Francesco Fulvio Frugoni

 

 

L’epulone

 

a cura di Giordano Rodda

 

 

 

 

Biblioteca Pregoldoniana

 

 

lineadacqua edizioni

 

2022

 

 

 

Francesco Fulvio Frugoni

L’epulone

a cura di Giordano Rodda

 

© 2022 Giordano Rodda

© 2022 lineadacqua edizioni

 

Biblioteca Pregoldoniana, nº 35

Collana diretta da Javier Gutiérrez Carou

Supervisore per i dialetti: Piermario Vescovo

Comitato scientifico: Beatrice Alfonzetti, Francesco Cotticelli, Andrea Fabiano, Javier Gutiérrez Carou, Simona Morando, Marzia Pieri, Anna Scannapieco e Piermario Vescovo

www.usc.gal/goldoni

javier.gutierrez.carou@usc.gal

Venezia - Santiago de Compostela

 

lineadacqua edizioni

san marco 3717/d

30124 Venezia

www.lineadacqua.com

 

ISBN dell’edizione completa: 9788832066753

 

La presente edizione è risultato dalle attività svolte nell’ambito dei progetti di ricerca Archivio del teatro pregoldoniano (FFI2011-23663), Archivio del teatro pregoldoniano II: banca dati e biblioteca pregoldoniana (FFI2014-53872-P) e Archivio del teatro pregoldoniano III: biblioteca pregoldoniana, banca dati e archivio musicale (PGC2018-097031-B-I00) finanziati dal Ministerio de Ciencia e Innovación spagnolo e dal FEDER. Lettura, stampa e citazione (indicando nome della curatrice, titolo e sito web) con finalità scientifiche sono permesse gratuitamente. È vietato qualsiasi utilizzo o riproduzione del testo a scopo commerciale (o con qualsiasi altra finalità differente dalla ricerca e dalla diffusione culturale) senza l’esplicita autorizzazione del curatore e del direttore della collana.

 

 

 

 

Biblioteca Pregoldoniana, nº 35

 

 

 

Nota al testo

Malgrado Frugoni nell’elenco delle proprie opere in appendice al Cane di Diogene faccia riferimento a una ristampa ginevrina,[1] non si rintracciano (oltre al manoscritto) altre edizioni dell’Epulone oltre alla princeps impressa a Venezia nel 1675 presso i Combi-La Noù[2]. Il testo era stato concepito già sulla fine degli anni Sessanta ad Aix e, per la parte delle prose critiche, a Piacenza. L’ed. Venezia 1675 costituisce dunque il testo sulla quale la presente edizione è condotta:

L’EPULONE | OPERA MELO-DRAMATICA | ESPOSTA, | CON LE PROSE MORALI-CRITICHE,| DAL P. | FRANCESCO FULVIO FRUGONI | MINIMO, | LETTOR, THEOLOGO, PREDICATORE, CONSULTOR, | E QUALIFICATORE DEL S. OFFICIO &c. | ADHUC GEMIT ILLE SUB AURO. | VENETIA, MDCLXXV | PRESSO COMBI, & LA NOÙ | CON LICENZIA DE’ SUPERIORI, E PRIVILEGIO.

 

Il volume, in quarto, presenta un’antiporta disegnata dal peintre-graveur Valentin Lefèvre e incisa dalla monaca Isabella Piccini, abilissima maestra di bulino,[3] che rappresenta un ritratto di Battista Nani con il motto «opposita iuxta se posita» portato in trionfo da angeli guerrieri, mentre un demonio con coda di serpente è incatenato a una roccia con la scritta «L’epulone»; tre cartigli mostrano la scritta «nihil est in Nanis inane», «merces gloria» e, tenuta nel becco da un cigno, animale araldico dei Nani, il motto «contraria contrariis». Il frontespizio presenta anche una marca non identificata, «La Minerva». È infine presente un ritratto di Frugoni a b8v, firmato «Lazaronus» (forse Giovanni Battista Lazaroni), con le scritte «vera effigies patris Francisci Fulvii Frugoni, ordinis Minorum; civis aetas annorum lux in tenebris, et imago viva in umbra mor[tis]»; un cartiglio sopra il ritratto riporta il motto ovidiano (dai Tristia, 1, 1) «Me mare, me venti» e un altro sotto, dal primo libro dell’Eneide (vv. 208-209), «Curis ingentibus aeger spem vultu simulat».

I versi dell’Epulone sono astrofici e si nota fin da subito una spiccata polimetria, tipica della più barocca versificazione frugoniana: si alternano nella stessa scena quaternari, quinari, senari, settenari, novenari ed endecasillabi variamente rimati, più monosillabi e bisillabi soprattutto (ma non esclusivamente) nell’‘eco’ nell’ottava scena del secondo atto. Si nota la consueta predilezione canzonettistica per i versi parisillabi o comunque brevi per i ‘ridicoli’ e per gli amorosi – anche col ricorso a endecasillabi sdruccioli; Farfalla, su tutti, è maestro dell’uso contemporaneo di più metri – laddove soprattutto per le solenni battute di Lazaro, ma anche per diversi soliloqui di altri personaggi come Elcana, Pellandra e Nineuse, Frugoni ricorre in prevalenza a endecasillabi e settenari. È inoltre piuttosto diffusa anche la pratica dell’utilizzo onomatopeico della stessa sillaba all’interno di un verso regolare (es. il «To’ to’, to’ to’, to’ to’, to’ to’, to’ to’» di Ghiotto in III.2.30). La spiccata polimetria, non limitata alle arie ma anche all’interno dei recitativi, rende difficile l’individuazione di eventuali endecasillabi e settenari ‘spezzati’, come accade invece per il melodramma riformato post-zeniano e metastasiano; si sono indicati con scansione a scala soprattutto quelli derivati da rapidi botta e risposta in versi brevi, all’interno di zone del recitativo che appaiono altrimenti regolari.

Riguardo al rispetto della precettistica teatrale, soprattutto nei confronti del commento alla Poetica di Antonio Riccoboni, vera autorità nelle prose frugoniane, lo stesso autore si esprime a lungo nel Discorso critico. Il prologo «ha [...] virtualmente in sé racchiusa tutta l’orditura dell’opera, a cui dispone l’aspettativa degli ascoltanti»; la divisione in cinque atti è fatta «non solo per seguir lo stil commune (benché vi siano state divisione di tre, né so come) ma per aderir’anche ai documenti del Riccobono» (DC 190). A proposito dei cori e dei balletti allusivi: «Tre volte introduco il coro nell’Epulone, due volte anche accordando il salto al metro dell’armonia; moralmente nello scherzo correggendo il vizio, e deridendo il vizioso, per contribuire con tutt’i numeri allo scopo del drama. Pur’ho introdotto i balletti, misteriosamente allusivi» (DC 190). I cori propri in realtà sono due, nell’atto quinto (quello dei pescatori e quello dei cuochi), ma Frugoni evidentemente conta anche quello dei “ridicoli” nella seconda scena del primo atto. L’autore rivendica anche di avere «in parte osservati» «l’exodo, lo stasimo e ’l parodo, poco praticato oggidì» (DC 191), di non aver mostrato le morti di Lazaro, Pellandra, Zambra e Nineuse se non «nel recondito del proscenio» (DC 192), pur esibendone i cadaveri (con l’eccezione di Lazaro). Va infine ricordata la grande ricchezza di luoghi scenici, che comprendono l’atrio del palazzo di Nineuse, il relativo giardino, le stanze di Zambra, il palazzo in prospettiva, le gallerie, un boschetto, la prigione, il torrente con dirupi dove muore Lazaro, l’anfiteatro, il casino di caccia con tanto di giardino e fontane, il bosco degli inseguimenti tra gli amorosi, il carcere, il cortile, il serraglio per le fiere nell’ultimo supplizio di Zambra, lo stagno dove questa si getta e, a conclusione, l’Inferno e il Limbo a rappresentare le due destinazioni finali di Nineuse e Lazaro.

Per quanto riguarda i criteri di trascrizione ho seguito le Norme filologiche generali previste dall’Edizione Nazionale di Carlo Gozzi.

 

 

 

Francesco Fulvio Frugoni

L’epulone

 

All’Eccellenza Illustrissima del Signor Cavalier Battista Nani,[4] Procurator di San Marco e Senatore insigne della Serenissima Repubblica Veneta

 

L’autore, osservantissimo e riverentissimo servo.

 

Quando posi la mano alla struttura di questa mia opera laboriosissima, ebbi l’intento di renderla più ricca e più superba nella dedicazione che nel titolo. Scelsi perciò a primo lume, tra tanti miei padroni della grandezza primiera, il personaggio cotanto cospicuo di Vostra Eccellenza, per farne un contraposto diametrale al mio epulone, acciocché maggiormente sul paragone di tanta luce ne spiccasser le ombre.

            In effetti non poteva il mio disegno riuscir più giusto, perciocché tutto il mondo sa dalla Fama (non mai così veritiera, che nel colmar la sua tromba delle glorie incontaminate dell’Eccellenza Vostra) che in essa risplendono con la piena della fulgidezza più limpida tutte quelle virtù che fanno mirabile contrappunto agli enormi vizi ch’io negli esecrati costumi dell’epulone ho descritti. Altro non ha egli con Vostra Eccellenza di analogico (però tutto equivoco) che l’induebatur purpura, et bisso[5]. Veste pure il gran cavalier Battista Nani la porpora, ma non già di quella grana dello scelerato Nineuse, così macchiata dagli appetiti scolanti del senso. Non ha Tiro, non ha Sidonia ostro[6] così purgato come quello che la virtù di Vostra Eccellenza raffinò col merito più degno del suo suggetto, per ogni circostanza sublime. Non ha Elide, non ha Giudea, bisso[7] così fino, così albeggiante che pareggi la trasparenza e ’l candore di quegli abiti interni, onde l’Eccellenza Vostra tanto si adorna.

            La famosissima sua famiglia, che con antifrasi nobilissima spiega la sua augusta grandezza in un termine di picciolezza misteriosa, ritiene così l’indole della magnificenza romana, come l’origine antica dalla Mezia, che derivò dai Sabini, dal vigor de’ quali ebbe Roma, con l’accrescimento il suo primo lustro.[8] Quindi non è stupore che i Nani sien così nella clamide, come nella toga, giganti di valor e di sofferenza, conciossiaché agere, et pati fortia Romanum est.[9] Per questo anche la non mai a bastanza lodata Republica Veneta, che della romana incenerita si può chiamar fenice, risorta nell’acque per non mai andar in cenere, s’ingrandisce con la prosapia così celebre di Vostra Eccellenza di modo che ne forma un de’ suoi trofei più fastosi.

