Giovanni Bonicelli
Pantalone bullo
overo La pusillanimità coverta
Comedia di Bonvicino Gioanelli
a cura di Maria Ghelfi
Biblioteca Pregoldoniana
lineadacqua edizioni
2013
Giovanni Bonicelli
Pantalone bullo overo La pusillanimità
coverta. Comedia di Bonvicino Gioanelli
a cura di Maria Ghelfi
© 2013 Maria Ghelfi
© 2013 lineadacqua edizioni
Biblioteca Pregoldoniana, nº 2
Collana diretta da Javier Gutiérrez Carou
www.usc.es/goldoni
Venezia - Santiago de Compostela
lineadacqua edizioni
san marco 3717/d
30124 Venezia
tel. +39 041 5224030
www.lineadacqua.com
info@lineadacqua.com
ISBN dell’edizione compeleta: 978-88-95598-21-5
La presente
edizione è risultato dalle attività svolte nell’ambito del progetto di ricerca
Archivo del teatro pregoldoniano (FFI2011-23663) finanziato dal Ministerio de Ciencia e
Innovación spagnolo. Lettura, stampa e citazione (indicando nome
della curatrice, titolo e sito web) con finalità scientifiche sono permesse
gratuitamente. È vietato qualsiasi utilizzo o riproduzione del testo a scopo
commerciale (o con qualsiasi altra finalità differente dalla ricerca e dalla
diffusione culturale) senza l’esplicita autorizzazione della curatrice.
Biblioteca
Pregoldoniana, nº 2
Nota
al testo
Edizioni utilizzate
Di seguito offriamo l’elenco e la descrizione delle
edizioni di cui si è tenuto conto per la presente edizione del Pantalone bullo. Si tratta di una
tradizione di testi esclusivamente a stampa che non presentano un panorama
significativo di varianti.
1.-
PBp
PANTALONE / BVLLO, / OVERO / LA
PVSI<LL>ANIMITA’ / Coverta. / <C>O<MME>DIA / DI BONVI<CINO
GI>OANELLI. / [riga orizzontale] / CONSACRATA / Al Molt’Illustre Signor /
PIETRO ZIANI. / [insegna] / I<N> VENETIA, M.DC.LXXXVIII.
Alle
pp. 3-5 si colloca la dedica:
MOLT’ILLVSTRE / Signore. / [segue
la dedica che si chiude con] / Di V. S. Molt’Illust. / [e a fondo pagina] /
Humil. Osseq. & Affettuos. Serv. / Gio: Pietro Pittoni.
Alla
pagina successiva si colloca l’elenco dei personaggi. La commedia va da p. 7 a p.
81.
2.-
PBl
PANTALONE / BVLLO, / OVERO / LA
PVSILLANIMITA’ / Coperta. / COMEDIA / DI BONVICIN GIOANELLI. / [insegna che
rappresenta un uomo che cammina] / In Venetia, Per il Lovisa, à Rialto. / [riga
orizzontale] / Con Licenza de’ Superiori.
Alla
pagina successiva si colloca l’elenco dei personaggi. La commedia va da p. 6 a p.
84.
3.-
PBm
PANTALONE / BVLLO, / OVERO / LA
PVSILLANIMITA’ / Coperta. / COMEDIA / DI BONVICIN GIOANELLI. / Seconda
Impressione. / [riga orizzontale] / CONSACRATA / All’Illustrissimo Signor /
GIOVANNI / SENACHI. / [insegna] / IN VENETIA, M.DC.LXXXXIII.
/ [riga orizzontale] / Per Sebastian Menegatti. / Con Licen<za de’
Superiori.>
Alle
pp. 3-5 si colloca la dedica:
ILLVSTRISSIMO / Signore. / [segue
la dedica che si chiude con]/ Di V. S. Illustrissima.
/ [e a fondo pagina] / Humil. Devot. & Oblig. Serv. / Sebastian Menegatti.
Alla pagina successiva si colloca l’elenco dei
personaggi. La commedia va da p. 7 a p. 81.
4.-
PBp2
PANTALONE / B<V>LLO, /
O<V>ERO / LA PVSILLANIMITA’ / Co<p>erta. / <C>O<ME>DIA
/ DI BON<VICINO GIO>ANELLI. / [riga orizzontale] / CONSACRATA / Al Molt’Illustre
Signor / PIETRO ZIANI. / [insegna] / <IN> VENETIA, M.DC.LXXXVIII.
/ [riga orizzontale] / P<e>r Leonardo Pittoni Lib<raro à San Mar>co
/ Con Licenza de’ Superi<ori e Priv>il.
Alle
pp. 3-5 si colloca la dedica:
MOLT’ILLVSTRE / Signore. / [segue
la dedica che si chiude con]/ Di V. S. Molt’Illust. /
[e a fondo pagina] / Humil. Osseq. & Affettuos. Serv. / Gio: Pietro
Pittoni.
Alla
pagina successiva si colloca l’elenco dei personaggi. La commedia va da p. 7 a p.
81. A p. 82 si colloca un messaggio del libraio al lettore:
IL LIBRARO / al Benigno Lettore...
5.-
PBr
PANTALONE / BVLLO, / OVERO / LA
PVSILLANIMITA’ / Coperta. / COMEDIA / DI BONVICIN GIOANELLI. / Seconda
impressione. / [riga orizzontale] / CONSACRATA / All’Illustrissimo Signor /
GIOVANNI SENACHI. / [insegna] / IN VENETIA, M.DC.LXXXXIII.
/ [riga orizzontale] / Per Vettor Romagnio. / Con Licenza de’ Superiori
Alle
pp. 3-5 si colloca la dedica:
ILLVSTRISSIMO / Signore. / [segue
la dedica che si chiude con] / Di V.S. Illustrissima. / Humil. Devot. &
Oblig. Serv. / Sebastian Menegatti.
Alla
pagina successiva si colloca l’elenco dei personaggi. La commedia va da p. 7 a p.
81.
L’edizione
più antica di cui si ha notizia, PBp, è il testimone su cui si basa la presente
edizione, mentre PBp2 risulta identica a PBp.
PBm è
una seconda impressione. Si differenzia per la data (1693 invece di 1688), per l’editore
(Sebastiano Menegatti) e per il destinatario della dedica (Giovanni Senachi), mentre
per quanto riguarda il confronto del testo, esso risulta identico a quello delle
altre copie.
La
stampa edita dal Lovisa, PBl, non riporta né la data, né la dedica, ma è la
copia meno danneggiata. Anche PBr è in buono stato e ha permesso di integrare
con PBl una lacuna ed alcuni errori presenti nelle altre copie; precisamente
nei seguenti punti:
I.3.5:
«da dar via», solo PBl riporta la preposizione «da».
III.10.3:
in PBl e in PBr è perfettamente leggibile la frase «perché l’è vecch, ma che a’
no l’avì volsud far mal».
III.Ultima:
PBl e PBr riportano «diverse», le altre copie compare «dioverse».
III.Ultima.
6: in PBl e in PBr si legge «che me credeva», mentre nelle altre copie il
pronome «me» è ripetuto due volte.
Si segnala infine un’ultima variante
di PBl:
I.1.2:
si trova «truca a traversar i campi», invece di «trucar o traversar i campi»
che si trova in PBp; o «truca o traversar i campi» in PBr.
Tutte
le copie presentano in diversi punti cadute di caratteri. In questi casi,
quando la caduta di carattere è evidenziata da uno spazio vuoto all’interno di
parola e il significato appare chiaro, le integrazioni non sono segnalate (ad
esempio I.2.9: dove compare «sc do»[1], è
stato trascritto «scudo»).
Elenco
infine i punti in cui sono stati operati degli interventi che non saranno
segnalati nel testo in quanto considerati guasti tipografici e non varianti.
I.5.18:
è stato trascritto «dofevi» con «do<v>evi».
I.7.3:
la forma «dispido» è stata interpretata come agglutinazione involontaria ed è
stata sciolta in «di spido».
I.9.1:
è stato trascritto «infruire» con «inf<l>uire».
I.9.1:
in «aggiasi» è stata ipotizzata una caduta di carattere, anche se non
evidenziata dallo spazio vuoto; è stata pertanto operata un’integrazione, per
cui nel testo si troverà «aggi<r>asi».
II.2.1-3:
in queste tre battute è stato necessario un intervento per ricreare la
corrispondenza tra il personaggio e le parole dette durante l’azione descritta
dalla didascalia:
Dove compare è stato
riportato
«mezzetino
Chi batte Spinetta? «spinetta
Chi batte?
spinetta Oh, de casa, chi è la bestia?» mezzetino
Spinetta! Oh, de casa!
spinetta Chi è la bestia?»
II.6.3:
è stato trascritto «pago» con «pag<a>o».
II.6.37:
è stata aggiunta la preposizione all’espressione «fuora del corpo <de>
quella vacca».
II.11.1:
si trova «forùo», ma è stato cambiato in «fo<t>ùo».
III.3.5:
è stato inserito un articolo nell’espressione «oggi <i> miei lumi».
Pantalone bullo
overo La
pusillanimità coverta
Comedia di Bonvicino Gioanelli
INTERLOCUTORI
pantalone padre di Rosaura
mezzetino,
momoletto,
liguro,
varisco soldati
di Pantalone
rosaura figlia di Pantalone,
amante di Cinzio
cinzio figlio del
Dottore, amante di Rosaura
dottore padre di Cinzio
brighella servo di Cinzio
spinetta dama di Pantalone amante
due baroni che giocano al redutto
un contadin che vende le polastre
un cestarol
madonna laura dama di Pantalone lascivo
bettina de’ carampane dama
di Mezzetino
capo del magazen
luganegher
bedana,
menacai ebrei
capo de ballo
un forner
La scena è
in Venezia.
atto
primo
SCENA
I
Dame e cavallieri che giocano alle carte in
capo della scena.
Altra
gente che giuoca per terra; Pantalone intabarato, accompagnato da Mezettino e
suoi soldati, dà una buonissima occhiata a’ giocatori e poi dice:
pantalone Se zioga, se zioga; oh, visetti inzuccarài! Mo vardé che
pani d’onto sotìl, mo no fàlli vogia? Che diséu, compare Liguro, no fàlle andar
in aqua de viole?[2]
liguro Eh, sior Pantalon, mi no me piase véder
sti panetti perché no i xe carne per i mi’ denti, ma me piase, se m’ intendé
sior, trucar o traversar i campi.[3]
pantalone Oh, che bestia! Ti no gh’ha altro inte’l cuor ch’impenirte
la panza; di’, caro compare, risegheràvistu un mezo ferro co sti zovenotti?[4]
liguro Mi, sior patron, si ghe podesse far de
so nona, el risegheria po anca mi, ma ohimè, che sento che le mie scarselle fa
el verso del gatto: gnaun, gnaun![5]
5 pantalone Orsù, non te dubitar, che mi metterò
in tola sie bezzi, per véder se ghe podesse trucar a sti polachi un pèr de
ferri: orsù, varda cossa che vogio far.[6]
(Pantalone si porta al banco delli baroni e
così dice)[7]
SCENA
II
Pantalone ed un Barone.[8]
pantalone Zioghéu,
meloni?[9]
barone Sior sì che zioghemo, sior
Pantalon; se ve piase anca vu metter un ponto se’ paron.[10]
pantalone Mi
no vogio tante ciaccole: re a sto mezo ferro!
(Pantalone pone in banco mezo ducato, poi
dice verso il barone)
Ah, ti ghe fa
de so nona nina nana, sier fio d’una curarisi; no vogio altro, no.
(Pantalone ritorna ad un altro banco de baroni
e poi dice)
Zioghéu
forsi a descarga barile, disé, gambari da Treviso?[11]
barone Nu zioghemo alla bona bassetta:
se ve sentì de ziogar anca vu, fuora bezzi, che tagio.[12]
5 pantalone Pian, sier muso de màmera, sier fio d’una
pestapévere, mùete quel muso, sinò te darò sta sgnièsola su quel bàbio! Senti,
mi metto in tola i bezzi da galantomo, varda mo, no me burlar.
(Pantalone pone in banco un
scudo rasonato, poi così dice)
Cavallo
a sto çechin![13]
barone Questo l’è un scudo rasonato!
Podé giusto andarlo a taccar al collo alla gatta.
pantalone Liguro, adesso l’ è
il tempo de farghela far in cainello: ah, sier muso de tola, voléu che ve fazza
andar el naso da drio la copa e le gambe in çima la testa?
barone Mi burlo? Sior Pantalon, se’ patron de questo e anca de
altro, ma zioghé da galantomo, se volé ziogar.
pantalone Da galantomo, sier bestia? Ti gh’ha
tanto ardir de dir?
(li getta le carte nel viso e poi si porta
al banco de’ cavalieri e poi senz’altro pone sopra il giuoco una liraza)[14]
Cavallo
a un mocenigo!
SCENA
III
Cinzio incognito; Pantalone e i suoi soldati
e anco Mezettino.[15]
cinzio Ah,
chi v’insegna il modo di mischiarvi tra dame e cavallieri?
pantalone È fenìo el mandolato, è saltào su un citronato: se le
fusse dame o pedine, mi son un galantomo, e no me vegnì a romper el cào,
perché, al sangue de tre lire e do soldi, ve farò andar quell’albasiazza fuora
de quel corpazzo, sier muso da zaletto, e fin che semo su ste piere cotte no gh’avemo
paura de quelle màmere!
(ritorna a giocar e vi pone mezo ducato sul
banco)
A nu, siori
scartozzi. Re e asso a sie bezzi per banda; questo è un mezo ferro; vardé, no
ghe fé de deolìn, perché no gh’ho i occi fodrài de persuto, no so se m’
intendé.[16]
(Cinzio li getta di nuovo il denaro per
terra e poi dice)
cinzio Signore, io non so chi vi siate, ma mi
maraviglio che non vi sete servito del primo avviso: ve l’ho detto un’altra
volta che questo non è giuoco per voi, ora intendetemi, se non vi farò imparar
la creanza.
pantalone Che creanza, che creanza? Della creanza ghe n’ho da dar
via, sier canapiolo!
(verso i soldati) Momoletto, Liguro, gué
quel vostro subiotto, che vogio che ghe la sonemo. Alla prima ho tasesto, alla
segonda ho fatto vista de no incurarmene, ma alla terza (se la ghe passa) el
puol ben dir che l’è nassùo do volte. Allerta omeni, metté la vita per el
vostro campion. Adesso vago, e co vedé che quei conti da Marocco i me faga
gniente de brutto muso, sté allesti.
(torna di nuovo al banco de’ cavalieri e li
dice)
Zioghemo,
zioghemo siora maschera a qualche bel ziogo; gh’ho dei bezzi, vedé siora.
(verso della medesima) E me fazzo onor
anca mi co voggio; digo mo, perderia qualche cossa o alla bassettina o a
trionfetti o alla meneghella.[17]
(Cinzio lo piglia per un braccio, poi li
dice)
5 cinzio Guardate che bricone! Io non
so chi mi tenga che non sfoghi cotesta destra sopra di voi; questo sol mi
trattiene: che sarei stimato d’animo vile se mi cimentassi con un barone.
pantalone A pian, sior, a pian; parléu forsi co mi? Si parlé co mi
vardé che ve tagierò la ose e ve darò sta seppa su
quella zuca, sier muso de luna, sier mandolato grancio, sier schena da legnàe!
No so chi me tegna che no ve fazza batter la calcosa a Legnago. No vegnì a far
el bell’umor con chi è nassùo su ste piere cotte.[18]
(Pantalone li dà una mano nel volto)
cinzio A me, pezzo di bullo?
(Quivi Mezettino, Liguro, Varisco e
Momoletto, soldati di Pantalone, combattono contro i cavallieri e Pantalone sta
sempre indietro; fuggono le dame e li soldati, assieme con Pantalone, restano
vittoriosi)
SCENA IV
Pantalone
con Mezettino e suoi soldati doppo il combattimento restano.
mezzetino Vittoria, vittoria! Cancher siur
patrù, se a’ no foss stat mi a’ restévim tutt mort senz magnar più macherù ben
informaiabili e imbutirabili: ma a’ me sent che ‘l me ventr a’ ‘l pianz, quasi
dicat: «Signor Pantalone, andiamo un poco a manducare?»[19]
pantalone Oh poltron, ti tiravi delle stoccàe alle mosche per
àgiere! Ma zà che i è scampài bisogna mo che andemo a cattar da magnar, perché
sento che ti gh’ha fame. Oh via, tìrete da una banda, che vien un polaco: vogio
vardar se podesse cavarghe un puoco de moneaza.[20]
SCENA V
Vien
il Dottore travagliato, Pantalone in disparte.
dottore Una ziezolina, a’ ho zust catad
chi andav a cercand; a’ ‘l dis ben el proverbi che chi cerca a’ i catta: mi a’ ho cercad, volt de zà, volt de là, pu al fin
(laudat el ciel) a’ ho zust catad chi andav a cercand. A’ ve salud, el me car sior Panz-de-limon.[21]
pantalone Mi, panza de limon? Me tiolé in fallo,
caro Dottor da buèi, mi son ben sior Pantalon de’ Bisognosi, el più ricco che
sia in çeca, el più potente che sia in sta cittàe, el più bello che sia in sto
mondo: mo varré, caro sior Dottor, che bel visin che gh’ho; son allesto, son
gagiardo, e me piase anca mi, sior, se m’intendé, far quel che fa ogni
galantomo: mi tagio nasi, rompo brazzi, scavezzo gambe, e se ve piase un puoco
provar la mia bravura lasseve dar sta bacchetina de legno dolce sora el cào.[22]
(Pantalone li mostra un grosso bastone)
dottore Una fava, ‘na bagatella, a’ non
son miga un bu o un sumàr, viddì sier Pianta-limon, a’ son venud ca per un
servici, mi; a’ so che l’avrò.[23]
pantalone Comandé pur liberamente. Voléu che
ghe daga a qualchedun sta seppa su la magnaòra, opur voléu che ghe daga una
cinquantina de bastonàe su la crepa co sto baìcolo?[24]
(li
fa vedere un altro pezzo di legno)
5 dottore Una
zizolazza! Mi a’ ho ricevud un affront…[25]
pantalone Un affronto al sior Grazian? I pol
ben dir colori che, co se’ vegnùo da mi, che i è morti avanti che i veda.
(verso Mezzetino) Adesso è el tempo,
compare Mezetin, che ghe cavemo un po’ de moneaza.
mezzetino (verso
Pantalone) Fé prest, caro sior Pantalun, che a’ ho una fam che crep!
dottore Ah,
cosa dist pultrun, che ti ha fam?
mezzetino Mi a’ digh che a’ magneria un piat de
macherù ben infurmaiadi.
10 pantalone Compatìlo, sior Dottor, siben che el
dise così, el vuol mo dir che el beveria l’acqua de vita.[26]
dottore A’ i’ la pagherò mi, po anch che
a’ son liberal e no me faz guardar dieter.[27]
pantalone A pian, sior Dottor, che so che se’
galantomo, che la beveremo po anca insieme co sti mi’ compagni (a parte) oh che polacco!
dottore Uh,
uh, uh, uh, poveret mi!
pantalone No
ve spaurì, no sior, conteme pur le vostre desgrazie.
15 dottore Stamattina a’ sun andà in
Pescaria per comprar del pes, ed in quel che a’ fo el mercad a’ ‘l vien un pez
de baron e sì a’ ‘l dis: mi a’ vòi quel pes.[28]
pantalone A
un Dottor incalzarghe el pesce? I merita la morte![29]
dottore Quest l’è una bagattella! A’ disi
pur che in quel che digh: «l’è me sto pes», lu el l’ha ciapad e sì el me l’ha
pestà sul mustaz.[30]
pantalone Sul mustazo? Oh, co’ dovevi parer bon
perché se’ tanto una bella civiera![31]
dottore Quest l’è poch! In quel che li
sgrid el me diede un cortelaz inter
utraque crura.[32]
20 pantalone Oh, caro sior Dottor, le me despiase
po ben ste desgrazie; ma certo che avanti che passa mezo dì el vogio sbudelar.
dottore A’ no vogi tant mal, a’ son
compassionevol; me basta sol che ghe dié quater legnad per farghe far un po’ la
cachina int’i calzun.[33]
pantalone Eh, no me metto in ste bagattele; co
no gh’ho da voltarghe la panza da drio no faremo gniente: queste le è cose da
putèi e no da bravi de la mia sorte. Oh via, per contentarve, ghe darò
cinquanta bastonàe su la crepa; ma chi èllo mo costù, che mi no ‘l cognosso?[34]
dottore Quest l’è un che el prattica in
bottega del salumier dal Bus, l’è un bul che porta el tabar sott el braz, l’è
moro in vis, grassot come mi, co la caviadda rizzotta.[35]
pantalone No me sté a dir altro, el cognosso. L’è
un porco (co reverenzia parlando) che no ‘l val un bezo, so co chi ho da far,
avanti stasera vogio che el vedé a portar via in quattro.[36]
25 dottore A’ ringrazi anch mi el vostr
affet, a’ sodisfarò po anch le mie obligazion.
(Dottor si parte e Pantalone li va dietro e poi lo trattiene)
pantalone Sior Dottor, una parolina in recia:
gh’è sti mi’ omini che i dise che i beveria volontiera
la malvasia, accioché la ghe faza più forza, se volé che i faza el servizio
come che el va fatto. Per mi no vogio gnente, vedé sior.[37]
dottore (a parte) L’ho intes el me om.
(ad alta voce) A’ no ho troppo moneda
ados, ma però a’ ho cinque ducat: tolì e godéli da parte mia, ma fé almanch el
servici come el va fat.
pantalone No, no sior, dégheli pur a mio
compare Liguro, che de questi mi no ghe ne vogio; me basta solo che me vogié
ben.
mezzetino (a parte) Co fa el gatt all’ aiada![38]
30 dottore Mo no gh’è el più galantom del
signor Panza-de-limon, venì zà, che a’ ve vogi dar un pèr de doble, acciò le
godì da parte mia.[39]
pantalone Ve ringrazio, no so che dir, sior: a
bon véderse, sior eccellentissimo.[40]
SCENA VI
Restano
Pantalone, Mezetino e suoi soldati.
pantalone Sàstu
mo cosa che avemo da far, Mezetin?
mezzetino A’
‘l so mi, sior.
pantalone Che
cosa?
mezzetino Se
no me ‘l desì![41]
5 pantalone Oh, bestiaza! Nu avemo da andar a
visàrghelo a custù che el sior Dottor ghe vol far dar, e lu subito el dirà: ve
ringrazio del vostro aviso; de più el ne darà della maroca. Anzi ghe diremo se
el vuol che ghe demo delle bastonàe al Dottor, lu dirà de sì, e nu i
mincioneremo tutti do e ghe caveremo della moneaza. Ma vien qua, senti, dighe a
costù, sastu, che l’è Tolereto dal pesce, quel fante nostro amigo, che ti sa
che l’è veccio della nostra bottega, che el camina per sti do dì in Castello, e
che mi caminerò per Àrzere a Santa Marta, che così no se catteremo certo.[42]
mezzetino Ben, sior patrù, ma mi me sent una fam che a’ crep, vorìa
un po’ magnar.
pantalone (verso
i suoi soldati) E vuàltre, canagie, avéu fame?
tutti i soldati Nu
no podemo più star così, si no andemo a magnar!
pantalone Oh via, Mezetin, ti ti ha da andar a tior siora Bettina;
vu, compare Liguro, tioré siora Betta Potón, e mi tiorò la priora de’
Carampane.[43]
10 mezzetino Chi
èlla mo, sior patrù?
pantalone L’è madonna Laura, quella sguerza, ma poco importa; e
quando le saré andàe a levar, anderemo al magazen.[44]
mezzetino A
qual mo, sior? Al Gàfar? O alla Calesella?[45]
pantalone Mi, si ti vuol che te diga la veritàe, Nane a Castello l’è
galantomo, ma quei calafài co quelle so manere, mi no vorria che catessimo da
criar. Toni, in Ruga Giuffa, el gh’ha del bon vin, ma gh’è quei barcarioli dal
traghetto, che i è tante bestie che per niente i catta
da dir. Tita alla Crosera l’altro dì ti sa che el n’ha dà un vin che el m’ha
fatto voltar le buèlle. Zanetto al Gafaro el me fa ciera, ma no ghe credo a sti
gattoni. Momolo a San Polo l’è una bestia, che avemo fatto tante volte le
manàtole per i pironi.
Checo in
Canareggio no ‘l gh’ha vin che vaga un bezzo. S’andemo alla Luna gh’è quei
conti dalla Mirandola che i me fa paura. Vustu che andemo alla Cerva? Ma,
ohimè, che gh’è quei fachini da San Bortolamio co quelle so mazoche che i fa
star in cervello. Mi anderia al Salvadego, ma gh’è quei spaderi che i porta sotto certi baìcoli che no i me piase.
Si andemo
alla Scóa, gh’è quei fachini dalla Riva dall’Ogio che sempre i varda i fatti d’
altri. Mi andaria da Giacomo a Sant’Apostolo, ma gh’è sempre sier Silvio che el
me varda co malloccio. Si andemo alla Corona a Santa Margherita el capo è mio
compare, ma no ‘l stà mai a bottega, e sì el lassa che quel muso de màmera de
Dorigo el faza el paron, ma mi no me piase quel so muso. Ma varda, revarda, no
trovo el più galantomo, né el più magazen che gh’abbia bon vin, che mio compare
Menegon ai Barri. Orsù, andé vualtri a far quel che v’ho ditto, che mi anderò
dall’Orese dal Capriccio per véder de cavarghe un po’ de moneazza, perché l’altro
dì gh’ho tagiào le gambe al so nemigo. Orsù, andemo.[46]
mezzetino E
mi anderò a tior siora Bettina e sì magnerém!
SCENA VII
Cinzio
e Brighella.
cinzio Ah, Brighella, ben m’aveggo
ch’amore va bendato se mi fece invaghire d’una maschera che co suoi splendori
offuscò i miei lumi. Ma come, oh numi, lasciate ch’io resti in preda del mio
dolore? Nel gioco con quella dama perdei, ma non contenta essa di vincere, mi
volse ancor rubbare il core. Ah, Brighella, si può ritrovare alcuno più di me
sfortunato? Mentre n’ero per indagar chi fosse quella dama mascherata, ne venne
un pezzo di bullo che co sue impertinenze fece fuggire il mio sole, benché
coperto con nuvole di veluto.[47]
brighella Eh, sior Cinci, no v’affligì tant per non aver possud
conuscer quella mascherina, che mi a’ ‘l procurerò de saver chi l’è stada, ma a’
‘l me despiase ben de sto negoci, che me desì, de sto bul: se a’ podissi darme
almanch qualche segn, forsi che a’ rimedieria a la viltad della vostra fuga;
compatim, vidì, se parl liberament.[48]
cinzio Ah, sai perché ne fugii da quel bullo?
Non perché temessi di sua bravura, ma per seguir il mio bene, benché nella
fuga, per mio maggior dolore, l’abbia smarrito. Di questi se desideri che ti
dia contezza, questa, dico, è una persona già avanzata negli anni: incanutisse
sopra il crine l’età, armato di spido nello cimento,
smonto il volto, aride le membra, e quasi che trema per tante armi che seco
porta, ed in vero non saprei a chi potessi meglio assimigliarlo se non ad un
gambaro pe’ ‘l il suo fiammeggiante colore.[49]
brighella Non più sior Cinci, me basta sol quest contrasigni: lu,
sior, è el mazor pultrun che zappi terra, el fa un poch el brav perché el va
compagnà co certi baruni, ma no ‘l val miga un quattrin. Mi siguro, se però el
ve pias, a’ ‘l andrò a sfidar da sol a sol, e ghe dirò
che el signur Cinci desidera de far duel, e così a’ scopriré la so codardia.[50]
5 cinzio Accetto il partito. Ma più mi
calle il poter sapere chi ne fosse quella maschera, che veruna già ben formata
dalla natura sotto d’un volto rassembromi. Eh, caro Brighella, già so che per
il passato mi fusti servo fedele, or ne farò prova maggiore della tua fedeltà:
se tu mi prometti di farmi avere per isposa quella maschera io ti giuro, da
cavalliere che sono, d’amarti come amico, non come servo.[51]
brighella No ve sti’ miga a indubitar, sior Cinci, che farò tant
che sapré: andé pur a far i fatti vostri e mi andrò a cercand de costù per
dirgh quel che a’ v’ ho dett.
cinzio Ricordati di me, caro Brighella, se l’alma
mia non vuoi che presto pera.[52]
scena
Viii
Brighella solo.
brighella Oh che bell’imbroi che è quest! El
me patrù ama siora Rosaura come mascherina non conosuda e po el l’abboris senza
maschera: a’ ‘l bisogna certo cattar qualche industria, perché el me fa compassiù,
sto me patruncin.
Anca mi co
giera zovenot a’ ‘l me piasiva le putàzole, ma ades el me pias più i macherù,
perché debot a’ no ho più dent, ma quest poch importa.
A’ ‘l bisogna
che a’ vaghi da sior Pantalun e che a’ ghe dighi com el sior Cinci a’ ‘l vuol
combatter da corp a corp, e po’ a’ ‘l bisogna che me porti dalla siora Rosaura
a raccontargh l’affan del me patrù, che no a’ ‘l dorm né dì né nott per le so
bellezze, quand che l’è mascherada, perché a’ ‘l no la conòs. Ma apunt la vien
fuor de l’us: a’ vogi un poch sentir qui int’un cantù quel che la dis.[53]
scena
ix
Rosaura
appassionata e Brighella in disparte.
rosaura E quando mai, oh stelle,
lascierete d’influire sopra di me sì maligni influssi? Quando mai, oh cielo,
darai termine a’ tuoi furori per bersagliarmi? E quando mai, oh cieca dea, ti
stancherai di girarne la rota a’ miei danni? Amo, qual Medea costante, Cinzio
il mio bene, ed egli, qual Giasone, m’abborre; egli solo è la meta alla qual si
accellera ogni mio desiderio e pur mi fugge, egli è il foco intorno alla quale
di continuo aggirasi la farfalla degl’occhi miei, lui
solo è la morte che non desiste d’affliggermi. Sommergetevi pertanto in un mar
di pianto, oh miei lumi, e date loco al dolore, acciò sempre mai si stempri in
duri affanni.[54]
brighella Cos’è,
siora Rosaura, perché pianzìu?
rosaura Ah Brighella, lascia che mi sommerghi ne’
pianti perché mi scorgo mal corrisposta dal tuo patrone. Egli sa pure che qual
fenice mi do vanto d’arder ne’ suoi bei lumi senza punto incenerirmi.[55]
brighella Eh siora patruncina, impromettìm de darme qualch cos de
bel, che mi a’ farò tant che el sior Cinci el sii voster spus avanti che a’ ‘l
passi duman.
5 rosaura Tu mi lusinghi, eh? Ma come, se
sai pure che egli m’abborre qual più fiero mostro della Libia.
brighella Tant’è: no occur alter se a’ volì che ve fagh el serviz
co ‘l va fat, me content solament che a’ me fi’ un par d’abiti megiur de quest,
che cert a’ v’impromet che el ve dagh le zattine.[56]
rosaura Ma come, oh cieli, se egli forsi deve sapere anco che mio
padre, or ch’è già avanzato negl’anni, sempre più si
dà in preda d’ogni sorte di lascivie e di ribaldarie? Si può ritrovar sotto il
cielo più sfortunata di me, che il genitore ancora coi suoi vizi ne sii remora
alle mie contentezze?
brighella Avì da savìr, signura, che el sior Cinci el m’ha promes
de spusarvi, non come vu, siora Rosaura, ma com mascherina non conossuda. Mi a’
farò così: a’ vi farò andar dinanz a lu mascherada come che a’ gieri l’altra
sira, che così a’ ‘l se contenta de far, e si el m’ha zurad che si a’ ‘l savise
che la se fusse, che lu, per la parte sua, a’ ‘l la turave subito per spusa.[57]
rosaura Oh me felice: non fu altra che io che giocò seco, ma
sempre il labro mio fu muto.
