”: Fenochio
rivela il travestimento a Beatrice perché gli regga il gioco.
[404] tasteggiandolo, “palpeggiandolo”.
[405] Èlo nassùo de marzo, “è nato di marzo”, evidentemente
riferito a una indicazione di qualità delle carni, probabilmente un modo di
dire, locuzione proverbiale, (cfr. marzadeghe
in Bullo I.11.1, p. 79). ♦ Togno,
sta per Antonio.
[406] vorìa far un
casotto (cfr. Mercante II.2.6: vi pregarei
che mi menaste in un casoto): Pantalone pensa di
aprire un baracchino in piazza per esibire le doti straordinarie del maiale. ♦
Ma ho paura che el se cazza sotto le cottole de
qualche maschera, “ma tempo che vada a infilarsi sotto la sottana di
qualche signora in maschera” (vista l’attitudine mostrata per Oliveta). ♦
a ciamar el luganegher, “a chiamare il salsicciaio”, perché uccida
e macelli il maiale per farne salài, “salami”.
♦ fin che il tempo è fresco, cioè adatto alla macellazione.
[407] Ah, paesan, a sto stad ti m’ha redut, “ah, paesano, in
questo stato mi hai ridotto”, cfr. II.2.6.
[408] el porco càzzelo in corte, “metti il maiale
in cortile”.
[409] ma la saria megio farla in tante verze, “ma sarebbe
meglio cucinarla con il contorno di verze”, (anche “conciarlo per le feste”,
confronta III.29.1).
[410] no posso star
più in pìe, “non riesco più a reggermi in piedi” (dalla stanchezza).
[411] Pofar Diana, cfr. III.9.2 e Mercante
III.12.23, Cospetto de Diana. ♦ la paura della mutria, deformazione
di mummia, per mutria cfr. Mercante I.12.14, sier
mutria negra.
[412] Se vedessi [...]
giudizio, “se vedeste quella bestia di sopra in cucina che si scalda le
zampe, davvero fa intenerire neanche se avesse la ragione”.
[413] va’ a farghe la vàrdia, “vai a fargli la guardia”. ♦ se i’
porta bezzi ... fuora de casa, “se portano soldi
vieni pure a svegliarmi, ma se te ne chiedono di che son fuori casa.
[414] cagào, nel senso
affettuoso di caro cagào, cfr. II.9.51.
[415] quasi l’ho ditta, topica
forma di attenuazione eufemistica. ♦ el
mio consueto, “la mia abitudine”. ♦ chi va in letto senza çena, tutta la notte se remena, proverbio:
“chi va a letto senza aver cenato si dimena nel sonno per tutta la notte”, non
riesce a riposare. Pantalone digiuno si propone prima di prendere sonno di
canticchiare una canzone per intrattenersi (immancabile come si vede anche
dalle altre commedie un numero canoro del personaggio di Pantalone); dopo aver
scartato l’aria della Nina che ze instizada (arrabbiata)co mi,, ripiega sull’immancabile aria
del flon (d’altra parte cantata anche da Manteca
nell’atto precedente). ♦ prima che ghe dasse quel frasco de pene, “prima
che gli dessi quel frasco (nel senso di rama
“ramoscello fronzuto”) di pene (punizioni)”. ♦ un qualche bacalào / che no sia da pestar,
“un qualche baccalà che non sia da battere”, baccalà nel senso metaforico
di “persona sprovveduta”, (opposto al senso letterale di stoccafisso da battere
cfr. II.14.17). ♦ i sona de liron, “suonano
la lira”, cfr. III.10.1. ♦ Flon, flon, le
parole improvvisate sull’aria cambiano sempre, ma il ritornello rimane
invariato, cfr. II.8.3 e Mercante III.10.1. ♦ tagiar,
ziogo de baston,
termini del gioco d’azzardo, a cui si aggiunge il senso traslato di bastonare. ♦
Allora la sioretta [...] i casca a tombolon, “allora la padroncina quando vede alzare le
mani (che vengono a botte) prende in mano la pala con cui si inforna il pane,
subito i giovanotti (canoncini ), cadono velocemente (percossi dalla donna con la pala)”;
per canoncini si veda il significato
registrato anche dal Boerio di
«sorta di pasta a foggia di cannoncini, termine dei lasagnai».