            Ma non men della Landi,[10] eroica per tante concorenze, da cui l’Eccellenza Vostra deriva il suo non men preclaro sangue materno. Ella diramata dal pedale sovrano dei Serenissimi Duchi di Vittembergh, nell’invitto Adelberto in tempo che ’l re Pipino aveva l’Italia invasa,[11] ad accreditarsi palma ferace, ripullulò con alligno fecondo nel salso delle lagune adriatiche per multiplicare a Venezia i trionfi.

            Non parlerò delle alianze dell’una e dell’altra, che stendono i lor rami d’oro ad intrecciarsi coi lauri più verdeggianti che fan ombra deliziosa all’aristocrazia, sotto cotesto maestosissimo cielo regalmente adagiata e politicamente sicura. Questo sarebbe l’assunto di un gran volume, non di angusto volo di penna; tanto più che la mia si ristringe ad aver solo per iscopo l’elogio non mendicato e perciò dovizioso di Vostra Eccellenza la cui vita sì eroica mi fornisce di memorie sì belle, che non faticherà la facondia nell’adornarle, perciocché portano seco l’abbigliamento con la notizia. Basta il narrarle senz’artificio che saran credute con la verità, perché accreditate dall’evidenza; onde son così ampie, che sarebbero sempre d’ogni amplificazione maggiori.

            Ma che sto io anelando a promulgar ciò che tanto è palese? Non v’essendo angolo del mondo a cui non abbia eccitati gli echi sonori del nome genialissimo di Battista Nani l’alto rimbombo. Roma il sa, che ’l vide con ciglio attonito in sembiante d’un Alcibiade, per la venustà dell’aspetto, spirare[12] un Socrate, per la sublimità della saggezza. Quivi nell’età sua verde, tutta florida per l’eloquenza, tutta fruttifera per lo sapere, fe’ col suo degno padre, ambasciadore al gran pontefice Urbano VIII, residenza così notabile,[13] che coll’essere segnalato dall’osservazione, passata in osservanza, verificò l’aforismo di Persio: pulcrum est digito monstrari, et dicier hic est.[14] Il popolo del Tebro,[15] avvezzo a non maravigliarsi per l’assiduità delle maraviglie, stupì vedendo in un giovinetto così acerbo un senno così maturo. Nella malatia del genitore[16] supplì con tanto spirito l’obligazione, così onorata come onerosa, di esso, che non meglio sostenne l’incarco dell’orbe Alcide al deliquio di Atlante.[17] Atlante non favoloso fu Giovanni Nani, procurator di San Marco, a cui, per la pietà singolare, convien il titolo di Colonna del Cielo, con cui da Erodoto fu appellato quel monte mauritano che sembra regger l’Olimpo.[18] Che se (come rimarca il Fungero) per metathesin, et inversionem, Atlas de quovis homine supra modum laborioso dici potest: ut literariorum laborum, bellicorum negotiorum, politicarum rerum Atlas:[19] questi son tutti caratteri così propri di Giovanni Nani, che per dichiararsene legitimo posseditore gli lasciò tutti a Battista Nani suo figlio, non degenere da genitor sì qualificato. Niente meno da Marina Landi, sua incomparabile genitrice, che fu specchio di pudicizia, ma specchio di diamante per la sodezza con cui emendò la fragilità del suo sesso: e per lo chiaro con cui fe’ spiccare lo fulgore del suo spirito. Marina tutta e sempre calma, per la tranquillità dell’animo inalterabile, di cui fu Zeffiro soave un genio mansuetissimo. Casta Venere, formata del sale d’una providentissima assennatezza; da cui nacque Battista Nani, amore deliziosissimo dell’umano genere. Amore che non vibra parola senza far piaga, ma sanatrice, negli affetti a lui resi: ognor intento con l’arco teso del suo intelletto infrangibile ad imbroccar l’utile della sua gran republica, per cui si fe’ celebrare, a tante sperienze, infallibile arciere, facendo colpi da maestro con accorta non meno che attenta disinvoltura.

            Dicanlo per me, che meglio il diranno le sue splendidissime ambascerie, portate da esso con tal decoro che gareggiò con la lingua la mano in abbondare l’oro profuso: questa nel dispendio ostentoso: quella nella dicitura eloquente. Rappresentò sulla Senna, per lo spazio di un lustro,[20] il suo principe, in lui non meno compendiato per lo ministero ch’espresso al vivo nella maestà; e si fe’ sentire armoneggiare cigno[21] tra i Galli; così ben gli viene il gentilizio significato del suo candido stemma, che non meno alla voce che all’innocenza egli è cigno così dolce come albeggiante. Quivi promosse con energia industriosissima, in cimenti così malagevoli che richiedono un capo di bronzo ed un’aurea destra, i vantaggi della republica, così riconoscente del di lui merito, come affidata alla di lui destrezza. Il rinomato cardinal Mazzarino, che fu l’Ercole italico della sicambra[22] politica e con la sua mazza clavata fe’ tante forze di capo, ebbe che apprendere nei frequenti e ferventi congressi di questo veneto Teseo, il quale portò sempre alla mano il filo, somministratogli dalla sua Arianna Prudenza, per uscire dai laberinti più vilupposi e fiaccare col peso del pronto consiglio il minotauro biforme dell’Ambiguità irresoluta. Procurò aiuti rilevanti, e prima e poi, dalla regia munificenza per lo sussidio di Candia;[23] né fu strano che per così giusta cagione lasciasse muoversi dalle suasorie di così efficace oratore Luigi XIV, per esser naturale che il giglio alle rose si pieghi: tali furono sempre di questo nettareo Nestore le labbra faconde.

            Pullularono vivacissime nell’ambasciata di Germania,[24] e tra quelle nevi alpine s’avvigorì l’ardore sempre più intenso, con antiperistasi[25] saggia, di così grand’uomo; che le fe’ arrossir colla sua candidezza: dileguar con la sua fiamma. L’attività di esso non fu mai minore dell’ingenuità del medesimo. Ferdinando Terzo innamorò della gentilezza erudita, della manierosa intelligenza di ministro così savio, così provetto. Quel Giove dell’aquilonare[26] Settentrione, mai più non sembrò meglio un Giove maestoso che quando ebbe appreso un’aquila così perspicace, che tutta con l’anima nella pupilla (se pur non coll’anima tutta pupilla) fissò così da vicino l’occhio, non mai palpitante, nella sfera dell’austriaco Sole, senza incenerire le penne. Tramontato questo, risorse in Leopoldo,[27] l’imperante Cesare, allor re d’Ungheria e di Boemia; né si dismesse l’aquilina mente del Nani dal contemplar dell’uno, rediviva nell’altro la luce, famigliarizzando con questa, eziandio tra i folgori dello Sueco,[28] assalitore del Polacco e del Dano: come suol appunto l’aquila a sol rinato rinvigorita e tra ’l fragore dei fulmini scherzare imperterrita. Quanto contribuisse col suo acume, in quelle così ardue come tenebrose emergenze, al respiro di Europa (come avea fatto in Francia alla pace di Munster),[29] il protesterà l’Alemagna cattolica, nemica giurata dei Protestanti rubelli, a risolvere i nembi de’ quali molto conferì questo zeffiro consigliero, sempre spirante all’abbonacciamento del Cristianesimo ed al soccorso di Creta fluttuante, qual Ciclade,[30] tra le mussulmane tempeste.

            Colmata con applauso universale quella sua decorosissima ed opportunissima residenza, ritornò alla patria, da lui più volte sollevata, carco d’allori; ma quivi non ristette disimpegnato, perché troppo prezioso. Appena giuntovi fu prefisso per imbasciador in Roma al Settimo Alessandro,[31] accioché si proporzionasser questi due grandi che tanto avean del Magno; l’uno in isciorre i Gordi[32] dalle colpe letali ad una croce di mano, e l’altro in recidere ad un taglio di lingua quelli degl’intrighi politici; ma il Vaticano tanta fortuna non ebbe di rivedere quello del quale avea concepute così fauste speranze: tutto consacrato, anzi sacrificato, all’amor della patria, per essa non ebbe mai, né ha presentemente alcun riposo, oracolo dell’eccelso Collegio,[33] sibilla del gran Consiglio,[34] anima del magistrato più dotto e perciò riformator sensatissimo dello Studio di Padova:[35] sempre in moto, qual angelo, che coll’operazione è in luogo:[36] senza quiete, come il Sole, che nella circolazione ha il suo centro; e se ben tra le rose più castificate della porpora reina, sempre dagli stimoli punto del ben oprare, perché le porpore son rose che non si colgono mai, né mai si portano senza spine.

            Fu perciò rispedito in Germania, per render più augusta col suo complimento magnificentissimo l’assunzione di Leopoldo all’imperio.[37] Per rallegrarsi con un’aquila di due capi,[38] e perciò due volte coronata, non potea il leone aligero spedire lione di testa più massiccia ed anche doppia per la fortezza, non mai per la frode, la qual è così propria di quelli che sogliono per la simulazione far da bifronti.

            Senza rilascio passò di Germania in Francia, per accrescere il lume alla face della pace, brandita dal regio imeneo tra la colomba ed il gallo.[39] Intervenne alla conferenza de’ Pirenei, con cui si raggirò sì gran mole, per istabilirla più salda, somministrando con dimostrazione ingegniera gli sistemi più quadranti; e tutto rivolto al profitto del publico, quindi più sempre singolarizzato nel merito, fe’ decretare, con l’interposizione di Mazzarino, a cui si era stretto così nell’amicizia, come nelle consulte, considerabili aiuti per la sussistenza di Candia, attaccata e lacera dai veltri, se non pur dai mastini di quella Diana lunare che sempre va a caccia dei regni altrui.[40]

            Restituito a Venezia trionfò in un Campidoglio di cuori, ed assai presto subentrò Procurator meritevolissimo di San Marco al chiarissimo Leonardo Foscoli,[41] perché il nardo[42] olezzante di tal leon morto venisse a ridondanza ristorato nel mele di questo leone vivo. L’anno 1663 fu eletto dal maggior Consiglio a folla di voti, nell’applauder tumultuosi, Capitan Generale del Mare;[43] ma nel dispensò con impulso non minor la republica, per non azardare nella dilicata complessione di lui mille de’ suoi cittadini in uno che solo vale per mille; compiacendosi più d’averlo per occhio destro, quando non convenisse che le servisse di destra occhiuta.