10 brighella Vu, siora, avì dunca da far così:
avì da venir mech co la maschera come v’ho dett e mi ghe dirò che so chi l’è;
lu el me dirà che a’ ghe ‘l diga, e mi ghe dirò che la è una bella zovenotta,
ma che a’ vogio che el la spusi avanti che el la conussa; lu cert, dal grand
amur, el dirà de sì, e così a’ saré so spusa.[58]
rosaura Oh caro Brighella, sappi che Rosaura non saprà in che
modo maggiore ricompensare le sue obligazioni se non con il proprio sangue.
brighella Orsù, andem signura, a’ no perdim temp!
rosaura Sì, sì, vengo al gioir felice sorte:
se
di Cinzio non son, sarò di morte![59]
scena
x
Pantalone e Mezetino.
pantalone Orsù compare Mezetin, nu avemo da
andar a far spesa per la putta: la m’ha ditto che ghe mandasse un bon pèr de
capponi, che i magneremo stasera a cena, che ti vegnirà anca ti, sastu?[60]
mezzetino Anca mi, sior patrù? A’ vogio dar una manzada che a’ vogi
che la serva per quater. Cancar, co se tratta de manzar: slargatevi budelle
bene, acciò toto corpore impleantur;
no parli mo ben latezin?[61]
pantalone Sento qua in calle della Bissa un contadin che cria: «polastre
grosse, grosse!», vustu che provemo si ghe le podessimo truccar? Mi andarò a
far marcào e in quel che farò el prezzo ti ti me vegnerà a incalzar el polame e
ti te tignerà le polastre in man e mi te farò vista de
dar, e così ti scamperà co le polastre e po’ le magneremo insieme co la putta.
Scóndete, che el vien.[62]
scena
xi
Pantalone e Mezetino
in disparte; si sente di dentro un gallinaro.
gallinaro Polastre grosse, polastre! Son qua a
sto per, che no gh’ho altro: oh che marzadeghe! Son qua; chi le magna?[63]
pantalone Dalle
polastre!
gallinaro A chiaméu, sior? Oh che polastre che ve tocca, a saìu che
le è giusto un smalzo![64]
pantalone Cos’è sto saìu? Che semio a Teolo, sier tocco de villan?
Cosa vustu che te daga de sti do struzzi?[65]
(Pantalon
guarda ben bene le polastre)
5 gallinaro Queste
le è bone polastre, se v’intendì, vedé, sior.
pantalone Che crédistu, che sti denti no i ghe ne traversa ogni dì,
di’, pezzo de salghèr? Ma basta: èstu forsi da Campo San Piero? So che la to
ciera te mostra galantomo.[66]
gallinaro Mi son da Campo
Nogara, dove se ingrassa le ocche.[67]
pantalone Magari fùsistu anca dal Zocco o da Legnago! Dimme, èlle
morte sul so letto?[68]
gallinaro Da vero, da Campo Nogara, che le ho
mazzàe stamattina.[69]
10 pantalone Ti vuol dir che ti le ha viste morte
stamattina, e così ti me le vorravi mo fracar adosso, n’ è vero, sier birba?
Orsù, cosa vusto che te daga?[70]
gallinaro Mi vogio quattro lire.
pantalone Quattro
lire, sier villan, de ste do celeghe?[71]
gallinaro Mi a’ ve le dago per polastrazze
squarzadonazze.[72]
pantalone Mi te vogio dar un quarto de ferro.[73]
15 gallinaro A’
no volì magnar polame, a’ saìu che l’è caro.[74]
(in questo mentre sopragiunge Mezetino)
mezzetino Che conscienza, trenta soldi de ste polastre! Du, tre e
quatter, quattordese: le val zust un ducat. Dim, car
compar, a’ vustu venderle a mi, che a’ gh’ho conscienza? Lassa mo véder…
(a parte) Cancar, le è bone![75]
gallinaro A’ ve le darò mi, se a’ le vollì
comprare.
pantalone Cos’è qua, sier fio de so sàntola da Castello? Cosa
vegnìu, a incalzar el polame? No so chi me tegna che no te cazza sto cavadenti
in un occio![76]
(li mostra la
cinquadéa)[77]
gallinaro (a parte) Cancabarazzo!
(ad alta voce) A’ saìu che l’è più
galantomo de vu; lu el conosce el polame.
20 pantalone Si el lo cognosse, mi le voggio, sier
piegorazza, e tiò, per caparra del to parlar, un po’ sta spienza sul mustazzo![78]
(Pantalone
dà una mano nel volto al galliner e poi finge di dar a Mezetino, che tiene le
polastre nelle mani, ed il galliner corre dietro a Mezetino. E così si dà
termine con un finto combattimento al primo atto, tanto che l’infelice galliner
perde le polastre e per non essere ucciso si contenta piutosto di metter in
sicuro la sua vita che di seguitar Mezetino per aver l’istesse polastre)
ATTO SECONDO
SCENA I
Mezetino con
un fachin col cesto.
mezzetino Così se compra le polastre! Ma
séntime, caro fradel, che nome a’ gh’hastu?
fachin Mi
ho nome Nicolò.
mezzetino Nicolò,
Nicolò, onorato Nicolò: dim, caro ti, chi è to pader?
fachin Cosa voléu saver vu, sior, de mio pare? Parecié pur la monéa, che mi son stuffo: mi v’ho
portào el cesto, è ben de dover che me paghé.[79]
5 mezzetino Abbi un po’ de pazienza, caro el me
Nicolò, a tant che ciami Spinettina e che ghe ‘l daga, che po te pagherò, el me
caro Nicolò, Nicolò, Nicolò.[80]
scena
ii
Mezetino
batte alla porta di Spinetta ed essa li risponde ed il fachino resta di fuori
fintanto che ritorna Mezettino.
spinetta Chi
batte?
mezzetino Spinetta!
Oh, de casa!
spinetta Chi
è la bestia?
mezzetino Averzi
la bottega, che sior patrù a’ ‘l te manda el cest!
5 spinetta Vieni
di sopra.
(Mezettino ed
il fachino vanno di sopra)
scena
iii
Brighella
solo.
brighella Mi a’ no so che cos a’ ‘l sii che
no trovo el sior Pantalon: a’ son andà al magazin e all’ostaria ed al Redut, a’
son andà in Canaregi, ma no ‘l catt’ in vergù loch; a’ vogio batter un po’ alla
porta della so Spinetta per veder se a’ ‘l ghe fus.
(Brighella
batte alla porta ma nessuno li risponde)
A’ ‘l bisogna
cert che a’ ‘l sii andad a sulaz, e mi in sto tant andrò a far i fat me.[81]
scena iV
Mezettino
e il fachino ch’escono di casa di Spinetta.
fachin Le ho portà mo anca de su, è
ben el dover che me tratté da galantomo come che se’: mi me merito in
conscienza un marcello, ma, per esser vu, mi no vogio altro che tre gazettine.[82]
mezzetino Oh, el me car Nicolò, va’ pur a far i fatti to, el me car
Nicolò, Nicolò, Nicolò!
fachin Coss’è?
Mi vogio esser pagào, m’intendéu?
mezzetino Dime,
car fradel, chi t’ha mo mandà a portar el cest?
5 fachin M’ha
mandà quel sior vestìo de rosso che giera con vu.[83]
mezzetino Vatt’ mo a far pagar da lu.
fachin Coss’è sto pagar da lu? Lu el m’ha dito
che vu me paghé.
mezzetino Ma come a’ vut che te paga se a’ no ho
miga un quattrì?
fachin Mi no so tante istorie, mi vogio che ti
me paghi, sinò te tiorò el fongo.[84]
10 mezzetino A
chi, cospetton, a chi?[85]
(quivi Mezettino
fa i pugni ben bene col fachino e dipoi va dentro vittorioso)
scena
v
Magazino
aperto. Magazenier e Luganegher, Pantalone accompagnato con madona Laura e
seguito da Momoleto, Liguro e Varisco suoi soldati, e dipoi Mezetin con Bettina.[86]
pantalone Bondì,
capo.[87]
magazenier Siorìa vostra, sior Pantalon, ve gieri desmentegào vu,
sior, de vegnirne a cattar e de saldar anca quel conteselo dell’altro dì e mi
anzi stava a dir: cos’è mai del sior Pantalon che no ‘l se lassa più véder?
Anzi diseva a costori: l’avéu forsi trattà mal? Arrecordéve che l’è un
galantomo de tegnirghene conto, perché da sti tempi se ne trova puochi.[88]
pantalone Obligào del to affetto. Mi, si ti vuol che te diga la
veritàe, so un puoco col cervello fuora della testa, anzi son vegnùo qua con
costia per magnar un puoco e per saldar el to conto. Ma senti, dime, caro ti,
gh’è Menegon a bottega e sarave per fortuna vegnùo mio compare Mezzetin?[89]
magazenier Sentì, sior: Menegon l’è andào a far un servizio al ponte
del Meggio e adesso adesso el sarà qua; ma vostro compare Mezzetin no l’ho
gniancora visto, ma ho ben sentìo a dir che, zà un tantin, l’ha fatto i pugni
col cestariol che gh’ha portà el cesto, per no pagarlo.[90]
5 pantalone Oh che bestia che è colù: mi gh’ho
ben dào sie bezzi da pagarlo, ma lu s’averà piutosto contentà de tior dei pugni
su la magnaòra che pagarlo, per andar po a bever una piccola. Ma senti, caro
capo, zà che no l’è gnancora vegnùo, pareccia un puoco da magnar per sie,
perché anca lu l’ha da vegnìr co la so strazzetta. Ma senti, gh’averàstu un
puoco de zambellotto, qualcosa de roana che fusse bona, o veramente una
puinetta? E si ghe fusse anca quattro sèlleni, per poder béver una volta,
accioché no se ingossemo. Mi vorrave spender puoco ma esser trattà ben. Orsù,
pòrteme, fintanto che i pareccia, un puoco de vin da ponticiò.[91]
magazenier Saré servìo subito, sior Pantalon. Me maravegio ben che
me domandé si gh’ho del zambelloto e della puina, che xe forsi la prima volta
che vegnì a sto magazen? No savéu, sior, che mi tegno de tutto? Vardé il
luganegher, che el gh’ha una coraeletta bona: vardé, sior, se podé far marcào,
che ve la farò cusinar subito, fintanto che ve fago parecciar. Con licenza,
sior Pantalon.[92]
pantalone Còmodete, no me far minga cerimonie.[93]
scena
vi
In questo
mentre sopragiunge Mezetino con Bettina.
mezzetino Avem
da manzar, vedé, siora Bettina.
bettina Magnémo
pur, che ho pareccià tanto de bocca.[94]
pantalone Tanto de bocca avé parecciào, siora? Ohimèi, poveretto
mi, la me magna certo anca i ossi! Ma séntime un poco,
caro sier bestiaza, dove séu stào fin adesso, che no se v’ha mai visto? Come
stà i occhi, disé, caro el me fio verzene, v’ha ‘l dà
dei boni marobolani el cestariol? Disé, perché no l’avéu pagào quando el v’ha
portà el cesto?[95]
mezzetino Bonzorno a vu, siorìa! Così a’ ho imparad dal me patrù a
pagar el cestariol.[96]
5 pantalone Mi t’insegno ste cose, sior poltron?
T’insegno ben, asenazo, a farte stimar e no a tior dei pugni su quella màmera,
ma questo no m’importa gnanca tanto. Diséme, caro sier carne de cavallo, dove
séu mai stào fin adesso, che no te s’ha mai visto?[97]
mezzetino Mi, sior, a’ son stà a metter de mez in una costiù,
perché a’ i’ giera cinque contra un, ou, ou, ou, ou.
pantalone Chi èlli costori, che ghe vogio tagiar i garétoli? Così
se trata in sto paese, a vegnìr cinque contra uno?[98]
mezzetino Signorsì, cinque contra uno: mo che gran
co-co-co-codardia!
pantalone Cònteme, su presto, perché certo vogio de lori far un
sguazeto adesso adesso![99]
10 mezzetino Mi, sior, a’ ve ‘l dirò, ma pianzì a
fort[100] a
sentir un cas così smacrimabile: ghe giera, sior, a’ pianzì, caro sior, mo
pianzì; cancar che a’ no si’ gnente comprassionevole!
pantalone Mo cònteme el fatto, caro bestiaza, che
se vorrò pianzer pianzerò.
mezzetino No volì pianzer? A’ no ve ‘l dirò miga, perché propri el
fa vegnìr le lagrime rosse rosse co’ fa el brod de macheroni e si a’ no ‘l
credì, a’ domandéghe ‘l, dopo che a’ ‘l avì sentì, a vostro fradel.[101]
pantalone Cosa vustu che ghe domanda, si no i m’ha
gniancora ditto gniente?
mezzetino Ah, sior, a’ ‘l gh’era —oh caso acerbo!— in piazza cinque cani che i correva deter a una
chizza, e mi a’ gh’ ho crià, e po, perché no i mi ha volsud obbedir, a’ gh’ ho
dad delle legnade. Cinque contra uno, puttana cagna, cinque contra uno! Mo a’
no ho mi forsi fatto ben?[102]
15 pantalone Oh che bestiaza, mo quando mai
faràstu giudizio? Orsù, mettemo a monte ste frascarie: dime, caro ti, vustu che
compremo quella coraeletta dal sbrodega, che la magneremo co ste putte, perché
el capo el m’ha ditto che el me la cusinerà a sguazzetto?[103]
mezzetino A’ comprela pur, siur, a’ no ve lassì
gabar!
pantalone No te indubitar, che no son miga polaco![104]
mezzetino A’ volìu che mi a’ fazza el macca per
vu?[105]
pantalone E
va’ via ti, che no ti te ne intendi.
Òe, sbrodega, gh’hastu gniente de bon?[106]
(Il luganegher le mostra una coraella e poi dice)
20 luganegher Mi gh’ho sta coraella, oh che robba che
ve tocca, sior Pantalon, se la tiolé: la è grassa che la colla, che si la
magneré ve parerà giusto da magnar un balsamo![107]
pantalone Chi sarave quel fio d’una solenissima che te credesse? Co
fago marcào de qualche cosa mi no vogio che i me faga tante ciaccole, perché no
ghe credo a ste donnette. Ma, dimme, cosa vustu che te daga, in puoche parole,
de ste pelegate?[108]
luganegher Mi, per esser vu, sior, ve le darò per un mocenigo, siben
che i è bezzi refudài.[109]
pantalone Ti ‘l tioravi, n’è vero ben mio, chi te ‘l dasse? Mo varé
che caro sbrodega: va’ mo a spender quei bezzi che ti ha refudào! Tioràvistu
tre gazetine a tagiarmela po anca ben, siben che no la val tanto?
luganegher Scuséme, sior Pantalon, vegnì a burlar
vu qua? Che crédeu, che gh’abbia fame opur che l’abbia robbada?
25 pantalone Me
la vustu dar, di’, co le bone? Sinò me la tiorò, vè!
luganegher Sior no, che no ve la posso dar: la costa vinti soldi a
bottega, vardé mo si ve la darò per tre gazette: me maraveggio, sior![110]
pantalone No? No ti me la vol dar? E mi me la
tiorò!
(Pantalone si
mette la coraella in scarsella)
luganegher Eh, caro sior, la me costa bezzi sta
coraella: tiolévela per el costo!
mezzetino Eh, sior patrun, cosa fìu? A’ no vedì
che la spuzza co’ fa una carogna? Avì pur i occi e sì a’ no la sentì![111]
30 pantalone Eh, ti me burli? Ti ti fa accioché
ghe la daga, n’è vero? Ma no ti farà gniente. Voggio che l’impara la creanza
per un’altra volta.
mezzetino No da bon, sior, che no ve burlo: da vero bergamasco, che
la impesta![112]
pantalone Vustu che te la diga la veritàe? Che sento dalla
scarsella vegnir un certo odoreto che no ‘l me piase…
mezzetino Mo cosa a’ digh mi? Puttana cagna, oh
che om accort!
pantalone (verso
il luganegher) Vien qua, muso de seppa, te vedo a pianzer: te la voggio
dar; ma senti, caro ti, mi te darò po anca vinti soldi se la sarà bona.[113]
35 luganegher In
quanto a questo la è bonissima e giusto degna per i vostri denti.
pantalone Per i mi’ denti, sier fio d’una magnabisati? Mi vogio
saver si l’è fresca e quanto è che ti l’ha cavada fuora del corpo de quella
vacca.[114]
luganegher Questa la è una bona coraella de manzo e no de vacca: mi
no ghe ne tiogo de vacca, che no vogio andar miga in Gallilea. Vedé, sior,
questa la è fresca da stamattina, che la son stada a tior da Mazzacan
scortegaór.[115]
pantalone Donca ti me la dà per fresca?
luganegher Per
freschissima ve la dago!
40 pantalone Senti
mo se la xe fresca!
(li
dà da odorar la coraella e poi la pesta su per la testa e se la mette anco di
nuovo in scarsella)
scena
vii
Torna di
nuovo il magazenier e restano li sudetti.
magazenier Così me piasé, a farve stimar, sior: mi
credeva certo che la fusse bona, perché la vedeva sguardolina, ma infatti vede
più quattro occi che do. Tasté mo sto vin da ponticiò, che el m’è vegnùo gieri.[116]
(Co ‘l magazenier li dà un gotto di vino
Pantalone lo gusta e di poi ghe lo getta nel viso)
pantalone Vin
delle conchette ti me porti, bestia?[117]
magazenier Bisogna che abbia fallào la spina della botta, ma adesso,
sior, anderò a tior de quel marzemin.[118]
scena
viii
Pantalone,
Madona Laura, Momoleto e gl’altri suoi soldati, Mezzetino
con Bettina.[119]
pantalone Sentìme,
care pute, avéu fame?
madonna laura
e
bettina Oh, che
fame che avemo!
pantalone Orsù via, Tita, fa’ presto, porta da
magnar!
(tutti
vanno a tavola e Mezzetino si pone appresso a Pantalone in mezzo delle donne)
scena ix
Restano
li sudetti e sopragiunge di nuovo il magazenier.
magazenier Son
qua, sior Pantalon, tasté mo questo si l’è marzemin.
(Pantalone
beve)
pantalone Via via, che ti è galantomo. Bevé putte, bevi anca ti
Mezzetin, bevemo tutti! Ma mi, per esser el più vecchio de tutti, vogio esser
el primo a béver, e far un prìndese a tutta questa onorata udienza.
Compare
Pantalon, adesso è l’ora
de
farve onor col vostro bocaletto,
perché
l’è un vin el più caro e diletto
che
se possa trovar ai Barri ancora!
Ma mi vogio
béver, perché adesso Bacco farà i pugni co le muse e ho paura che el ghe rompa
el muso![120]
(Pantalon
beve, dipoi tutti mangiano, ed in questo mentre il magazenier porta una puina
ed altra robba)
magazenier Oh,
che puinetta, tasté un poco co’ l’è bona!
(Pantalone
tasta)
pantalone La è squisitonazza: sentì, cara siora
Lauretta, ve piase sta puinetta?[121]
(Pantalone
imbratta il volto da puina a Madonna Laura, ella si netta, poi dimanda da
béver)
5 madonna
laura Demme da béver.
pantalone Magné, bevé, no abbié respetto: fé giusto conto d’esser a
casa vostra, siora, e no abbié paura![122]
madonna laura Fazzo
un prìndese a tutta questa onorata udienza!
(Madonna
Laura beve e tutti mangiano, di poi Mezzetino fa un prìndese col favellar in
tal guisa)
mezzetino Cancher, a’ vòi bever anche mi, cospetton! Mi a’ vorria
far un prìndese, ma a’ no so miga com far. Mi a’ son un om virtuos, cancar, a’
ho caminad el mond: son stà in Boemia, in Gallia —no miga in gallìa!—,
son stà nell’ India —oh, com i parla ben quei indiani e quei boemi!—, a’ son
stà anch dalla reina d’Inghisterra. Ma vogio far un prindes alla Boemia: hù, ù,
ù, ù, ù! A’ ghe ne vogio far uno alla Gallia: cucurucù, codech, codech, co, co,
co, codech! Sentìghen mo uno alla indiana: troch, troch, troch, gro, gro, gro,
gro![123]
pantalone Oh che bel dindiazo! Ma séntime, caro ti, nu avemo ben
magnào e ben bevùo e si no gh’ho gnianca un bezo da pagar el capo: vu, compare
Mezzetin, avé da cavarve el zacco, che ghe ‘l daremo per el debito vecchio e
per el niovo.[124]
10 mezzetino Mi a’ ghe ‘l darò volontier, ma no ‘l
lo vorrà, perché l’è vecchio e no ‘l val miga do lire.
pantalone Orsù, no te indubitar. Vualtri, fioli, sté allesti e si
vedé che catta gnente da criar salté fuora e mazzémoli. Ma vien el capo: òe,
capo, famme el conto che me vogio sbrigar![125]
magazenier El conto è bel e fatto: trenta de pan, vintiquattro de
puina, diese de fenochi, sie lire in vin —che fa niove— e quattro e tredese del
conto vecchio, che fa vintido e quattro. Me podé, per esser vu, menar quei
quattro, che le resta vintido lire.[126]
pantalone A pian, a pian: cos’è ste vintido lire? Chi ha magnà
trenta soldi de pan?
magazenier Quelle care bocchette!
15 pantalone Vintiquattro soldi ti me metti una
puina de vacca che no la val niente più de tre gazzettine, a pagartela sora la
brocca? Nu no avemo magnào senò tre fenoci e tre fenoci i val
un marcello? I val giusto un bezzo![127]
magazenier Andé a comprar della panada e no fenociazzi; adesso è
inverno: la terra se strenze![128]
pantalone Mi no ghe ne vogio saver, che la se strenza o che la se slarga,
puoco m’ importa. Òe, fioli, chi ha bevùo sie lire de vin? Mostréme quel zeffo,
che mi la commoderò! Dodese de pan, sie de puina, un bezzo de fenoci e trenta
soldi de vin: ti ha giusto d’aver quarantaotto soldi e mezzo, e del debito
veccio mi no ghe ne so gniente.[129]
magazenier Cos’è sti quarantaotto soldi e del debito veccio mi no
ghe ne so gniente? Voggia o no voggia, vu m’avé da dar vintido lire, sinò a bon
conto ve tiorò el tappo![130]
(il
magazenier finge di prender il tabaro a Pantalone)
pantalone (a
parte) Momoleto, Liguro, Varisco!
(ad alta voce) Orsù, tien tra quella
magnaóra quella lenguazza, sinò te la tagierò! Tió sto zacco e tiente
quarantaotto soldi e damme niove ducati e mezo indrio.[131]
20 magazenier Cos’è sto zacco? Mi in prima ho da aver
vintido lire, e le voggio, vedé; de sto zacco mi no ghe darìa un marcello
gnianca a tiorlo a rason de ferro vecchio: eh, caro sior, buttélo in canal![132]
(il
magazenier gli butta il zacco per terra)
pantalone Coss’è sto strapazzar la robba co buttarla per terra? A
mi el me costa diese ducati e ghe ne vogio almanco niove e mezzo, m’inténdistu?
Tiólo e tasi, che sarà megio per ti.[133]
magazenier Coss’è sto sarà megio per ti? Mi ve digo che vogio esser
pagà, e no me sté a romper i óri![134]
pantalone Mo cosa è questo: no èllo un zacco bon e bello? Tiólo e
tasi, che te l’ho ditto un’altra volta.
(verso i suoi soldati) Momoleto, Liguro,
Varisco; sté allesti; che adesso adesso ghe la femo fuora: tegnì le arme in sagiaòr, vederé mi co petto man, petté man anca
vu, che così el pagheremo.
(Pantalon mette man alla sua cinquedea e
tutti i suoi soldati ancor essi pettano man e pagano con delle pistolesate el
magazenier)
A
chi, sanguenazzo da drio, tioràstu el tappo? A chi?
(incalza di
nuovo con pistolesate al magazenier fintanto che vanno tutti dentro)[135]
scena
x
Brighella,
Rosaura.
rosaura Mo cosa è mai questa, che mio
padre fa sempre baronate? Già intesi pocanzi che s’attrova al magazino con
diversi baroni, che si ubbriaca e che fa molt’altre ribalderie.[136]
brighella Quest l’è poch, a’ disì pur —ades ho intes— che a’ ‘l gh’ha
fat andar de mal più de quatordes botte de vin, e cert si lu el vien quarelà
alla Giustizia l’andrà all’Avogaria, opur in Picardia.[137]
rosaura Ah, caro Brighella, ti prego con tutto il core a far sì
di sottrarlo dall’imminente rovina: egli, già avvanzato negl’anni,
corre precipitosamente con iterati passi a doppia morte.
brighella A’ lassì far a mi, cara signura, che farò tant che a’
procurerò col magazinier da salvarlo: a’ ho impromes al signur Cinci, me patrù,
de andar a sfidarlo da sul a sul, ma a’ no ‘l vogio miga far, perché cert si a’
‘l se ciment el resta mort.[138]
5 rosaura Ma senti, caro Brighella,
favellasti per anco al mio sole della maschera che lui adora?
brighella Signura sì, a’ no v’indubité miga, che farò che a’ ghe si’
spusa avant che passi du ur.[139]
(In
questo mentre Pantalone sopragiunge; prendendo mano ad uno stille corre verso
Rosaura, e Brighella di nascosto si parte)
scena
xi
Pantalone,
Rosaura
pantalone Ah fiazaza, fiazazonaza, fia d’un
beconazazo fotùo, cosa fastu, di’, a ste ore fuora della porta? Aspéttistu
forsi el to moroso, di’, sporchetta? Ghe vuol altro che amori, i vuol esser
panetti! Va’ in casa subito, sinò te cazzo sto baìcolo in corpo![140]
rosaura Vado, signor padre, vado…
scena
xii
Pantalone,
Mezzetino e Momoletto e gl’altri sopragiungono.
pantalone Compare Mezzetin, sette ghe ne avemo
fatto sta settemana, mo disé pur, compare, che avemo anca recuperào el zacco, e
mentre che ghe dévimo le frittole al magazenier gh’ho anca portà via un pan che
gh’è cascà per terra.[141]
mezzetino Avì fat ben: a’ i’ è scampad co’ fa tant
gatt mort![142]
pantalone Ma senti, caro ti, no ti sa che a no vogiando ho catào un
naso per terra e credo che el sia del capo, perché so certo che ghe l’ho
tagiào? Adesso bisogna che femmo una cossa de sta sorte: mi, si ti vol che te
diga la veritàe, son mezzo imbriàgo, no vorrave mo farme intender da costori,
perché subito i anderave in gatezo e sì i me lasserave in le pettole; e ti,
èstu gniente cotto?[143]
mezzetino Mi a’ no pos più cert, perché l’era un vin che el m’ha
toccad le budelle: a’ ‘l bisogna cert che andem a dormir.[144]
5 pantalone Eh, porcazzo, per gniente ti vorravi
dormir co’ fa una màmera! Sàstu cosa che vogio far? Perché el dise el proverbio
che co se xe imbriaghi se fa le cose a proposito… Mi ho pensào de andar da
Bedanna in Ghetto per far un moscon, perché gh’ho anca mi della robba là da
Bochina in calle Valaressa, e però vogio che ti vaghi là e che la te daga quel
che mi gh’ho ditto l’altro dì, e dighe che ghe ne vogio far de niova, perché
questa veccia ghe la vogio dar a mia fia Rosaura, siben che no l’è vero
gniente, perché la vogio andar a vender in Ghetto.[145]
mezzetino Mi andarò, ma sigur che no la me la
vorrà dar.
pantalone Eh no te indubitar, che la m’ha ditto
che la te la darà.
scena
xiii
Pantalone
solo; Mezetino e Momoletto vanno a prendere la robba da vender; si sente rumor
grande nel Ghetto delli ebrei; Pantalone di fuori così dice:[146]
pantalone Sento a far strepito in Ghetto: mi
credo che certo i faga el so sabbà, ma no che ancùo xe domenega! Lori certo i
tien banco. El dise el proverbio —si mi no fallo— che chi canta gh’ha: mi ghe
canterò un puoco a sti smerdacài, per poderli animar a darme qualche cosa de
più de quel che valerà la robba che ghe darò, e fin che vien mio compare
Mezetin ghe vogio cantar qualche improvisada. Òe, sonadori, vegnime drio quando
che canto!
(Pantalone
canta)
Sier
Bedanna, son vegnùo
per
veder si gh’avé bezzi,
ho
portà diversi pezzi
de
robbetta de vellùo.
Sier
Bedanna, ecc.
Ma
no la me piase questa, voltemo a stagando!
Vualtri
se’ l’onor de sta cittàe,
ricca,
potente e de gran signoria,
ma
spesso fé delle vostre smerdàe
col
dir «misier Abram, sta robba è mia».
Ma
mi no son polacco in veritàe
e
i occi inte le scarpe mi no gh’ho
e
non son miga de quei dalle vallàe
né
son de quei che stà a San Nicolò,
ma
son sior Pantalon, bullo e bravazzo,
che
tagia gambe e che scavezza brazzi
e
che me dago sempre gran solazzo
col
metter in scompiglio ancora i zaffi.
Ma gniancora
no i me sente, bisogna çerto che i chiama un puoco più
a forte. Oh, oh, oh, oh, sier Bedanna, sier Abram, sier Aron, sier Badanai,
sier Mosè, sier Smerdacài, òe, vegni zò della Sinagoga per comprar della robba![147]
scena
xiv
Si
sente strepito d’ebrei che fanno rumor di dentro; poi vien Mezzetino con un sacco
sopra le spalle a gridando.
Mezzetino,
Pantalone.
mezzetino Chi ha strazze veccie, chi ha camise
veccie, chi ha drapi vecci, chi ha massere veccie da vender? Chi compra un bel
follo? Oh, oh, oh, oh![148]
pantalone Anca el strazzariol vien a criar in
Ghetto? Òe, da’ folli![149]
(Mezetino
si fa vedere da Pantalone con Momoleto, Liguro, Varisco, pieni di diverse
massarie)
pantalone Ah, sier bestiazza, così me cogionbaré? Ve par mo che
questa sia robba veccia da vender, sier piegorazza? Orsù, butté in terra quei
cài de robba e despieghelli fintanto che vien Bedanna.[150]
(Mezetino
spiega diverse strazze)
scena xv
Bedanna
ebreo che vien fuora del Ghetto e li sudetti.
bedanna Oh, benvegnù, sior Pantalon.
Menacai, Menacai, vien da basso, che è vegnùo sior Pantalon per far moscon!
pantalone Coss’è sto far moscon? Mi no vogio né mosconi né
callalini, mi son vegnùo qua con della robba niova e fiammante accioché me de’
quaranta ducati: savé pur che no gh’è altri che sostien el Ghetto se non
Pantalon; co vien fatto qualche affronto, da chi andéu se no da Pantalon? Savé
pur che mi son l’Atlante de Ghetto! Ma no credé minga per questo che voggia
gniente de quel de altri, né che voggia vegnìr qua a farve qualche garanghello,
opur a tior bezzi in prestio: vegno co della robba bella e bona e col pegno in
man, acciocché vedé che no vogio gniente del vostro.[151]
bedanna Davero, sior, che restemmo tutti nualtri obligài al
vostro affetto. Mostreme la robba, che vederemo de darve de più de quel che la
merita: manco mal che no facessimo qualche sorte de piasér al nostro caro sior
Pantalon, col qual avemo tante obligazion.