♦ s’addormenta, la didascalia introduce un altro notturno
per cui bisogna supporre un abbassamento delle luci; come nella scena della
mummia, confermato anche dalla seguente battuta di Arlichino.
[416] a’ l’è scur, ch’ a’ no ghe ved negota,
“è
scuro che non ci vedo niente”, cfr. III.10.3.
[417] cazza via sti gatti de bottega, “manda via dalla
bottega questi gatti”: Pantalone, nel dormiveglia, associa il rumore dei vasi
buttati a terra da Arlichino alla possibilità che
alcuni gatti siano entrati in negozio.
[418] questi è sorzi, che i no pol far altro, i butta le scatole
per terra, “questi sono topi che buttano le scatole per terra, non può
esser altro”. ♦ sbragiar, “sbraitare”. ♦
battendo l’azzalino accende il lume, la
didascalia illustra l’azione di accendere il fuoco della lampada con
l’acciarino (questa volta utilizzato e citato in senso letterale a differenza
di quello che accade in Mercante I.7.8, dove il significato è allusivo
alla scintilla amorosa da accendere: Vorrave
che dessimo fuogo al pezzo, e se ti non ti batti l’azzalin ho paura de no far gnente).
♦ l’ogio de raina,
estratto di raina, termine chimico
«acido derivato dal rabarbaro e da licheni impiegato in farmacologia» (Gdli s. v.). ♦ balsamo de caparozoli,
“estratto di molluschi”. ♦ manco mal che l’è giazzào,
che ghe ne poderò sunar un poco, “poco male che non è allo stato liquido,
che ne potrò raccogliere un poco”. ♦ ma sorzi
no pol esser stài certo
perché no i’ gh’ha tanta forza siguro,
“non possono essere stati i topi (a combinare questo disastro), perché non
possono avere tanta forza di sicuro”. ♦ si no fusse
le scanzie rotte, “se non fossero rotte le
scansie”. ♦ ma no, che i sarave cascài tutti i vasi per terra, “ma no, che altrimenti
sarebbero caduti per terra tutti i vasi” (già prima).
[419] el me la
ficcava, “me l’avrebbe fatta, mi avrebbe scoperto”.
[420] l’eletuario de seppa
xe tutto spanto, “l’elettuario di seppia si è versato tutto”: trattasi ovviamente di
sostanza burlesca; per elettuario cfr. II.16.11.
[421] me insognio, “sto sognando”. ♦
vaga co’ la sa andar, “che vada come deve
andare”, intercalare tipico di Pantalone (cfr. Mercante II.8.4, vaga
come la sa andar, e III.5.33, e che la vaga). ♦ no me vogio levar, “non mi voglio alzare dal letto”.
[422] el me soffega, “soffoca”; Arlichino,
prova a raggiungere di nuovo il letto di Oliveta, che forse confonde con quello
di Pantalone. In questa e nelle scene precedenti si capisce che la spezieria si
trova al piano terra della casa di Pantalone, e che tra bottega e casa vi sia
un collegamento diretto.
[423] servissim del temp, “serviamoci, approfittiamo del tempo”; la successione
tra le scene 16 e 17 è costituita quasi da un rapporto di contemporaneità: Fenochio esce e si trova in strada con i quattro giovani
innamorati, nel momento in cui Pantalone dorme; in realtà noi abbiamo già visto
che la nottata dello speziale è stata alquanto disturbata.
[424] compatibil, “adatta”, a
queste azioni notturne.
[425] sono appunto le quattro della notte, “quattro ore
dopo il tramonto”.
[426] andem tutti al casin, qui Fenochio
si riferisce a un piccolo edificio che ha predisposto come nascondiglio perché
gli amorosi passino il tempo necessario alla realizzazione del piano (cfr.
I.1.7 e Mercante II.7.8, andemo a Muran in casin a marenda). ♦ a tal effet,
“a tale scopo”.
[427] amato cognato, caro cugino, Celio e Leandro
onorano il loro prossimo grado di parentela; cugino nel senso di
“congiunto”.
[428] se a’ volì che la portem fura netta, “se volete che ne usciamo fuori bene”, in
maniera pulita.
[429] III.18.8-11: solita chiusa in rima degli amanti.