            Nol poté già risparmiar allora che pacificatasi con l’ottomano, insorsero gli disturbi, eccitati dai turbanti di Mahoma[44] nei perturbati confini della Dalmazia. Quelle scintille avean quasi che riacceso un incendio, già serpeggiante a combustione; onde per ispegnerlo non seppero i Soloni adriatici trovar chi meglio del Nani riuscir potesse opportuno.[45] Tutti poser gli sguardi amoreggianti quest’elezione sopra un così facondo Mercurio, che caduceator ambidestro, parea l’unico risarcitore dell’infranta concordia, così tosto che rassodata. Non rifiutò la svisceratezza ch’egli ha sempre col fatto professata alla sua invitta Republica, un’intrapresa così eterogenea; benché si procurasse quanto mai sapesse di sfuggirla per la sua nativa modestia. Partì con plenipotenza straordinaria, fiancheggiata da un’assistenza guerriera, e nobilitata da un equipaggio sontuosissimo. Cominciò il trattato con Mamut Bassà, già Bassà di Buda, ed allora Caimecan[46] di Costantinopoli; ma l’interruppe la morte di questo, che con differire il concordato poi con Cussain Bassà, cavallerizzo maggiore del sultano, spedito a quest’effetto dalla Porta,[47] ampliò la gloria nel gran commissario Nani di aver terminata così malagevole commissione. Rinoncio agli storici le individuali circostanze di questo successo, grande per più conseguenze: solo soggiungo, quanto prevaglia la virtù anche negli animi più efferati, poiché da essa imparano gl’infedeli a mantenere e a ristabilire l’amicizia e la fede. Il Nani per tanto conciliossi la venerazione, non che l’affetto, di quei barbari, e fe’ veder in pratica all’universo che la Repubblica veneta, non men della Lesbia, abbia il suo Terpandro;[48] ma non men della romana in esso ha il suo Catone Uticense, atteso la di lui provatissima probità e la limpidezza inalterabile, così di petto, come di mano.

            Or qui mi rivolto di nuovo a Vostra Eccellenza con cui non ho proseguito ragionar, tuttoché verace, perché ho temuta la sua modestia, che suol accrescere alla di lui porpora la murice.[49] Ho per mallevador tutto il mondo, il quale sapendo più di quello ch’io non so esprimere, dei fasti, a fasci adunati da Vostra Eccellenza, son certo che mi doverà tacciare di troppo Tacito[50] nel publicare così dimezate le di lei preclarissime prerogative. Ma la mia penna si curva, così per lo peso di esse, come per l’ossequio del mio debito; e perciò mi rimetto nei primieri preambuli di questa obbligata dedicatoria, in cui le presento più un Lazaro che un epulone. Questo le viene strascinato a pie’ dalla virtù che rende il savio trionfatore del vizio ed in risulta d’ogni vizioso: quello si prostra umiliato all’eminenza generosissima del di lei grand’animo e ravvivato dall’afflato spiritosissimo del di lei gran riflesso. Non ha il premio maggior candidato di Vostra Eccellenza, che è tutta candore: non ha il castigo del ricco avaro maggiore confusione della liberalità di Vostra Eccellenza, che tutta è bontà: non ha il ricorso del povero afflitto maggior ricovro di Vostra Eccellenza, che tutto è amorevolezza.

            I letterati, sotto l’ala del di lei cigno argutissimo, le cantano inni di riconoscenza, come al loro Apollo; e divenuti epuloni di Lazari, perché nodriti della di lei grazia, sempre ad essi imbandita, banchettano lautamente in Apolline. Ma qual maggiore epulone de’ libri dell’Eccellenza Vostra, che nel suo gabinetto, in cui, come celibe, s’è sposato tutto a Minerva, divora le più sostanziose notizie, così morali e filosofiche, come politiche. La sua sontuosissima Historia,[51] per cui ha la bella italiana lingua anche il suo Sallustio, allo stile non ai costumi,[52] percioché l’Eccellenza Vostra vive così candidamente come scrive, senz’altra passione che del vero, senz’altro interesse che dell’onesto, è un Panteone dell’immortalità in cui Vostra Eccellenza averà sempre il luogo più rilevato, e per cui viverà il di lei nome all’Eternità gloriosa; siché può dirsi di essa con Marziale:

 

            Ipsa tibi niveo trahet aurea pollice fila.[53]

 

            Quindi è che delle mie fatiche ingegnose altro miglior giudice non ricerco dell’Eccellenza Vostra, in cui le lettere hanno il lor protettore altissimo che non sol le favorisce, ma le alimenta col suo studioso esercizio. Gran fortuna mia l’aver incontrato un così magnanimo Abramo, che mi raccoglie nel suo clementissimo seno[54] e mi erudisce col suo dottissimo senno. Anche imparo da Vostra Eccellenza, esemplarissima idea d’ogni virtuosa operazione, a non attendere altra gloria che la celeste, per cui ella ha sempre affaticato; non facendo stima di ciò che solo si pregia da questo secolo illuso; ma della solidità di quella rettezza che si può dir la misura della vita del giusto. Conchiudo col sensatissimo Felice Minuzio, mentre ammiro in Vostra Eccellenza la massima della certa felicità. Multi totum iter ignorant verae gloriae; fascibus enim, et purpuris gloriari vanus error hominis, et inanis cultus dignitatis fulgere purpura, mente sordescere.[55] Questi sono i caratteri degli epuloni moderni, a’ quali non posso dar in faccia con maggior rimproccio che col vivo esempio di così grande contrario, come il gran cavalier e procuratore Battista Nani: lettere da scrivers’intorno con asterismi di stelle all’Artico ed all’Antartico, per insegnar a ben vivere all’universo.

 

 

 

Sentimenti e risentimenti dell’autore, al lettor discretto e non numerico[56]

Parliamsi un poco insieme, o mio lettore, dopo un anno che non si siam parlati. Promisi di darti l’Epulone ben tosto,[57] non ti maravigliar se ho tardato più che non pensai, atteso che quegli per esser divenuto, a tanto cibo che gli ho imbandito, così corpulento, si è mosso tardi. Ben sai che tutti quelli della sua sfera sono Saturni voraci, che perciò si muovono lentamente.[58] Gli ho empiuto il capo, se non lo stomaco, di sostanziosissimo estratto; dunque non dei stupire s’egli a tanto pelo ch’ha in testa, ha ponderato il suo passo. L’ho caricato di gioie per satollare la sua avarizia, solita a sorbir[59] gli Eritrei.[60] L’ho abbeverato di perle macinate, per estinguere la sua sete, avvezza ad abbeverarsi nei Gangi,[61] ho diramata l’eloquenza in canali d’oro potabile, in rivi d’argento armoniosi, per secondar le sue voglie, che si lasciarono rapire a seconda sempre dai fiumi d’oro e d’argento.

            Ah piacesse al cielo che il Giordano avesse tanti bevitori come il Patolo,[62] e che seccasse il Rio della Plata perché non avrebber le colpe tanta sorgente! Il mio scopo in quest’opera non è diverso da quello di Cristo Redentore, il quale per isvellere i mortali epicurizzanti dal limaccio del vizio proceduto dalle acque dorate delle ricchezze, propose loro l’esempio terribile dell’epulone; sicome per animare i piagati della fortuna, i lacerati dalla povertà, gli afflitti dalla fame, i perseguitati dall’ingiustizia, gli espulsi della politica ed i negletti dall’ingratitudine, espose un Lazaro. Il mondo si divide in Lazari ed epuloni: cioè in predestinati e presciti;[63] troverai dunque in questo libro tutta l’economia della salute. Gli epuloni sogliono coronarsi di rose, i Lazari di spine; che pertanto, e spine, e rose ho qui affasciate per piacere a’ Lazari, desioso di consolarli: per dispiacer agl’epuloni, bramoso di trafiggerli, perché a questo ho preparate le spine, a quelli le rose.

            Stia pure che gli epuloni prendan per essi le rose, delle quali son ghiotti, e lascino le spine ai Lazari, dalle quali questi son cinti: avverrà forse che quelli, adusati ad inghiottir tutto, con dar di morso alle mie rose, diventino, d’asini d’oro che sono, uomini veri. Ma i Lazari si rivolteranno, senza temerle, tra le mie spine, perché avendo la pelle logra dalla lebbra delle disgrazie, non paventeranno più che lor sia lacerata. In effetto questa è un’opera che mi costa tutto il capitale del mio capo; e può essere che sia ben accolta da i ricchi poiché non tratta solo che di tesori. Anche dovrebbe piacere ai poverelli, perché non niego lor le molliche della mensa dell’anima deliziante; ma procuro di sfamarli col pane della verità e colla panatica della speranza. Io son certo che prendendo refezione in questa dispensa moralissima, si rinforzeranno a sostenere i disastri d’una sorte proterva. Benediranno Dio d’esser Lazari e non epuloni, perché si vederanno portati dalle Intelligenze spiritosissime nel seno di Abramo, cioè nel godimento d’aver osservata la legge di natura, e per conseguenza quella di Cristo, e d’avere creduto a Dio, perché sia loro imputata la giustizia di Abramo.