(Pantalon li
mostra un telo di ninziol arsirato tutto sporco e pieno di sangue)[152]
pantalone Questo l’è un ninziol de tella muneghina, l’è mo un puoco
sporco, che con una lavada el vien netto.[153]
5 bedanna Mi no so de sporco, mi so ben che
l’è tutto brusà: lasseme ‘l véder ben.[154]
pantalone Cosa ghe voléu véder? Ghe voléu forsi véder una falliva
che gh’ha dà adosso?[155]
bedanna Eh, che l’è una strazza!
(Bedana li
butta il ninziol da un capo della scena)
pantalone La robba per terra ti me buti? Ti me l’ha sbregào, sàstu?
Voggio che ti me paghi quel collo de robba. Ma varda un puoco sta cottolina de
raso rasào, che l’ha portào giusto una volta la mia putta, che l’ho menada a
Malamoco.[156]
(Pantalone li
mostra una cottola tutta rotta)
bedanna Eh, me maraveggio, sior Pantalon, che no ve vergogné a
portar sta robba in Ghetto: buttéla in canal, che no la val gniente![157]
10 pantalone Mi te digo che questa è più stimada dell’oro,
perché l’oro luse e questa straluse.[158]
scena
Xvi
Menacai, collega di Bedanna, sopra
un balcone così li dice:
menacai Ah,
Bedanna, cosa fastu, no védistu che le è strazze?
pantalone Cos’è, ti, barbarossa? Vusto che te tagia la codega, di’,
e che te cazza fuora de Ghetto?[159]
bedanna Tasi, Menacai, tasi, che no ghe darò
niente!
pantalone Orsù, gh’è dell’altra robbeta: mi voggio che sta volta la
tiolé a occio, perché ve la dago anca col sacco. Via via, me contento de trenta
scudi sotto e sora: conté bezzi.
5 bedanna Mi no vedo cosa che valla più se
non el sacco, ma per l’obligazion che gh’ho con vu, mi ve darò mezzo zaù.[160]
pantalone Cos’èllo sto mezzo zaù? Èllo forsi sie doppie? Si l’è sie
doppie mi no ve la posso dar no, varra no, varra no che no ve la darò, e varra
no.[161]
bedanna A no v’indubité, che no ve dago più de
mezzo zaù, certo.
pantalone Via via, conté bezzi, avé rason sta
volta perché me catté affamào.
bedanna Tegnì: uno, do, tre, quattro, cinque,
sie, sette, otto, niove, diese…
(e segue fin
mezo ducato)
10 pantalone Oh, co sté a principiar a contar
soldi? Starò qua fin domattina finchè fé sie doppie co tanta flema![162]
bedanna Mi a no ve dago più de mezo zaù, che l’è
mezo ducato.
pantalone Mezo ducato, sier Bedanaza, de tutta sta
robba?
(Pantalone
tira fuori di scarsella la coraella e dipoi ghe la pesta su la testa a Bedanna
e Mezzetino, con gl’altri suoi soldati, danno fuoco al
Ghetto)[163]
scena
xvii
Pantalone
resta solo.
pantalone No hoggio mo ditto che ghe ne faremo
otto? Ho fatta l’ottava, mi, avanti che passa la settemana. Mi mo vogio véder
se Mezetin m’è fedel, me voggio sconder qua da drio perché vedo che el vien a
barbotando, certo che el gi’ eser dir mal de mi: vogio sentir quel che el dise,
seguro.[164]
scena xviii
Mezzetino
viene discorrendo fra sé e Pantalone in disparte ascolta quel che lui dice:
mezzetino Va’ pur in malora, vecc mat! Mi a’ no
vogi star più co lu cert, perché mi andarò alla Avogaria: lu l’è el mazzur
porch che zappi terra, siben che el fa el bul l’è un desgraziadaz e un pez de
barù. Mi a’ confess che anca mi el me pias a far sto mester, ma co pens che a’
si vagh trop alla lunga a’ no magnerò più macherù cert, cotesta considerazione
l’è quella che me met el cervel nel cò, e sì a’ digh intra de mi squomodo
questa cosa sarà, che mi che son us a svegliarmi quando che sona mezz giorno e
che me pias a magnar e bever co’ fa un porch e che un par mio, allevat dalla
siura Simona, nostra mader, tra i matarazz più fini delle stalle, avezz a non
mai lavorar, debbi far sta vit, tutto el zorn manezar arm, siben che in
conscienza mi no dago mai a nissun. Questo no ‘l farò mai, ma alla più drit ho
risolt de andar al pais e de no star più co sto vecc porch: a’ farò così,
andarò alla Giustizia a darghe una squaquarela finché lu l’è andà a spas. A’ ‘l
me rincres po ben d’abbandonar la me cara Spinettina. Mi a’ cred cert che costù
el sii mul, cert, cert.[165]
scena
xix
Pantalon
corre con un stillo per uccider Mezzetino ed in quel
mentre sopragiunge Brighella che lo trattiene.
pantalone Ah, fiazazo, così se tratta co mi? Ti
ti magni el mio pan, ti bevi el mio vin, ti fa el mestier anca ti che fago mi e
sì ti me vuol quarelar? Adesso te mazzo! E dirme che son mullo?[166]
brighella Fermév, siur Pantalù, perdonégh sta
volta, che no ‘l farà più cert!
pantalone Vàrdete, che el voggio sbuelàr, tanto ardir el gh’ha de
volerme andar a quarelar![167]
brighella Eh via, caro siur Pantalù, perdonégh, perché a’ ‘l sarà
stà mes su da qualchedun.[168]
5 mezzetino Perdoném, siur, che a’ ve conterò una
gran scongiura che vu andevi a far contra, eccetera…[169]
pantalone Cossa distu, degraziadazzo?
mezzetino A’ digh, sior, che a’ ho fat sta gran sceleragine per
provar la vostra fredeltà: che a’ credìu, che a’ non v’abbi vist qui dieter,
cancar?[170]
pantalone Non occorre altro: te voggio squartar!
(Pantalone
corre dietro Mezzetino, Brighella trattiene Pantalone ed in questa guisa
termina l’atto secondo)
ATTO TERZO
scena
i
Rosaura.
rosaura Invan, qual farfalla, m’aggiro
per rimirar Cinzio, il mio foco. Ma ecco apunto Brighella, suo servo, che tutt’anelante
verso di me indirizza le piante: o che vien per bearmi, opur per crocciarmi ed
accrescer dolore alle mie miserie. Brighella, svela tosto ciò che anelante
desideri di palesarmi: buone nuove o cattive?[171]
scena
ii
Brighella, Rosaura.
brighella A pian, siura, a pian! Voster siur
pader cert cert ancù o dumà i ve lo metrà in cotegh, opur che i’ ve lo porterà
a ca’ in quater.[172]
rosaura E perché? Svelami tosto la cagione.
brighella Lu ha, siura, l’ha tacad fogh al Ghet e po dop el volev
mazzar el me paesan Mezzetin; mi a’ no so cos più far: a’ ho procurad de parlar
ai sbir accioché a’ i’ no ‘l ciappi, ma a’ ved che sempr se va de mal in pez;
se a’ no fem sì, metter anzi nu l’accord coi sbir, che i’ lo ciap per l’arm e
che i lo fazz star in presù almanch un par de mes, sinò lu cert —compatime,
vidì, siura— l’andrà in Piccardia, e la s’arrecordi che ex duobus malis, minus est eligendum.[173]
rosaura Sai che tu la pensasti bene? Ma sappi ancora che l’amor
figliale non può tollerar di veder tra ceppi il genitore.
5 brighella Eh, cara siura Rosaura, a’ ‘l
bisogna cuntentarse così! Mi a’ i’ ho un poch de prissa, mettive su in sto tant
la muretta, perché a’ ‘l vien siur Cinci, accioché più a’ ‘l se innamura,
vedendo d’improvis quella che pur no ‘l sa chi la se sipi. Vedì ‘l apunt,
tireve un poch int’un cantù avant che a’ ‘l ve vidda.[174]
scena
iii
Sopragiunge Cinzio, restano li sudetti.
cinzio Brighella, io son felice come
teco conduci parte dell’anima mia: ritirati, di grazia, in disparte, che voglio
scoprir il mio foco.
brighella Bonzurno a vu, siorìa, a’ no voggi far troppe parole, fé
pur el fat voster che mi a’ no ve vogh far lum.[175]
cinzio (verso Rosaura non conosciuta)
Bella,
se tu non sdegni,
Cinzio
per sua ti chiama
E
il ciel arride a sì grand’imenei.
Parla,
ammutisci, sciogli la lingua, o bella,
acciò
il mio cor non spezzi
e
che Cinzio non cada.
Dal
servo avrai apreso
che
al letto ti destino, o bella mia,
e
pur a casti nodi: perché non condescendi?
Ma
perché sì avara de’ detti tuoi
Verso
di me ti vanti?
rosaura Ah, Cinzio, se prometti di sposa farmi,
condescendo
a tue voglie.
Sappi,
con doppio strale
Amore
ci ferì. Ecco la destra
ed
acciò sii la colpa tua condegna
Rosaura
esserti sposa essa non sdegna.
(Rosaura si scopre e Cinzio resta confuso)
5 cinzio Rosaura
esserti sposa essa non sdegna:
mi
pervenne l’inganno
e
Amor, ch’è cieco,
fece
ch’oggi i miei lumi
tra
le fint’ombre d’un sereno volto
perdessero
il splendore!
Sappi
che alla promessa,
qual
fido servo e consorte ancora,
le
leggi non divieto,
anzi,
che l’imeneo approvo.
rosaura Oh, caro, più mi leghi!
cinzio Bella, più m’innamori!
rosaura Brighella, vanne tosto da mio padre, e dille che sposa son
di Cinzio, mio diletto.
brighella Sii pur laudat el ciel, a’ ho pur fat tant che el gh’ ha
dad le zatte a chi tant l’aborriva![176]
10 cinzio Non altro avvelena le
dolcezze dell’imeneo se non il vedere il vostro genitore così sfacciato e importuno;
non seppi per il passato che fosse vostro padre, perciò mi condonarete se non
gl’ho portato il dovuto rispetto, però vi prometto, oh bella, di far sì che
desista da’ suoi cattivi costumi e ch’una volta, alla fine, reghi con le redini
della prudenza il corso d’ogni sua dissolutezza.
rosaura Grazie ti rendo, oh caro.
cinzio Ma per felicitar i nostri affetti,
assieme con tua fede,
voglio
che segua della mano alla danza, quella del piede.
Orsù,
si suoni!
(Qui s’apre il prospetto e si vede una sala
preparata per la danza)[177]
scena
iv
Dame e cavallieri alla danza; capo de ballo,
Cinzio e Rosaura che passeggiano per la danza.
capo de ballo Eviva la zoventù! Cangia, e un’altra cangiadina: una, do,
tre, quattro, cinque! Donne, avant! Indrio! Allerta, siori, e man alle
scarselline! Sior conte, commandela che femmo sonar quella de «Donna mare e un
bel marì»?[178]
cinzio No no, che contento io sono:
segua
la danza e il suono![179]
capo de ballo Avanti,
siori!
(Quivi ritornano a far il passo e mezzo; fra
tanto sopragiunge Pantalone con Mezzetino e suoi soldati)[180]
scena
v
Pantalone mascherato insolenta le maschere
assieme con Mezzetino.[181]
cinzio Scostati,
bricone!
pantalone Cào de ballo!
(Il capo non li risponde)
capo de ballo Allerta, siori! Soné a pian, che no i se stracca!
Contéghela giusta, zovenotti, alle vostre putte![182]
pantalone Cào de ballo! Capo de ballo! Cào de ballo e capo de ballo
e cào de ballo un’altra volta per chi è sordo!
5 cinzio (verso il capo di ballo) Cos’è qui cotesto rumore?
capo de ballo Son
qua, siora maschera, cosa commàndela?
pantalone Senti, mi vogio far quattro balloni.[183]
capo de ballo Da galantomo, siora maschera, che i è dài via a quei
zentilomeni o conti che i sia.[184]
pantalone Se i è dài via mi voggio ballar, che tanto è i mi’ bezzi
quanto che è i sói: ma senti, caro ti, èlli forsi conti da Malamoco che fa la
guardia ai melloni?[185]
10 capo de ballo Mi
no so tante istorie, mi ve digo, cara siora maschera, che i è dài via.[186]
pantalone Ah, sonadori, lassé star de sonar, sinò mi
ve tagierò le corde.
mezzetino E mi ve pesterò i istrument su la testa e po a’ v’i’ darò
da béver in sirop![187]
cinzio Perché non si suona?
capo de ballo Gh’è
quella maschera, lustrissimo sior, che no la vuol che i sona.
15 cinzio (verso Pantalone) Ah, sentite, io non so chi vi siete: ben mi date
a divedere d’esser un gran sfacciato arrogante.
pantalone Mi son quello, sior, che no vogio che i sona, perché
voggio ballar. No savé chi sia, vu, sotto sto volto? Si vu se’ conte mi no ghe
ne vogio saver gniente, so ben che ai conti e ai zentilomeni ghe fago una
sprofondissima reverenzia, ai cittadini e ai marcanti ghe la
fago a mezza vita e ai pari vostri ghe fago de queste: el zirandonarve
in le tempie!
(Pantalone li getta il capello nel viso e
dipoi si cava la maschera, dicendo)
E
si avé desiderio de saver chi sia, vardeme mo un puoco ben…[188]
cinzio Un pezzo di bullo ha tanto ardire di
farmi un tal affronto!
(Cinzio pone mano alla spada)
rosaura Fermati, Cinzio, che questi si è mio padre, che non mi
conosce, altrimenti guai a me, misera, se mi vedesse teco.
cinzio (verso di Rosaura) Eh, taci, caro mio bene…
(verso di Pantalone) Sappi che, per dar
a divedere la mia bontà, io ti concedo che facci due balli solamente, ma non
più: m’intendi?
20 pantalone Obligào, sior, del vostro affetto.
Quando po che sarò in ballo ghe ne farò quanti che me parerà e piaserà. Savéu,
siori, perché el me lassa ballar? Perché l’ha abùo paura che el tagia in fette
co’ se fa la sopresada. Via, sonaóri, che no vogio perder tempo! Sonéme quella
de Salam, e vu, compare Mezettin, aspetté, che balleré doppo de mi e ve farò
sonar quella della masserina che fava l’amor col so Nicolò.[189]
mezzetino Ballé pur, siur Pantalù, che ballerem po
anca tutti nu oter.
(Tutti si ritirano in disparte. Pantalone
getta tutte le sue armi per terra e poi va a prender alla danza una dama
dicendo)
pantalone Care ste manine: se’ più molesina, maschereta, che no xe
el bombaso!
(verso li sonadori) Òe, sonadori, soné a
pian, che saré causa che cascherò per terra! Sonéme un puoco, cari vu, una
furlanaza.[190]
cinzio Desistete dal ballo, già n’avete fatti
due.
pantalone O do o tre, ghe ne vogio far quanti che me par e piase!
Òe, sonadori, soné, sinò ve sfracasserò i strumenti e
ve scavezerò i archetti su la testa, m’intendéu?
25 cinzio Ah,
scelerato, cotanto ardisci?
pantalone Chi commanda le feste? Allerta, Liguro, che ghe la femo
fuora, e vualtri tegnì le arme in sagiaòr finché me
metto le mie.
(Pantalone incomincia a mettersi il zaco, la
celata, il guanto di ferro, la targa e la cinquedea)
Sentime, caro
sior carissimo, voléu aver un puoco de creanza da lassar ballar i omeni?[191]
cinzio Io ti dico che non voglio e non te lo
ritorno a dire.
capo de ballo Eh, sior conte, fermeve, caro sior, no
savé co che omo sproposità che avé da far![192]
(In questo mentre tutte le dame si partono
dalla festa; restano li cavallieri per por mano alla spada; il capo de ballo
fugge)
pantalone Coss’è sto dar del ti? Cosa è sto sai? Avemio forsi
magnào el çebibo in baretta, disé, sier canapiolo?[193]
30 mezzetino A’
no volì che balla, siori arsure? Adesso v’insegnerò la creanza.
(Mezzetino accompagnato da Momoleto, Liguro
e Varisco; e Pantalone pone prima mano al pistolese. Cinzio e gl’altri cavallieri si riparano e segue un formidabile
combattimento, del quale li soldati di Pantalone restano vittoriosi)[194]
scena
vi
Brighella solo.
brighella Mi a’ no so mai a dov a’ ‘l sii
andà el sior Pantalun: mi a’ son vegnù qua al bal ma no ved né più bal né sior
Cinci né la signura Rosaura, ma a’ me vogio ben infurmar com’ è passad el so
negoci col sior Cinci.[195]
scena vii
Brighella batte alla porta della signora
Rosaura.[196]
brighella De
ca’!
rosaura Chi batte?
brighella A’ son Brighella, el voster servitur,
siura Rosaura!
rosaura Che vuoi, Brighella, da me? Sei forse venuto quivi acciò
ti dii la mancia? Piglia e compatisci se non ti do quello che meriti, perché
sai che non ho commodità di darti di più.
5 brighella Me maravegh mi, siura, me bastava
anch del doppi! Oh, com’è passad el negoci del sior Cinci? Perché
a’ no ‘l ved qua con vu?
rosaura Benissimo al certo, ma non vi è altro di male senonché
mio padre col suo venir a fare il bravo sul ballo ne turbò di maniera che tutte
le dame che vi erano fuggirono, onde son dubbiosa dell’evento di tal fatto.
brighella Oh, cos che me cunté, siura: mi a’ no so quand che quell’om
benedet a’ ‘l finirà de far più baronad. Ma a’ no vogio perder temp: a’ me
vogio infurmar del fatt com l’è stad, e vu, siura, andé in ca’, accioché se el
veniss el siur Cinci no ‘l ve ritrovas qui sula.
rosaura Vado tosto in casa, ma dammi ragguaglio del successo dopo
la mia partenza.
brighella Andé pur, siura. A’ i’ ho pur vanzad un scud, la è
poveretta, la siura, la cumpatiss, ma aspett ben un per de duble dal me patrù.
Ella po, co l’andrà a ca’ del so spus, la me farà qualche piatt de macherù per
el benefici che a’ li ho fatt, che la sii spusa del me patrù. Fra tant andrò,
per non perder temp.[197]
scena
viii
Pantalone e Mezettino ubbriachi, vengono
soli con una pipa in bocca.[198]
pantalone Che
distu, Mezettin, te séntistu gniente de caldo?[199]
mezzetino Mi, siur Pantalun, a’ son un poch imbriàgh; quel vin che
avem bevud nu soli, zà un tantin, ades el fa la so part.[200]
pantalone Se ti vuol che te diga la veritàe, credo che quel vin el
gh’abbia la conza, perché me sento certi dolori inte ‘l stomego e gh’ho anca un
gran sonno.[201]
(Pantalone cadde per terra e rompe la pippa)
mezzetino Oh, com che si’ imbriàgh, siur patrù,
siur patrù, siur patrù!
(Mezettino ancor esso cadde per terra, poi
così stordito dice)
5 mezzetino Arma
virumque cano: po belle parole de Verzilio da’ Maroni, quand che l’andava,
eccetera; bona nott a vusiorìa, a vusiorìa, a vusiorìa…[202]
(Mezettino s’addormenta per terra; Pantalone
si risveglia un poco poi dice)
Pantalone «Canto l’armi pietose e ‘l capitano», ma
no…
«Donna,
disse Satan, perché crudele
verso
di me ti mostri e inumanata?»[203]
(di nuovo s’addormenta per terra)
scena
ix
Pantalone e Mezettino addormentati per
terra; sopragiunge Cinzio non osservandoli.
cinzio Già m’inoltro sempre più nell’amore
della mia bella Rosaura, né posso far di meno di non
raggirarmi qual elitropio anch’io intorno al sole de’ suoi bei lumi.
(Cinzio s’inciampa a caso in Pantalone che
dorme per terra)
Ma chi è
remora alle mie piante? Oh, dei, che scorgo! Questi, sparso di vino, con
Mezettino suo collega, si è Pantalone mio suocero. Ma come, oh numi, lasciate
ch’un già avvanzato negl’anni si dii in preda a tanti
vizi? Questi io temo che sii per funestar i sponsali
con la mia cara Rosaura. Contuttociò mi muove il pianto nel vederlo gettato sul
suolo. Olà, miei servi, accompagnate costoro entro quella casa![204]
(Pantalone e Mezettino vengono portati in un
palazzo addormentati)
scena
x
Cinzio e Brighella.
brighella Cos’è, siur patrù, avì furs mazad
el siur Pantalun? Perché ved du omeni che i lo porta dentr in ca’.
cinzio Non è morto ma ben è poco lontano dalla
morte, perché si dice che il sonno è fratello dell’istessa; e perciò, come a
suocero si conviene, lo feci trasportare assieme con Mezetino in quel palazzo.
E sappi ch’io non so che partito pigliare per farlo desistere di fare una vita
così sgraziata.
brighella Mi ho catad il mod de farlo riturnar in se stess, perché
lu è persona ricca e pur el par un mendich: lu a’ l’ è
un dei primi cittadì e pur el se trà co la pleb più infam. A’ ‘l bisogna far
csì: lu, subit che a’ ‘l se sarà svegiad, l’andrà cert a cattar la so
Spinettina e sì l’anderà cert, e vu, sior, tolive deter un pez de legn e quand
che lu el lo vederà el se tacherà a fuzir, perché el fa el brav sulament quand
che l’è compagnà e così, co ‘l vederì a fuzir, procurerì con le belle e con le
bone de dirgh che vu savivi che no ‘l valeva un bez, perché l’è vecc, ma che a’
no l’avì volsud far mal perché a’ volì per vostra morosa so fiola Rosaura, e disighe
anche che vostra signoria a’ se’ fiol del siur Duttur, che cert lu a’ ‘l se
contenterà che a’ sié so zender e sì anch a’ ‘l ve darà della bona dot, tant
più che a’ se’ persona ben nata, perché lu adess no ‘l ve conoss negot.[205]
cinzio Sai, Brighella, che è bello il pensiere?
5 brighella Andé,
e no perdì temp, che vad via anch mi.
scena
xi
Mezetino e Pantalone escono dalla casa ove
erano stati portati.
pantalone Mo no s’avemio indormenzào qua in
piazza, ma chi n’ha portài qua in sto palazzo?
mezzetino Mi no ‘l so miga, se no l’è stad qualche spirit macabreo,
del rest mi a’ no so negotta.[206]
pantalone Sarà stào qualche nostro amigo o el compare Liguro, o
Momoletto, opur Varisco. Ma senti, Mezetin, mi te son molto obligào, mi no gh’ho
visto nissun più fedel de ti: quelle canagie, co i ha visto che semo andài a
bever senza de lori e che semo vegnùi fuora della taverna un puoco all’orza,
elli i xe andài alla bettola. Mi no posso più star così solo, bisogna che ti ti
vaghi a cattarli, accioché i tegna le arme in sagiaòr,
perché nu no savemo chi ne vogia mal o chi ne vogia ben.[207]
mezzetino Adess mi vad a cattarli, siur.
(Mezettino si parte)
5 pantalone Va’ pur, ma vien presto, che te
aspetto qua. Mo l’è una gran cossa de mi: basta che qualchedun me veda che
subito i scampa, gnianca se i vedesse el babào; co i me sente all’usmo i va via
çitti çitti, co’ fa tanti gatti, che tutti i trema co i vede sto baicoletto. (verso la sua cinquedea)
Ma chi è sto
sior garbato che vien in qua? Mi certo, si no fallo…oh, poveretto mi, che l’è
quello che gh’ho tagiào i garettoli! Certo che el gi’ esser vegnìr qua per
refarse! Compare Momoletto, dove séu? Oh poveretto mi, che i m’ ha lassào solo
in le pettole: adesso adesso i me la fa far in cainello![208]
scena xii
Viene Cinzio e resta Pantalone.
cinzio Che
si fa qui soli?
pantalone Qua, sior, se batte le piere cotte:
cossa voressi dir per questo?
(a parte) El gh’ha messo anca quella
parola, soli, cossa mai vuolla significar?[209]
cinzio Nulla io voglio dire: compatitemi se
sono venuto a frastornare i vostri affari.
pantalone Digo mo, sior, se m’intendé, chi è galantomo no recerca i
fatti d’altri, però contenteve d’andar via de qua più presto che podé, e che la
ve passa anca così.
5 cinzio Vado
signore, non v’irritate.
(Cinzio finge di partirsi)
pantalone Cossa ho ditto mi? Che subito co i me
vede i muor da paura.
cinzio Voglio finger di temere costui.
pantalone Sentime, caro sior, voléu gniancora
andar via de qua?
(Cinzio di nuovo ritorna)
cinzio Non v’ho detto un’altra volta ch’io
vado? Abbiate almeno un poco di pazienza. Ma se per sorte, signore, io non
volesse andarvi, cosa mai mi fareste?
10 pantalone I poderave ben dir che i ha fenìo de
viver a sto mondo, quando no i volesse andar via de qua, e po, el manco mal che
ghe podesse far, ghe tagieria le reccie co sta brittoleta, m’intendéu?[210]
(Pantalone li mostra la cinquedea)
cinzio Adesso t’intendo! Io non mi voglio
partire.
pantalone No? No ve volé
partir? Diséu
daseno, dasenazzo, o dasenonazzo? Se no volé andar via vu, anderò mi: siorìa
vostra![211]
(Pantalone si parte)
cinzio Oh, che disgraziato, è pur partito alla
buon’ora: voglio gettar questo pezzo di legno.
scena xiii
Cinzio; Pantalone sopragiunge accompagnato
con Mezetino.
pantalone (verso
Mezettin) M’avé lassào mi solo inte le pettole, compare Mezetin. Ma la ghe
xe passada ben a uno, perché no ‘l voleva andar via de qua, e mi gh’ho tagiào
el naso e un brazzo, ma l’è stào molto fortunào, che no l’abbia fenìo da
mazzar.[212]
mezzetino È possibil?
pantalone Sì dasenazzo: aspetta, che varderò per
terra, che certo el catterò…[213]
mezzetino A’ ‘l cred pur tropp, a’ no ve descomodé miga, mi a’ no
ho mai cattad i nostri omen e sì a’ son andad per tutt dove che i suol
pratticà.
5 pantalone Ma guarda, caro ti, che quel zaletto
che te diseva che gh’ho tagiào el naso e un brazzo l’è andào molto presto dal
conzaossi e si el torna a far el bell’umor ghe vogio certo voltar la panza da
drio. Oh, séu qua, sier scartozzo? Mi no vogio andar via de qua, ma vogio che
vu ghe andé, sior clarissimo! Allerta, Mezzetin![214]
cinzio Cosa mi dite, che io vadi via di qua? Mi
tolete in fallo, vedete, signori, ma se anco volete ch’io me ne vadi, io me ne
vado subito per servirvi.
(a parte) Oh, che pezzo di bullo: bisogna
che io finghi di temere di costui per giunger a’ miei disegni.
pantalone Certo che l’avemo tiolto in fallo, voleva ben dir mi che
el fusse varìo così presto! Séntime, Mezzetin, voggio che andemo a trovar mio
compare Momoletto, perché co son con lu gh’ho un puoco più d’animo e se femmo
più stimar.[215]
scena
xiv
Cinzio con un pezzo di legno nelle mani;
Pantalone e Mezzetino restano.
cinzio Ah,
bricone, non ti vuoi per anco partir di qui?
mezzetino Ghe andem, sior, ghe andem, siur…
Ah,
siur patrù, è ‘l mat colù che a’ ‘l vol che vagh via de qua?
pantalone Tasi, caro ti, perché el sarà bon de dir
che l’avemo strapazzào.
Pàrlela co
mi, patron? Si la parla co mi, vago via subito subito subito, manco mal,
patron, la vegna almanco con un puoco de flemma, tanto che possa respirar, che
la servirò: volla che vaga? Vago e stravago, sioriazza![216]
(Pantalone si
parte con Mezetino)
cinzio Oh, che poltrone, chi l’avrebbe mai
creduto che quando costui vede un pezzo di legno tutto s’arrossisce e quando mi
vede co la spada al fianco sempre più audace si dimostra? Voglio gettar di
nuovo il bastone e finger per anco, se più torna, d’aver timore de’ fatti suoi.
scena
xv
Resta Cinzio, sopragiunge Pantalone acompagnato
da Mezetino e Momoletto.
pantalone Se’ qua ancora, sior liccapiatti? A
zioghemo alle scondariole? Mi m’ho volesto fin adesso tior spasso con finzer d’andar
via, ma vedo che la musica va troppo alla longa. Finilla, sior, e no ve ‘l fé
dir un’altra volta, perché adesso adesso ve volterò le ganasse co sto
curadenti, e andéghe, che sarà meggio per vu, perché sento che me spuzzé da
morto.[217]
cinzio Io n’andrò, ma sappi che me la pagherai.
(a parte) Vado, ma sol per alletarlo un
poco.
pantalone (tra sé, guardando dietro Cinzio che si
parte) Si no
andessi po non so cosa che farave, forsi che mi anderia via: ma no femmo più
ciaccole; Mezzetin, l’è andà via.
scena
xvi
Restano li
sudetti e ritorna di nuovo Cinzio con un bastone nelle mani.
cinzio A chi dico io? Bricone, scostati
tosto e portati altrove, perché questo non è loco per te: m’intendi? Pàrtiti di
repente, se non ti calcherò la schena con grossissime bastonate.[218]
pantalone A pian, a pian, co chi parléu? Si parlé co mi vago via,
caro sior, perché zà savé che non occorre che ve ‘l staga a dir che mi ve
voggio ben, caro visetto d’oro. Commàndella gniente, mio patron, in calle
Dolera, che possa servirla, no? Servitor acutissimo.[219]
cinzio Di già è partito, benché fosse
accompagnato da tre canaglie: voglio di nuovo nasconder cotesto bastone,
perché, se si porta, giuro al cielo che non li voglio più perdonare.
scena xvii
Cinzio; ritorna di nuovo Pantalone con
Mezetino, Momoletto, Liguro e Varisco
pantalone Adesso
mo voggio che ti vaghi via de qua, brutto brusa pagiarizzi, e tiò questo per
caparra, caro ti, con dir, el zirandonarve ben, ben, ben, mai fa dì.[220]
(Pantalone li
getta il capello nel volto)
cinzio A me questi oltraggi?
(Cinzio
incomincia a dar delle legnate a Pantalone e suoi soldati, fintantoché tutti si
danno ad una ignominosa fuga)
scena
xviii
Resta Cinzio solo.
cinzio Invero bravi soldati! Povero
vecchio insensato, compiango anch’io le tue follie!
(Vien
Pantalone solo fuori da un lato della scena e dice fuggendo)
pantalone Avé rason, che son sbrissào![221]
cinzio Cosa dici, pezzo de bullo?
pantalone Digo, sior, che questo no l’è trattar da
galantomo, el vegnir trenta contra uno.[222]
5 cinzio Ah,
desgraziato!