[430] razza sfondradona,
tipica
esclamazione ingiuriosa, “brutti bastardi”; per Boerio
sforndradon, vale “stirpe triste,
malnata”, ma anche “razza sfondata”, “insaziabile”; cfr. anche Muazzo, p.967: che riporta le seguenti
espressioni: «che gola sfondradona che gavé! Che razza sfondradona che
sé!». ♦ a era conzad co le çeolette, cipolline; in questo caso i
senso metaforico dell’espresione diventa
letterale. ♦ al corp del bordel,
imprecazione.
[431] int’el mustaz, “sul muso”, “dal muso” (cfr. Bullo
I.5.17, p.73).
[432] somegi, “somigli”.
[433] obligad della bona
memoria che te ha de to pader, Fenochio, dopo che Arlichino gli ha dato
dell’asino, riporta l’epiteto alla buna memoria del padre di lui, (cfr. I.20.1,
per il castrone).
[434] ispiritad, “ho fatto
quasi morire”, cfr. III.6.5.
[435] vechi biribin, come berechin: «[...] guidone; mariuolo; manigoldo; uomo
scellerato», (Boerio), “vecchio
birbone”. ♦ a’ ’l gridava alle
stelle, “gridava a più non posso”.
[436] metterme in sto baraz, “mettermi in quest’imbarazzo”.
[437] a far squartar, modo di dire,
“andare in malora, a farsi friggere”; la passione amorosa di Arlichino è caratterizzata da alti e bassi, cfr. III.6.19.
[438] l’è una piatola, propriamente
“un insetto simile al pidocchio”, ma detto di uomo significa “spilorcio”. ♦
per neguta el se fa vardar dieter, “per niente si
fa guardar dietro”, cfr. Bullo I.5.11, p. 72.
[439] boia, “carnefice”; per
esteso “furfante”, usato in espressioni volgari d’ingiuria o di spregio.
[440] se a’ no gh’ho i contrapes sufficient, doppio senso allusivo.
[441] la rovina del mond, “la rovina
finale”; Arlichino ne ha già combinate molte e per il
momento gli è andata bene, con questa frase esprime la consapevolezza che non
potrà essere sempre così; potrebbe anche trattarsi di un rinvio alla fine della
commedia, che si appresta, rivolto al pubblico. ♦ al sangue del burdel, modo di dire, imprecazione, (cfr. Bullo
I.3.2, p. 70).
[442] Non omne quod
licet est honestum. Lege quod
semper, Digestis De nuptiis, “non tutto
ciò che è legale è moralmente corretto. Sempre secondo la legge, Digesto Sulle
nozze”, la citazione di formule di diritto matrimoniale è presente anche in
Goldoni ne La donna di garbo (III.7.16). ♦ cazuoti,
per “cazzotti, pugni”. ♦ Che dirave el mondo ... de sta fatta, “che
direbbe la gente sull’accettare tutte queste cose quando lo venisse a sapere?”.
♦ odia sunt restringenda,
codice Odia De regulae iuris in 5. Et quia in odiosis non debet fieri extensio, Lucius
Gallus pandectae de Liber et possunt.
“le antipatie sono da rimpicciolire, codice dell’amministrazione delle
antipatie secondo la legge, in 5. E poiché nelle questioni di antipatia non deve
avvenire un’estensione, Lucio Gallo, Pandetta Sul libro dei poteri”, (si prenda
la traduzione come un tentativo di dare un senso alla battuta).
[443] che nobil laurè quel, “che oggetto prezioso
è quello”.
[444] amigaz, “amicazzo”, grande amico. ♦ munera
crede mihi placant hominesque, deosque placatur donis Iuppiter ipse datis, “io
credo che le ricchezze plachino gli uomini, anche gli dei sono placati dai beni
donati da Giove in persona”, questo brano è tratto da Ovidio (Ars amatoria, libro
terzo).
[445] Extensione facti, res melius percipiuntur, quam elocuzione, codice
apostolico De donat, “la dilatazione
dei fatti, rende le cose maggiormente percepibili, rispetto all’espressione,
codice apostolico Delle donazioni”.
[446] Dal mot del viaz; a’ ’l s’avrà un po’ mos, riferito all’orologio che probabilmente in
seguito al trasporto si è sballato negli ingranaggi. ♦ se a’ ’l occuresse
vergota quest me cumpagn a’ ’l ghe
darà una giustadina, “se poi servisse niente,
questo mio compagno potrebbe aggiustare”: evidentemente manca la didascalia
della scena che dichiara la presenza oltre ai personaggi principali di un artefice,
(personaggio muto, che non vine nemmento
elencato all’inizio). ♦ Co te vederò
accupad, allur
sarò content, “quando ti vedrò ammazzato, allora
sarò contento”, riferito ad Arlichino.