            Circa il componimento poetico, base fondamentale su cui ho innalzata cotanta mole, non dirotti altro, sol che ne ho abbastanza scritto nel Discorso critico intorno alla poesia dramatica. In tutto il rilievo della fabbrica vasta ho fatto prima da Euclide in tirar tante linee che formano tutti gli elementi e i problemi della geometria della salute dell’anima. Ho anche fatto da Vitruvio per edificare con isquadra archetipa e con commodità maestosa una mole così capace che può servire ad ogni genere di genti di agiato albergo. Tutte quasi le discipline liberali han conferito al disegno, contribuito alla struttura; e basta ch’io mi sia sodisfatto più del mio solito, per contentar tutti, anche più del mio solito, in questa operosissima mia fatica. Ti so ben dire che mi lusingo forte nel darla al publico, in cannonizarla per la mia più particolare, tra le tante mie. Vedrai che non ho trasognato, benché in comporla quasi che tutta di notte, perché mi è parso questo il tempo opportuno a trattare di sogni, cioè della vanità di questo secolo, pieno di tante larve, in cui camminan tra l’ombre tante fantasime. L’ho manipolata nei più gelati rigori del verno, tutto concentrato nella solitudine taciturna, tenendo le dieci ore seguite l’inchiostro in vena, svenando il mio ingegno e lambiccandolo al lume della lucerna, la quale, se non è d’Epitteto per lo prezzo, è di Cleante per lo travaglio.[64]  Ti so dire che mi sono sentito scaldar la testa scrivendo tra le nevi più aspre, onde non aspettare da me freddure, secondo la professione del mio stile, nemicissimo di esse, come il mio genio è derisore delle medesime. Sai la raggion dell’antiperistasi, che intus existens prohibet extraneum.[65] Bisogna scriver con fuoco, per incenerire il vizio, accatastato sui cuori, per dileguare il ghiaccio, impetrito negli affetti. Dirotti più: ho scritto con le mani piagate dal freddo, e quasi che stecchite dalla chiragra,[66] la quale soglio patire in quel tempo atroce: forse convenia che così fosse, perché dovea scriver de’ Lazari rubati, de’ quali io son uno, e de’ ladri rapaci, de’ quali fu l’epulone l’archimandritta.

            Il dramatico fu da me quattr’anni sono abbozzato in Provenza, dove per il mio rilascio da mordentissime cure, che mi tennero un anno distratto dallo scrivere, andai nella città di Aix (che per me lo su, e ’l sarà sempre de’ sospiri, poiché vi perdei la mia così saggia, come lacrimata, Minerva,[67] per lusingarne anche il genio armonioso e solleticarne la pietà insigne) componendo il resto, che fu il più, sopra il cominciato da me in Venezia. Tutte le prose sono state da me delineate in Piacenza, dove ridotto dalla mia poca salute, che si va ristorando pigramente, non posso smaltire lo spiacere delle mie perdite, sempre più croniche per una, quanto men provocata, altretanto più proterva fortuna. Ma che fare? Siamo in tempi ne’ quali ha la virtù più martiri che confessori, e basta professarla per esser sospetto a i professori del vizio, che vorrebber impunemente peccare, perciò abboriscono chiunque con la penna e colla lingua; ma ciò che importa più, con la vita e con l’esempio, li vaglia a correggere. Così sogliono i Lazari tanto esser perseguitati e mal veduti dagli epuloni.

            Se poi brami d’intendere, perché dopo la mia Heroina intrepida,[68] io ti dia (più che qualunque altra) quest’altra opera, dirottelo con la mia usata ingenuità geniale. Vedutomi trattar da Lazaro dalla sconoscenza affettata di alcuni, da me obbligati per più conti, mi accinsi a consolarmi a guisa di Lazaro con le lusinghe morali della speranza, la quale non è mai meglio fitta altamente nel cielo che quando è affatto divelta dalla terra.

            Mi sono ben presagito, senza ingannarmi, che sarebbero anche ingrati ed infesti, dopo la sua morte, alla mia eroica principessa, quelli che tanto la disconobbero e l’amareggiarono in vita. Ella che vivendo ebbe così, per la pazienza, del Lazaro, se morta e rediviva nelle mie pagine, a guisa di Lazaro è stata benignissimamente accolta dagli Abrami, come Lazaro dagli epuloni è stata aborrita, perché tacito rimprovero della loro empietà conglobata. In questo solo diversa da Lazaro; che se questi vivente fu lambito da i cani dell’epulone, che furono di esso più umani; ella e viva e morta è stata suggetta (ma sempre più gloriosa) alle zanne livide, ai latrati mastini di certi molossi e doghi, che da me risparmiati con modestia soverchia, invece di sentirmene gradimento, m’han divertita la gratitudine, se non ricercata, dovuta da quegli animi che conoscono le loro obbligazioni; e se non le pagano è solo per le suggestioni artificiose di quelli che tutto affalsano e rinvoltano con la loro zelante malizia.

            Io non ricerco, né attendo premio alcuno da chichesia del mio scrivere e intitolare l’opere mie, perché ho il cuore così generoso per lo sprezzo dell’interesse, come l’ingegno prodigo per l’abbondanza del peculio: ma sol mi lagno d’esser così nelle mie dedicatorie passate di tanti libri riuscito infelice, come fortunato nell’universale accoglimento dei medesimi. Ho intoppato sempre in argini di livore, o di sordidezza, che m’hann’impedita la ricognizione, almeno d’una grata corrispondenza; che per la retribuzione sottrattami, ancorché promessami, non mi turbo punto, sapendo benissimo che Dominus prodigus servus avarus[69] è una massima che concerne alla liberalità de’ principi e alla tenacità dei ministri, quando i ministri sien così tenaci come i principi son liberali.

In proposito della mia eroina singolarmente, un letterato amico mi scrive queste formali parole: Oro non v’è di carato sì fino, e così abbondante, che possa concambiare i caratteri dell’eloquentissima, e fastosissima sua Heroina intrepida, tanto a maraviglia ingioiellata dalla penna di lei, solita per una così nobile prescrizione, a partorire stupori; seben le dirò il mio parer candido, perché confidentemente richiestomi: Vostra Paternità ha detratto non poco alla fama di quella degnissima principessa, scusando le diffalte di quei che l’hann’offesa, e risparmiandone molti, o colla suppressione de’ fatti occorsi, o con la maschera dei nomi finti ecc. Ho ricevute più di cinquanta lettere da personaggi primari circa quest’opera, e forse te le farò gustare in una raccolta, con molte scritte da uomini insigni; a diversi tempi e rincontri, per attossicare col lor inchiostro l’invidia e confondere la protervia. Uno, tra gli altri, autorevolmente mi rampogna d’essere stato soverchio prodigalizzator degli elogii (questi sono gli espressi termini) trattando talvolta di alcuni, che altro di lode non hanno, che l’essere, dall’ingrandimento di tanta dicitura lodati. Gli risposi che il rossore non è proprio dell’inchiostro, ma che io l’ho lasciato tutto al lor demerito, perché si vergognino di non esser quelli che gli ho studiosamente effigiati. Questo è lo stile di correggere uno, quando non gli si può dire, senza turbarlo, quello ch’egli è; onde gli si fa ricordare quale dovrebb’essere. Confesso invero d’aver ecceduto in esaltare alcuni, che per quanto s’inalzino, tanto maggiormente si scorgono immeritevoli; ma bisogna condonare questo eccesso al mio genio, che non sa esser moderato nella passione di mostrar la sua gratitudine, o di aderire all’altrui compiacenza quando si tratta di obbligare; a segno che si lascia dalle suggestioni degli amici prevertire.[70] Per corollario di questa piccola apologia, io son intrepido quanto la mia eroina in non fare alcuna stima delle nottole che l’abbian potuta insultare col lor guarire, poiché tanti cigni l’hanno festeggiata colla loro armonia: e pur le nottole dovrian esser ossequiose a Minerva, ma la mia per avere soverchia luce le abbaglia e se le fa cadere alla fimbria[71] sbalordite. Prese al balzo il senso di tal concetto il mio dolcissimo ed ingegnosissimo Padre Maestro Giovan Benedetto Perazzi, quando nella seconda parte de’ suoi acutissimi distici, tra gli altri, onde mi ha favorito, m’inscrisse il seguente:

 

            Intrepida ut variis stat casibus heroina,

            sic in Aristharcos ore Minerva tuo.[72]

 

            Ma consentiam a’ gufi ed a’ corbi lo sfogo, dovuto alla lor natura maligna, e rimettiam a’ più opportuna occasione i risentimenti delle mie vendette pacifiche: io ti priego, lettor mio discreto, poiché de’ numerici non mi curo, a continuarmi la tua virtuosa relazione: intanto procuro di meritarmela con nuovi fondamenti. Altro da te non pretendo che un occhio limpido e perciò non appanato da quelle cateratte che soglion cadere da un capo debole, o vaporoso. Voglio informarti che non mi stanco di applicare a piacerti, poiché tanto mi rinforzi a scriverti. Ma mi troncano l’ale i disastri, non fati ancora, e non mi sollievano gli astri non per anco benevoli. Quelli che dovrian darmi lena, mi supprimono il volo, e tra le vicissitudini della mortalità mi deprimono, apprendendo che la mia gloria tutta in ignominia lor risultai; e pur Iddio è testimonio del mio innocente e latteo procedere. Ma che? Gli aspidi anche al latte s’avventano, e l’innocenza ha più persecutori che la colpa.

            Or che ho finito l’Epulone, m’accingo a metter mano al proseguimento del Cane di Diogene,[73] tanto ricercatomi dalla curiosità universale, che ormai è degenerata in molestia importuna. Voglio contentare per questo l’ardore delle altrui speranze colla liberazione della mia fede: sicome nello stesso tempo (instatone[74] da più parti) rinoverò la mia Vergine Parigina e la renderò fenice:[75] anche nel rinascere, dopo tante impressioni, più molto bella e leggiadra. Ti prometto ancora La tomba aperta a tutti,[76] ch’io mio prefiggo per esercizio della mia sepolta divozione, affin di meditar la mia morte, che non mi assalirà mai d’improviso, poiché me la vanno ricordando tutte le larve di questo secolo. Che dirai? Che ti prometto quando non posso promettermi di attendere? Sono in procinto di qualche crisi, quindi non sapendo ciò che possa accadermi, o di qualche lungo viaggio che mi divida per sempre dall’Italia, o di qualche grave malatia che mi congiunga per sempre, come spero, al mio Dio: in ogni maniera che occorra ciò che il Cielo ha di me prescritto, viverò, e morrò, per tutto. Sempre tuo genialissimo servitore. La Providenza ti feliciti.