(Cinzio
impugna la spada per incalzarlo e Pantalone fugge)
cinzio Finora i miei disegni toccan il porto:
or c’è d’uopo che mi porti alla mia cara Rosaura per narrarle il successo del
tutto.[223]
scena
xix
Mezetino solo.
mezzetino Oh, sem molto bravi: trenta i è scampad
contra nu do soli! Orsù, mi a’ no voggio perder temp, perché i dis che el temp
a’ ‘l val tant or: mi a’ vogio in sto tant andar a cattar la me cara
Spinettina, per aspettar a cena el me car onorat patrun, el signur Pantalun, om
verament bravo, ma anzi bravissim.[224]
scena xx
Diventa
notte. Pantalone si porta a cantando con una pippa in bocca alla casa di
Spinetta.
pantalone (qui
si sente il canto d’un gallo) Anca el gallo canta! Òe, chi è là? Che ora è,
zente? Ma, sarà otto ore certo. I m’ha ditto, i sonaòri, che i sarà qua a
mezzanotte, ma mi no i vedo: vogio cantar intanto una ottava finché i vien, per
veder anca se la siora Spinettina volesse vegnir al balcon senza che batta,
perché xe scuro e mi no so cattar el battaòr.
(Pantalone
canta)
Subito
che mangiò del lot il figlio,
Itaco
si scordò la patria e il duce;
così
l’uom, nel cui petto il ferro artiglio
pone Cupido, e tal sovente aduce
che, povero di mente e di consiglio,
ha
smarrito del ciel la vera luce,
caminando
per vie ciech’e infelici,
di
se stesso si scorda e degl’amici.
Gniancora
no la me sente, bisogna che tioga el mio subiotto.[225]
(quivi suona
di subiotto ed in questo mentre sopragiunge Cinzio all’oscuro)
scena
xxi
Pantalone e
Cinzio all’oscuro.
pantalone Chi passa mo anca a ott’ore de notte?
Bisogna che el sia certo l’orco. Chi è là? Ma nissun no responde, e sarà stà
forsi qualche can che sarà vegnùo a pissar al muro.[226]
cinzio Chi va lì?
pantalone Gh’è zente certo![227]
(Pantalone
si getta boccone per terra con il stile in bocca, con
la targa in una mano e la cinquadea nell’altra, con la celata in capo. Cinzio
tira delle stoccate ed a caso urta sopra la celata di Pantalone)
cinzio Qui non v’è alcuno, sono all’oscuro: ah,
ben l’intendo, saran stati i miei tormentosi pensieri che vanno sempre
aggitandomi.
(Cinzio si
parte)
5 pantalone I m’ha sentìo all’usmo e sì i è andài
via. Cosa mai gh’è qua per terra?[228]
Ho cattào una
reccia e un naso, certo ghe l’ho tagiào e sì no l’ha ditto gniente, ma n’importa,
l’è andào via, sia chi se sia, doman el cognosserò, che el sarà quello che no
gh’averà naso.
(in questo
mentre un fornaro viene fischiando, con un mazzo di canne accese)
Anca
el forner passa a ste ore?
(li dà una
pistolesata sul concollo ed il fornaro fugge)
La è ben
curiosa stasera che tutti i va attorno, gnianca se i la fasse a posta, ma no i
sa in che robba che i se incontra! Orsù, no voggio più aspettar, perché adesso
adesso vien l’alba e no sarà più tempo de dormir.
(Pantalone
tira diversi colpi con la so cinquadea sopra la porta, la getta a terra, poi va
di sopra e fa fuggir Mezetino e diverse donne in camiscia)
scena
XXII
Ad
un tal rumore escono tutti fuori della casa di Spinetta, cioè Mezetin,
Momoletto, Liguro, Varisco e diverse altre donne in camiscia e Pantalone con un
pugnale le fa fuggire. Escono dall’altro lato della scena Cinzio, Dottore,
Rosaura e Brighella.[229]
cinzio e
rosaura Che rumor è
mai questo?
brighella
dottore (verso
Cinzio) Ah,
fiol d’un becch cornù, ah, dove situ stà fin ades, che a’ no t’ho mai vist da
du an in zà?
cinzio Tacete, signor padre, che vi narrerò il
tutto in disparte: sappiate solamente che me son fatto sposo.
dottore Ti
t’ha fat spus? Oh, poveret mi, che me venirà la nura in ca’![230]
5 cinzio Fermatevi, signore; e voi,
signor Pantalone, cedete e potete gloriarvi ch’io vi salvi la vita. Io son
Cinzio, figlio del signor Dottore, che se non sdegnate desidera in consorte la
signora Rosaura, vostra figlia. Dovete condonarmi se usai termini non
convenienti verso di voi, perché vedendovi accompagnato da certi baroni, vi
stimavo esser di tal sorte di gente. Io fui quello che per salvar una dama al
Redutto finsi di temere di voi; fui quello, parimente, ch’alla danza lasciai
sfogar la vostra bile, purché la signora Rosaura restasse illesa dal vostro
furore. E, compatitemi di nuovo, io fui quello che per sottrar voi (non più
Rosaura, mia diletta, perché di già n’era in sicuro) dall’iminente pericolo di
morte, vi feci fuggire con un bastone, benché foste accompagnato da diversi
briconi, e perciò, avvedendomi che Rosaura ardeva dell’amor mio, io, parimenti
anelando a’ sue voglie, li diedi la fede di sposa. Compatite finalmente una
tanta arroganza e sappiate che la legge d’amore ogni difficoltà scioglie, se
constituisce ogni persona d’un grado solo per maggiormente unir gl’animi degl’amanti in nodi indissolubili.
(Pantalone si
prostra per terra)
pantalone Vu donca se’ sior Cinzio, mio amorevolissimo patron.
Compatì, donca, anca mi, se ho usào certi tira indegni della mia e della vostra
persona. Ma, caro sior Cinzio, si gh’avé dào la zatta, col so restante, a
Rosaura, mia fiola, tornéghela a dar un’altra volta, accioché veda anca so
missier pare. È vero che fin adesso ho fatto una vita infame e, se andava
troppo alla longa, anca mi so che saria andào a cattar l’ostaria dai tre palli,
e però ve prometto de muàr vita, tanto più che ho visto che anca i mii omeni,
insieme co Mezettin, i m’ha fatto una barca coll’andar dalla mia putta, che me
credeva esser solo. Ma adesso cognosso che no gh’è più amighi e che quei che
finze d’esser tutti vostri, i è po quei che ve minciona. Ma adesso vedo che ‘l
cielo me vuol ben, perché in mia vecchiezza el me dà un sostegno, che se’ vu,
el mio caro sior zenero, che doppo la mia morte resteré patron assoluto de
tutto el mio. E vu, sior Dottor, ve baso e v’abbrazzo, e vogio che da qua
avanti siemo sempre più amighi che mai, tanto più che vostro sior fio se degna
de tior mia fia Rosaura per mugier.[231]
dottore Oh, el me car siur Pantalun, a’ pianz per l’allegrezza de
veder che un om dad a tanti vizi pur al fin el se remetta nella voluntà del
ciel, e se può ben dir, com a’ ‘l dis Verzil dai Marù: Post nubila Phoebus, che dopp el nuvol della mala vita al riturna
il splendor dell’emenda.[232]
pantalone (verso Rosaura) E vu, la mia cocca? Ve baso e v’abbrazzo
come la mia cara fia, e sappié che mi no gh’ho la mazor consolazion se no de
sentir che v’avé almanco cattào un marìo che l’è un zentilomo garbatissimo.
rosaura Compatitemi, signor padre, che
senza i vostri comandi ho data la fede di sposa al mio caro Cinzio: questi è
stato un eccesso di vivo amore. Onde mi prostro tutta lagrimante a’ vostri
piedi, per ricevere un total perdono d’ogni mio mancamento.
(Rosaura
piange)
10 pantalone Àlzete, cara la mia fia, perché ti
sarà causa che adesso adesso cascherò in terra morto per la gran allegrezza.
(Rosaura
s’alza da terra, Brighella tutto piangente insieme con Mezettino s’inginocchiano
per terra)
brighella Zà ancù l’è un zurno de perdunar, me butt anch mi, assiem
col me paesan Mezetin, a’ pìe del siur Pantalun, perché mi a’ son stà causa che
la siura Rusaura, vostra fiola, la xe spusa del siur Cinci me patrù.
pantalone Àlzete anca ti, che te perdono.
(Brighella
risorge)
mezzetino Ahu, ahu, ahu, povero Mezettin Boccal, fio de Madona
Simona Saltarelli e de missier Trufaldin, om onorat tamquam becch cornù! Me
sprostro, tutto sfirizimante alle scarpe…no no, alle siole del me patrù, perché
so che anca mi a’ ho fallad coll’andar dalla so cara Spinettina a farghe una
sonadina: ma quest l’è stad un deffett di quel cieco Cupidino, ragazino,
fantolino, picciolino, tirindino. Ma a’ poss ben dir —se el me perdona— come a’
‘l dis una volta Neseca filosofro: oh,
oh, oh, oh, quam dulcis, quam suavis; a’ no me ricord più…[233]
pantalone Te perdono, e tutti questi siori so certo
che i te perdonerà anca lori, perché se ti m’è stà collega nelle furbarie ti è
stào almanco più fedel che no xe stào né compare Momoletto, né Liguro, né
Varisco. Àlzete in pìe, che te vogio basar e vogio che da qua avanti ti sii mio
omo de casa, insieme co Brighella to camerada.[234]
15 mezzetino Oh, el me car siur Pantalù, a’ pianz di nov d’allegrezza!
brighella,
rosaura e Oh felice,
oh beata, oh lieta sorte,
cinzio che ci sottrasti, alfin, da dura
morte!
Appendice
In
appendice sono riportate le dediche della commedia, per quanto riguarda gli
esemplari PBp, PBp2, PBm; e il messaggio del libraio ai
lettori dell’edizione PBp2.
Dedica in PBp e
PBp2
Molt’illustre signore
Benché nella dedicazione di quest’opera molti sogetti rigua<r>devoli mi <s’> offrissero in un<a c>ittà, principalmente in cui sono frequenti le meraviglie e abbondano gl’uomini di gran merito, non ho saputo sciegliere persona, e di talento più stimabile, e di virtù più conosciu<ti> di vostra signoria. So di non ing<annarmi> nell’elezione d’un soggetto in cui è ereditaria non meno la nobiltà, ma anche il talento che, derivato da maggiori non ordinari, in fratelli diramossi e reseli in virtù diverse impareggiabili. Viene la mia opinione accertata da prencipe di non mediocre condizione in Italia, dico dall’altezza serenissima di Mantova, che mosso dalla fama della sua eccell<en>za nel fu[…]o (arte veram<ente> de<gna di> qual si sia no<me> o bell’ingegno), ha stimato sua fortuna il poter invitarla al suo ducato, dove e restasse premiato il merito, ed appagato il gusto non solito a pascersi di cose dozzinali. Accetti con una cortesia propria de più meritevoli questo umile segno della mia divozione, e renda appagata con un benigno compiacimento la mia osservanza, mentre me le dedico.
Di vostra signoria illustrissima.
Umilmente ossequioso e affettuosissimo servitore
Gio<van> Pietro Pittoni
Dedica in PBm
Illustrissimo signore
Era ben di dovere che nella nuova impressione della presente operetta, tanto aggradita non solo in questa serenissima città, ma per l’Italia tutta, la dedicasi a persona riguardevole, qual è vostra signoria illustrissima, che va adorna di quelle qualità che possono render un animo nobile pienamente felice. Tralascio di divenirne dell’istessa panegirista, poiché me lo vieta la di lei modestia, atta a rendersi più venerabile con sì savia imposizione, ed io, più che di buona voglia ossequiando i suoi cenni, mi vado consolando di poter un giorno decantar le sue glorie, ch’or tacendo venero con il silenzio, non tralasciando però in modo alcuno di farle palese il desio [che] tengo di publicarmi.
Di vostra signoria illustrissima.
Umilmente devoto e obligato servitore
Sebastian Menegatti.
Messaggio del libraio al lettore in PBp2
Il libraro al benigno lettore.
Chi desidera opere, e comedie da recitarsi in prosa d’ogni sorte da farsi il Carnevale o in altri tempi a suo piacere, come anco Pronostici d’ogni sorte per l’anno <c>orrente. Si vende da Leonardo Pittoni Libraro a San M<a>rco.
In breve si darà alla luce delle stampe il Dottor Bacchetton comedia ridicolosissima.
Bibliografia dei testi citati in forma abbreviata
Belloni 2003 = Belloni, Gino, Le bizzarre, faconde
et ingegnose rime pescatorie, Venezia, Marsilio Editore, 2003.
Boerio = Boerio, Giuseppe, Dizionario del
dialetto veneziano, Venezia, Giovanni Cecchini, 1856.
Calimani = Calimani, Riccardo, Storia del Ghetto di Venezia, Milano,
Rusconi, 1985.
Cortelazzo = Cortelazzo, Manlio, L’influsso linguistico greco a Venezia, Bologna, Patron, 1970.
D’onghia = Beolco, Angelo (Ruzante), Moschetta, edizione
critica e commento a cura di Luca D’Onghia, Venezia, Marsilio, 2010.
Folena
= Folena,
Gianfranco, Vocabolario del veneziano di Carlo Goldoni, Roma, Istituto della
Enciclopedia Italiana, 1993.
Fortis-Zolli
= Fortis, Umberto - Zolli, Paolo, La parlata giudeo-veneziana,
Assisi-Roma, Carucci, 1979.
Gdli
= Grande
dizionario della lingua italiana, a cura di Salvatore Battaglia e Giorgio
Bàrberi Squarotti, Torino, Utet,
1961-2000.
Guccini = Guccini,
Gerardo, Goldoni scenografo. Con alcune considerazioni di carattere storico
sulle componenti e le funzioni degli spazi comici, «Studi Goldoniani», 2
(2013), pp. 11-41.
Klein = Klein, Robert, La forma e l’intelligibile, Torino,
Einaudi, 1975.
Lazzerini = Calmo, Andrea, La Spagnolas, a cura di Lucia Lazzerini,
Milano, Bompiani, 1978.
Lombardi = Lombardi, Carmela, Danza e buone maniere nella società
dell’Antico Regime, trattatelli e altri testi italiani tra il 1580 e il 1780,
Arezzo, Mediateca del Barocco, 2000.
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[1] In questo caso fa eccezione PBr che non presenta caduta
di carattere; mentre per i casi segnalati in seguito tutte le stampe si
equivalgono, dove non diversamente indicato.
[2] visetti inzuccarài: visetti inzuccherati
(cfr. Boerio, s. v. “insucarar”: «aspergere o condire di zucchero», figurato). ● pani d’onto sotil: pani di burro (onto sotìl, “burro” Mussafia);
cfr. anche Gdli, s. v. “panetto” § 2: «quantità di burro
confezionata in froma parallelepipeda», mentre Muazzo
riporta, p. 742: «lardo o grasso de porco». Nel contesto l’espressione,
forse con sfumatura furbesca, fa riferimento, in maniera canzonatoria, come il
precedente «inzuccarài», al carattere raffinato dei personaggi apostrofati e
alla foggia elegante dei loro abiti, anche. Per l’impiego figurato di “burro”
cfr. Gdli, s. v. § 2. ● aqua de
viole: acqua profumata con essenza di viola; figurato “andar in aqua de
viole”, “andare in visibilio”, «andàr in brodo o in brodo de viole, detto fig.
imbietolire; venire in dolcezza; non capire in se stesso o nella pelle» (Boerio, s. v. “brodo”); cfr. anche Muazzo
(p. 420) «esser in bruo de viole, de mazzanette per l’allegrezza».
[3] sti panetti: continua il riferimento
metaforico ai pani di burro della battuta precedente. ● trucar o traversar i campi: il primo termine è attestatissimo nella lingua
furbesca: crf. Prati n. 365
“rubare”, “ingannare” e tutti i significati connessi alla sfera delle astuzie
dei mendicanti e dei ladri. Non è chiaro se «traversar i campi» sia altro
svolgimento gergale dello stesso concetto (sul tipo di espressioni come
“truccare in carpeggia via”, per cui cfr. Prati
n. 311 e Nuovo modo 36, 8 con
rapporto a “calcosa”, ‘strada’), oppure indichi un più truce “trapassare”,
“trafiggere” (cfr. Gdli, s. v. “attraversare”); per analogia con
le sfumature del significato di campo in ambito militare, offensivo cfr. Gdli, s. v. “campo”.
[4] Ti no gh’ha altro inte ‘l cuor ch’impenirte
la panza: non pensi ad altro che a riempirti la pancia. ● di’: dimmi. ● risegheràvistu un mezo ferro: ferro è una voce gergale per
“ducato”, per cui si veda una nota di Muazzo
che riporta, p. 661, una piccola sintesi del valore delle monete:
«Marcello zé el da diese; Mocenigo zé el da quindese; un ferro zé el ducato; un
ruspio un zecchin; un perucchin un traro; pena una lira. […] Ma questi zé
termini, come ò dito nella prefazion, ch vien doperai soltanto dai piazzaroli e
me vien dito da persona intendente che zé stà stampà anca un libretto su tal
proposito» (difficile dire a quale libro qui si riferisce perché diversi
compendi sul valore delle monete sono stati stampati negli anni in cui il
Muazzo scrive, tra cui anche alcuni proclami e regolamenti ufficiali); quindi
l’espressione qui significa: “rischieresti un mezzo ducato” (cfr. la risposta
di Liguro alla battuta seguente e ancora la replica di Pantalone, e soprattutto
I.2.3). Ducato: «Moneta d’argento, bettuta per la prima volta nel 1561 essendo
doge Girolamo Priùli. Pesava carati 153 9,15, aveva da un lato l’effige di San
Marco, sedente, in atto di consegnare uno stendardo al doge ginocchioni,
circondata dalle seguenti parole: Hier: Priolo Dux S. M. Venetus: e dall’altro
quella del Leone alato col libro, circondata dalla leggenda: Ducatus Venetus.
Nell’esergo, fra due piccole stelle, vedeasi il numero 124, che volea dinotare
soldi centoventiquattro, cioè lire sei e soldi quattro. Con uguale impronta si
coniarono pure il mezzo ed il quarto di questo ducato» (Mutinelli).
[5] far de so nona: cfr. la forma allargata
della locuzione, per onomatopea espressiva del raccontare frottole allo scopo
di ingannare, sotto in I.2.4; “far de so nona nina nana”: «dir de so nona a
qualcun, nominare alcuno pel suo nome; dire a uno il padre del porro; cantargli
il vespero degli Ermini, vale riprenderlo e accusarlo alla libera» (Boerio, s. v. “nona”). Muazzo (p.
735, s. v. “nona”) porta il seguente
esempio riguardo all’uso dell’espressione: «[…] per mandar uno a far busarar in
rima, se dise: “vostra nona, nina, nanna e la busara che ve scanna”». ● le mie scarselle fa el verso del gatto:
scarselle, “tasche”, nel senso che piangono per essere vuote; cfr. Muazzo, p. 524: «gnau gnau fa el gatto,
come mermeo; squaquarrà fa el quaggiotto. Gnaun gnaun se ghe dise a chi gà vode
le scarselle».
[6] metterò in tola sie bezzi: metterò al
gioco sei denari. «bezzo, moneta di rame che era la metà del valore di un soldo
veneto, equivalente a sei denari» (Boerio
s. v.), quindi una modestissima
puntata; «Bezzo. Moneta, che, secondo il Carli, fu coniata precisamente l’anno
1514. Era quadrata, pesava grani quattro, e la di lei marca avea
quattrocentottanta di fino. Nel 1795 il bezzo era di puro rame colle iniziali
R. C. L. A., cioè Regina Coeli Letare Alleluia, e correvano pure allora per
bezzo alcuni soldini della lega stessa e del conio dell’altra moneta appellata
soldone, però per metà più minori» (Mutinelli).
● se ghe podesse truccar: cfr.
sopra I.1.2. ● polachi: polli,
conserva l’impronta del greco “tò poulàki”, “pulcino”, “pollastrello” (Cortelazzo s. v.), che in veneziano ha coloritura furbesca, infatti già
attestato nella tradizione bulesca. ● un
pèr de ferri: un paio di ferri, ripresa del termine che porta a supporre
quanto illustrato sopra in I.1.3.
[7] baroni: bari, giocatori d’azzardo; con
sfumatura furbesca, come accrescitivo di “baro”: «truffatore al giuoco» (Boerio s.v).
[8] barone: cfr. nota precedente.
[9] Zioghéu, meloni: giocate, stolidi.
“Melón”, «detto per agg. a uomo, mellone, vale sciocco, scipito, di grosso
ingegno» (Boerio s. v.); cfr. anche Muazzo, p. 686, per l’espressione: «el
gran babbion che sé, la gran mellonaggine che gavé in vu».
[10] metter un ponto: puntare al gioco (cfr. Boerio “ponti del zogo”, s. v. “ponto”).
[11] ciacole: chiacchiere. ● re a sto mezo ferro: cfr. sopra
I.1.3. ● far de so nona nina nana:
cfr. I.1.4. ● sier fio d’una
curarisi: espressione spregiativa e probabilmente equivoca, in connessione
al significato di “sgusciare”, “trarre dal guscio” (cfr. Boerio, s. v. “curar”); cfr. anche «fio d’una pesta pevere» (I.2.7), «fio
de so santola da Castello» (I.11.18), «fio d’una solennisima» (II.6.22), «fio
d’una magna bisati» (II.6.37). Anche Muazzo,
p. 474, riporta un piccolo elenco di varianti per questo tipo di espressioni:
«fio de to mare, fio d’una quinta in coppe, fio d’una curarisi, fio d’una
fatedita, fio d’una donna da ben, fio d’una buzerada, fio d’un becco, fio d’una
puttana, fionon, fionazzo, fionasenazzo d’una fate desfatta, fio del bogia, fio
d’una aseno, d’un musso». ● descarga
barile: scaricabarile. Il significato di «zioghéu» passa nella battuta da
riferimento al gioco della bisca a quello figurato di fare un gioco
inconcludente o di poco conto: «fare a scaricabarili, giuoco fanciullesco che
si fa da due soli, che si volgono le spalle l’un l’altro, e intrigate
scambievolmente le braccia, s’alzano a vicenda» (Boerio, s. v.
“zogar”). ● gambari da Treviso:
l’espressione figurata sembra mettere insieme il senso metaforico comunemente
attestato di “gambero”, per “qualcuno che si tira indietro”, con il riferimento
furbesco alla “bola dei gambari”, “galera”; va qui aggiunto che anche l’uso
gergale del toponimo Treviso presenta un significato analogo (cfr. nota di Vescovo 1994, I.100: andar a Treviso,
«si allude all’internamento per pazzia nell’ospedale trevigiano di S. Maria dei
Battuti» e cfr. anche Vescovo 1985,
IV.83.
[12]
bona bassetta: «gioco di carte di tre
giocatori contro un banchiere che propone la puntata» (Folena, s. v.
“basseta”); bona nel senso di “regolare”,“corretta”. ● tagio: nel senso puntuale che il termine
del gioco a carte ha in relazione alla prima nominata bassetta: «tagliare o
fare il banco» (Boerio); cfr.
anche attestazione dei luoghi delle commedie goldoniane in Folena, s. v. “tagiar” § 3, e Muazzo,
p. 1025: «taggiar alla bassetta, a faraon. Far el tirante al Redutto».
[13]
sier muso de màmera: insulto, e vale
«babbeo, mammalucco, stupidone» (Folena,
s. v. “mamara”); cfr. la glossa
goldoninana riportata qui: «parola ingiuriosa come a dire babbeo ecc.»; assai
più colorita l’annotazione del Muazzo:
«Mammera. La zé una parola che ò sentia usar fra sta zentaggia, disendose un
con l’altro: “varda là, che muso de mammera che ti gà!” e credo che i se voggia
dir o muso da magnamerda, perché la par una parola come sincopada, sta ose
mammera, ovvero muso da monna»; la diffusa spiegazione qui riportata illustra
ampiamente anche il successivo «mùete quel muso», “cambiati quella faccia”.
● sier fio d’una pestapévere:
signor figlio di una pesta pepe, cfr. sopra I.2.4: l’espressione ha un più
chiaro riferimento equivoco del precedente, secondo il campo semantico del
boccacciano “peccato mortaio”, “peccato pestello”, diverso dal generico “pestar
el pévare”, “rompere ammaccando” di Boerio,
s. v. “pestar”. ● sgnièsola: «bagatella, ma dicesi per
ironia e s’intende cosa grande», cfr. Boerio,
s. v. “sgnièsola”, dov’è anche
l’espressione “de sta sgnièsola”; «dinota la grandezza e grossezza d’alcune
cose», che calza perfettamente con la battuta di Pantalone che indica
evidentemente la sua mano o il suo pugno; secondo Prati EV (s. v. “gnèsa”) si tratta di estensione
metaforica da «donna melensa e fiaccona», da cui “bagatella”, derivante da
Agnese vergine martirizzata e quindi simbolo proverbiale della ragazza
inesperta (per cui cfr. Migliorini,
Dal nome proprio, pp. 126-127); Muazzo, p. 1015, riporta per “sgnezola”:
«zé una parola che dita, sia in nome sia in avverbio, significa una quantità
granda o qualità perfette de qualche cosa, e per lo più pronunziemmo sta dizion
in atto de stupor e maravegia. Quella sgnezola de piadena de manestra ve ficché
zò! Gionto lo lupo. Sgnezole po’ in avverbio semplicemente zé l’istesso che
“cappari!”, “caspita!”, “cazzega!” et. a. Sgnezole!, gnente ghe digo, se ‘l ve
vede a taccarghe gnente de quella robba che l’à pusà sull’armer! La zé stada
una sgnezola e mezza quel furegotto che l’à giappà su quel cortesanello».
● bàbio: «mostaccio; visino; e
s’allude a quello d’una giovane e bella» (Boerio
s. v.), qui impiegato con scarto
ironico; ma cfr. anche Prati EV,
nel senso più ampio di “ceffo”, e anche “mento delle bestie”, «da un rumore
prodotto dalle labbra da cui pure il franc. babiller “ciarlare”, babille, “chiacchiera”». ● scudo rasonato: moneta limata
abusivamente e privata di parte del suo valore (forse da mettere in
relazione con cfr. Gdli s. v. “ragionare”, 1.9: «calcolare il
valore di una moneta ragguagliandolo a quello di un’altra»); il modo di dire e
l’ambito di pertinenza d’uso dell’espressione sono registrati anche da Muazzo, p. 974: «bisogna che provveda
dei scudi ragionati per segnar sora i taolini da carte nel tempo della
conversazion»; scudo: «Moneta d’oro stampata nel 1528, collo scudo della
repubblica da un lato, e colla croce dall’altro, al prezzo allora stabilitogli
di lire 6:10, e del peso di grani veneti 681,4, ma col peggio, a differenza
dello zecchino, di carati 96 per marca. Nel 1577 si rese effettivo questo scudo
anche in argento, sul disegno medesimo di quello d’oro. Il suo prezzo fu vario,
ma colla ultima generale tariffa veneziana lo si conguagliò a due ducati da
lire 6:4, cioè a lire 12:8. Questo scudo, che si disse pure Scudo della croce,
continuò ad essere coniato sin al 1797, cioè sino alla fine della repubblica»
(Mutinelli). ● çechin: zecchino, «Aurea moneta, fra le
veneziane la più distinta per la sua finezza, duttilità e colore, per la
identità d’intrinseco e di conio che sempre mantenne, originariamente chiamata
ducato d’oro, quando cioè per la prima volta nell’anno 1284 fu stampata sotto
il doge Giovanni Dandolo, assumendo il nome di Zecchino e Cecchino soltanto nel
1561 allorché fu introdotto il ducato di argento. Lo zecchino offeriva da un
lato l’effigie del del doge ginocchioni alla sinistra di quella di san Marco
che gli dava un vessillo, dall’altro la immagine del Salvatore in atto di
benedire, ed il suo peso, che nel detto anno 1284 fu stabilito a grani veneti
6852,167, non andò quasi [guari nel testo] soggetto ad importanti riduzioni» (Mutinelli).
[14] liraza: «moneta d’argento di bassa lega,
che era in uso presso il Governo Veneto e valeva soldi 30, cioè centesimi italiani
75» (Boerio s. v.); Mutinelli però
(s. v. “lirazza”) riporta: «Moneta di
argento da dieci gazete, che dal 1571 si è ripetuta più volte fin sotto il doge
Francesco Molino intorno al 1645, tempo in cui correva per soldi ventiquattro.
Portava essa moneta segnato al di sotto il numero X, ed ebbe origine nella
circostanza della guerra co’ Turchi per l’invasione di Cipro» (ivi); Pantalone
mettendola sul banco da gioco la spaccia proditoriamente per un mocenigo («nome
d’un’antica moneta veneta stampatasi l’anno 1475 sotto il Doge Pietro Mocenigo.
Dicevasi anche lira moceniga e da alcuni lirazza fina, e valeva soldi venti; e
verso il 1523, soldi 24»; Boerio s. v.).
[15] soldati: sgherri.
[16]
è fenìo el mandolato, è saltào su un
citronato: il gioco di parole contrappone probabilmente un dolce di pregio,
il mandorlato (per il quale cfr. Muazzo, p.
661: «va là che ti zé un mandolato! “Ghe piase el mandolato?” “Mi sì, co’ l’è
de quel bon”. Qua a Venezia i ghe ne fa de diverse sorte, come sarave a dir:
mandolato colle mandole brustolae, ingiccolatà, sgietto, coi pestaggi drento.
Ghe ne zé po’ del mandolato in scattola, che vien da Fiorenza. I spezieri da
confetture tocca i gran bezzi prima nel far la fava per i morti e po’ co’
s’avvicina el tempo de Nadal, nel fabbricar mandolato, mostarda e
parpagnacchi»), e un dolce più corrente, il citronato. La parola non è
attestata nei dizionari dialettali (anche se Muazzo
a p. 667 riporta una piccola filastrocca triviale che comincia con
«mandolato cipronato», per cui si potrebbe ipotizzare uno scambio di lettera);
ma si veda Calmo in Vescovo 1985, 3.54 «ha volesto manzar de
sto çitronato», e si consideri che in Sella
è registrato “citronatum”, “limone” (esempio del 1364). ● dame o pedine: gioco di parole tra
l’appellativo nobiliare e i termini del gioco degli scacchi; al quale si
aggiunge una contrapposizione tra nobildonne e popolane: «pedine sono dette
ancora per ischerzo le donne di bassa condizione, perché vanno a piedi» (cfr. Boerio s. v.); e anche Muazzo, p.
862: «[…] pedina zé l’istesso che siora o puttana». ● romper el cào: rompere la testa,
stancare. ● al sangue de tre lire e
do soldi: locuzione eufemistica, secondo una serie diffusa. ● albasiazza: accrescitivo-deformativo di
“albasìa”, albagia, boria (Boerio);
in coppia con «corpazzo». ● muso da
zaletto: il termine di paragone, a partire dal colore giallo, nella fitta
serie delle espressioni con muso de (cfr. sopra nota I.2.7 e I.2.10; e più
avanti «muso de luna» I.3.8, «muso de seppa» II.6.35) può indicare sia un tipo
di pane o di dolce, «fatto con farina di formentone» (Boerio); oppure il “zaletto”, beccafico, «uccelletto delle
siepi che a queste parti si vede grassissimo verso la fine d’autunno» (Boerio). ● piere cotte: mattoni (cfr. Boerio
s. v.) con rinvio a «matón»; “le
pietre del lastricato” (Folena, s. v. “piera”). ● no gh’avemo paure de quelle màmere: non
abbiamo paura di voi (per “màmera” cfr. sopra I.2.7). ● scartozzi: cartoccio, «recipiente di
carta in forma di cono, notissimo» e in senso figurato «maniera bassa,
familiare, che si dice per disprezzo di un giovane ne’ seguenti significati,
cicisbeo da quattro alla crazia; attillatuzzo; damerino; vagheggino; manico di
stoppa; squacchera; o il bel soggettino, giovane leggero ed affettato» (Boerio). ● no ghe fé de deolìn: «deolìn, dicesi per piccolo dito», qui indica
l’azione di sottrarre con destrezza la moneta. ● no gh’ho i occi fodrài de persutto: non ho gli occhi foderati di
prosciutto, non sono cieco.