[447] sentì el me om, “sentite mio uomo”: con queste parole il Dottore
chiama l’artefice al lavoro, per poi dargli delle confuse indicazioni in
latino. Artifex industria in sua diligentissimus esse debet. Liber
si merces 25. Paragraphus videlicet Pandectae localiter. Et conducti et ratio
est ne decipiantur liber sed et si II paragraphus I et 2 Pandectae De Instititutiones Auctoritates. “l’artefice deve essere assai diligente
nella sua attività” e “lasciarsi condurre dalla ragione senza sciupare”:
sembrano essere questi i due principali concetti espressi dal Dottore per raccomandarsi
con l’artefice della buona riuscita del lavoro, sembra esserci il riferimento,
oltre alla già citate Pandette, alle Istituzioni, altra parte
costitutiva del Corpus Iuris Civilis.
[448] Quel che ... sii possibel,
“fate
quello che dice il padrone, aggiustatelo il più velocemente possibile”: Fenochio sembra qui tentare di tradurre il latino del
Dottore.
[449] Fermet, ch’a’ no l’è negota de mal, “fermo, che
non c’è niente di male”, “niente di cui preoccuparsi”; la battuta è riferita ad
Arlichino che evidentemente manifesta paura per il
martello impugnato dall’artefice.
[450] Anzulina, nome proprio della
serva del Dottore, “Angiolina”, altro personaggio muto, non elencato a inizio
di commedia. ♦ manda zò quater buzolad e un fiaschet de prosequi, “porta giù quattro bussolai
e del prosecco”; per buzolad, “biscotti”,
cfr. II.8.3, moscardini. ♦ da valent,
“da uomo di valore”, come a dire, “alla fe’ che è
così”.
[451] pur ch’ a’ scapeli
sto pericol, “pur che io scampi questo pericolo”,
“purché mi salvi la pelle”.
[452] Quand avrì fenid a’
magnarà sì suppina, il Dottore
pronuncia questa battuta inzuppando il biscotto nel bicchiere di prosecco e,
facendolo, promette altrettanto al riparatore dell’orologio; il biscotto
inzuppato è però prontamente arraffato da Arlichino
che esce dalla cassa dell’orologio.
[453] assassinii, “assalto, furberia, pericolo”. ♦
guidoni, furfant, “malandrino,
furfante”; cfr. I.12.1. ♦ Pantalone con cinquadéa,
Celio e Leandro con spade, alle urla del Dottore, accorrono gli altri
uomini armati in suo soccorso; per cinquadéa,
arma da taglio portata da Pantalone, cfr. Bullo I.11.18did,
p. 80.
[454] questo ferro, intendendo
la spada.
[455] Te si’ un trist, “tu sei un miserabile”: quando Fenochio dice nella battuta precedente che spiegherà il
tutto, il Dottore deduce, evidentemente conoscendolo, che è stato lui l’ideatore
della beffa.
[456] Mazél, “ammazzatelo”.
[457] quali stride feriscono l’etra, “quali grida
trafiggono l’aria”; etra è antico per “etere”.
[458] espressiun, intende
l’esprimersi in toni affettuosi di Leandro nei confronti di Vittoria.
[459] No ve lassé
dall’osso, “non allontanatevi dal giusto, non esagerate”: anche
Pantalone commenta i toni di Celio nei confronti di Beatrice; cfr. I.7.10
[460] Adesso cognosso el marzo, “adesso capisco l’inganno, la cosa
nascosta”.
[461] III.23.23-24: Arlichino monta subito su
tutte le furie, ma il Dottore gli dice che deve aver pazienza, come tutti gli
astanti, ed aspettare la fine del racconto di Fenochio.
[462] ch’a tal oget ho condot,
“che ho accompagnato lì a questo fine”.
[463] III.23.30-31: i genitori si mostrano indispettiti perché i figli si
sono accordati per le nozze a loro insaputa. ♦ sier
scagaza, “signor cacasotto”; (cfr. I.11.10). Segue
una sequenza rimata corale, che avvia la commedia alla naturale conclusione.
[464] Neron,
imperatore romano, proverbiale per la sua crudeltà.