 

 

 

Agli ignoranti critici

Alcuni cavalieri di primo pelo e bizzarri d’invenzioni, per divertirsi nel contado in cui solean radunarsi a villeggiare l’autunno, ferono apprestare un sontuosissimo convito, con tutta la squisitezza delle vivande manierosamente manipolato; indi posero a mensa una dozzina di que’ villani più zotici ed agresti che rivenir sapessero in quel distretto rurale. Stupirono a prima fronte que’ ruvidi omaccioni, così all’abbaglio dell’argenteo vasellame, come all’olezzo della dilicatissima imbanditura. Provocati lunsighieramente a cibarsi stesero le tremoli destre ad attingere vergognosi una lieve forcellata da que’ regalatissimi piatti, ed appena ebbero sulle fauci ’l boccone, che ne sentirono stupidito il palato, non potendo soffrire il piccante delle droghe, né il dolce de i condimenti. Miravansi l’un l’altro, sospesi più che l’asino di Buridano tra i biondi solchi della biada abbondante, né osavano proseguire, ancorché animati dagli astanti cavalierotti, che ne soghignavano attenti, quand’uno di essi rivolto a quegocciolioni gl’interpellò perché non magnassero, e sentissi rispondere che quei non erano cibi da tali stomachi, usati a cipolle, e rape. Siché bisognò provederli di confacente cicoria, verificandosi ’l proverbio che similes amant labra lactucas.[77] Questo fatto vo’ che mi vaglia per rispondere a quelli che non altro van criticando nelle mie opere, che la ridondanza de’ sali e la ripienezza della sostanza. Io per lor aviso, non imbandisco la mia tavola, come suol dirsi, con la lesina in punta,[78] né a gente grossa, ma bensì a chi abbia stomaco digestivo da quintessenze ed alle gole che sono così ghiotte come quella di Cleopatra, la quale in un sorso inghiottì a mensa con Marcantonio, mezo il valsente di tutto un Gange.[79] Quando in un componimento v’è assai di che nutrir l’intelletto, se questo è debole di calore a concuocerlo, non è colpa se non di chi non lo può smaltire. Professo io nello scrivere, perché scrivo a chiunque intenda e capisca anche più di quello che scrivo, di seccare con l’attico sale il tumore affiatico per cui tanti libri hanno più della milza che del cuore, in cui ogni picciola fibra ha il suo movimento vivace. Quando l’estensivo non escluda l’intensivo, come vediamo nella luce meridionale del Sole non si può dire che ne ridondino i raggi. Ogni mia linea perciò porta seco qualche riflesso; che se poi le nottole se ne offendono, tal sia di loro che non han tanto lume per sopportarlo. Ma gli asini (secondo Pausania) col dar di morso alle viti, le resero più feraci;[80] ed i mastini, col mordere le murici, ferono schizzarne le porpore. Conchiudo con Marziale, avend’anch’io i miei Cosconi:

 

            Non sunt lunga quibus nihili est quod demere possis,

            sed tu Cosconi distica lunga facis.[81]

 

 

 

Agli epuloni dei libri

A voi, a voi ho imbandita, come le altre mie, quest’opera, così pingue, con molti manicaretti, e favori, perché so che siete tanti Tulli, degni di banchettare in Apolline. Hanno anche le lettere i lor Luculli ed i loro Apicii, che sono di gusto così delicato, come vario. Tali vi voglio, e perciò mi sforzo di regalarvi al possibile col trattarvi alla grande, facendovi servire dalle scienze e dalle Muse, che con attilata puntualità vi trinciano i piatti più superbi, non per lo fumo, ma per lo prezzo, ed in nappi gioiellati vi assistono a mescere l’ambra pura nell’ambrosia purgata dell’eloquenza. Io non vi metto in tavola erbaggi di gran rilievo e di poco succhio, ma cibi di molto costo, comprati da me coll’argento del mio sudor faticoso e con l’oro della pallidezza, da me contratta, contro al mio naturale, nel riverbero delle carte. Un gran cavalier, mio intimo amico, allor che voleva invitar qualche straordinario personaggio, facea tutta la notte vegghiare i suoi cuochi; e solea dire che il convito dovea misurarsi colle forze del convitante e colla qualità del convitato. Altretanto io ne pratico; e perciò non lascio che dormano l’ingegno e ’l giudicio che sono i cucinieri degl’intellettuali banchetti, per aver sempre alla mensa dell’anima uomini di pezza, e non pezzi d’uomini. Voglio dei Varroni,[82] che sien porci delle lettere, e che non abbiano e non appetiscano le lettere da porci: che mettano il grifo in ogni truogolo grasso e ne sorbano l’erudizione recondita: che abbiano il sapor di tutte le scienze, come il maiale si dice averlo di tutte le carni; ma non però che sien sordidi e letaminosi, bensì profumati e politi, come il porcello, nodrito da Profusio a conto di Spelunchia, da me descritto nella mia Heroina intrepida.[83] Se non pur ne’ miei Ritratti critici.[84] Nel resto voi stupirete che un Lazaro, com’io, tanto presuma, e che si prometta di convitare con tale apparecchio gli epuloni letterati come voi; ma cessi la maraviglia, perché se un Lazaro bastava a refrigerar la lingua di un Nineuse con una stilla d’acqua, io mi prometto di poter ammorzare con tante stille d’inchiostro la vostra sete; giovandomi credere che chi ha di che dissetarci, possa far anche gli sforzi per trovi la fame, la qual suol satollata generar la sete. Magnate dunque e bevete, absque commutatione,[85] ch’io non pretendo altro da voi che uno state sani.

 

 

 

Ai Lazari dei libri

Poveri Lazari, piagati dalla lebbra dell’ignoranza, coperti degli stracci che andate raccogliendo intorno, cuciti così all’ingrosso e tanto mal commessi che vi fanno comparir ridicoli più che mal vestiti, vi compatisco, perché non avete capitale. Voi, ch’altro più non bramate che satollarvi delle molliche, le quali cadono dalle mense laute degli epuloni letterati, bench’io tanto non presuma che tra questi mi annoveri (se non è forse per la grande ingordigia che professo nel divorare i libri) v’invito ad assidervi alla mia tavola e quivi di nodrirvi a cingolo rilasciato: di più ad entrare in questa farmacopea che apro, tra l’altre mie di tanto spaccio, e di prendere tutti gli unguenti che vi piace, senza alcun sborso, per far un empiastro alle vostre piaghe scolanti; perché molti di voi son soliti a farmi quest’onore di valersi de’ miei cataplasmi, ed anco per corrobborare lo spirito, suggetto ai mancamenti di cuore ed alle vertigini di capo, di prevalersi de’ miei lattovari.[86] Mi contento inoltre che siate padroni di questo mio fondaco e prendiate quanto panno vi aggrada, senza misura, o pagamento, per celar le vostre vergogne, per ristorar le vostre sdrucite tonache, per ripararvi dalle vostre freddure. Ma che? Sono in obbligo anche di avvertirvi che i deboli di complessione, come voi, quando mangiano soverchio son suggetti sovente al vomito di ciò che non puon digerire: che uno ch’abbia gli abiti interni logori e vili, se si mette addosso una buona cappa entra subito in sospetto d’averla rubata, o che sia presa in prestito. Vi pongo anche sotto il riflesso che medicando colle mie pezze, e co’ mie’ balsami, le vostre ferite, può facilmente accadere che i canti critici, de’ quali è il mondo così abbondante, sotto pretesto di lambirvi coll’adularvi, le scuoprano e le rinfreschino di modo (come han fatto più volte) che sien giudicate incurabili. Nientedimeno vi lascio in arbitrio di proseguire l’usanza vostra, e poiché vi conosco in estrema necessità, mi contento che vi cibiate, vi vestiate e vi curiate del mio, perché veramente siete poveri di spirito. Iddio v’aiuti e vi liberi da quella che in voi, più che ne’ poveri di corpo, si può veramente chiamare turpis aegestas.[87]

 

 

 

Dell’illustrissimo conte Giovan Francesco Isolani[88] Cavalier primario e senator bolognese sonetto all’autore.

Di satrapico lusso arti sudate,

ostri rifolgoranti, astri eritrei,

obelischi ostentosi, urne gemmate,

del superbo epulon furo i trofei.

Ma da falce letal giacquer troncate

al fin le membra molli ai duri omei;

e lo spirto fellon l’alme dannate

accrebbe agli atri orror flegetontei.

Qui mentre adusto in rogo eterno strilla,

onde l’Erebo cupo alto risuona,

chi una mica non die’ chiede una stilla.

Or dica (se per lui tutto Elicona,

in così chiaro umor, dolce zampilla)

più che Abram mi negò, Fulvio mi dona.

 

 

 

Economia di quest’opera

 

L’epulone, opera melodrammatica, con un prologo d’invenzione.

Discorso critico intorno la poesia dramatica.

Parenesi agli Epuloni moderni.

Parenesi alle Zambre moderne.

Moralizzamenti critici sopra alcuni testi del prologo.

Cento Riflessi arguti sopra alcuni testi dell’opera.

Consolatoria ai moderni Lazari, per sigillo di essa.

 

 

 

Luxuriem lucris emimus, luxuque rapinas.[89]

Manilius

Lib. 3. Astronomicon

 

 

 

Individui che rappresentano.

 

Nel prologo.

 

La ricchezza             e          la povertà.

La crapula                e          l’astinenza.

La lussuria                e          la pudicizia.

La calunnia             e          l’innocenza.

L’ateismo                  e          la fede.

 

Nell’opera.

 

nineuse          epulone.

bisticcio        servo grazioso.

farfalla        buffone.

ghiotto        parasito.

lazaro           povero.

graffio          turcimanno d’amore.

zelfa             moglie dell’epulone, poi sotto la sembianza di Silvino pastore.

pellandra     vecchia, nutrice di Zelfa.

elidoro         amante di Zelfa, poi sotto la sembianza di Dorilla pastora.

zambra          cortigiana, sposata dall’eulone.

elcana           savio critico.

cospettone  sgherro, con alcuni smargiazzi.

Una pitonessa e quattr’ombre.

Due angioli.

Un corriero.

Quattro furie.

abramo.

Coro di pescatori.

Coro di cuochi e di guatteri.

 

Balletti allusivi.

 

I.                Quattro Scimmie, poi rapite da quattro Aquile.

II.              Quattro Satiri, portati via da quattro Civettoni.

III.            Quattr’Ombre, che si convertono in altretanti cipressi.

IV.            Turba di Lapidatori, che danzando si percuotono.

V.              Quattro Furie, che chiudono l’opera.

 

Cangiamenti di scene.

 

1.      Atrio di palazzo dell’epulone.

2.      Giardino appresso il palazzo.

3.      Stanze e camera di Zambra.

4.      Palazzo in prospettiva.

5.      Gallerie, o sia loggie.

6.      Boschetto.

7.      Prigione interiore.

8.      Torrente con dirupi.

9.      Anfiteatro.

10.   Casino in prospetto, con giardino e fontane.

11.   Bosco.

12.   Carcere sotterraneo.

13.   Cortil rustico.

14.   Serraglio di fere.

15.   Stagno.

16.   Inferno e Limbo.

 

La scena è Gerusalemme, coi sobborghi.