[17] sier canapiolo: «signorino galante,
ridicolo, sguaiato» (Boerio), cfr.
anche Folena per le attestazioni
in Goldoni e le glosse d’autore, quali «uomo da niente», «giovinastro», «uomo
da nulla»; particolarmente interessante nella giovanile Contessina (1743) l’accostamento tra «sior canapiolo» e «sior
scartozzo de pévere muschià». ● gué
quel vostro subiotto: affilate il coltello. Il travestimento con
«subiotto», non altrimenti attestato, sembra furbesco e rinviare a «subiotto»,
zufolo, in connessione al senso metaforico di “suonare” come da quanto segue:
«vogio che ghe la sonemo» (in questo caso può indicare genericamente, dunque
con guàr in senso metaforico, le armi da offesa, bastoni compresi). ● ho tasesto: ho taciuto. ● ho fatto vista de no incurarmene: ho
fatto finta di non curarmene, che non m’importasse. ● se la ghe passa: se la scampa, se la
passa liscia. ● l’è nassùo do volte:
è nato per la seconda volta; nel senso che è fortunato ad avere risparmiata la
vita, cioè di continuare a vivere. ● metté
la vita per el vostro campion: rischiate la vita per il vostro eroe (Boerio). ● conti da Marocco: conte (cfr. Boerio
s. v.) è in varie locuzioni usato in
senso dispregiativo o «per motteggio di chi vuole avere titolo di conte ed è
miserabile», probabile il riferimento al toponimo Marocco, piccolo borgo in
terraferma, non lontano da Mestre; (per gli usi gergali di marocca, “spia” e
“balordo”, qui però poco probabili in quanto di area romana, cfr. Prati, s. v. “marrocca”, e si veda anche sotto I.6.2, «maroca»). ● siora maschera: riferimento al fatto che
i nobili portano nella sala da gioco la maschera al volto; il travestimento più
comune era quello della baùta che consisteva in una mantellina nera «munita di
una sorta di cappuccio, il cosiddetto “bautino”, che copriva tutto il capo,
lasciando libero soltanto il volto, sul quale si applicava poi la maschera.
Tale maschera poteva ricoprire il viso per metà —la “mezza maschera”— o
interamente. Nel secondo caso, il più diffuso, dicevasi volto e poteva essere
di due tipi: la moreta nera e la larva che, bianca e per lo più lucida, faceva
assumere quell’aspetto quasi spettrale cui doveva la sua denominazione» (cfr. Vitali, s. v. “baùta”). ● perderìa
quanche cossa: letteralmente “perderei” qui usato da Pantolone nel senso di
“rischierei” (cfr. sopra nota I.1.3). ● o alla bassettina o a trionfetti o alla meneghella: nomi di giochi
di carte; per il primo cfr. sopra bassetta, nota a I.2.6; “trionfetti”: «sorta
di gioco di carte così nominato che fassi tra quattro ed anche tra due persone,
nel quale ad ogni rinovazione di gioco, quello a cui sta a tagliare stabilisce
il valore delle carte» (Boerio s. v.); “meneghella”: «gioco di carte
che fassi in compagnia di più persone, nel quale la carta prevalente col nome
di meneghèla è il due di spade» (Boerio s. v.); per “meneghella” cfr. anche Folena per la lunga annotazione di
Goldoni nella prefazione di Una delle
ultime sere di carnevale.
[18] ve tagierò la ose: alla lettera “vi
taglierò la voce”, col significato di “vi impedirò di parlare”, e più truce:
“vi taglierò la gola”. ● sta seppa:
schiaffo, guanciata (Boerio) .
● su quella zuca: in testa.
● muso de luna: nella ricca
serie di cui sopra (cfr. sopra I.3.2) confrontare la locuzione «el gh’ha un
muso che el par la luna d’agosto», «ha un viso tondo e scofacciato, che pare la
luna in quintadecima» (Boerio, s. v. “luna”). Muazzo, p. 663, sembra aggiungere all’espressione una
sfumatura collerica: «el gà un muso infiammà che el par la luna d’agosto».
● sier mandolato grancio:
mandorlato rancido; cfr. Muazzo, p.
524: «l’è granzio sto salà. Sta robba zé grancia, l’à patio». ● batter la calcosa a Legnago: furbesco
per estensione metaforica del toponimo Legnago, bastonare (qui «calcosa», per
cui cfr. sopra I.1.2, sembra indicare più che la strada, la schiena, come
oggetto da “calcare” a bastonate, confermato dall’immediatamente precedente
«sier schena da legnàe»). ● bell’umor:
gradasso; cfr. Muazzo, p. 1089:
«varrè là che bell’umoretto».
[19] cancher: cancaro, interiezione tipica di
Mezzetino e delle parlate pseudo-bergamasche. ● a’ restevim: saremmo rimasti. ● a’ me sent che ‘l me ventr a’ ‘l pianz: sento che lo stomaco piange
(per essere vuoto, come le «scarselle» in nota I.1.4).
[20] agere: aria● cattar da magnar: trovare da mangiare. ● scampài: scappati. ● tìrate
da una banda: fatti da parte. ● polàco:
cfr. sopra I.1.5. ● cavarghe un
puoco de moneàza: spillargli quattrini.
[21] ziezolina: adattamento al cliché
bolognese stereotipo del Dottore dal veneziano «zizola», “giuggiola”, e, in
senso metaforico, “bagatella”, “sciocchezza”, vedi sotto I.5.3: una fava, ‘na bagatella; dal momento che
il Dottore chiede a Pantalone di vendicare un affronto subito (cfr. sotto
I.5.3, «un servici»); può venire a chiarire l’utilizzo di questo termine un
suggerimento di Boerio (s. v. “zizola”): «esser in zizzola de
far mal, maniera antica, avere il ticchio o il capriccio o l’umore di fare del
male». ● a’ ho zust catad: ho
giusto trovato. ● chi cerca a’ i
catta: chi cerca trova (proverbio). ● volt de zà volt de là: di qua e di là. ● Panz-de-limon: come sotto «Pianta-limon»: deformazioni stereotipe
del nome, tipiche del repertorio della commedia ridicolosa, fin dal primo
Seicento (si veda ad esempio il ricco repertorio di Giovanni Briccio).
[22] Me tiolé in fallo: mi prendete in
errore, sbagliate il mio nome. ● dottor
da buèi: dottore da strapazzo; il “buèlo” è «un pezzo di quel canale che
con varii avvolgimenti va dalla bocca dello stomaco insino al sedere» (Boerio s. v.). ● çeca:
zecca, l’edificio sansoviniano della zecca, in cui si custodiva l’erario (cfr. Mutinelli s. v.). ● mi tagio
nasi, rompo brazzi, scavezzo gambe: Pantalone qui si presenta in tutta la
sua arroganza di bullo: uno che sa farsi valere sugli altri con la forza.
● legno dolce: legno verde,
sottile; in senso antifrastico rispetto al grosso bastone che Pantalone
esibisce al Dottore (come illustrato anche in did.), cfr. anche sotto I.5.4
“baìcolo”.
[23] un bù o un somar: un bue o un somaro.
● un servici: un servizio;
Pantalone è solito offrire la sua protezione da bullo in cambio di denari.
[24] sta seppa sulla magnaóra: manata,
schiaffo sulla bocca (“magnaóra” da “magnàr” con sfumatura gergale); per
“seppa” cfr. sopra I.3.8. ● sula
crepa co sto baìcolo: “crepa”, gergale per «testa, zucca, coccia o coccola»
(Boerio s. v.); “baìcolo”, in traslato riferito al “bastone” è «pasta reale
condita di zucchero, spugnosa, biscottata e tagliata in fettucce sottilissime
che si inzuppa nel caffé o simili bevande» (Boerio
s. v.).
[25] zizolaza: cfr. sopra “ziezolina”, I.5.1.
[26] acqua de vita: acquavite. Pantalone
sposta la richiesta di Mezzettino di essere sfamato a quella della mancia, nel
senso del pour-boire.
[27] no me faz guardar dieter: nel senso del
veneziano “vardar drìo”, “non mi faccio osservare e criticare a causa
dell’avarizia”.
[28] Pescaria: luogo dove si vende pesce a
Rialto, fin dal 1332: «[…]Qui, come appare da un decreto del 1381, riportato
dal Gallicciolli, si vendevano, oltre il pesce, gli uccelli, la qual usanza
continuò anche nei secoli susseguenti. […]I Pescatori erano a migliaia verso il
cadere della Repubblica, ma i così detti Compravendi pesce centocinquantotto soltanto. Tale mestiere si
riservava ai soli pescatori di S. Nicolò e di Poveglia dopo che avessero
pescato per anni 20, e giunti fossero agli anni cinquanta d’età. […] Oltre che
a Rialto, in qualche altro luogo, ove si vende pesce, troviamo il nome di
Pescaria» (Tassini). ● che a’ fo el mercad: che contratto il
prezzo.
[29] incalzarghe: far concorrenza, rincalzare
il prezzo.
[30] mustaz: mostaccio, viso.
[31] civiera o “celiera”: «barella, strumento
fatto a somiglianza di bara per trasportar sassi, terra o simili» (Boerio s. v.), presumibilmente riferito al volto largo e piatto del
Dottore.
[32] cortelaz: “coltellaccio”. ● inter utraque crura: locuzione latina
per “tra l’uno-a e l’altro-a”; crura:
gambe; si tratta di un’evidente minaccia di castrazione.
[33] farghe far un po’ la cachina int’i calzun:
fargliela un po’ fare addosso (nei calzoni), cfr. sopra I.2.10.
[34] co no gh’ho da voltarghe la panza da drìo no
faremo gnente: se non c’è da ammazzare qualcuno (voltargli la pancia per
dietro, sbudellandolo) non faremo nulla. ● putèi: bambini. ● crepa:
vedi sopra I.5.4.
[35] in bottega del salumier dal Bus:
evidentemente una bottega di salumiere presso il traghetto del Buso, ai piedi
del ponte di Rialto: «venne così denominato questo traghetto per essere
cacciato quasi in un buso, o buco, sotto il ponte di Rialto. Altri, prendendo
il vocabolo buso in senso osceno, affermano, che, avendo una fiata il Governo
della Repubblica bandito da Venezia le meretrici, e poscia essendo stato
costretto a richiamarle a cagione dei gravi disordini che nascevano, quando
esse furono di ritorno passarono in frotta, per avviarsi ai loro stazi di
Rialto, questo traghetto, il quale perciò venne dal volgo scherzosamente
fregiato del nome che porta» (Tassini,
s. v. “buso”); luogo topico per le
citazioni in commedia fino a L’augellino
Belverde di Carlo Gozzi, dove Pantalone dichiarerà di aver acquistato da un
merciaio nello stesso luogo lo spago sforzin, per legare le fasce dei gemelli
figli di Tartaglia, re di Monterotondo, affidandoli alle acque (I.1.8). ●
porta el tabàr sott el brazz:
“tabàr”, tabarro, mantello, nel senso che porta un lembo avvolto intorno al
braccio a nascondere l’arma. ● caviadda
rizzotta: capelli ricci.
[36] vogio che el vedé a portar via in quattro:
cioè, morto; può intendersi anche in senso più truce “in quattro pezzi,
squartato”. L’espressione è citata anche da Muazzo
(p. 572), ma senza spiegazioni. Pantalone esagera molto nel descrivere
le proprie gesta di bullo, si vedano i vari luoghi della commedia in cui
afferma di trovare per terra il naso che ha appena tagliato a qualcuno (cfr.
II.12.3, III.13.1, III.21.5).
[37]
una parolina in reccia: una parola in
orecchio, in confidenza. ● malvasia:
«vino ed uva da cui tale vino si ricava» (Folena)
e, per estensione, nome delle osterie di Venezia, «ma già oltre alle osterie
propriamente dette, nelle quali si poteva mangiare e bere, si distinguevano le
taverne, dove si vendeva il vino all’ingrosso, dalle caneve o cantine, dove di
vendeva vino al minuto, e si poteva bere, ma non mangiare, dalle malvasie, ove
si potevano bere scelti vini di Grecia, dai magazeni e bastioni ch’eran caneve
d’infima classe» (cfr. Zorzi, pp.
67-70).
[38] co’ fa el gat all’aiada: proverbio,
“come fa il gatto all’agliata”, «vivanda appetitosa di biscotto preparato con
aglio, olio, aceto e pepe, la quale è molto in uso tra i nostri naviganti» (Boerio s. v.); ma anche generalmente “salsa di aglio” (Gdli); il commento di Mezzettino si
riferisce al fatto che il comportamento di Pantalone nei confronti del Dottore
non è sincero: non lo stima, così come al gatto non piace l’agliata.
[39] venì zà: venite qua. ● ve vogi dar un pèr de doble: vi voglio
dare un paio di doppie; «Doppia. Nell’anno 1535 si coniò lo scudo d’oro, che
pesava grani 661,2, e raddoppiatosi successivamente il peso si chiamò allora
Doppia, la quale nel 1608 valeva lire 16:16; così l’eruditissimo Galliccioli» (Mutinelli).
[40]
a bon véderse: arrivederci.
[41] Se no me ‘l desì: se non me lo dite. Per
la forma “desì” (“disé”) e per il doppio significato del verbo “dovere” /
“dire” in base all’estensione del tipo “dicebam” e “*facebam a stabam”, cfr.
l’annotazione del Salvioni alle Rime di Bartolomeo Cavassico (II, p.
340), citato da Lazzerini per
Calmo, Spagnolas, I.14.
[42]
andar a visàrghelo: forma per
deglutinazione di “andare ad avvisarglielo”. ● maroca (cfr. Prati,
227): gergale nel senso di “pane” (cfr. sopra I.3.4); forse da qui esteso al
“denaro”. ● mincioneremo:
gabberemo, ci prenderemo gioco di loro. ● Tolereto dal pesce: nome di un venditore di pesce, elemento di
colore locale. ● fante nostro amigo:
sembra che questo personaggio possa essere considerato un altro bullo
cittadino. ● che el camina per sti
do dì in Castello e che mi caminerò per Àrzere a Santa Marta: cioè per le
parti opposte della città. «Castello era anticamente una delle isole maggiori
sopra le quali sorse Venezia, ed ebbe tal nome o perché i primi abitatori vi
ritrovassero i ruderi di quell’antico castello che, secondo lo storico Tito
Livio, Antenore, guidatore degli Eneti, costrusse in fondo al Golfo Adriatico,
o, più probabilmente, perché un castello vi si eresse sopra nei tempi
successivi a difesa delle isole Realtine, ed a guardia del vicino porto di S.
Nicolò.» (Tassini s. v.); «S. Marta. In questo estremo
angolo della città Filippo Salamon, e Marco Sanudo Torsello, aderendo alle
istanze di Giacomina Scorpioni, innalzarono nel 1315 una chiesa sacra a S.
Marta e S. Andrea, […]. La spiaggia contermine, occupata oggidì dalle fabbriche
del Cotonificio, inauguratosi nel 1883, appellavasi Àrzere di S. Marta da un
argine che colà anticamente si eresse contro le corrosioni dell’acque» (Tassini s. v.).
[43]
Oh via Mezetin, ti ti ha da andar a tior
siora Bettina; vu, compare Liguro, tioré siora Betta Potón, e mi tiorò la
priora de’ Carampane: le tre donne elencate qui diventeranno soltanto due
nella scena dell’osteria, II.8. Si tratta di un’incongruenza o di una svista,
dal momento che anche nell’elenco dei personaggi appaiono solamente Laura e
Bettina (si veda anche la sovrapposizione del nome Leandro per due personaggi
nel Pantalon spezier). Si tratta di tre
“siore”, per cui cfr. sopra I.3.2. Bettina:
“Elisabetta”. Per quanto possa essere comune si può certamente dedurre che la
ripetizione del diminutivo per la donna destinata a Liguro abbia costituito
l’origine dell’incongruenza tra tre e due personaggi. Betta Potón: il cui cognome o appellativo fa riferimento a “pota”,
«la parte pudenda della femmina» (Boerio).
Quanto alla terza (dichiarata alla battuta 11 di nome Laura e guercia), il
termine “priora” sembra da intendere nel senso di anzianità di servizio e di
ruolo, per ironia allusiva che fa riferimento alle prostitute della zona
postribolare di Venezia come a una corporazione religiosa (“priore”: «colui
ch’è nell’uffizio del Prioratico, capo di alcune corporazioni religiose» e
anche priora «donna posta al governo delle Zitelle e d’altri conservatorii di
donzelle», Boerio), che
inquadrerebbe Laura come mezzana o maîtresse.
de’ Carampane: «Carampane a S.
Cassiano. Fino dal 1358 si prescrisse che i Capi si Sestiere dovessero
rintracciare un locale a Rialto per concentrarvi le meretrici. Esso venne
ritrovato nel 1360, e fu un gruppo di case in parrocchia S. Matteo, appellato
il Castelletto, che doveva stare sotto la sorveglianza di sei custodi, e
rinchiudersi ogni sera al cessare della terza campana di S. Marco, né aprirsi
giammai nelle feste principali della chiesa. Le meretrici obbedivano ad alcune
matrone, incaricate di far cassa dei guadagni, e quindi, alla fine d’ogni mese,
dividerli tanto per testa. Le abitatrici del Castelletto si sparsero, col
progredire del tempo, anche in altri luoghi della città, fra cui di preferenza
nel quartiere detto Carampane da ca’ (casa) e Rampani, cognome d’antica
famiglia patrizia, che colà possedeva alcuni stabili. Ciò venne loro proibito,
laonde il Sabellico, che scrisse il suo opuscolo De Situ Urbis circa al 1490,
ebbe a dire: Carampanum vicum unde nuper sublatum lupanar. Ma esse vi tornarono
sempre, deludendo in tal guisa la legge, che avrebbe voluto vederle tutte
rinchiuse nel Castelleto». (Tassini
s. v.). Questa situazione e la
seguente scena dell’osteria (II, scene 6, 8 e 9) saranno riprese da Carlo
Goldoni ne La buona moglie (II.1), in
cui sono parimenti presenti due prostitute dai nomi parlanti: Sbrodegona e
Malacarne.
[44] sguerza: guercia. ● quando le saré andàe a levar: quando
sarete andato a prenderle; «doperemo sto verbo in significato come
d’accompagnar una persona. […] “Ò mandà la mia gondola a levar quella signora”»
(Muazzo p. 645). ● magazén: osteria, cantina, «taverna,
osteria da persone vili; bottega dove si vende vino a minuto e dove a tempi
veneti si ricevevano effetti in pegno, pei quali ritraevansi i due terzi in
danaro, e un terso in vino pessimo, detto appunto vin da pegni» (Boerio s. v.).
[45]
Gàfar: «Gàffaro ai Tolentini. Erra il
Filiasi (Saggio sull’antico commercio
ecc. dei Veneziani) dicendo che queste strade, soggette un tempo alla
parrocchia di S. Croce, presero il nome dall’avervi abitato uno di quei capi
degli Arabi, chiamati al Cairo gaffer, con cui i Veneziani, come gli altri
mercanti europei, solevano, a propria guarentigia, stipulare i contratti. Qui
per lo contrario, come ben nota il Gallicciolli, resta memoria d’una famiglia
Gàffaro. Tra le epigrafi mortuarie della chiesa dei Carmini, riportate dai
raccoglitori, abbiamo la seguente: Sepultura Jacobi Gaffaro De Confinio Sanctae
Crucis et Suor. Hered. MD. Die VII Junii. E nel mezzo delle Condizioni della
parrocchia di S. Croce (an. 1514) trovasi quella di Anzola Gaffaro relita de
ser Gaffaro, il quale, senza dubbio, è colui che venne sepolto in chiesa dei
Carmini» (Tassini s. v.), da mettere in relazione con il
seguente Zanetto al Gàfaro della battuta di Pantalone. ● callesella: il termine indica in
veneziano e ricorre in diversi toponimi le calli particolarmente strette
(«calle più angusta e ristretta delle altre»: Tassini);
due sono i toponimi principali legati al nome: uno in Ghetto Novissimo, mentre
un Sottoportico Calleselle si trova a Castello e potrebbe essere pertinente
visto che l’elenco delle osterie di Pantalone della lunga battuta seguente
comincia indicando l’osteria di Nane a Castello.
[46]
I.6.13 La bellissima panoramica di Pantalone che passa in rassegna le
principali osterie veneziane dell’epoca, rincarando debitamente i tratti del
pittoresco e del marginale, rappresenta uno dei luoghi più memorabili della
rappresentazione e dell’evocazione della realtà quotidiana minuta della
tradizione della commedia cittadina veneziana pregoldoniana; da qui lo stesso
Goldoni, eliminando i tratti più caricati, prenderà spunto nelle sue commedie
(cfr. Vescovo, 1987, pp. 75-77; e
2002, pp. VIII-X e XIX; Scannapieco,
2001, pp. 12, 56-57; Vescovo,
2011, pp. 92-97). ● Nane a Castello:
probabilmente vicino a una calle molto stretta come detto sopra; per Castello
cfr. I.6.2. calafài con quelle so manère:
la prima osteria della serie è frequentata da arsenalotti, in particolare della
categoria dei “calafài”, «operai addetti all’operazione di calafataggio delle
imbarcazioni», che riempiono di stoppa le fessure del legname e impeciano (Gdli e Beorio);
il dettaglio delle “manère” (accette, strumenti di ferro tagliente con manico
di legno, portate spavaldamente alla cintura fuori dal luogo di lavoro) è
tratto caratterizzante la prossimità di certe corporazioni alla figura del
bullo, nel senso specifico in cui viene presentata dalla tradizione veneziana
alla bulesca (suggerimento verbale di Riccardo Drusi). ● no vorrìa
che catessimo da criàr: non vorrei che trovassimo da litigare, da attaccar
briga. ● Toni in Ruga Giuffa: a
S. Maria Formosa «avendo sott’occhio un documento del 1283, estratto dal
Capitolare dei Signori di Notte contro gagiuffos, fossero essi maschi o
femmine, che andavano per Venezia decipiendo gentes, fingendo se esse divinos,
vel herbarios, et accipiendo helemosinas hospitalibus, monasteriis, at aliis
pauperibus et bonis personis cum calicibus, anchonis, pueris parvis, et aliis
deceptionibus, simulando se esse hospitalarios, et bonas personas, et debiles
ecc., pensiamo in quella vece che la Ruga Gagiuffa, ora Giuffa a S. Maria
Formosa, insieme alla Ruga Giuffa S. Apollonia, che stendesi dal Ponte di
Canonica al Campo dei SS. Filippo e Giacomo, siensi così denominate perché fossero
sede in antico di tali impostori». (Tassini
s. v.). ● barcarioli dal Traghetto: probabilmente il traghetto di «Santa
Maria Formosa. Il traghetto prese il nome dal campo in cui aveva stazio. Era un
traghetto di media dimensione e aveva nel 1722 sedici compagni di fraglia. I
suoi confini andavano “dal ponte de cale del Paradiso fino al ponte de cha
Salomon vechia”» (Zanelli, 38).
● per gniente i catta da dir:
attaccano briga per niente. ● da
Tita alla Crosera: calle presso S. Samuele; «Crosera, o Crociera, diciamo
quel luogo dove mettono capo, e s’attraversano le strade. Più volte s’incontra
tale denominazione in Venezia» (Tassini
s. v.). ● voltar le buèlle: rivoltare le budelle, dar di stomaco. ● Zanetto al Gafaro: cfr. sopra I.6.12.
● me fa bona ciera: mi fa buona
accoglienza. ● gattoni:
figurato «uomo subdolo, tristo, traditore; persona esperta, astuta» (Gdli, s. v. “gatton”). ● Momolo a San Polo: «i dogi Pietro e
Giovanni Tradonico fondarono la chiesa di S. Paolo, volgarmente S. Polo,
nell’837» (per un’approfondita descrizione della chiesa, degli edifici presenti
attorno ad essa, dei personaggi che vi abitarono, e aneddoti vari si rimanda al
Tassini, s. v. “S. Polo”). ● le
manàtole per i pironi: indica l’azzuffarsi (figurato di “manàtole”) per
disputarsi i bocconi (per sineddoche da pironi, “forchette”); «manàttola o
zogar alle manàttole zé quella percossa che se dà colla palma della man destesa
sul roverso de quella del compagno e zogar alle manàttole zé metter le man de
do o più persone a vicenda, cioè prima uno e po’ l’altro e po’, co’ le zé unite
tutte, darse de sora, a grado a grado, delle pestae busarone. Quando se tratta
de cose serie e che se vede che i compagni o i amici ride e no ghe bada, se
dise: “Òe fioli zoghémio alle manattole?”» (Muazzo
s. v.). ● Checo in Cannaregio no’l gh’ha vin che valga un bezzo: Francesco a
Cannaregio non ha vino che valga un soldo; «vogliono alcuni che Cannaregio sia
corruzione di Canal Regio, titolo attribuito, per la sua ampiezza, a quel
braccio di canale che, partendosi da S. Geremia, sbocca per S. Giobbe in
laguna. Ma, bene riguardando, si vede che meglio tal titolo s’addirebbe al
prossimo Canal Grande, oppure al Canal della Giudecca. Altri con più ragione
sostengono che questo luogo venisse anticamente chiamato Cannarecium, e quindi
Cannaregio, dalle molte canne che vi allignavano» (Tassini s. v.).
● Alla Luna: osteria di
antichissima tradizione, citata in diversi luoghi: «né il conte Carlo Gozzi
potea più condurre in un “camerino” dell’Osteria della Luna la donnetta che
solea dargli appuntamento in gondola al ponte storto a S. Aponal, l’eroina
della Storia del mio terzo amore, che, quantunque sia storia, dò licenza alle
femmine di considerarla una favola, ch’è uno dei più gustosi capitoli delle sue
Memorie inutili…» (Zorzi p. 65); citata da Gozzi anche in Vescovo 2011 (XII, 25). ● conti dalla Mirandola: senso furbesco e
dispregiativo che trae origine dalla città di Mirandola in provincia di Modena,
per il significato traslato dell’espressione cfr. sopra I.3.5. ● alla Cerva: osteria nell’omonima corte
nei pressi del ponte di Rialto; «in Corte della Cerva, a S. Bartolammeo,
esisteva nel 1740 l’Osteria della Cerva, condotta da un Guglielmo Berninza, in
uno stabile appartenente al Vicariato di S. Bartolammeo. Questa osteria era
molto antica, poiché in una sentenza dei Signori di Notte al Criminale, 5
settembre 1370, trovansi le parole: in calli a Cerva». (Tassini s. v.);
già citata anche in Gozzi in Vescovo 2011
(IX, 23), e in Muazzo (vedi sopra
II.5.5). ● facchini di campo San
Bortolamio: campo nei pressi del quale si trova l’osteria di cui sopra, «la
chiesa di S. Bartolammeo si reputa fondata nell’840, ed intitolavasi prima a S.
Demetrio martire di Tessalonica. Rinnovossi sotto il Doge Domenico Selvo nel
1170, e dedicossi a S. Bartolammeo» (Tassini
s. v.); probabilmente impiegati per
il trasporto di merci attraverso il ponte di Rialto o al traghetto del Buso
(cfr. sopra I.5.23) o altri stazi per le barche di trasporto merci nei pressi di
Rialto (cfr. Zanelli, 11,12,14).
● mazoche: bastoni (da mazza).
● star in cervèo: stare
all’erta. ● Salvadego: «da
un’antica osteria, che qui anche ai nostri tempi era aperta all’insegna
dell’Uomo Selvaggio. Nella Mariegola degli Osti la troviamo nominata la casa
del Salvadego in cao de piazza, e nel Capitolare dei Procuratori de Spura se ne
ha memoria fino all’anno 1369. Lo stabile di questa osteria era posseduto
anticamente dalla cittadinesca famiglia Da Zara, e più tardi fu dei patrizi
Giustinian. In effetto, una cronaca scritta nel secolo XVI (N. 2673 della
Raccolta Cicogna) così dice, parlando della famiglia Da Zara: De questa casa fo
l’ostaria del Salvadego, fo in frezaria, andando a banda zanca, andando al
chaxon, che adesso è de cha Zustinian. L’osteria del Selvadego veniva condotta
nel 1560 da un Piero de Lombardi. Ne fa menzione il Dotti, autore del secolo
XVII, nella sua intitolata: Il Carnevale, ove, alludendo alle donne di partito,
così si esprime: Se riesce a queste lamie / D’allettar qualche mal pratico / A
commetter mille infamie / Lo conducono al Selvatico» (Tassini s. v.).
● spadéri: indica la
corporazione dei fabbricanti di spade, collocati nella Spadarìa; «non è da
meravigliarsi che in una città armigera come fu questa, esistesse una strada
appositamente destinata ai fabbricanti di spade. Lo stemma di essi è quello
scudo col leone di S. Marco, e sotto tre spade, scolpito sul muro dell’ingresso
della Spadaria, dalla parte della così detta Calle Larga. Gli spadaj si
eressero in corpo nel 1297, ovvero 1298, ed erano uniti ai corteleri
(coltellinaj) ed ai vagineri (vaginaj), benché questi ultimi coll’andar del tempo se ne disgiungessero. Anticamente forse
avevano scuola di divozione in chiesa di S. Francesco della Vigna, ove
certamente avevano tomba colla data del 1500. In tempi a noi più vicini si
radunavano però coi coltellinaj in chiesa di S. Angelo sotto l’invocazione di
S. Nicolò di Bari» (Tassini).
● baìcoli: vedi sopra nota
I.5.4, qui riferito però alle armi da taglio. ● alla Scóa: alla Scopa, osteria situata sulla riva dell’Olio a S.
Cassiano; «venne così denominata, come scrive il Gallicciolli, perché vi si
scaricava l’olio. E molte botteghe ove esso vendevasi veggiamo pure qui
stabilite nella Descrizione della contrada pel 1740. Fino dagli antichi tempi,
era preposto all’olio il Magistrato della Ternarìa Vecchia, a cui in seguito
s’aggiunsero la Ternarìa Nova, ed i Provveditori sopra Olii. La Fondamenta
della Riva dell’Olio si appellava eziandio Riva dei Sagomadori, dal greco
sàcoma, che in latino suona aequipondum, ed in italiano giusta misura, perché
vi si misurava la capacità delle botti da olio coll’acqua del canale». (Tassini, s. v. “olio”). ● da
Giacomo a Sant’Apostolo: ai Santi Apostoli, a Cannaregio; «corre tradizione
che nel VII secolo apparissero i dodici Apostoli a S. Magno, e gli
prescrivessero d’innalzare un tempio a loro onore ove avesse ritrovate unite
dodici gru. Cooperarono alla fondazione del sacro edificio i fedeli, e
segnatamente Gardoco Gerdolico. La chiesa dei SS. Apostoli ebbe anticamente
qualche restauro, e nel 1575 venne rinnovata e consecrata dal vescovo di Traù,
Antonio Guido. Più tardi, cioè alla metà del secolo XVIII, l’architetto
Giuseppe Pedolo le diede forma moderna, lasciando intatta però la cappella Cornara.
Anche negli ultimi tempi s’aggiunsero alla chiesa dei SS. Apostoli nuovi
ristauri e decorazioni». (Tassini).
● malloccio: con occhio storto.
● alla Corona a Santa Margherita:
«Trovasi descritta nel 1713 in Calle della Corona, a S. Giovanni Nuovo, la hostaria
alla Corona, habita Pietro Padrini, di rag. dell’Ill.mo Fran.co Briani.