[465] Volìo ch’ a’ batti le lume, “volete che accenda i lumi battendo l’acciarino”, qui vale “devo
reggere il moccolo”, dal momento che Arlichino
risulta l’unico non accoppiato; cfr. Bullo, mi a’
no ve vogh far lum, III.3.2, p. 94.
[466] ex delicto suo commodum nemo debet
reportare. Liber Auxilium, Pandectae
De Minoribus, “da una propria
colpa nessuno deve ricavare un vantaggio. Libro Ausilio, Pandette Dei Minori” (Nemo
ex suo delicto debet reportare commodum è una
frase molto comune in compendi di norme giuridiche civili).
[467] dopo l’ennesima citazione latina del
Dottore, anche Fenochio commenta con la saggezza
popolare di uno dei proverbi più comuni.
[468] ghe l’avémo giusta cazzada dove che la gh’andava, “gliela abbiamo proprio fatta a puntino,
ci siamo vendicati”, osceno, (per cazzar cfr. II.10.1); qui il
significato è assimilabile a quello di ficar,
(per cui cfr. I.18.1).
[469] Oliveta, contrariamente alle aspettative,
accetta la decisione del Dottore.
[470] Co mi ti t’ha da quietar, veh, sassina, “con me devi stare tranquilla, guarda,
assassina”; Arlichino ricorda la mala accoglienza di
Oliveta (in questo senso sassina) nella
scena decima del primo atto, ma si veda anche Bullo III.2.5, p. 94.
[471] che el te condona, “che ti perdoni”.
[472] tiranaz, “grande
tiranno”. ♦ Nihil est amore vehementius, quam cohibere est perfectae nam trahit
superos, omniaque vincit amor, “nulla è più forte dell’ amore, che tiene
insieme tutte le cose perfette e attrae ciò che è superiore, e l’ amore vince tutto”,
il Dottore qui condensa due citazioni: la prima è classica da compendio
giuridico furore amoris nihil
est vehementius; la seconda è una citazione
virgiliana: omnia vincit amor, (Bucoliche, X,
69).
[473] l’annel nel
quarto dit della man sinistra, cioè
nell’anulare: simbolo dell’unione matrimoniale. ♦ Et quia in illo adess
vena, quae ducit ad corpus
ut quasi cordibus sponsi coniunguntur iuxta illud. Aulus Gellius
liber 10, capitulus 10, “e
poiché adesso (adess) esso è nella vena che
conduce al corpo così che gli sposi sono quasi congiunti coi cuori presso
quello. Aulo Gellio, libro 10, capitolo 10”.
[474] vogio resecar la spiziaria, “cancellare”, “annullare”, “dismettere” (Gdli). ♦
sigurandove ... ma da padre amorosissimo, “promettendovi
che dopo la mia morte mi comporterò non come uno suocero (missier),
ma come un padre assai affezionato, (cioè lasciandovi tutta l’eredità)”.
[475] in hoc punto ego quoque,
“in
questo punto anch’ io”. ♦ medesimat, “nel
medisimo modo”, (non esiste in latino). ♦ ita
dicam, “così dico”. ♦ Benefita
tamen debent conferri citrà iniuriam et preiuditium alterius, Liber non dubium Pandictae De Legibus, “i
benefici tuttavia devono esser portati al di qua delle ingiurie del il pregiudizio dell’altro (sarebbe corretta la scrittura
praeiudicium), Libro senza dubbio, Pandetta
sulle leggi”. ♦ spos d’Angelina me
serva, anche a Fenochio, infine, è riservata una
consorte: la serva del Dottore che è stata soltanto nominata nella scena
ventiduesima. ♦ al servizi della communità, intendendo
forse di
entrambe le famiglie.
[476] Il miscuglio latino-bolognese del Dottore
si è fatto più ingarbugliato nella battuta precedente.
[477] La battuta finale del dottore è una specie
di topica delle trite battute di tradizione per il lieto fine.
[478] Xe alta, disé, la luna? Cosa mai diséu, Dottor caro?, Pantalone richiama il Dottore, che si è lasciato andare come al
solito con le parole, dicendogli che ormai la notte è fonda (visto che la
luna xe alta) e bisogna concludere la
rappresentazione.
[479] III.23.71 e seguenti: un doppio distico in rima, pronunciato questa
volta non dagli amorosi ma dai vecchi genitori, conclude l’azione.