 

 

 

Prologo

 

 

Esce la Ricchezza.

 

ricchezza     Io sono, io son colei,

a cui tutto si piega ed ubbidisce:

mi conoscete pure a l’auree strisce,

che sparge il bel fulgor dei lampi miei.

5                                  Son io la Ricchezza,

del mondo la possa:

dal forte mio braccio[90]

la casta Bellezza,

la Fede ha la scossa.

10                                Io compro l’onore:

al mio gran calore

si strugge ogni ghiaccio:

al mio gran vigore

la selce si spezza,

15                                ogni alma è commossa.

Io son la Ricchezza,

del mondo la possa.

 

Esce la Povertà.

 

povertà         Son io la Povertà,

che vo nuda e gemente,

20                                in questa fredda età,

per l’avarizia algente.

Questi cenci stracciosi,

questi occhi lacrimosi,

son caratteri miei.

25                                Io mi pasco d’omei,[91]

e di mie crude brame

si nutrisce la fame.

Il ventre mi rugge,

la noia mi svena,

30                                la colpa mi fugge,

mi siegue la pena.

Ognuno m’abborre,

ognun mi trascorre;

e dei ricchi ostelli

35                                le porte ferrate

mi stridon, serrate

da rei chiavistelli.

Nessuno mi dà,

nessuno mi sente.

40                                Son io la Povertà,

che vo nuda, e gemente.

 

Esce la Crapula.

 

crapula         Io son la Crapula ghiotta,

grossa, tonda e regalata.

A tal segno son ridotta,

45                                che non posso più gonfiata.

Il mio ventre pieno e duro

serve a me di gran tamburo;

su cui suono fortemente

a la guerra che fa il dente.[92]

50                                Altra cura, altro pensiero

il mio cor mai non si piglia,

che di stare in gozzoviglia

col rinfresco del bicchiero.

Di saper a me non cale,

55                                pur ch’io magni e beva in tuono:[93]

il mio grasso bello e buono

unge sempre ogni stivale;[94]

e perché mia gola inghiotta

mi fo serva scorporata.[95]

60                                Io son la Crapula ghiotta,

grossa tonda e regalata.

 

Esce l’Astinenza.

 

astinenza     Ed io son l’Astinenza

smunta, e non posso più;

ma sol ne l’apparenza,

65                                che son tutta virtù.

La Continenza bella

è mia cara sorella:

la Penitenza austera

è mia madre severa.

70                                Son de la Povertà

compagna indissolubile:

senza me la Pietà

è caduca e volubile.

                                    Ma se ben di rose molli

75                                non infioro il lieto viso;

                                    come fregi osceni e folli

                                    le detesta il mio sorriso,

                                    che, spuntando il divin Sole,

                                    sopra i miei labri aduggiati,

80                                ai di lui raggi beati

                                    nascer fa gigli e viole.

                                    Tale il mio genio fu:

                                    questa è di me l’essenza;

                                    perch’io son l’Astinenza

85                                smunta, e non posso più;

                                    ma sol ne l’apparenza,

                                    che son tutta virtù.

Esce la Lussuria.

 

lussuria         Ed io son la Lussuria,

figlia del Senso indomita:

90                                son l’amorosa furia,

che vischio e fuoco vomita.

Son una dolce insania,

son un tormento amabile:

una tenace pania,

95                                un gorgo insaziabile.

Son una febbre cronica,

una lionza orribile,

una sirena armonica,

son un’arpia terribile.

100                              Nemica de l’Empireo,

con disprezzo venereo

gli volto infida gli omeri:

al celibato i vomeri,

co’ miei sali mortiferi

105                              anche rendo infruttiferi.

Scema la morte semino

tra sfinimenti sordidi,

e negli affetti morbidi

la colpa ognor congemino.[96]

110                              Con trombe di baci,

                                    lascivi e sonori,

                                    destar so gli amori

                                    osceni e fugaci.

                                    Mia pace è guerriera,

115                              pugnando m’adagio:

                                    mia guerra è paciera,

                                    ch’io pugno ne l’agio.

                                    Alor che vo più in furia

                                    resto vinta e non domita:

120                              perch’io son la Lussuria,

                                    figlia del Senso indomita.

 

Esce la Pudicizia.

 

pudicizia        Io son la Pudicizia,

ch’in seno a’ gigli nasco:

sempre tra gigli pasco

125                              d’una vera letizia.

Non mai mi lascio cogliere,

perché son rosa occulta:

son fanciulla anche adulta,

e ’l mio cinto può sciogliere

130                              sol man fedel e pura,

su cui l’anima giura.

Non son già fragil calamo,

ben sì colonna forte:

se ben con rara sorte

135                              d’Imeneo reggo il talamo.

La fedeltà mi guida,

ed il candor mi seguita;

son colomba che snida,

se l’astor mi perseguita;

140                              e con veloci vanni

fuggo gl’infid’inganni:

e con rivolti artigli

mi schermisco ai perigli.

Ohimè quante perfidie,

145                              dovunque io son, ritrovo!

Pochi gli amici provo,

molte e strane le insidie.

Gli stessi consanguinei

ver me talor cospirano,

150                              e tra miei fior s’aggirano

taciturni e anguinei.

Talor costante uccisa

risorgo ancor più bella,

benché sanguinea stella,

155                              non mai dal ciel divisa;

e con lieta mestizia

muoro, ma poi rinasco:

io son la Pudicizia,

che in seno a’ gigli nasco.

 

Esce la Calunnia.

 

160      calunnia       Io, che d’atro color la faccia tingo,

son la Calunnia fiera e tortuosa,

che con livide mischie il falso pingo;

bugiarda, lusinghiera e cavillosa

                        fina per l’artificio

165                              sembro virtù zelante;

                                    pur al bene gelante

                                    son dispietato vizio.

                                    Io scandalo d’ogni astro;

                                    mentre tingo, son tinta:

170                              mentre dipingo, impiastro;

                                    mentre fingo, son finta.

                                    L’Odio mi generò,

                                    l’Ira mi partorì:

                                    il Livor mi lattò

175                              l’Invidia mi nodrì.

                                    M’instrusse la Frode,

                                    vestimmi l’Inganno

                                    del più tetro panno,

                                    che tesse il Sospetto,

180                              che cuce il Dispetto

                                    maligno, che gode,

                                    qualor vegga il male,

                                    qual serpe letale,

                                    ravvolgersi al giusto

185                              afflitto ed angusto,

                                    ch’io tutta astiosa

                                    perseguito e stringo:

                                    son la Calunnia fiera e tortuosa,

                                    io, che d’atro color la faccia tingo.

 

Esce l’Innocenza.

 

190      innocenza    Son l’Innocenza, mal conosciuta,[97]

                                    benché sì bella, da pochi amata:

                                    da l’Odio vengo calunniata:

                                    nessun m’accoglie: nessun m’aiuta.

                                    A questi fiori, qual Primavera,

195                              sembra ch’io rida tra le tempeste;

                                    e del mio core le noie meste

                                    mi rasserena l’aura ch’ei spera.

                                    Pur da me stessa resa sicura

                                    mi raddolcisco tra le amarezze:

200                              e coltivata fra le asperezze

                                    l’arte confondo con la natura.

                                    Tra le spine che le affollano,

                                    le mie rose ognor rampollano;

                                    e tra i nembi che gli offendono

205                              anche più miei raggi splendono.

                                    Pur tanti mi scherniscono

                                    con dispettosi aspetti:

                                    pur tanti mi feriscono

                                    co’ velenosi affetti.

210                              Non errai, pur errante

                                    me ne vo, piagata e lacera:

                                    calcata e non calcante,

                                    più assai la Fama infame,

                                    che la vorace fame,

215                              il cor mi preme e macera.

                                    Ma Iddio che ’l tutto sa, che ’l tutto vede,

                                    il giudice sarà de la mia fede;

                                    e livida impostura al mio candore

                                    qual nube al Sol, accrescerà il fulgore.

220                              Deluso il mondo ch’or mi rifiuta,

                                    vedrammi al fine dal ciel pregiata:

                                    son l’Innocenza mal conosciuta,

                                    benché sia bella, da pochi amata.

 

Esce l’Ateismo.

 

            ateismo         Io l’Ateismo son, che il ciel disprezzo,

225                              e nel soglio stellante impugno Dio:

                                    a la bestemmia forsennata avvezzo,

                                    per nume ho ’l Caso incerto, il Fato rio.

                                    De’ cori imperversati amabil vezzo,

                                    tolgo il timor ch’al fin si paghi ’l fio,[98]

230                              se de l’alma la morte al bell’ingegno

                                    co’ sofismi del senso arguto insegno.

                                    De l’eloquenza a l’arte,

                                    con cui parlo facondo

                                    commosso, arreso il mondo

235                              mi siegue e crede in parte,

                                    senza legge penosa, incerta ed atra,

                                    non più superstizioso ed idolatra.

                                    Per me ministri e regi,

                                    con sagace analitica,

240                              appreser la politica[99]

                                    che lor accrebbe i fregi.

                                    Al mio scettrato imperio

                                    l’Infedeltà ubbidisce,

                                    s’accresce l’Adulterio,

245                              la Lussuria gioisce:

                                    la Superbia s’estolle,

                                    l’Avarizia multiplica;

                                    la Calunnia fruttifica,

                                    la Crapula più bolle;

250                              quand’io con artifizio

                                    sono il padre del vizio:

                                    così mi rendo in prezzo,

                                    e prendo ognor più brio.

                                    Io l’Ateismo son, che ’l ciel disprezzo,

255                              e nel soglio stellante impugno Dio.

 

Esce la Fede.

 

            fede               Io sono, io son la Fede,

                                    che tanto vede più, quanto men vede,

                                    perché con occhio puro e aquilino,

                                    se quaggiù lippo o cieco,

260                              ma non mai torvo o bieco,

                                    veggo, s’innalzo il volo, il Sol divino:

                                    che, se ’l corporeo lume è corto e infetto,

                                    supplisce il teologal de l’intelletto.

                                    De le virtù reina imperiale

265                              su trono di diamante alta m’affido:

                                    son candida colomba, e spiego l’ale

                                    de la gloria sovrana al chiaro nido.

                                    Se non ho grazia, il bello mio non vale,

                                    e senza l’opre in mio pensier è infido:

270                              sperabili oggetti unica essenza,

                                    ed argomento lor senza apparenza.