Anticamente il Ponte della Corona apellavasi Ponte Lion dalla patrizia famiglia
Lion, l’arma della quale scorgesi tuttora scolpita sopra un antico fabbricato
respiciente il Ponte medesimo. Questo ponte fu il primo di Venezia a venire
rifatto in ferro nel 1850» (Tassini,
s. v. “corona”). ● el capo: nel senso di “capo del
magazen”, «detto anche omo da palagremo, primo servente, ed è quello preposto
alla cantina d’un magazzino da vino» (Boerio).
● muso da mammera: cfr. sopra
I.2.7. ● el più galantomo, né el
più magazén: uso dell’anacoluto per analogia con la lingua parlata. ●
Menegon ai Barri: Domenico ai Barri,
presso San Simeon; «Baro, scrive il Gallicciolli, illustrando questa località,
era un tempo un’isoletta fra Scopolo e Birri. È però nome generale di terreno
paludoso e incolto. Perciò l’Erizzo nella sua cronaca dice che le monache della
Celestia ebbero un baro per edificarvi un monastero ed una chiesa. Ed il Scivos
dice che nel 1201 si fabbricò la chiesa di S. Andrea sopra un gran baro
appresso al Lido. Altri vorrebbero che qui un tempo abitassero, oppure avessero
ritrovo, bari, o barattieri, appoggiandosi al Sabellico, il quale dà il nome di
nebolonum a queste località. Senonché è d’uopo considerare che il Sabellico,
senza curarsi dell’etimologia dei nomi attribuiti alle contrade di Venezia, li
traduceva molte volte in latino alla lettera, come ai suoi tempi correvano» (Tassini, s. v. “bari”). ● orese
dal Capriccio: orefice dal capriccio; evidentemente riferimento a bottega
situata nel quartiere degli orefici a Rialto; «il maggior Consiglio, con
deliberazione 23 marzo 1331, aveva ordinato che gli orefici non potessero aver
bottega, né mercanteggiare in lavori d’oro e d’argento in luogo diverso
dall’isola di Rialto. Quantunque questa legge fosse poscia revocata, pure gli
orefici continuarono, almeno per la maggior parte, a stanziare in Rialto, e
precisamente nelle strade che tuttora ne portano il nome, stendendosi eziandio
nella Ruga Vecchia S. Giovanni, chiamata un tempo anch’essa Ruga dei Oresi».
(cfr. Tassini, s. v. “orefici”); si veda anche il Muazzo (p. 768 s. v. “orese”): «[…] La ruga dei Oresi zé a Rialto e zé una
continuazion e una fila de botteghe che ognun laora nell’istessa arte. Tutte le
manifatture formae con l’oro e con l’arzento zé spettanti a sta profession».
● cavarghe un po’ de moneàza:
cfr. sopra I.4.2. ● tagiào le gambe:
«tagliare le gambe o le braccia; dar sulle mani o sulle dita o sulle nocca
altrui», ma anche nel senso figurato di «impedire l’avviamento di che che sia»
(cfr. Boerio, s. v. “gamba”).
[47] m’aveggo: mi accorgo.
[48]
negoci: affare. ● se a’ podissi: se poteste.
[49] contezza: resoconto. ● è una persona già avanzata negli anni … pel
suo fiammeggiante colore: Cinzio dipinge Pantalone come un uomo dall’età
avanzata, appesantito dalle troppe armi che quasi rendono la figura instabile,
col viso secco e duro (“smonto”) e infiammato per l’irascibilità e per il vino;
il rosso è anche il colore tipico dei pantaloni del personaggio, per cui cfr. Vitali, s. v. “maschera”.
[50] che zappi terra: che calpesti la terra.
● el fa un poch el brav perché el
va compagnà co certi baruni, ma no ‘l val miga un quattrin: “fa un po’ il
gradasso perché si fa accompagnare da certi poco di buono, ma non vale un
quattrino”. Qui Brighella introduce una caratteristica fondamentale del bullo,
ovvero la pusillanimità coperta dalla forza del branco (cfr. ad esempio sotto
III.15.1).
[51] mi calle: mi preme, mi sta a cuore.
● mi fusti: mi fosti.
[52] pera: perisca.
[53] imbroi: imbroglio. ● industria: stratagemma. ● compassiù: compassione. ● giera: ero. ● zovenot: ragazzo. ● putazole:
ragazze, ragazzotte. ● debot:
(avverbio) fra poco, a momenti, quanto prima. ● us: uscio. ● cantù:
angolo.
[54] qual Medea: in questa battuta, come poi
in I.9.3, s’introduce l’uso stereotipo del linguaggio degli innamorati per
cliché, tra cui si riscontra il riferimento arcadico alla mitologia classica,
in questo caso il racconto di Medea, ripudiata dal marito Giasone.
[55] qual fenice: riferimento al racconto
dell’uccello mitico che rinasce dalle proprie ceneri, cfr. sopra I.9.1.
[56] megiur: migliori. ● zattine: zampine, vale “manine”; l’uso
si “zatta” per “mano” seguirà in numerosissimi luoghi.
[57] turave: prenderebbe (da “tor”).
[58] dunca: dunque. ● mech: meco.
[59] Sì, sì, vengo al gioir felice sorte: / se di
Cinzio non son, sarò di morte!: il distico è un primo esempio di
commistione di livelli di caratterizzazione linguistica e del rapporto prosa /
versi che ricorre nella parlata degli amorosi. Le parti in rima costituiscono
la parte della tradizione che viene dall’opera per musica; non è per altro da
escludere che avesse da porsi in essere un accompagnamento musicale, visto che
la presenza dei musicisti sulla scena è suggerita dalle numerose arie sparse
nelle commedie e da alcuni cenni espliciti. Le battute scandite in rima
appartengono agli amorosi, che ostentano un linguaggio e un atteggiamento
innaturale e affettato, spesso smascherato e schernito dalla pointe finale del
servo (cfr. Vescovo 1987, pp.
38-53).
[60] pèr: paio.
[61] manzada: mangiata. ● slargatevi budelle: allargatevi viscere,
vale “pancia mia fatti capanna”. ● toto
corpore impleantur: il corpo intero sia saziato. ● latezin: “parlar latin” significa
“parlare chiaro”, si veda Belloni 2003,
nota 26, p. 141 (in cui si associa il “parlar latin”
agli animali); ma anche gioco di parole tra latino e latticino (lapsus linguae dato dalla fame e dai
conseguenti miraggi di un’imminente soddisfazione di essa, ma anche forse uno
scarto ironico sul concetto di lingua madre).
[62] calle della Bissa: a San Bartolomeo,
«acquistò il nome dalle sue tortuosità somiglianti ai serpeggiamenti d’una
biscia. Ce lo attesta chiaramente il Sabellico (De situ urbis), da cui è
chiamata vicus qui, in anguis speciem retortus, anguineus dicitur. Si trova
nominata nel libro Spiritus fino dal 1340» (Tassini).
● si ghe le podessimo truccar:
se gliele potessimo rubare; per “truccar” e il suo uso nel gergo furbesco cfr.
sopra I.1.2 e I.1.5. ● far marcào:
impostare la trattativa per la vendita. Ritornano i termini relativi
all’acquisto di generi alimentari ai mercati della città, cfr. sopra I.5.15.
● in quel che farò el prezzo:
quando sarò nel pieno della contrattazione. ● a incalzar el polame: rincarare il prezzo del pollame; per
aggiudicarsi l’acquisto facendo un’offerta più alta, cfr. sopra I.5.16. ●
farò vista: farò vedere, farò
intendere, cfr. sopra I.3.5. ● scamperà:
scapperai. ● Scóndete:
nasconditi.
[63] son qua a sto pèr, che no gh’ho altro:
il gallinaro reclamizza gli ultimi due capponi rimastigli. ● marzadeghe: letteralmente “di marzo” per
il grano ed il frumento e tutto ciò che si raccoglie nel mese di marzo (cfr. Boerio s. v.), generalmente inteso come riferito alle primizie e alle
merci fresche; Muazzo (p. 658, s. v. “marzo”) riporta l’espressione
come propria di «quello che va attorno con le capponere in spalla a vender
pollame per la città el cria “qua le pollastre marzadeghe, capponi, pollastri,
colombini”»; e ancora (p. 745) imita il grido dei venditori «oh dalle marzadeghe
pollastre! Oh dalla salata! Oh dai fazzi!».
[64] le è giusto un smalzo: son davvero un
burro (riferito alla morbidezza delle carni).
[65] Teolo: paese in provincia di Padova.
L’elenco di alcuni luoghi della campagna tra Venezia e Padova ha lo scopo di
schernire il gallinaro in quanto “villano”, non uso ai costumi cittadini,
grezzo e ignorante.
[66] no i ghe ne traversa: non ne mastichino
(con sfumatura furbesca). ● pezzo
de salghèr: pezzo di legno, stolido; da “salice”, in senso figurato
«villanaccio, tanghero, increato, sgangherato» (Boerio).
● èstu forsi da Camposanpiero:
sei forse da Camposanpiero, nel padovano; la battuta è pronunciata in tono
canzonatorio, come la precedente.
[67] Campo Nogara: Camponogara, paese in
provincia di Venezia (cfr. di nuovo I.11.4).
[68] Zocco: paese tra Padova e Vicenza.
● Legnago: paese in provincia
di Verona; in questi ultimi due toponimi, oltre alla funzione di insulto, come
illustrato in I.11.4, si offre il riferimento a legno, come aggiunta alle
offese nel senso di “testa di legno”, ma anche si veda il significato furbesco
di Legnago in I.3.8 ● èlle morte
sul so letto: sono morte di vecchiaia, di malattia (cioè non sono state
ammazzate di proposito); Muazzo, p.
684, riporta l’espressione nell’ambito del pollame: «morir sul so bon letto.
Che scarcozzo de pollastro zé mai questo? Ò pensier che el sia morto sul so bon
letto».
[69] mazzàe: ammazzate.
[70]
fracar adosso: premere addosso (nel
senso osceno di ficcarlo: «fraccareghela, ficcarla; cignerla; accoccarla;
sonarla; calarla; appiccarla; vale fare a chi che sia qualche danno o
dispiacere o beffa»; Boerio, s. v. “fracar”). ● sier birba: birbone, furfante.
[71] celeghe: passerotti, uccellini.
[72] polastrazze squarzadonazze:
l’espressione sembra riconducibile a “squarzo”, “sfarzo, sfarzoso, magnifico
splendido”, in questo caso “carne molto ghiotta” (cfr. Boerio, s. v.
“sfarzo” e “sfarzoso”); registrata anche da Muazzo
(p. 942, s. v. squarzo): «[…]
che carne squarzadona che zé questa».
[73] quarto de fero: quarto di ducato, cfr.
sopra I.1.3.
[74] a’ no volì magnar polame, a’ saìu che l’è
caro: voi non volete mangiar pollame, sapete che è caro.
[75] a’ gh’ho conscienza: io me ne intendo.
[76] fio de so sàntola da Castello:
espressione spregiativa; “sàntola” è la madrina di battesimo o di cresima; “da
Castello”, qui è usato per indicare la zona più popolare della città;
l’espressione è riportata anche dal Muazzo,
p. 1084: «vostra santola de Castello, vostra santola buzerada, vostra
santola che v’incontra ben! Va là, va là che ti va ben!». ● cavadenti: qui vale “curadenti”,
“stuzzicadenti”, usato ovviamente in senso antifrastico per indicare le armi di
Pantalone (che porta sia bastoni che armi da taglio e i termini vengono spesso
scambiati e adoperati per entrambe le tipologie: cfr. I.5.2 e I.5.4).
[77] cinquadea: nome antico per “spada”; il
riferimento alle dita della mano può derivare dal fatto che veniva impugnata
con cinque dita (Gdli), oppure
potrebbe intendersi come misura della lama, «di cinque dita, circa una spanna».
[78] sier piegorazza: dicesi figurato di
persona per disprezzo o ingiuria, vile (Boerio).
● tiò: prendi. ● sta spienza sul mustazzo: letteralmente
“spienza” è “milza di animale”; qui l’espressione, come è anche illustrato
dalla didascalia che segue la battuta di Pantalone e che chiude l’atto con
un’azione rissosa, si riferisce ad una “manata in volto”, che evidentemente
costituisce l’avvio del tafferuglio; cfr. anche I.3.8.
[79] parecié pur la monéa: apparecchiate i
soldi.
[80] che ghe ‘l daga: che glielo dia (il
cesto). Mezzettino prende tempo per non pagare il facchino, che canzona
ripetendo il suo nome, probabilmente intonando una canzoncina ben nota
all’epoca (il nome Nicolò ritornerà similmente anche in altri luoghi, cfr.
III.5.20).
[81] al magazin e all’ostaria ed al Redut:
qui Mezzettino elenca alcuni dei luoghi dove ha provato a cercare Pantalone,
perché sa che abitualmente li frequenta: tra i locali in cui si può mangiare e
bere magazin e osteria sono quelli più infimi e mal frequentati (cfr. I.5.26 e
I.6.11). Redut: casa da gioco; il
termine indica i luoghi adibiti al gioco nella città; originariamente si
riferiva a un palazzo che «a S. Moisè era posseduto da un altro Marco Dandolo,
stato già provveditore di Salò, e cognato di Pietro Priuli, suo fratello. Egli
nel 1638 appigionollo ad uso di pubblico Ridotto, ove, in tempo di carnovale,
erano permessi giuochi d’azzardo che, a scanso d’abusi, volle il governo stesso
sopravvegliare, deputando alcuni patrizii, colla vesta d’uffizio, a tenere i
banchi». (Tassini, s. v. “ridotto”); riporto anche la
dettagliata voce di Muazzo, p.
887, che, quasi in un piano sequenza, racconta di una serata al Ridotto, con
dovizia di particolari: «dopo esser sta a sentir a cantar e dopo aver spassizzà
el liston, son andà su a Redutto per la scala granda de piera scoverta e dopo
aver con tutto el mio comodo camminà el portego e la crossola, son andà a bever
un caffè da Liberal. Dopo son passà a veder a zogar a sbarrain. Me son tolto de
qua e son andà a veder i banchi nelle camere e ghe giera dei bei banchi d’oro,
principalmente nella camera dei fiori, come saravve a dir de Gregorio
Barbarigo, de Lunardo Venier, de Alvise Emo, del cavalier Zuan de Giulietto
Corner, dell’orbo e zotto Martinengo, ma guai e grami chi s’azzardava a metter
ponti, perché i li vardava, i li brusava tutti, i tirava come cani! Son andà in
camera longa e ho visto a sbancar uno, fuora che sie o otto pezzi d’arzento (el
giera Checo Bollini tirante), i quali ha servio a pagar le carte, la sentada e
le male spese. Son venudo po’ fora dal calderon dalla mala pressa per el gran
caldo e la gran zente e le gran maschere, che infatti se boggiva, e son andà a
tor al botteghin dei frutti una lira de biscottelli da Bologna. Me son sentà in
portego al lavello, vicin a una de ste mascherette donne, e se li avemo così
bel bello insieme pappolai. Verso po’ le ore tre della notte le maschere s’avea
sbandà, chi alla commedia, chi all’opera, chi ai casini. A pian piannin un
passo dopo l’altro zo per la scaletta de legno, avendome prima un puoco fermà
indove che i se veste e i se despoggia i zentilomeni e indove che i consegna i
scrignetti del soldo, per non giappar l’aria fredda tutto in una volta, la qual
pol causar qualche gran constipazion, son andà a casoppo, alla mazon. Me
sentaravve molto assuefar a far el mestier de taggiador, perché ghe vol el gran
oggi in tolla e la gran pazienza. Se ricerca po’ bona maniera de saverse
coltivar i avventori e bona gnucca de saver fai i conti, massime ne’ ponti de
fazza, e de saver muar le carte a tempo co’l ponto zé in marea, ovvero far
finta, co’ se vede che corre a pericolo el banco, de levar su a pissar o a far
qualcosa altro e desister. Vegniva messe delle gran belle poste in oro. I
pontadori e i mettidori zé necessario per so regola che ogni tanto i se daga
una tastada alle scarselle, perché ghe zé dei borsarioli bravissimi in questo,
vestidi all’ultimo biondo, i quali se ve mette a fianco e co’ i vede gnente che
la maschera zé scaldada e impegnada nel zogo, con destrezza e con tutto el so
comodo i leva dalle scarselle fazzoletti, scatole, relogi e tutto quel che
trova esserghe in quelle e i lo fa con una facilità tal che no se se ne
innacorze gnente. Per altro s’à dà el caso benissimo che la maschera g’à
afferrà la man del ladro, mente el robbava e bravamente el l’à strascinà fora
de Redutto e sì el ghe n’à dà tante sin che l’è stà stuffo, perché l’impara se
non altro a far un’altra volta megio el so mestier. La calle che mena al
Redutto se ghe dise calle de Redutto, la qual zé piena, banda per banda, de
casini dei primi taggiadori che va a despoggiarse e a dormir per esser più
pronti e vicini e per maggior comoditae. El Redutto, con tutte quelle case, zé
dei Dandoli de San Tomà. Giera stà progettà e anca fatto el disegno e tutto de
far un teatro vicin alla riva del Redutto, ma la cosa s’à arenà né se ghe n’à
più parlà». ● Canaregi: Cannaregio, sestiere di Venezia (cfr sopra I.6.13).
● vergù loch: veruno, nessun
luogo. ● che a’ ‘l sii andad a
sulaz: che sia andato a divertirsi.
[82] marcello: «moneta argentea, coniata
nell’anno 1472, e valea soldi dieci. Abbenché nel 1536 ne valesse dodici, pure,
per indicare dieci soldi, si dicea sempre un marcello» (Mutinelli). ● Gazettine:
«Gazzeta (o da due soldi). Moneta coniata nel 1538, essendo doge Andrea Gritti.
Aveva impresso un leone alato in piedi, e la immagine della Giustizia seduta
sopra altri due leoni, col motto Jiustitiam diligite. Il suo titolo a peggio
era di carati 452 per marca» (Mutinelli);
si veda sopra I.1.3, dove è riportata una piccola sintesi del valore delle
monete (Muazzo, p. 661).
[83] La maschera
di Pantalone indossa dei caratteristici pantaloni rossi (cfr. Vitali, s. v. “maschera”).
[84] te tiorò el fongo: ti prenderò il fungo;
in senso traslato si deduce un “fongo”, “cappello”, con sfumatura gergale (Prati, 145); ma cfr. anche la voce
“fungo” § 15, in Gdli “cappello a
fungo”, “copricapo con tesa spiovente”, vedi anche “ombrella del fungo”,
“cappello” in Boerio, s. v. “fongo”. Il riferimento andrà al
cappellino che porta in testa Mezzettino, che il facchino minaccia di prendersi
come risarcimento del mancato pagamento.
[85]
cospetton: esclamazione, bestemmia.
[86]
Magazino aperto: questa indicazione
(come la didascalia di chiusura di III.3, in cui appare la sala da ballo)
costituisce un’importante indizio sulla costruzione dello spazio scenico in cui
la commedia è agita e sui cambi della scenografia a servizio dell’intreccio. Infatti
è da supporre che il sollevarsi del prospetto (citato esplicitamente in
III.3.12did), da intendersi come fondo più vicino agli spettatori (in questo
caso il fondale della scena precedente, e cioè lo spazio della piazza su cui si
affacciano le case dei personaggi), rivela l’ambientazione scenografica
retrostante, secondo la pratica che a partire dalla tradizione vitruviana (cfr.
Robert Klein, pag. 318) si indica come “scena duttile”; questo
significato di “prospetto” è reso in maniera del tutto generica dalla voce in Gdli § 6: «struttura che divide il
palcoscenico dalla sala». Il cambio di scena in funzione dell’intreccio si
sviluppa nel susseguirsi di vedute tra esterno e interno, sfruttando la
profondità del palcoscenico, e viene a costituire una delle caratteristiche più
specifiche che rende questo tipo di rappresentazioni commedie cittadine. Si
deve supporre che in questa fase la scenografia si basi su fondali generici che
vengono mostrati e via via contestualizzati dalle parole dei personaggi che “fanno
vedere” la nuova ambientazione (cfr. Guccini
p. 17-18). Ciò che si materializza attorno ai personaggi (si veda ad
esempio la nota alla battuta II.13.did, e il rumor grande del Ghetto a cui si
fa riferimento), viene organizzato tramite espedienti vocali e sonori, uniti
probabilmente a vari elementi materiali, per giungere a un livello maggiore di
riconoscimento (ivi, pp. 27-29, e Vescovo
2000, pp. 247, 254, e 267-273).
[87] capo: oste; cfr. la didascalia di scena
che introduce il magazenier come nuovo personaggio (cfr. sopra I.6.13), assieme
al “luganegher”, “salumiere, salsicciaio”, «colui che vende salami, crescie e
altri simili mangiari» (Boerio).
[88] ve gieri desmentegào de vegnirme a cattar:
vi eravate dimenticato di venirmi a far visita; qui l’oste allude al fatto che
probabilmente Pantalone non si è fatto vedere perché sapeva di avere un
conteselo, in sospeso. La battuta del magazenier appare improntata a un tono
ironico, o comunque dimostra il carattere pratico del suo modo di fare: l’oste
incensa il cliente per farsi saldare il conto.
[89] col cervello fuora della testa: con le
idee confuse. ● Menegon: il
nome sembra localizzare l’osteria scelta da Pantalone come quella di «Menegon
ai Barri», cfr. sopra la nota I.6.13.
[90]
ponte del Meggio: ponte del Miglio,
presso San Giacomo dell’Orio, la zona indicata corrisponde a quella
dell’osteria scelta (cfr. nota precedente). «Nella Pianta Topografica di Venezia, pubblicata dal Coronelli, si
nota che presso queste località vi erano li magazzini pubblici detti del Megio,
o Miglio. Tali granai, tuttora sussistenti, acquistarono il nome, perché vi si
trovava anticamente una gran quantità di quella biada minuta, mégio, o miglio,
appellata, di cui veggiamo aversi talora fatto farina per confezionare il pane
ad uso della popolazione». (cfr. Tassini,
s. v. “mégio”). ● gniancora: non ancora.
[91]
piccola: libbra piccola; «chiamasi
nelle osterie di Venezia la metà della grossa, ch’è una misura da vino propria
delle sole osterie, differente dalle misure de’ magazzini; è forse sottinteso
lira», cioè una «sorta di peso la libbra di Venezia si distingue in grossa e
sottile. La grossa è d’once 12 da carati 192 per ogni oncia, che corrispondono
ad once 19 di libbra sottile, ed equivale quasi ad un funto di Germania; e
serve pel peso de’ commestibili». (cfr. Boerio,
s. v. “piccola” e “lira”); per
“grossa” cfr. anche Muazzo, p.
535: «andemo alla Cerva a beverne un per de grosse». ● strazzetta: abitino di poco conto
(gergale per “amica”; cfr. Folena s. v.). ● “zambellotto”:
ciambellotto, cfr. Boerio, s. v. “zambela”. ● roana: «colore picchiettato di marrone
rossiccio, nero o grigio, di solito indicato per il manto di animale, cavallo o
cane», cfr. Gdli, s. v. “roano”; alla stessa voce, al § 2,
anche esempi di uso traslato che indicano il colore rossastro o rugginoso di
frutta; forse andrà inteso in questa direzione (per esempio mela roana, non altrimenti attestata); Boerio (s. v. “rovano”) riporta per traslato «chiappe, culo»; come del
resto il Muazzo (p. 890 e p. 908):
«“no me tetté nelle roane!”, che zé l’istesso che dir nelle culatte e nelle
cosse», «co’ no so cosa far, me sbatto le culatte» (ma qui indica certamente
qualcosa da mangiare). ● puinetta:
ricottina. ● Sèlleni: sedani.
● per poder béver una volta:
per accompangare la bevuta con qualcosa da mettere sotto i denti. ● acciocché no se ingossemo: perché non
ingurgitiamo troppo alla svelta (cfr. Boerio,
s. v. “ingossar”), ma qui meglio, secondo
l’uso ancora vivo, di “riempirsi di una smodata quantità di liquido”. ● vin da pontichiò: nel testo a stampa si
trova la parola non accentata e con lettera maiuscola, «Pontichio», ma sembra
poco plausibile il rinvio a Pontichio come
toponimo (Pontecchio nel Polesine); il Boerio
riporta il lemma “pontichiò”, senza ulteriore esplicazione,
nell’espressione “zogar a pontichiò”, s.
v. “zogar”, equivalente a “zogar ai ossi”; potrebbe supporsi anche un
riferimento furbesco a un vino corrente da osteria, da bere intrattenendosi col
gioco indicato, che è una sorta di morra: «a pontichiò, giocare a pari e caffo
o a sbricchi quanti. Occultano dentro al pugno o dentro ad ambe le mani quella
quantità di noccioli che vogliono, poi domandano ad altri che indovinino il
numero se è pari o caffo; e chi si appone vince tutti i noccioli occultati, chi
no, perde altrettanta somma» (Boerio);
si veda anche la bella descrizione di Muazzo,
p. 809: «“ponti, ponti gio, quanti corni gà el me bo?” Questa zé una
spezie d’invido che vien fatto in un zogo usà dai baronati de campo e che se
usava anca in Collegio dei Nobili alla Zuecca e zé metterse nelle man serrae
come se faravve a san Marco Madonna, che zé un altro zogo dei garattoli, delle
mandole o anca dei bezzoni e col dir “ponti, ponti gio, quanti corni gà el mio
bo?” intimar al compagno che l’indovina el numero della robba che se gà e se
tien tra le man e quando che el l’à dito averzer la man e lassar cascar la
robba sulla terra o tavolin. Se l’à indovinà, per esempio che sia vinti de
numero, i zé tutti soi del compagno che à giamà quel numero, se no el collega
deve pagar al banchier quel quantitativo che zé de manco o de più, per esempio:
se i zé vinti i soldi e che lu nell’invido abbi risposto diese, l’à da
rimborsarlo d’altri diese, o trenta; se i fusse vinti, altri diese, sin che
pareggia l’equivalente occulto e i butta la sorte una volta per omo
dell’istessa materia e nell’istesso modo che alla bassetta diressimo i fa un
taggio, o ai dai i trà i dai una volta per omo»; da qui la proposta di
accentazione finale tronca e eliminazione di maiuscola. ● magnaóra: cfr. sopra I.5.4.
[92] luganegher: cfr. sopra II.5.1. ● coraeletta: “coraèla”, «le parti intorno
al cuore di tutti gli animali, cioè fegato, cuore e polmone. Coratella, o
curatella e nel dim. coratellina, intendesi il fegato degli animali quadrupedi
piccoli e de’ pesci» (Boerio, s. v. “coraèla”). ● far marcào: cfr. sopra I.5.15 e I.10.3.
● cusinar: cucinare. ● parecciar: preparare.
[93] còmodete: accomodati. ● minga: mica.
[94]
ho pareccià tanto de bocca: ho
apparecchiato tanto di bocca; battuta volgarissima con cui si presenta Bettina
(che di cognome o appellativo fa «Potón», vedi sopra I.6.9).
[95]
la me magna certo anca i ossi: mi
mangia certo anche le ossa; metafora volgare: mi spenna, mi divora gli averi.
● Come sta i occhi: si mantiene
la grafia della stampa di riferimento supponendo non trattarsi di occi,
“occhi”, ma di plurale di “oco”, maschile di “oca”, probabilmente ipotizzando
una locuzione del tipo “come stanno le oche”, per “come va la faccenda”;
trattandosi inoltre del cesto con le pollastre che Mezzettino e Pantalone hanno
rubato alla fine del primo atto, la frase potrebbe riferirsi precisamente alle
stesse, col significato di “hai sistemato le pollastre” (perché siano
cucinate). ● caro el me fio verzene:
ragazzino vergine; nel senso di ingenuo, qui chiaramente ironico. ● marobolani: specie di susina; ma in
senso traslato, “pugni”.
[96] Bonzorno a vu, sioria: locuzione ironica
di finta meraviglia sul tipo di “da che pulpito viene la predica”.
[97] asenazo: ignorantaccio, cfr. Boerio. ● màmera: cfr. sopra I.2.7. ● sier carne da cavallo: espressione spregiativa nel senso di “carne
da macellare”.
[98] tagiar i garétoli: tagliare i garretti,
le gambe: «quella parte e nerbo a pié della polpa della gamba, che si congiunge
al calcagno» (Boerio, s. v. “garétolo”; si veda anche
“sgarrettare” o “sgherrettare”); per Muazzo
invece i “garettoli” «zé i nervi flessibili del zenoggio» (p. 527).
[99] vogio de lori far un sguazeto:
«guazzetto, specie di manicaretto brodoso» (Boerio);
indicava soprattutto una minestra di carne.
[100] pianzì a fort: “piangete fortemente”
(avverbiale). ● smacrimabile:
storpiatura di “lacrimevole”, come il «comprassionevole»,
che segue.
[101] lagreme rosse rosse co fa’ el brod de
macheroni: macheroni indica secondo l’uso antico lo gnocco di farina, da
cui l’acqua o brodo dei maccheroni sembrerebbe più “grossa” che “rossa”; cfr.
l’espressione «più grosso che l’acqua de’ maccheroni» (Boerio, s. v.
“gnoco”); si conserva tuttavia lagrime rosse, ipotizzando una confusione a
carico dell’idiota Mezzettino, che è uomo grosso come l’acqua dei maccheroni
(si veda anche l’assurdo «domandéghe a vostro fradel», che segue).
[102] oh caso acerbo: punta di ironica e
strampalata forma alta, teatralmente caratterizzata nel racconto di Mezzettino:
i cinque contro uno di proverbiale memoria (si pensi per tutte all’allucinata
deformazione di Ruzante bastonato dal bravo alla fine del Parlamento, nel
racconto che egli ne fa al compare Menato), diventano qui cinque cani che
correvano dietro a una «chizza», “cagna”, letteralmente “dal muso rincagnato”;
divertente per estensione la comune imprecazione che segue: «puttana cagna».
[103] frascarie: baie, inezie, bagatelle,
«azione da fanciullo e quasi inezia da non curarsi» (Boerio); «le zé tutte frascherie ste vostre putellae» (Muazzo p. 474, s. v. “frasca”). ● sbrodega:
qui appellativo furbesco del “luganegher”, dal verbo “sbrodegar”, cfr.
“sbrodego”, «sudicio, unto, bisunto, imbrodolato» (Boerio); in rapporto al successivo «sguazzetto» (cfr. sopra
II.6.9) si rammenti anche il senso di «vivanda che non si tenga bene insieme» (Boerio, s. v. “sbrodicchio”).
[104]
no son miga polaco: non sono uno
sciocco; per polaco cfr. sopra I.1.5.
[105]
a’ volìu che mi a’ faza el macca:
volete che io vi tenga il gioco da palo; si veda già la tecnica adottata da Mezzettino e Pantalone per sottrarre la merce al
gallinaro nella precedente scena 11 del primo atto; qui el “macca” è
sostantivato, forse furbesco, dall’espressione a maca, modo avverbiale per “a
macca, a scrocchio”, da maca, abbondanza (cfr. Boerio
s. v.).
[106] Òe: interiezione appellativa.
[107] magnàr un balsamo: nel senso di
“mangiare cosa preziosa, che imbalsama”; cfr. Muazzo,
p. 603: «Ò magnà un cappon co’ tanto de sonze, co una bona pottrida sotto de
seleni e fenoggi che me son imbalsamà le buelle e anca el ventricolo».
[108] fio d’ una solenissima: espressione
spregiativa della lunga serie con “fio de”; cfr. sopra I.2.4. ● i me faga tante ciacole: mi facciano
tante chiacchiere. ● donnette:
“donnicciole” in senso figurato, “atteggiamenti da donne”, riferito alle
chiacchiere di cui sopra. ● pelegate:
pelle vizza; dispregiativo, «pellaccia o tegumento che trovasi nelle carni
accomodate per cibo» (Boerio s. v.); si veda anche il Muazzo, p. 778 e 861: «quella veggia zé
tutta pellegatta. In sta carne no ghè altro che ossi e pellegatte», «zé quella
pelle nervosa della carne de manzo co’ la zé cotta e se ghe dise pellegatta a
quei veggi o veggie che no ghe resta altro che pelle e ossi intorno».
[109] mocenigo: moneta, cfr. sopra I.2.12did.
● refudài: “rifiutato,
rigettato”, nel senso di “fuori corso”. La battuta funziona come simulazione di
convenevole commerciale; cfr. la successiva battuta di Pantalone che invece usa
l’espressione in senso letterale, per rivolgere la contrattazione a suo vantaggio:
«va’ mo a spender quei bezzi che ti ha refudào».
[110] la costa vinti soldi a bottega: indica
il prezzo dell’acquisto per la rivendita. ● gazzetta: cfr. sopra II.4.1.
[111]
Avì pur i occi e si a’ no la sentì:
battuta che segue la linea dell’assurdo di Mezzettino: egli pretende che
Pantalone possa sentire il cattivo odore con gli occhi.
[112] da bon: davvero; e cfr. il successivo
«da vero bergamasco», con la stessa funzione. ● che la impesta: puzza che appesta.
[113] muso de seppa: muso da seppia, faccia da
seppia; ma confrontare sopra l’uso furbesco di “seppa”, “schiaffo” (I.3.8 e
I.5.4 ), quindi “faccia da schiaffi”.
[114] sier fio d’una magna-bisati: figlio di
una mangia-anguille; ma in veneziano, al maschile, con evidente doppio senso
osceno, vale “figlio di puttana”; cfr. sopra I.2.4.
[115] no vogio andar miga in Gallilea:
evidentemente nel senso furbesco di “galera” (cfr. anche il bisticcio
“Gallia-gallìa” in II.9.7). ● Mazzacan
scortegaór: mazzacane macellaio, «bovicida, quel beccaio che ammazza e
scortica gli animali da macello» (Boerio,
s. v. “scortegaòr”): il nome parlante
dell’addetto è indice di incerta provenienza della carne a proposito della
distinzione tra manzo e vacca.
[116] sguardolina: vermiglia, rossiccia(cfr. Vitali, p. 455, Tabella dei colori più in uso).
[117] Vin delle conchette: «specie di
truogolo, che si mette sotto la cannella della botte per raccogliere il vino
che sgocciola quando si versa. Questo vino svapora moltissimo e diventa
cattivo; laonde si suol chiamare vin de concheta, il vino peggiore» (Boerio, s. v. “concheta”).
[118] abbia fallào la spina della botta: abbia
sbagliato la spina della botte. ● marzemin:
marzemino, tipo di vino rosso diffuso.
[119] Come già
anticipato in I.6.9, le tre donne annunciate precedentemente sono soltanto due.
[120] prìndese: brindisi (si ricordi che l’uso
del brindisi in versi all’osteria è diffuso in situazioni di teatro). ● a tutta questa onorata udienza:
quest’espressione fa supporre senza dubbio che il brindisi sia rivolto
direttamente al pubblico della rappresentazione. ● bocaletto: piccolo boccale, in terracotta, misura piccola da vino,
cfr. sopra II.5.5
[121] squisitonazza: più che squisita.
[122] Magné, bevé, no abbié respetto:
Pantalone con queste parole riprende probabilmente un detto comune: «né in tola
né in letto ghe vol rispetto» (Muazzo p.
723).
[123] Al brindisi
in versi di Pantalone fa seguito un brindisi burlesco di Mezzettino, secondo
gli stereotipi arlecchineschi, con falsa esibizione di prodezze linguistiche
risibili; al centro il gioco di parole tra Gallia / gallìa, “galera”, India e i
gallinacei, polli d’India, da cui i versi del gallo e del tacchino che seguono.
● reìna d’Inghisterra: la
storpiatura di Inghilterra rimanda a “inghistera”, “fiasco”, “bottiglia”,
«misura di vino che si vende al minuto nella provincia di Verona, che
corrisponde alla Boccia di Padova ed al Boccale di Venezia» (Boerio); esattamente il boccale che
Mezzettino alza per il suo brindisi.
[124] oh che bel dindiazo: accrescitivo di
«pollo d’India o gallo d’India e gallinaccio e tacchino» (Boerio); Pantalone si complimenta con
Mezzettino per l’imitazione del verso dell’animale. ● no gh’ho gnianca un bezo: non ho neanche
un soldo. ● avé da cavarve el zacco:
giacco, maglia di ferro, cfr. Muazzo, p. 1148: «zé quell’armadura de
ferro fatta a maggie che defende el petto»; i bravi della banda di Pantalone
sono evidentemente corazzati, oltre che armati.
[125] fioli sté allesti: ragazzi state
all’erta. ● e si vedé che catta
gnente da criar, salté fuora e mazzémoli: e se vedete che trovino qualcosa
da dire, venite fuori e ammazziamoli.
[126]
menar quei quattro: togliere quei
quattro, portarli un’altra volta, scontarli dalla somma.
[127] a pagartela sora la brocca: a pagartela
sopra la tacca, avverbiale: «a ribocco; a buona misura; a misura colma; a
dismisura; a bizzeffe, sovrabbondantmente. Il nostro modo vernacolo viene
dall’uso di mettere una broca ne’ vasi che servono a misurare i liquidi: quando
il venditore empie la misura sora la
broca, egli dà più del giusto» (Boerio,
s. v. “sora la broca”).
[128] Andé a comprar della panada: andate a
comprare della minestra di pane; indica la vivanda più banale e di riuso
rispetto ai preziosi finocchi fuori stagione (cfr. adesso è inverno: forse
indice indiretto di una rappresentazione pensata per il tempo di carnevale).
[129] che la se strenza o la se slarga:
ripresa evidentemente oscena della battuta precedente riferita alla stagione in
corso. ● Móstreme quel zeffo:
la battuta sembra indicare che Pantalone si fa consegnare il conto dall’oste,
da cui si suppone un “zeffo”, in un significato diverso rispetto al comune,
“ceffo”, “volto”, posto anche il seguente «che mi la commoderò» riferito
evidentemente alla somma contestata.
[130] Voggia o no voggia: volente o nolente.
● ve tiorò el tappo: nel senso
furbesco di “cappa” e più generalmente vestito (cfr. Prati 349); la didascalia che segue lo identifica
precisamente con il tabarro; per il conto dell’osteria saldato con l’impegno di
qualche oggetto cfr. sopra la nota I.6.11.
[131] tien tra quella magnaòra quella lenguaza
sinò te la tagierò: tieni in bocca la lingua altrimenti te la taglierò; i
toni di Pantalone sempre più offensivi cominciano a trasformarsi in minaccia;
“magnaóra” sta per “mangiatoia”, e quindi “bocca” in senso spregiativo.
[132] gnianca a tiorlo a rason de ferro veccio:
neanche a prenderlo a peso di ferro vecchio; invece che di oro, per il suo
scarso valore. ● buttélo in canal:
buttatelo in canale (cfr. sotto II.15.9).
[133] strapazzar: disprezzare. ● m’inténdistu: m’intendi (forma
interrogativa). ● tiólo e tasi: prendilo e stai zitto.
[134]
no me sté a romper i ori: non mi
rompete i coglioni; «óro nel senso di orlo, lembo, la parte da basso o estrema
dei vestimenti» (Boerio), qui
inteso in senso osceno allusivo.
II.9.23 che te l’ho ditto un’altra volta: che te
l’ho già detto. ● ghe la femo fuora:
qui nel senso più di “riusciamo ad andarcene senza pagare”; «far fora
qualcossa, maniera famigliare, far repulisti, mangiar tutta una cosa —dicesi
anche per rubare», ma si ricordi anche la locuzione «far fora qualcun, uccidere
alcuno», connesso in questo caso al carattere violento dell’azione (cfr. Boerio, s. v. “fora”). ● tegnì
le arme in sagiaór: il “sagiaór” indica la serratura e più precisamente il
saltarelo della stessa, «una stanghetta di ferro la quale impernata da un capo
con un chiodo nella imposta e inforcando i manichetti dell’altra, serra l’uscio
o la finestra, onde è d’uopo sollevarla per aprire» (Boerio, s. v.
“saltarelo”); dunque, in traslato, l’ordine è di tenersi pronti a scattare con
le armi. ● co’ petto man, petté man
anca vu: quando metto mano (alle armi), impugnate le armi anche voi. Nella
didascalia che segue la battuta sono indicate le armi che Pantalone e i suoi
compagni usano per “pagare” il conto all’oste: la solita «cinquadea» (per cui
cfr. sopra I.11.18did) e il «pistolese»: «sorta d’arma bianca che usavasi una
volta, ed era una specie di coltello largo in lama, somigliante alla figura di
una lingua vaccina, ossia quella specie d’arma che usa portare il Pantalone in
commedia, il qual la chiama scherzevolmente, lengua de vaca» (Boerio s. v.); D’Onghia indica
che la lama era fabbricata a Pistoia (II, 18). ● sanguenazzo da drio: sanguinaccio di dietro; con gioco di parole
tra sanguinaccio e dissenteria, come il più diffuso cagasangue, «interiezione
di maraviglia, che usavasi nel nostro dialetto antico, modo basso
d’imprecazione» (Boerio s. v.).
[135] tutti dentro: la didascalia indica
l’uscita di scena dei personaggi e il contemporaneo abbassamento del prospetto,
che “chiude” la visione sul magazen e restituisce la scena dell’esterno con la
piazza e le case, come richiesto nella scena successiva, in cui Rosaura, con le
parole già intesi pocanzi, condensa il passaggio di tempo dalla rissa
all’osteria. Si veda, allo stesso modo, la chiusura della scena del ballo in
III.7.did.
[136]
baronate: bricconate; cfr. «baroni»
in I.1.5.did.
[137] quarelà alla Giustizia: querelato,
denunciato; giustizia, «presso il volgo si dice per il Tribunal criminale.
Quindi ricorrere alla giustizia, vale presentare un ricorso criminale» (Boerio s. v.). ● Avogaria:
avvocatura, patrocinio e difesa delle cause legali, zona di Venezia presso S.
Barnaba, «dalla cittadinesca famiglia Zamberti, soprannominata dall’Avogaria,
perché gli individui della medesima sostennero le principali cariche
nell’ufficio dell’Avogaria di Comun» (Tassini
s. v.). ● Picardia: coniazione ironica esemplata
sulla precedente da “picar”, “impiccare”, vale “nel luogo dove si eseguono le
condanne capitali”.
[138] si a’ ‘l se ciment el resta mort: se lui
si cimenta morirà; Brighella qui si riferisce alla pusillanimità di Pantalone,
che non è in grado di affrontare un duello, cfr. sopra I.7.4.
[139] du ur: l’indicazione temporale fornita
da Brighella all’uditorio anticipa, assicurandolo, il lieto fine della
commedia.
[140]
Fiazaza, fiazazonaza, fia: figlia;
con un suffisso dispregiativo usato da Pantalone con larghissima frequenza. ● fia
d’un beconazazo fotùo: figlia di un brutto becco fottuto. ● sporchetta: diminutivo di “sporca”,
“sudicia”, vale “licenziosa” (cfr. Boerio,
s. v. “sporcheto”). ● i vuol esser panetti: bisogna che siano
panetti; probabile riferimento al fatto che la figlia deve essere maritata a un
uomo danaroso. ● sinò te cazzo sto
baìcolo: Pantalone non si esime di minacciare apertamente anche la propria
figlia, con la ricorrente figura antifrastica di indicare il suo bastone col
nome di una cosa molto piccola e fragile come il “baìcolo” (cfr. sopra I.5.4).
[141] mentre che ghe devimo le frittole:
mentre gli davamo le frittelle; qui evidentemente in senso traslato, forse
furbesco, per botte.
[142] co’ fa tant gatt mort: come tanti gatti
morti; di solito si usa “gatta morta”, in altro senso, ma può trattarsi al
solito di sproposito di Mezzettino.
[143] a no vogiando ho cattào un naso per terra:
probabile vanto da Rodomonte, da Miles gloriosus o da capitano della Commedia
dell’Arte, topico per questo Pantalone (cfr. sopra I.5.2). ● i anderave in gatezo: si toglierebbero
furbescamente di mezzo, lasciandomi solo; nel senso della locuzione “andar in
gatàro”, «andare in gattesco; andare alle femmine o in fregola» (Boerio, s. v. “gatàro”). ● e sì
me lasserave in le pettole: e così mi lascerebbero nelle peste (“petola”,
“cacherella, caccole, sterco”, cfr. Boerio
s. v.). ● èstu gniente cotto: sei un po’ cotto;
nel senso del precedente imbriago.
[144]
el m’ha toccad le budelle: mi ha
messo sotto sopra lo stomaco.
[145]
porcazzo: brutto porco. ● dormir co’ fa una màmera: qui rispeto
all’uso traslato e dispregiativo (cfr. sopra I.2.7), nel senso proprio
dell’animale: forse “marmotta” o “scimmia” (da cui la relazione di Muazzo con “muso da mona”). ● el dise el proverbio che co se xe imbriaghi
se fa le cose a proposito: evidentemente uno strano proverbio da bullo; il
senso corretto avrà sproposito; cfr. Boerio
(s. v. “imbriago”), che
riporta infatti un’espressione proverbiale esattamente contraria: «co tutti te
dise imbriago va a dormir» (azione che peraltro anche l’idiota Mezzettino aveva
suggerito). ● Bedanna: nome
proprio ebraico che può avere origine da “bèd a haìm”, che significa “cimitero”
(Fortis-Zolli). ● moscon: pegno; da “mascòn”, parola di
origine ebraica (Fortis-Zolli),
che riflette l’abitudine di vita caratteristica del Ghetto fin dal
Quattrocento, dato che ai cristiani era vietato praticare l’usura (Calimani). Anche Muazzo, p. 465, riporta l’espressione d’uso: «far moscon in
ghetto». ● Bochina in calle
Valaressa: Bochina, prostituta dal nome parlante (cfr. nota I.6.9);
Pantalone manda Mezzettino a farsi restituire alcuni abiti o biancheria ch’egli
evidentemente le aveva precedentemente regalato, o le ha dato in pegno al posto
di denaro (pratica che peraltro mette in atto anche per pagare il cibo
all’osteria, cfr. nota I.6.11 e II.9.18). ● Calle Vallaressa, a S. Moisè: «da alcuini documenti, citati
nell’opera del Coleti: Monumenta Ecclesiae Venetae S. Moysis, si viene a
conoscenza che la famiglia Vallaresso aveva possessioni a S. Moisè fino dal
secolo XII. Un documento poi colla data del 1233 descrive così bene i confini
delle possessioni di questa famiglia che il Temanza nell’Illustrazioni
all’antica pianta topografica di Venezia, da lui pubblicata, vi riconosce
chiaramente il sito della calle che tuttora appellasi Vallaressa» (Tassini).
[146] L’uscita di
scena di Pantalone, la sua battuta pronunciata non a vista («di fuori») e il prendere
corpo dell’ambiente del Ghetto attraverso il rumor grande che lo evoca sono
rilevanti indizi del passaggio o della materializzazione attorno al personaggio
degli ambienti della commedia cittadina pregoldoniana e goldoniana (su questo
cfr. Vescovo 2000, pp. 270-276).
[147]
i faga el so sabbà: «nel calendario
ebraico, settimo giorno della settimana, consacrato a Dio, che in esso concluse
l’opera della creazione, e al sacro riposo secondo la legge di Mosè» (Gdli), si veda anche il veneziano
“sabadài”, “ebrei” («qui sabbata servant», Boerio),
col pronto e comico capovolgimento del seguente, «ma no che ancùo xe domenega».
● lori certo i tien banco:
tengono certamente aperto il banco dei pegni. ● Smerdacai: deformazione spregiativa da Mardocai, tipica delle parodie
degli ebrei soprattutto nella tradizione per musica e in versi (cfr. per
esempio la scena che appartiene al medesimo cliché comico; per analogia e
sovrapposizione di significati e pregiudizi riporto anche il Muazzo (p. 683, s. v. “merdock”): «me vien contà che i ebrei e i rabbini smerdacai
non dopera rasaor né forfe a farse la barba, ma i se la porta via dal muso con
una qualità de robba corrosiva che lori la giama nel so linguazzo merdock».
● Segue la improvisada in versi intonati su musica di Pantalone,
assolutamente non giustificabile come intermezzo di canto in funzione
realistica, cioè da un’esibizione di canto in commedia come il prìndese o la
serenata. La diffusione dell’improvvisata è testimoniata anche da Muazzo, p. 593: «improvvisar,
improvvisador, improvvisata. A’ nostri dì i vol che Panicelli, famoso
predicator, l’improvisasse assae ben. L’è un bravo improvvisador quello, su
ogni tema e soggetto che ghe dé l’è capace sul fatto d’improvvisarve in versi».
Di grande interesse il richiamo di Pantalone ai sonadori, che indica
evidentemente l’orchestra o il piccolo gruppo strumentale presso il teatro a
cui era inizialmente destinata la rappresentazione di questo testo.
L’“improvisada” di Pantalone, oltre alla parodia della maschera che va a far
“moscon” in Ghetto, già descritta secondo gli stereotipi comici correnti,
mostra una singolare prossimità con il canto, secondo la tradizione dei
mestieri che vanno per via e delle “voci” relative, che si ritrova in altra
tradizione, e per esempio in uno dei primi intermezzi goldoniani, La Birba o, più specificamente, ne La Pelarina, dove il personaggio della
ruffiana Volpiciona assume, tra gli altri, il travestimento di una
“revendìgola” ebrea. La successiva apparizione di Mezzettino, il cui ingresso è
contrassegnato da un “dare la voce”, si mostra per altro assai prossima alle
parole di un’arietta di questo intermezzo composto dal giovane Goldoni (cfr. La Birba, II.3: «lindora (Di dentro) Chi ha drappi vecchi, / chi ha veste
vecchie, / chi ha coridoro vecchi / da vender? orazio
È questi un strazzaruolo: / uno che compra e vende li vestiti; / comperarne
vorrei, s’egli l’avesse, / un per voi, un per me. cecchina Giove il volesse! lindora
Chi ha capei vecchi, / chi ha rami vecchi / da vender?», e II.4: «che in sto
ponto ho vendui, / in credenza i ò abui, / come saver se puol / da quel mio
sior compare strazzariol». Cfr. anche La
Pelarina, II.3 : «volpiciona
Merli bei da camise, / e cordoni de seda a un soldo al brazzo. / E i xe de quell’andar,
/ chi no li vuol, li lassa star. […] volpiciona
Ghe n’ho de cremesini, / de lattesini e bei: / creature, comprei a un soldo al
brazzo. / E i xe de quell’andar, / chi no li vuol, li lassa star»; III.2: «pelarina. Siora maschera, / La me fazza
giustizia: sta sassina / In ghetto za do mesi xe vegnuda, / e tanto la gh’à
ditto, e tanto fatto, / che sti abiti medemi / a nolo senza pegno ghe l’à dai /
mio zerman Menacai», e «volpiciona
Son giudio, son poveromo, / da mosconi son perfetto; / ma onorato galantomo, /
la dimanda a tutto el ghetto, / de gabbar l’arte no so. / Sabadin e Semisson, /
Siora Luna e siora Stella, / Giacudin e sier Aron, / siora Lea, siora Gradella,
/ in t’un tratto / de sto fatto / testimoni gh’averò», ancora: «tascadoro Può avvenirmi di peggio /
ch’esser posto tra un bulo ed un ebreo?»). I pezzi intonati da Pantalone sono
addirittura due: il primo più generico e il secondo più puntualmente
riflettente il suo carattere in questa commedia. ● robeta de velùo: merce di prima scelta; i velluti veneziani erano
rinomati per l’alto livello di qualità (cfr. Vitali,
s. v. “veludo”) (cfr. anche il
traslato, probabilmente furbesco, da velluto nella battuta che segna l’ingresso
in scena del bullo Spezzaferro ne La
Spagnolas di Andrea Calmo (I.14): «mocenighi tanto fatti de vellùo»). Il
secondo pezzo, nonostante gli stereotipi antiebraici, considera la corporazione
degli stessi in forma di appartenenza cittadina. ● stagando:
nel lessico dei barcaioli significa “volgere la barca a destra con un movimento
del remo”; qui è riferito alla musica nel senso di “cambiare direzione,
melodia”; come riferimento all’uso del cambio repentino nella musica
improvvisata per sorprendere l’auditorio, si confronti l’aria da battello
riportata da Muazzo (p. 693, s. v. “metter in musica”): «vorrave
ch’in musica / mettessi st’arietta /in forma strambetta / de gusto assae bon /
e acciò che gran strepito / la fassa in battello, / vorria sul più bello /
cambiar tempo e ton»; cfr. sempre Muazzo (pp.
450-460, s. v. “ebraizzar”) per
l’usanza diffusa di narrare le storie del Ghetto in musica. ● Smerdàe: smerdate; ismedar «sconcacare,
bruttare di merda» (cfr. Boerio s. v.): indica generalmente le azioni
deteriori. ● i occi inte le scarpe:
non sono cieco; cfr. I.3.3, forse con deformazione dell’originale occi
inscarpiai, “occhi con le scarpie” (ragnatele). ● non so miga de quei dalle vallàe: seguito dal successivo, «né son
de quei che stà a San Nicolò», ad indicare le corporazioni dei pescatori. Il
brano presenta una curiosa, e non poco inquietante, intersezione del ruolo
normale del mercante Pantalone de’ Bisognosi, che come vecchio cittadino
veneziano della classe del commercio sarebbe tenuto a rimarcare una posizione
di centralità nel sistema della ricca e operosa città, e la declinazione
bulesca del personaggio che agisce in questa commedia, dove il suo ruolo non è
tanto quella del mercante operoso, che pure ostenta nelle scene che si svolgono
all’interno della dimensione domestica, ma quella del bullo e bravazzo che
tagia gambe e scavezza brazzi, tanto da metter anche in scompiglio ancora i
“zaffi”, ovvero le pattuglie dell’ordine pubblico (furbesco da “zaffo”, “colui
che acciuffa, che mette in galera”; cfr. Muazzo,
p1123: «zaffo da terra, sbirro»). ● Oh, oh, oh, oh, sier Bedanna, sier Abram, sier Aron, sier Badanai, sier
Mosè, sier Smerdacai: serie di nomi ebraici di tradizione, per cui cfr.
ancora la scena de La Pelarina sopra
citata; per il nome “Badanai” è da segnalare una derivazione dalla parola
“adonài”, “Signor mio”, usata anche come esclamazione e intercalare, diventanto
“badonài” (Fortis-Zolli); l’elenco
termina con la deformazione comica “Smerdacai”, spregiativa per “Mardocai”
(cfr. sopra).
[148] strazze: stracci. ● camise: camicie, capi di biancheria
intima (cfr. Vitali, s. v. “camicia”). ● drapi: drappi. ● massere: serve, ma qui «voce famigliare
e donnesca. Così chiamasi quel nastro o simile che le donne tengono allacciato
al fianco sinistro, per sostegno della rocca o del bacchetto o cannello con cui
lavorano le calze» (Boerio, s. v. “massera”). ● follo: mantice; in gergo vale anche
“culo”; cfr. la nota precedente per il richiamo del venditore ne La Birba.
[149]
strazzariol: straccivendolo. ● Òe, da’ folli: Pantalone richiama
Mezzettino usando una formula di risposta all’offerta del venditore che porta,
come indicato nella didascalia, diverse “masserie”: “masserizia”, “stoviglie”,
ma anche “materiale di sgombero”, cfr. Boerio
(s. v. “massaria”): «portar
via masserizie da luogo a luogo per mutar domicilio»; come chiarisce Muazzo, p. 1020: «strazzariol zé
l’istesso che il rigattier dei Toscani».
[150] cogionbaré: come “cogioné”, da
“cogionar” (cfr. Boerio, s. v. “cogion” o “cogiombaro”,
attenuativo di “cogion”); “mi prendete in giro, mi minchionate”. ● sier piegorazza: cfr. sopra I.11.20.
● cai de robba: capi di
vestiti; nel senso preciso di “fagotti da svolgere”, cfr. sotto II.15.8 “collo
di roba” e il successivo “despieghelli”, “stendeteli”, “apriteli” (in modo che
si possano vedere); come risulta dalla didascalia e dalle successive
descrizioni i fardelli di Mezzettino sono composti di strazze, ossia merci di
nessun valore.
[151]
né mosconi né callalini: gioco di parole
tra “moscón”, “pegno”, della parlata giudeo veneziana (cfr. sopra II.12.5) e
“callalini”, “moscerini”, «farfallina; farfalletta; farfallino, piccola
farfalla bianca» (cfr. Boerio, s. v. “calalin”). ● mi son l’Atlante del Ghetto:
approfittando della figura mitica di Atlante, titano che dopo aver guidato una
rivolta contro Zeus fu messo per punizione a sostenere l’intera volta celeste,
Pantalone dichiara di essere il più grande sostenitore del Ghetto: ritorna qui
esplicito (vedi l’immediatamente precedente «co vien fatto qualche affronto, da
chi andéu se no da Pantalon?») l’atteggiamento malavitoso del bullo che offre
la sua protezione in cambio di denaro (cfr. sopra la scena quinta del primo
atto, in cui offre i suoi servizi al Dottore per vendicare l’affronto subito).
● garanghello: alla lettera
«merenduccia o merenduzza, piccola merenda in campagna, combibbia, bevuta fatta
all’osteria o altrove tra più persone, stravizzo, si chiama il mangiare e bere
fuori dell’ordinario» (Boerio, s. v. “garanghelo”); qui si intende
probabilmente “non sono qui per mangiare a sbafo”.
[152] ninziol arzirato: lenzuolo
bruciacchiato; da “arsirar” e “arsar”, «quel primo abbruciare che fa il fuoco
nella superficie l’estremità delle cose. Per esempio un panno bianco accostato
alla fiamma s’infuoca, piglia il nero e si abbronza» (cfr. Boerio, s. v. “arsar”).
[153] tella muneghina: tela di lino o canapa;
l’aggettivo rinvia probabilmente alla manifattura da parte delle monache.
[154] brusà: bruciato; Pantalone sostiene che
il nero della bruciatura (cfr. sopra II.15.3did) sia sporco e che il lenzuolo
possa tornare come nuovo, ma Bedanna non si lascia ingannare («mi no so de
sporco»).
[155] falliva: propriamente “scintilla”, qui
indica una piccolissima bruciatura. Pantalone ridimensiona così il «tutto
brusà» della battuta precedente; «favilla; scintilla e sintilla; ignicolo,
corpuscolo o parte minutissima di fuoco» (Boerio,
s. v. “faliva”).
[156] sbergào: strappato. ● collo de robba: unità di carico delle
merci (cfr. sopra II.14.3 «cai de robba»); propriamente “ciò che si porta sul
collo”. ● cottolina: gonnella.
● raso rasào: raso rasato; per
aumentare la qualità del tessuto: “raso molto lucido”; l’espressione è citata
anche dal Muazzo, p. 902: «ma son
tolto del raso de color de perla. Ghe zé po’ el raso rasà». ● Malamoco: una zona del Lido di Venezia;
qui probabilmente Pantalone allude a una gita fuori porta cfr. sotto III.5.9.
[157]
buttéla in canal: buttatela in
canale; perché merce che non vale niente (cfr. II.9.20 in cui il magazenier
utilizza la stessa espressione).
[158]
l’oro luse e questa straluse: l’oro
brilla, ma questa [cottolina] brilla in modo eccezionale; modo proverbiale, qui
speso a casaccio e con l’impuntatura bulesca dell’esagerazione.
[159] barbarossa: si riferisce al colore della
barba; ma barba rossa in gergo significa fiamma (Prati); forse qui la sfumatura serve a ravvivare il tema del
fuoco, che è partito dal «ninziol arzirato» e che terminerà col tragico epilogo
della scena. ● che te tagia la
codega: che ti scanni; da “cotica”, propriamente “pelle del porco”, ma per
traslato anche quella dell’uomo.
[160] zaù: dalla parola ebraica “zehùd”, che
significa “valore, fortuna” (Fortis-Zolli); qui è usata ad indicare una
misura del denaro.
[161] doppie: cfr. sopra I.5.30.
[162] flema: lentezza, calma.
[163] Pantalone e i
suoi soldati danno fuoco al Ghetto. Questa scena, di cui la didascalia non
fornisce suggerimenti riguardanti la realizzazione, risulta una delle più truci
della commedia. Gli incendi a Venezia sono da sempre stati il pericolo
maggiore, data la vicinanza degli edifici e la prevalenza del legno come
materiale da costruzione.
[164] el gi’ eser dir mal de mi: deve star
dicendo male di me; volgarizzamento del latino “debet esse”, “el diè esse”
(cfr. sotto III.11.5 e M III.7.6; Mutinelli,
Lessico Veneto, p. 183).
[165]
desgraziadaz: disgraziato; con
suffisso peggiorativo. ● pez de
barù: pezzo di barone (per “barone” cfr. sopra I.1.5). ● mester: mestiere; da mettere in
relazione col conseguente «avezz a no mai lavorar»: un mestiere di scarsa
caratura professionale. ● squomodo:
storpiatura del latino “quo modo”, “in questo modo”. ● us: uso, abituato. ● un par mio, allevat dalla siura Simona, nostra
mader, tra i matarazz più fini delle stalle: stringatissima descrizione
autobiografica di Mezzettino; divertente l’accostamento di fini e stalle, per
antifrasi terminologica, ma in senso letterale probabilmente l’abbondanza di
paglia presente nella stalla ha costituito davvero un “buon” materasso: si
aggiunga anche il biblico caldo degli animali; «siura Simona» ha un’accezione
spregiativa: «Simon detto per aggettivo a uomo, vale scimunito; balordo. Simona
dicesi alla femmina nello stesso significato» (Boerio
s. v.); l’idiozia di
Mezzettino appare dunque ereditaria. ● manezar arm: “maneggiare armi”. ● pais: “paese”. ● andarò
alla Giustizia a darghe una squaquarela: “andrò in tribunale a sporgere
querela contro di lui”, per Giustizia cfr. sopra II.10.2; “squaquerela”,
“querela” con sovrapposizione dell’idiotismo “squaquerar”, “cacare tenero” e in
traslato «spiattellare; spizzolare; svertare; svelare; disvelare; sborrare;
palesare; propalare; sgocciolare il barlotto, dir che che sia liberamente» (Boerio, s. v. “squaquarar”). ● a
spas: “a spasso”. ● a’ ‘l me
rincres: “a me rincresce”. ● mul:
“mulo”, «detto per metafora caparbio; capaccio; ostinato; restìo; capone;
provano; vinciguerra, dicesi per aggettivo a uomo ostinato che non desiste
dalla sua opinione» (Boerio s. v.).
[166] fiazazo: cfr. sopra II.11.1 fiazaza.
[167]
Vàrdete: mettiti in guardia, stai
attento.
[168]
a’ ‘l sarà stà mes su da qualchedun:
sarà stato istigato, montato da qualcuno.
[169] scongiura: congiura; con deformazione
per idiotismo da “scongiurar”.
[170] fredeltà: fedeltà; storpiatura della
parlata di Mezzettino (cfr. ad esempio sopra II.6.10, II.9.8, II.18.1).