                                    Speranza e Caritade

                                    l’un e l’altra m’è suora;

                                    questa è Sol che non cade;

275                              quella è Luna crescente, ed io l’aurora.

                                    Io l’aurora rugiadosa,

                                    cui la notte cede il campo,

                                    mentre fugge palpitosa

                                    al balen d’ogni mio lampo,

280                              che brillando eccelso e vero

                                    al mortale passeggiere,

                                    se vacilla, il più assicura,

                                    e la vista accende pura.

                                    Io son, io son la Fede,

285                              che tanto vede più, quanto men vede.

 

ricchezza     Olà, che larva è quella?[100]

 

povertà         Larva se’ tu, perché tosto sparisci.

 

ricchezza     E tanto, folle, ardisci?

                        Povera femminella,

290                              sgombra di qua, ch’io te soffrir non posso,

                                   con tanti stracci addosso!

 

            povertà         Sgombra, sgombra pur tu,

                                   superba, ladra, oscena:

                                   de’ falli tuoi la pena

295                              oggi non tarda più.

 

            ricchezza     E t’inoltro così povera altera?

 

            povertà         Son Amazone nuda, ma guerriera:

                                   non ti temo, ch’ho un cor pien di speranza.

 

            ricchezza     Aspetta! Io punirò tanta baldanza.

 

Qui si battono con le spade.

 

300      povertà         A te questa!

 

            ricchezza                             Ahimè, ferma!

 

            povertà                                                        Ah t’ho rispinta!

 

            ricchezza     Non più, non più: son vinta.

 

Qui s’apre il suolo e tranghiottisce la Ricchezza.

 

            povertà         Va’ pur, empia, a provar tormento eterno,

                                   poiché de l’oro il centro è al fin l’inferno![101]

 

Qui resta a parte la Povertà spettatrice.

 

            crapula         Se vinta è la Ricchezza,

305                              che farò?

                                   Temerò

                                   che vada a fondo ancora

                                    questa che in me s’indora

                                   corporuta pinguezza?

310                              Non son già di ricotta,

                                   ma porto il pett’a botta,[102]

                                   né mi mette paura

                                   questa falsa figura,

                                   poich’ella a pena ha fiato:

315                              sol se non mi colpisse nel palato.

 

            astinenza     A noi monna zambracca![103]

                                   non son io, come pensi, or così fiacca.

 

            crapula         Tira pur!

 

            astinenza                             Vibra pur!

 

            crapula                                                        Ohimè la gola!

 

            astinenza     Non sarà questa sola.

 

320      crapula         Oh schermitrice scaltra!

 

            astinenza     Codarda! Eccone un’altra!

 

            crapula         Mi pesa troppo il ventre.

 

            astinenza     Pur che mia spada v’entre

                                   tel farò ben calare.

325                              Questa volta il tuo spiedo a te non serve.

 

            crapula         Pur è la mia difesa: oh che proterve

                                   stelle! Ahi, ahi, ahi! Oh che punta intestina!

 

            astinenza     Ti diei ne la tettina,

                                   non potrai più lattare.

 

330      crapula         Ferma un po’, se ti pare,

                                   lasciami respirar: se troppo forte...

 

            astinenza     Io vo’ darti la morte:

                                   non fe’ mai teco l’Astinenza pace.

 

            crapula         Ohimè! La gola ancor tu m’hai trafitta.

 

335      astinenza     Ti scannai, come scrofa, e t’ho sconfitta.

 

            crapula         Son morta.

 

            astinenza                             Ed io son viva.

                                   D’Acheronte a la riva

                                   scendi a ber,

 

            crapula                                 Ah crudele!

 

            astinenza     dopo tanto mangiar, un vin di fiele.

 

                                    Qui si profonda la Crapula e l’Astinenza si ritira a parte.

 

340      ateismo         Che farem noi, se spente

                                   son già due nostre Amazoni sì brave?

 

            lussuria         Pugniam unitamente.

 

            calunnia       Il mio petto non pave: è di macigno.

 

            ateismo         Oh che fato maligno!

345                              Non mai più, come qui, tremommi ’l core.

 

            fede               Coraggio amiche! A l’infernale orrore

                                   faciam piombar questo funereo mostro,

                                   che veste bisso ed ostro,[104]

                                   e con l’empie seguaci,

350                              confiniamo de l’Orco ai seni opaci.[105]

 

            pudicizia e    Ecco di pronte ad eternar tue glorie!

            innocenza    Nostre le palme son, tue le vittorie.

 

Qui si battono tre contra tre; indi (soccorrendo la Povertà e l’Astinenza le compagne) restano l’Ateismo, con la Lussuria e colla Calunnia, vinti ed absorti.

 

            povertà,        Oggi quaggiù trionfano

            astinenza,    i decreti adorabili:

355      pudicizia,      né più tetri si gonfiano

            innocenza    i vizi abbominabili.

            e fede            A l’epulon, rubelle

                                   del ciel, guerre fulminee

                                   oggi saran le stelle,

360                              agli aspetti sanguinee,[106]

                                   onde la vita misera

                                   sia tronca a questo Sisera;[107]

                                   e Providenza eterna

                                   farà veder che giusto Iddio governa.

 

Il fine del Prologo.

 

 

 

ARGOMENTO

Sant’Ireneo, Origene, Tertulliano,[108] con altri molti, opinarono che il racconto vangelico dell’epulone fosse storia seguita e non semplice parabola.[109] Eutimio, tra quelli, ne specifica il nome, attestando che si chiamasse Nineuse. Il più probabil è che fosse fatto seguito, ma parabolicamente da Cristo vangelizzante adornato. Questo serve di fondamento alla favola, misticamente misteriosa, del drama, la quale, come verisimile nella struttura, ha per fondamento la verità nel fatto. Si finge dunque l’epulone, come quello che si suppone il Sardanapalo della Giudea, impaniato nelle sue delizie, ravvolto ne’ suoi delitti, rivolto incostantemente agli amori osceni; e perché (secondo la massima del senso alla ragion rubelle):

 

            Nel convito d’amor quell’alma è saggia

            che satolla di un cibo un altro assaggia:

 

            Egli, che sopra modo fu intento a compiacere le svogliatezze della sua gola, in conseguenza fu probabilmente proclivo a contentar l’esigenza della sua libidine, percioché la Lascivia suol esser la primogenita della Crapula. Innamora dunque di Zambra cortigiana, e perciò sopra l’esser donna vana ed interessata, anche più infedele, come prostituta. Quindi si macchina con arti solite l’eccidio a Zelfa, moglie dell’empio, così onesta, come bella; onde sollecitata da Elidoro, che serve di zimbello innocente a farla cogliere dalla malizia dell’impostura, vien condannata di adultera e destinata alle pietre, dalle quali si sottrae per industria dell’amante, da cui per serbar fede al marito e per non obbligarsi grata al suo liberatore, s’invola, e rincontratolo, a lui con artificio si niega. Succedono varie curiosissime peripezie, che conducono l’epulone, con Zambra ad una morte improvisa, ed Elidoro e Zelfa al matrimonio bramato.

 

 

 

                  ATTO PRIMO

 

 

Atrio di palagio.

 

SCENA I

 

Nineuse, Bisticcio e Farfalla.

 

            nineuse         Olà canaglia, olà!

 

            bisticcio        Padron siam tutti qui.

 

            nineuse         Dov’è il buffon? Che fa?

 

            farfalla        Signor vi do il buondì.

 

5          nineuse         E Ghiotto ove n’andò?

 

            farfalla        Non è tempo di tavola

                                   (mi disse pur testè)

                                    non do a parole :

                                   quando si magnerà, mi produrrò.

 

10        nineuse         Egli è un gran parasito.

 

            farfalla        Credo che sia l’eroe de l’appetito.

                                   Con quella sua boccaccia sgangherata

                                   divorerebbe un’asina salata:

                                   e poi si fa de l’Andromaco,[110]

15                                in dir che non magnò.

 

            bisticcio        Ha ben ragion di dirlo: egl’ingoiò.

 

            farfalla        Oh che trippa! Oh che stomaco!

                                   I suoi denti,

                                   arcifrementi,

20                                dov’ei sia

                                   nascer fan la carestia;

                                   assassin de la dispensa,

                                   gran guerriero in su la mensa,

                                   ma leccardo,

25                                fa ne’ piatti ’l Mandricardo.

                                   E di Bacco palladino

                                   a la botte dà il bottino.

 

nineuse         Non è ver: tu se’ matto,

                        ch’egli non sa colpir sol che di piatto.[111]

 

30        farfalla        La scorporata sua cupa ingordagine

                                   è un pelago, un abisso, una voragine.

 

            nineuse         Porta il zizzalardon con le sue brame,[112]

                                   de la sua guerra effetti e peste e fame.

 

            farfalla        Sì, ch’altro ei non sa fare,

35                                per poter magnar tutto,

                                   a l’armonia del rutto,

                                   che riveder i conti e non pagare.

 

            bisticcio        Egli è un grand’aritmetico,

                                   e quando siam in desco,

40                                ebbro ebreo, qual tedesco,

                                   slacciato il corpaccion tronfo e patetico,

                                   mentre in bianco restar ci fa il vin nero,

                                   forma sopra il boccal zero via zero.[113]

 

            nineuse         Non più lingue affilate,

45                                perché troppo tagliate.

 

            farfalla        Signor! Noi con le lingue, ed ei coi denti.

 

 

SCENA II

 

Ghiotto ed i sudetti.

 

            ghiotto        Ecco qui buffon! Tu te ne menti.

 

            farfalla        Mentite a me?

 

            ghiotto        Mentite a te!

 

            farfalla        Ma chi se’ tu!

 

5          ghiotto        Di te, per ogni conto, molto di più.

 

            farfalla        Ed in che? Dove? Quando? E con qual modo?

 

            nineuse         Oh quanto, oh come godo!

 

            ghiotto        Nel proceder con garbo, e con crianza.

 

            farfalla        Oibò! Vuoi dire nel far forze di panza.

 

10        ghiotto        Tu menti, o lingua stolta!

 

            farfalla        Mio caro Ghiotto ascolta!

                                   Accetto la mentita,[114]

                                   ancorché inviperita,

                                   perché so ben che la tua bocca sola

15                                mi può tirar stoccate ne la gola.

 

            bisticcio        La rogna è ne le capre:

                                   si scardassano il pelo: oh che buffoni!