[171] crocciarmi: corrucciarmi; termine aulico
come caratterizzante tipica del lessico degli amorosi (cfr. qui anche piante)
che mostra una riserva di materiali stereotipi che ricordano i “generici”
imbanditi agli attori dilettanti nel trattato di Andrea Perrucci, Dell’arte rappresentativa premeditata e
all’improvviso (1699; ed. moderna a cura di Anton Giulio Bragaglia,
Firenze, Sansoni, 1961), del cui linguaggio si troverà poi la parodia ne Il teatro comico, di Carlo Goldoni,
quando la prima donna dichiara al poeta Lelio di avere bruciato questo tipo di
repertorio.
[172] “cotegh”:
come il veneziano “cotego”, “trappola”, «strumento di legno fatto in varie
guise per prendere i sorci» (Boerio),
qui traslato per “galera”. ● i’ ve
lo porterà a ca’ in quater: morto, cfr. sopra I.5.24.
[173] tacad fogh: incendiato. ● se a’ no fem sì: se non facciamo così.
● sbir: sbirri, guardie.
● che i’ lo ciap per l’arm: che
lo arrestino per le armi; nel senso di “con le armi”, oppure “per le armi che
porta con se”. ● almanc un par de
mes: almeno un paio di mesi. ● l’andrà
in Picardia: finirà impiccato; gioco di parole con il nome di un luogo,
cfr. sopra II.10.2. ● ex duobus
malis minus est eligendum: luogo proverbiale già dalla tradizione latina
che probabilmente proviene da: Prediche
per tutta Quaresima, et per alcune principali feste dell’anno. Con alcuni
sermoni fatti parte à religiosi, parte à secolari. Et con alcune lettere
spirituali. Composte ad arte dal Reverendo Padre Fra Giovanni Aquilano da San
Demetrio, dell’osservanza Minoritana, Venezia, Egidio Regazzola e Domenico
Cavalcalupo per ordine di Bartolomeo Robini, 1569.
[174]
prissa: fretta. ● muretta: declinazione alla bergamasca di
“moretta”, “maschera”, «quella coperta di velluto nero che sta attaccata alla
faccia mediante il tener in bocca un bottoncino che v’è nel sito in cui
dovrebb’essere l’apertura della bocca» (Folena,
s. v. “moreta”); si riporta anche la
bella descrizione del Muazzo (p.
686) «la moretta zé una spezie de maschera, fodrada all’esterno de veludo
negro, la qual vien portada dalle donne, sia proprie sia de bassa sfera, co’ le
se traveste da contadine e la ghe sta taccada al viso per messo d’una perletta
o margarita cusia al de drento della moretta inver la bocca, la qual perletta
vien tenuda in bocca sin tanto che le zé stuffe de portarla o che ghe vegna da
spuar e giappar aria. Zé vegnua fora ultimamente un’aria da battello, la prima
stroffa de la qual zé così: “mi me son innamorà / d’una morettina / ladra,
sassina, / che el cor m’à robbà. / Ohimè che moro / e moro per amor, / un T, un
I, un A, un M, un O”». ● no’l sa
chi la se sipi: non sa chi si sia.
[175]
Bonzurno a vu, sioria: cfr. II.6.4.
● mi a’ no ve vogh far lum:
gioco di parole col finale della battuta di Cinzio precedente, col significato
di “non voglio tenervi il moccolo”.
[176] III.3.3-9
appare anche qui il duetto degli amorosi con la tipica conclusione della pointe ironica riservata alla maschera
che ascolta. In questo caso il dialogo è addirittura scandito in versi e va
quindi probabilmente ripensato intonato su musica, posta anche la presenza dei
“sonadori” (cfr. sopra II.13.1), pure qui la battuta finale di Brighella sigla
con controcanto realistico la stereotipicità della lunga effusione degli
amorosi. ● el gh’ha dad le zatte:
le ha dato la mano, cfr. sopra I.9.6.
[177]
La didascalia finale, che fa seguito al distico in rima di Cinzio («fede» /
«piede») e con l’ordine rivolto ai suonatori (questa volta implicati in
funzione realistica come orchestrina della sala da ballo), è di straordinario
interesse ai fini delle modalità di realizzazione scenotecnica, come già
indicato in II.5.did.
[178] Capo de ballo: colui che guida le danze.
● Cangia e un’altra cangiadina:
il riferimento va qui indubbiamente alle “figure” della danza: cfr. infatti
“cambio” o “scambiata”, «per farlo, partendo dai piedi allineati e tenendo le
ginocchia tese, si spinge il sinistro avanti, poi si muove il destro mettendone
la punta ‘di dietro al calcagno del sinistro ad modo d’un sottopiede’, poi si
alza il piede sinistro tre dita da terra e davanti tre dita dal destro, si
riporta indietro allineato al destro e contemporaneamente si piegano le
ginocchia allargandole e si fa un balzetto a piedi pari; se ne fa sempre più
d’uno» (Lombardi, p. 21). ● man alle scarselline: mano alle tasche;
per tirar fuori i denari per la musica: cenno all’obolo per l’esecuzione.
● quella de «Donna mare e un bel
marì»: evidente riferimento a un motivo di repertorio dell’epoca.
[179] È
significativo che Cinzio risponda continuando a parlar in versi.
[180]
il passo e mezzo: tipo di danza; «il
passo e mezzo si fa riunendo i talloni e voltando un poco il corpo a destra e a
sinistra» (cfr. Lombardi, p. 20, s. v. “continenza”); «passo e mezzo era
una variante veloce della pavana in tempo binario, popolare dalla metà del
Cinquecento ai primi decenni del Seicento. Il suo schema musicale è stato
incluso fino alla fine del secolo nelle variazioni strumentali. La Pavana era
una danza di parata in tempo binario che consisteva nell’eseguire tre passi
avanzando (due simples e un double iniziando col piede sinistro) e
tre passi indietreggiano (due passi semplici e uno doppio indietro iniziando
col piede destro). Ma si poteva anche andare sempre avanti girando attorno alla
sala o eseguendo alla fine della sala una “conversione”, muovendosi
all’indietro mentre si continuava a guidare la dama in modo che avanzasse […].
Nel Passo e mezzo i danzatori più abili, dopo i due passi semplici o
addirittura dopo il solo primo passo, al posto dei passi rimanenti ne facevano
altri più veloci. La diversa suddivisione della musica, l’esecuzione briosa dei
passi e il costume corrente di fargli seguire la vivace Gagliarda temperavano,
nel Passo e mezzo, l’originale gravità della Pavana» (cfr. ivi pp. 83-84);
l’indicazione «avant! Indrìo!», nella battuta iniziale del Capo de ballo,
indica dunque l’esecuzione della danza fatta dai ballerini avanzando e
retrocedendo, e non nella variante che procede per andamento circolare.
[181] per la
maschera che Pantalone porta sul volto cfr. sotto III.5.16.
[182] che no i se stracca: che non si
stanchino; più a lungo i danzatori riescono a resistere, più alto sarà il
guadagno per i suonatori. ● Contéghela
giusta: raccontatela giusta, siate sinceri.
[183] per “balli”;
“balon” vale anche “ubriachezza”, può denotare lo stile sguaiato dei divertimenti
di Pantalone.
[184] i è dài via: sono stati già prenotati;
si vede infatti la risposta piccata di Pantalone: «tanto è i mi bezzi che i
soi».
[185] conti da Malamocco: (cfr. sopra I.3.5
per l’uso spregiativo di conti) Malamocco, luogo presso il Lido di Venezia
(cfr. II.15.8). ● che fa la guardia
ai melloni: oltre al significato di “stupidi”, come appellativo burlesco e
dispregiativo (cfr. I.2.1), si aggiunge in questo caso il riferimento letterale
della coltivazione dei meloni: «i megio meloni che sia zé quei da Malamocco e
da Giozza e ai meloni grandi e fiappi i se giama zatte o squaquere» (Muazzo, p. 671).
[186] istorie: storie, chiacchiere.
[187]
III.5.11-12 prende corpo in queste battute l’atteggiamento minaccioso e
violento di Pantalone e Mezzettino, antonomasia
da bulli, che vogliono impedire ai suonatori di proseguire: ve tagierò le corde (degli strumenti); a’ v’i darò da béver in sirop: ve li
darò da bere in sciroppo; cioè in soluzione, ricavando uno “sciroppo” dagli
strumenti ridotti in polvere.
[188]
volto: maschera (cfr. I.3.6). ●
sprofondissima reverenzia:
deformazione con ribaltamento del significato ottenuto con la s- prostetica; Pantalone
esegue prima un inchino completo, poi un mezzo inchino (a mezza vita), e infine
colpisce Cinzio in testa con il suo cappello (el zirandonarve in le tempie: per “zirandonar” e “ziradonar”, cfr. Folena e Boerio,
s. v. “ziradonào”, che ha normalmente
significato traslato; in questo caso il gesto di Pantalone, dall’inchino
all’offesa, recupera il primo senso di “zirar”; l’espressione è citata e
spiegata anche da Muazzo, p. 1125: «el zirandonarve ben»: «ziradonar zé
l’istesso che busarar. Caro vu, fé grazia, co’ gavé tempo, d’andarve a far
ziradonar», p. 1141. Alla fine della battuta la didascalia rivela un fortissimo
svelamento del viso («si cava la maschera»)
dove evidentemente Pantalone si toglie la maschera usuale del giocatore di
ridotto (cfr. sopra i ripetuti appellativi, «siora maschera» che gli rivolge il
Capo de ballo); resta da sapere se si immagina un Pantalone che reciti a volto
smascherato o se sotto la maschera da sala da gioco egli riveli la maschera
usuale del personaggio di commedia.
[189] Quando po’ che sarò in ballo: nel senso
preciso di partecipare alla danza, ma altresì in quello traslato di essere in
ballo, “trovarsi in mezzo, continuare”; cfr. Muazzo
(p. 1132, s. v. “zanfurlon”),
«za che sono in ballo, voi ballar a dispetto de chi me contraria e me
contradise». ● sopresada:
soppressa, sorta di salame che si mangia in fette (Boerio). ● quella
de Salam, quella della masserina che fava l’amor col so Nicolò: evidenti
motivi in voga al tempo; per una possibile allusione ironica al motivo o al
repertorio in voga cfr. anche sopra II.1.3-5, quando Mezzettino continua a
ripetere il nome del facchino con intento canzonatorio.
[190] molesina: tenerella, delicata; si dice
anche propriamente delle materie soffici, ovvero ciò «che toccato accossente ed
avvalla, come coltrici, guanciali e simili» (cfr. Boerio, s. v.
“molesin”), da cui il successivo paragone col “bombaso”, “bambagia”. ● furlanaza: letteralmente “fiulana” è una
danza che solitamente fa la gente di condizione bassa (cfr. Folena); Muazzo
(p. 467) riporta un piccolo elenco di danze: «far una furlana, un
menuetto, un balletto inglese, una contradanza, un paddedù».
[191]
Chi commanda le feste: chi è il capo
della festa. ● che ghe la femo
fuora: cfr. sopra II.9.23. ● tegnì
le arme in sagiaór: cfr. sopra II.9.23. ● Segue nella didascalia la
vestizione di Pantalone: per “zaco” cfr. sopra II.9.9; per “cinquadea” vedi
sopra I.11.18did. ● celata:
elmo o elemento di difesa della testa e del collo; Boerio la ricorda impiegata anche dai combattenti delle
“guerre dei pugni” (s. v. “celada”).
● guanto di ferro: elemento di
protezione della mano e la targa un “piccolo scudo di forma tonda”, anch’esso
rammentato da Boerio per le stesse
guerre rionali. ● creanza:
educazione; con effetto antifrastico.
[192] omo sproposità: uomo fuori di senno;
cfr. anche Muazzo, p. 968, che
alla voce sproposito riporta l’espressione: «l’è el gran omo sproposità in
tutte le so cose: el va all’eccesso in ogni so affar».
[193] Coss’è sto dar del ti: Pantalone
reagisce brutalmente al passaggio al tu della precedente battuta di Cinzio,
come evidente sottolineatura di superiorità sociale; come riporta accuratamente
il Muazzo, p. 398: «dar del ti,
dar del vu, dar dell’ella. Zé tre formole de parlar sora delle quali se zira
tutti i nostri discorsi, conforme le persone con le quali se parla e se tratta.
Fra la zentaggia che va per le strade e i baroni de campo, co’ i parla i se dà
sempre del ti: “oe, dì!”; “Giò!”; “Astu fatto troppi noli ancuo? Astu davagnà
troppo?”; “Ghe n’astu bevuo troppo gieri in compagnia al magazzen?”. El dar del
ti anca zé segno de superiorità e comando, come saravve dir chi comanda ai so
sudditi, ovvero i paroni verso alcuni servitori, massime con quei de campagna.
El dar del vu, po’, sia donne sia omeni, se usa fra zente onesta e civil come
botteghieri, mercanti, avvocati, zente de palazzo e così discorrendo. El dar
dell’ella, po’, zé fra zentilomeni e fra religiosi e altre persone constituide
in dignità e in carica». ● Avemio
forsi magnào el çebibo in baretta: cibibo, zibibbo, tipo di uva e vino
passito; locuzione proverbiale nello stesso significato di “abbiamo forse
mangiato insieme”; cfr. l’espressione registrata da Boerio, s. v.
“cibibo”: «pare che siamo affratellati o nati ad un corpo, si dice di chi
prenda troppa confidenza e famigliarità con persona di grado superiore»;
“bareta”, ha anche il significato specifico di “bareta da vin”, «uno strumento
di legno cupo, di cui si servono i travasatori di vino per asciugare i tini, e
col quale bevono il più delle volte, donde nasce che usano il gergo avemo bevuo
insieme una bareta, do barete, ec. perché se la ripassano, come fra’ villici il
boccale. Sogliono anche esigere una di queste barete a regalo per ogni barile o
altro carico di vino che fanno, dai compratori» (Boerio, s. v.
“bareta”); anche Muazzo, p. 668,
riporta l’espressione: «magnar el cebibbo in barretta. La gran libertà che ve
tiolé, sior, con mi! Bisogna e par, per dir megio, che abbiemo insieme magnà el
cebibbo in barretta». ● sier
canpiolo: cfr. sopra I.3.5.
[194] siori arsure: signori bruciature; «detto
per agg. a uomo, spiantato; bruciato; scusso; ed anche arsura, e vale uomo che
non ha in tasca una quattrino» (Boerio,
s. v. “arsura”).
[195] La breve
battuta di Brighella nella scena declina esattamente la successione degli
eventi, in una sorta di riepilogo volto probabilmente ad accompagnare e
giustificare a parole il cambio
della scena (cfr. Guccini pp. 16-17): “Non so dove mai possa essere
andato il signor Pantalone: io son venuto qui al ballo ma non vedo più né ballo
(coperto dal prospetto) né il signor Cinzio, né la signora Rosaura (usciti di
scena dopo il combattimento), ma voglio ben informarmi come è andato a finire
il suo (di Rosaura) affare col signor Cinzio” (si veda Vescovo 2000, pp. 272-273).
[196] Si deduce che
Rosaura, presente al ballo nella scena quinta, sia nel frattempo tornata a
casa. Il prospetto prima sollevato con scena di strada è stato dunque calato di
nuovo alla fine della scena.
[197] vanzad: guadagnato.
[198] con una pipa in bocca: le pipe sono di
terracotta, come si deduce anche dalla didascalia alla battuta 3.
[199] te séntistu gniente de caldo: sei
accaldato. Pantalone fa riferimento agli effetti del vino bevuto
precedentemente («zà un tantin», come dalla battuta successiva di Mezzettino).
[200] el fa la so part: fa effetto.
[201]
conza: conza del vin; «accomodamento
che si fa a’ vini coll’infondervi che che e sia, specialmente perché acquistino
il colore nero» (Boerio s. v.). ● stomego: stomaco.
[202] Arma virumque cano: il celeberrimo
incipit dell’Eneide di Virgilio; l’effetto parodistico delle belle parole messe
sulla bocca di Mezzettino è di carattere antifrastico rispetto alle
caratteristiche del personaggio.
[203] Canto l’armi pietose e ‘l capitano: qui
invece Pantalone recita l’incipit della Gerusalemme
liberata del Tasso; il rimando intertestuale è sostenuto anche dalla
circolazione di una versione del poema del Tasso in lingua veneziana,
realizzata da Tommaso Mondini. Oltre al riferimento testuale ritorna
l’importanza della musica e della conseguente possibilità della costante
presenza dei musicisti sulla scena del Bullo,
dal momento che il riferimento è al canto in gondola sulle vicende della Gerusalemme, per cui si rimanda a Vescovo 2002, pp. VIII-XXI. ● Donna, disse Satan, perché crudele / verso
di me ti mostri e inumanata: Pantalone ripiega su un tema più triviale,
forse con una nuova citazione, non reperita.
[204] elitropio: girasole. ● remora alle mie piante: evidente tessera
di stile aulico e affettato.
[205]
mendich: mendicante. ● el se trà: sta con, frequenta. ● csì: così; contrazione tipica della
parlata pseudo bergamasca. ● svegiad:
svegliato. ● tolive deter un pez de
legn: portatevi un pezzo di legno, un bastone. ● el se tacherà a fuzir: comincerà a fuggire. ● volsud: voluto. ● fiola: figlia. ● zender: genero. ● bona dot: dote matrimoniale consistente.
● negot: negota; in questa
frase è usato come avverbio: “affatto”; cfr. Muazzo,
p. 737, che inserisce la parola nel repertorio teatrale dei personaggi bergamaschi:
«negotta zé l’istesso che gnente, ma qua a Venezia l’ò sentia doperar solamente
da Truffaldin in comedia, come anca el dise fomena, invece de femena».
[206] spirit macabreo: spirito, folletto; con
deformazione di “macabeo”, a carico del personaggio: “maccabeo” è anche
sinonimo di «persona stupida, sciocca, ingenua» (Gdli s. v.) (come
lo stesso Mezzettino che crede che uno spirito li abbia spostati in casa); cfr.
anche Muazzo, p. 958: «che spirito
maccabeo che gà in corpo quella zovena. La zé un gran de pevare. La zé presta
come l’aria; presto la salta qua, presto la salta là, la me passa davanti tante
volte che no la vedo» (come Mezzettino che si è spostato senza rendersene
conto).
[207] taverna: osteria; come più sotto
«bettola»; entrambi i termini indicano botteghe di basso livello in cui si
vende il vino al minuto, cfr. sopra I.5.26. ● all’orza: con andatura da ubriachi, traballare; «andar a orza vale
a nave sbandata, a sinistra» (Boerio s. v.); per il Muazzo, p. 463, “esser all’orza” «zé l’istesso che esser
imbriago o con la testa a torzio».
[208]
babào: nome finto di demonio,
“spauracchio”, “mostro immaginario”, che si finge di evocare per far paura ai
bambini e indurli a star cheti, come riporta anche Muazzo, p. 100: «se no tazé, fazzo vegnir el brutto babbao a
portarve via»; cfr. anche Gdli,
secondo cui l’etimo deriva da «bau bau, voce onomatopeica che ripete il latrato
del cane e con essa si suole fare il verso al preteso fantasma»; (curioso che
il dizionario riporti solo attestazioni da Verga in avanti). ● all’usmo: al fiuto, fiutare; la parola
appartiene al campo semantico relativo agli animali, da usma, «quell’odore o
quegl’effluvii lasciati dalle fiere dove passano, i quali, penetrando
nell’odorato de’ cani da caccia, destan in essi una grandissima ansietà di
ritrovarlo» (Boerio s. v.); cfr. anche: «cosa che l’usma! El
va usmando dapertutto come i cani» (Muazzo
p. 1087). ● çitti çitti co’
fa tanti gatti: zitti zitti come tanti gatti; modo proverbiale. ● baicoletto: bastoncino; in senso
antifrastico come in molti altri luoghi, cfr. sopra I.5.4. ● tagiar i garétoli: vale “tagliar le
gambe”, come illustrato sopra in II.6.7. ● el gi’ esser: deve essere; forma arcaica, cfr. II.17. ● refarse: riscattarsi, vendicarsi.
● in le pettole: nelle peste,
cfr. II.12.3. ● i me la fa far in
cainello: come sopra, I.2.10: accostato al precedente «pettole» rafforza la
metafora.
[209]
se batte le piere cotte: si passeggia
per la strada, cfr. sopra I.3.2.
[210] ghe tagieria le reccie co sta brittoleta:
gli taglierei le orecchie con questo coltellino; riferito alla solita
“cinquadea”; per “britola”, cfr. Boerio
«piccola arma da taglio, più grande del britoìn, che si chude col manico e
serve per vari usi domestici, specialmente per mondare frutta».
[211] daseno, dassenazo, o dassenonazzo: da
senno, davvero; con la solita variazione per accrescitivi deformativi.
[212] inte le pettole: vedi sopra III.11.5.
[213]
dasenzzo: vedi sopra III.12.12.
[214] zaletto: propriamente significa
“giallastro” (ed è un tipo di pane); qui è usato per dire “tipetto”, in modo
offensivo; cfr. «muso da zaletto», I.3.2. ● conzaossi: «chirurgo o simile che unisce e riaggiusta le ossa
rotte» (Boerio). ● far el bell’umor: fare l’irriverente, lo sfrontato, cfr. I.3.8.
[215] varìo: guarito. ● gh’ho un puoco più d’animo: Pantalone
non si sente tranquillo se ha solo Mezzettino con sé; ritorna la sua
pusillanimità che vede il coraggio crescere in proporzione al numero dei
soldati in sua difesa.
[216] strapazzào: strapazzato, maltrattato.
[217]
sior licapiatti: si dice per scherno
di persona da poco, parassita; si veda Muazzo,
p. 619: «liccapiatti zé quello che dopo aver magnà el li licca anca,
ovvero el li netta colla mollena de pan, perché el sguattero non fassa fadiga a
lavarli»; e ancora: «[…] liccapiatti se giama el sottocogo e lo sguattero e
anca quei affamai che nelle tolle no ghe basta magnar quel che i gà sul piatto,
che anca i lo licca e i ghe sparagna la fadiga in cusina a lavarlo» (p. 647, s. v. “liccar”). ● scondariole: nascondino (gioco
fanciullesco). ● ve voltarò le
ganasse co sto curadenti: vi agiterò il coltello in bocca; alla lettera “vi
rivolterò le guance con questo stuzzicadenti”, espressione cruenta come
«voltarghe la panza da drìo» in I.5.22. ganasse:
guance, mascelle. curadenti:
«dentelliere; stuzzicadenti; stecco, sottile e piccolo fuscello, con cui si
cava il cibo e la poltiglia rimasta fra’ denti» (Boerio); per l’analogia terminologica tra bastone e arma da
taglio cfr. già I.6.13. ● me spuzzé
da morto: siete talmente in stato di pericolo che già avete l’odore della
morte. Pantalone assume pienamente il carattere di bullo soltanto quando ha
assicurata la copertura dai suoi uomini, cfr. I.7.4; il suo essere minaccioso e
spavaldo caratterizza la tipica situazione da Miles gloriosus, per cui cfr. II.12.
[218] Pàrtiti di repente: vattene subito.
● ti calcherò la schena: ti
colpirò; l’espressione richiama quanto descritto in I.3.8, dove seppur nel
carattere gergale, ritorna l’idea di calcare per “picchiare”, “prendere a
legnate”.
[219]
commàndela gniente in calle Dolera:
evidentemente locuzione popolare, non altrimenti attestata, in cui “dolera” è
inteso come “triste e malinconica”. Si riferisce a una calle omonima, poi
trasformata in Era, a S. Apollinare: «queste strade, soggette anticamente, al
pari d’adesso, alla parrocchia di S. Silvestro, non devono chiamarsi dell’Era
ma Dolera, come negli Estimi. Una famiglia Dolera abitava in parrocchia di S.
Silvestro anche nella seconda metà del secolo passato, e ne può far prova la
seguente annotazione dei Necrologi Sanitarii: 24 ottobre 1765. M. Paolina di
Cristoforo Dolera di g.ni 8 da sp. mo L. Bosello - S. Silvestro. Probabilmente
la famiglia medesima diede il nome alla poco distante Calle Dolera atorno el
Brusà, malamente oggidì chiamata Dolena». (Tassini,
s. v. “Era”). ● Servitor acutissimo: questa battuta ha
dei toni furbeschi ma servili: Pantalone finge di assecondare Celio, forse
anche per timore del grosso bastone ch’egli tiene in mano, per poi mutare
atteggiamento nella scena successiva.
[220] brusa-pagiarizzi: composto nominale,
“pagiarizzo”, “materasso”, e più propriamente «il sacco che involge la paglia
del letto» (Boerio s. v.). “Brusàr el pagión” in senso
traslato significa «marinare la paga o la mancia, dicesi così di quello che non
paga una mercede, o non dà la mancia o simile a chi s’è affaticato o è in
diritto o in uso di esigerla; e si dice per lo più in mala parte» (Boerio, s. v. “pagión”). All’uso provocatorio e ironico della battuta fa
seguito la caparra di Pantalone che ripete il gesto della sfida del colpo di
cappello ad un nobile, prima in testa e ora nel volto, cfr. sopra III.5.16,
anche per l’espressione “zirandonarve”, che qui si desume ripresa dal
ritornello di una canzonetta («zirandonarve ben ben ben, mai fa dì»); per
l’abbondanza di citazioni prese da motivi in voga cfr. sopra III.5.20, I.3.30,
II.2.1, III.15.1.
[221] sbrissào: scivolato.
[222] trenta contra uno: cfr. sopra II.6.15.
[223]
toccan il porto: arrivano a
destinazione, raggiungono lo scopo.
[224] in sto tant: nel frattempo.
[225] che ora zé gente: probabile battuta
diretta alla platea; sembrerebbe una conferma esplicita del cambio della scena
per il notturno. ● otto ore: da
intendersi come otto ore dopo il tramonto, a partire dal suono dell’Ave Maria.
● i m’ha ditto i sonaóri:
Pantalone ha ingaggiato i suonatori per una serenata; anche questa frase sembra
avere una profondità metateatrale, che si riferisce alla presenza degli
orchestrali in teatro durante la rappresentazione, cfr. sopra II.13.1. ● vogio cantar intanto una ottava: altro
numero di stereotipo riempimento che ribadisce la nutrita farcitura di parti
musicali in questo genere di repertorio. ● battaór: arnese applicato ad una porta per battere. ● Subito che mangiò di Lot il figlio … di se
stesso si scorda e degli amici: la canzone intonata da Pantalone sembra
essere ispirata al libro nono dell’Odissea, quando Ulisse e i suoi approdano
nella terra dei Lotofagi. ● bisogna
che tioga el mio subiotto: qui inteso proprio come “zufolo” (cfr. sopra
altro impiego in I.3.5); i contesti diversi realizzano il significato e
probabilmente Pantalone usa uno zufolo, o un fischietto, per emettere un
segnale di riconoscimento per farsi aprire la porta, non riuscendo a bussare.
[226] orco: dopo il babào (III.21.5) Pantalone nomina un’altra figura nera
dell’immaginario infantile e popolare.
[227] La scena dei
colpi vibrati da Cinzio nell’oscurità ha un capostipite illustre, ripreso per
chissà quali vie di tradizione: il quinto atto della Moschetta di Ruzante.
[228]
all’usmo: cfr. sopra III.11.5.
● L’apparizione del fornaio è molto efficace per incrementare la
connotazione notturna della scena, dato che è assai verosimile che un fornaio
si muova di notte per recarsi al lavoro con le canne accese: si tratta di una
specie di canna «che nasce spontaneamente nelle acque paludose, e si adopra a
varii usi ed anche per far fuoco ne’ forni» (Boerio,
s. v. “canèla”). ● una pistolesata sul concollo: un colpo
di pugnale sul concollo, «quella tavola su cui si fa o si porta il pane a
cuocere» (Boerio s. v.). Dal buio che regna dalla scena
ventesima, in cui Pantalone ha creduto di vedere addirittura l’orco o il babào,
arriva un passaggio di luce che riporta la scena alla concretezza della vita
quotidiana cittadina, cui fa cenno anche Carlo Goldoni nell’introduzione a Le massere, dove indica come «cosa
specialissima del paese» che i fornai siano soliti passare per la città
avvisando con un fischio (qui fischiando in didascalia) circa l’ora di
infornare il pane nelle case. ● tutti
i va a torno: tutti vanno a spasso. ● i la fasse: forma arcaica per fesse, “facessero”. ● no i sa in che robba che i se incontra:
locuzione, “non sanno in che razza di persone si imbattono”. ● La scena
finisce con l’annuncio dell’alba, da parte di Pantalone; sembra dunque di poter
dedurre, anche per il canto del gallo iniziale, che il cenno alle otto ore
appartenga alla errata percezione del tempo da parte di Pantalone e dunque
tutta la sequenza notturna, come pure indicherebbe il passaggio del “forner”,
si collochi sul far dell’alba. La didascalia diventa notte (III.20.did) è
dunque più un riferimento al (relativo) effetto notte da farsi sulla scena, che
a una discesa del buio da percepire in funzione realistica, e il tempo
effettivo della notte è condensato in queste poche scene.
[229]
diverse altre donne in camiscia:
alcune altre donne in tenuta da notte.
[230] nura: nuora.
[231] ostaria dei tre palli: in senso traslato
vale “luogo dell’impiccagione”. ● i
m’ha fatto una barca: mi hanno gabbato; cfr. l’espressione “far una barca”
o “una barca in cao” (in Boerio, s. v. “barca”). ● mugier: moglie.
[232] Post nubila Phoebus: modo proverbiale
riportato anche da Muazzo, p. 775,
che ne da la seguente interpretazione: «cioè che dopo el mal vien anca el ben e
dopo el cattivo tempo risplende el bon, el sereno».
[233]
Mezzettino, che riporta qui come cognome il nome parlante Boccal (propriamente
“boccale da vino in terracotta”, usato evidentemente per sottolineare la
propensione per la vita da osteria), ricostruisce la sua storia e si presenta
come personaggio dai natali tradizionalmente comici; per la madre, Madona
Simona, cfr. II.18.1; il cognome Salterelli, può esser inteso nel senso della
“serratura della porta” (cfr. II.9.23), forse con intento osceno; oppure come
vicina al significato di “saltimbanco”: in questo caso entrambi i genitori di
Mezzettino sarebbero personaggi da commedia, considerando che il padre è
Trufaldin, una maschera della tradizione, servo bergamasco, goffo e buffone
(per cui cfr. anche la nota alla battuta III.10.3). ● sfirizimante: probabilmente da
“sfrisar”, “sfregiare”, in segno di umiliazione. ● alle scarpe ... no no, alle siole: Mezzettino cerca di ingrandire
la portata del suo atto di contrizione nei confronti del padrone. ● a farghe una sonadina: a farle la corte;
pesantemente osceno. ● quel cieco
Cupidino, ragazino, fantolino, picciolino, tirindino: la serie di rime può
far pensare ad una delle tante canzonette presenti nel testo. ● Neseca filosofro: storpiatura del nome
del filosofo latino Seneca, come è nello stile del personaggio. ● Oh, oh, oh, oh, quam dulcis, quam suavis:
la citazione sembra provenire da un brano della liturgia che non ha niente a
che vedere con Seneca. Il livello della battuta sale al punto di sfiorare il
sacro, per poi precipitare di nuovo nell’ordinario del servo idiota con la
chiusura comica «a’ no me ricord più», che potrebbe anche intendersi come
esplicita dichiarazione di incapacità a proseguire la recitazione (nonostante i
natali illustri per il mondo della commedia sopra dichiarati).
[234] tutti
questi siori: formula tipica da congedo, rivolta al pubblico; fino a Il servitore di due padroni goldoniano,
in cui la chiusa spetta a Truffaldino: «tutti sti siori me perdonerà».