                                   Cozzan come montoni: ognun si scorna:

                                   e in questa casa mai non mancan corna.

 

20        ghiotto        Farfalla non mi offende,

                                   seben co’ detti suoi l’onor mi fende:

                                   perché l’onor è una mera chimera:[115]

                                   e solo il crapulare,

                                   purché non sia crepare,

25                                è diletto costante e virtù vera:

                                   per questo così ben mia lingua frizza,

                                   e suol filosofar chi epicurizza.

 

farfalla        Noi siamo sempre insieme,

                                   si scherza e si strambotta,

30                                e Ghiotto temulento mai non teme,

                                   ch’ha la cotenna grossa e ’l pett’a botta.[116]

 

            nineuse         Or va, buffon mio bello,

                                   col tuo Ghiotto a far pace un po’ in tinello!

 

            bisticcio        Il suo bravo corpaccio

35                                non la farà perciò mai col tinaccio.

 

            ghiotto        È ver che mai non langue

                                   la mia vena in succhiare a Bacco il sangue.

 

            nineuse         Andate pur andate!

                                   Bevete! Scialaqquate!

40                                Ch’io volentieri al vostro umor m’aggiusto,

                                   e gusto di nutrir chi ha sì buon gusto.

 

nineuse,         In questa vita,

            ghiotto,        fugace sì,

            farfalla        ma dilettosa,

45        e bisticcio     non passi dì

                                   che non si colga

                                   che non si tolga

                                   d’amor la rosa

                                   che a noi fiorì;

50                                perché poi langue,

                                   svenuta, esangue

                                   sul verde stelo,

                                   alor che ’l gelo

                                   d’età severa

55                                verso la sera

                                    la scolorì.

                                   Se ’l Senso invita,

                                   non sia tradita

                                   la carne amata,

60                                ma regalata

                                   viva quaggiù;

                                    poiché lassù,

                                   l’alma che muore, piacer non ha,

                                   e sogno vano è l’eternità.[117]

 

65        nineuse         Or tu, mio caro Ghiotto,

                                   ordina, protomastro di cucina,[118]

                                   un prando stamattina,

                                   che sia degno del tuo ventre ingegniero,

                                   del mio stomaco altero,

70                                ch’io sin d’ier ho invitata

                                   la mia bella fedele,

                                   la mia Zambra adorata,

                                   ch’ordisce al mio piacer sì ricche tele,

                                   con le maniere sue vezzose e tenere;

75                                ond’io, novel Lucullo

                                   con soave trastullo,

                                   in Apolline no, banchetto in Venere.

 

            ghiotto        Con questa mia golaccia architettonica

                                   dissegnerò deliziose macchine:

80                                sien i denti arrotati a franger macine,

                                   io, ch’Archimede son d’arte gnatonica,[119]

                                   farò cader con unta matematica

                                   de la frugalità l’alta prammatica.

 

            bisticcio        Oh questa sì ch’è fina!

85                                Zambra in casa oggi pranza,

                                   non mancherà vaccina.[120]

 

            nineuse          Farfalla olà. Fa’ ben cibar que’ cani,[121]

                                   che son del genio mio caro diporto:

                                   mira che non m’irriti!

90                                Si smembri lor una vitella intera.

 

            farfalla        La mia cura severa

                                   meglio che voi, signor, gli tien nodriti.

 

            bisticcio        Oh questa sì ch’è bella!

                                   Al padron la vaccina, ai can vitella.

 

 

SCENA III

 

Lazaro, Nineuse, Bisticcio e Graffio.

 

            lazaro           Signor, pietà, pietade![122]

                                   Ecco il povero afflitto,

                                   da la fame trafitto,

                                   ch’ai piè mesto vi cade.

5                                  Queste piaghe rodenti

                                   parlano a’ miei lamenti,

                                   e ’l mio morboso affanno

                                   pur palese vi fanno:

                                   sì che dirvelo (oh Dio!) più non accade.

10                                Signor, pietà, pietade!

 

            nineuse         Bisticcio, a la mia grata,

                                   a la mia cara Zambra

                                   vanne veloce, ed il buon dì le arreca,

                                   mio paraninfo, e dì ch’io vado a lei,

15                                per dar più lieto il giorno a gl’occhi miei.

 

            bisticcio        Vado levrier.[123]

 

            nineuse                                 Fermati! Un dolce messo

                                   de la mia diva a me sen vien espresso.

 

            graffio          Generoso Nineuse,

                                   gloria de’ cavalier, pompa del fasto,

20                                al cui purpureo manto

                                   s’abbaglia il sol, che ascende al suo meriggio:

                                   Zambra, la vostra Zambra,

                                   che di Solima è Flora, a voi s’inchina,[124]

                                   oracolo d’amore,

25                                di Venere sibilla:

                                   stella che solo a voi fulgida brilla.

                                   Con augurio sviscerato

                                   ella a voi manda il buondì

                                   e un viglietto, profumato

30                                da la sua man vezzosa: eccolo qui!

                                    Oh che felicità

                                   contra ogni morbo erotico

                                   è il dominio despotico

                                   di sì rara beltà!

 

35        nineuse         O me felice! In queste linee belle,

                                   foriere del mio Sol, leggo le stelle.

                                   O caratteri cari!

                                   Fumo del foco mio, strisce de l’alba,

                                   io vi bacio, io vi succhio e da voi suggo,

40                                l’alimento del cor, latte d’amore!

 

            bisticcio        Questa signora Zambra

                                   s’attacca più che non fa paglia a l’ambra.[125]

 

            lazaro           Signor, pietà, pietade!

                                   Estenuato e lasso

45                                a dar non vaglio un passo:

                                   la fame, ahi, mi tormenta,

                                   il dolor si fermenta

                                   ne la mia carne trita,

                                   onde tutta una piaga è la mia vita,

50                                la mia vita che cade:

                                   signor, pietà, pietade!

 

            nineuse         Cento scudi a me chiede

                                   la mia diletta Zambra;

                                   ma questo è poco premio a la sua fede.

 

55        bisticcio        Io mel pensai di lancio,

                                   tosto che vidi ’l messo:

                                   questi è un corbo che vien dalla carogna,

                                   ed a metter per tutto il becco agogna:

                                   uncinato avoltore,

60                                grifo de la cornacchia ambasciadore.

 

            lazaro           Signor, per carità,

                                   io vi chieggo pietà!

 

            graffio          Legge Nineuse attento,

                                   ed oh con qual contento!

65                                Saporita è la lettera inviata.

 

            bisticcio        Gli costerà salata!

                                   Tutt’il sangue de la cassa

                                   smugner vuol questa mignatta:

                                   dì non passa

70                                che non faccia qualche tratta.

                                   Insomma non può stare

                                   la femmina: o che pela, o fa pelare!

 

            nineuse         Torna Bisticcio in casa,

                                   e fa’ che il tesoriere

75                                cento scudi ti conti

                                   per dargli a Zambra sfolgorati e pronti.

 

            bisticcio        Io vado ratto. O fortunata femmina,

                                   che miete il dì ciò che la notte semina!

 

            graffio          Io men vo a darle avviso,

80                                che i contanti fan l’ale a l’improviso.

 

            nineuse         Va’ pur mio Graffio, e dille

                                   che se non bastan cento, saran mille,

                                   pur ch’ella m’ami, e solo,

                                   come stella fedel, m’abbia per polo.

 

85        graffio          Di questo, padron mio, siate pur certo,

                                   credetelo a Roberto,[126]

                                   che Zambra è stella fida,

                                   e solo ha voi per meta:

                                   oh che milenso! A tutti ella è cometa.[127]

 

90        lazaro           Signor, pietà, mercé!

                                   Soffrir non posso (ahimè!)

                                   de l’adulto palato

                                   il prurito affamato.

                                   Eccomi qui languente,

95                                Lazaro afflitto e lasso,

                                   che sol mi resta a far l’ultimo passo,

                                   più per la povertà, che per le piaghe   

                                   aborrito e fetente:

                                   mi rode il cor, perché non rode il dente,

100                              che sul tremulo labro appar qual è:

                                   signor, pietà, mercé!

 

            nineuse         Taci sozzo, poltrone![128]

                                   Non mi stordir: che gente da bastone!

 

 

SCENA IV

 

Lazaro solo.

 

            lazaro           Oh tormentosa ed odievol vita!

                                    Sprezzata Povertà

                                    più non trova pietà, se cerca aita.

                                    O Lazaro infelice!

5                                  Invan tua bocca elice

                                    lacrimose querele

                                    a l’uscio di un crudele,

                                    che le tue piaghe flebili,

                                    al pianto, al sospirar sono indelebili.  

10                                Invan riedo affamato,

                                   invan gemo piagato

                                   al varco infesto del palagio infausto,

                                   in cui Nineuse alberga,

                                   che ognun mi dà le terga;

15                                ed il ricco fastoso,

                                   al cenno imperioso,

                                   mi sgrida e mi flagella

                                   con torvo guardo e ruvida favella:

                                   sì che mie piaghe flebili,

20                                al piano, al sospirar sono indelebili.

                                   Di parasiti e sgherri

                                   al motteggio sfacciato,

                                   al corteggio spietato,

                                   stando a la lauta mensa

25                                severamente assiso,

                                   ottura al mio pregar l’orecchio d’angue,

                                   mentre ai mastin dispensa       

                                   le saporite carne, i grassi polli:

                                   ed io con gli occhi molli

30                                chiedo invan di raccor quella che avanza,

                                   trascurata sostanza

                                   di reliquie di pane,

                                   che la rifiuta un cane;

                                   ma le mie plaghe flebili,

35                                al pianto, al sospirar sono indelebili.

 

 

SCENA V

 

Bisticcio e Lazaro.

 

            bisticcio        Oh che strana passionaccia

                                   questo mio padrone ha in testa!

                                   Ogni voglia disonesta

                                   strettamente il cor gli allaccia:

5                                  oh che strana passionaccia!

                                   Egli è un can d’ogni macello,

                                   un taffan da tutte rozze,

                                   un mastin di tutte nozze,

                                   d’ogni ancudine martello:

10                                egli è un can d’ogni macello.

                                   Questa Zambra inzuccherata

                                   vende cari i suoi confetti;

                                   come pillole ha i risetti[129]

                                   su la bocca inorpellata:

15                                questa Zambra inzuccherata.

                                   Mio padron fedel la stima,

                                   che gli sia di corpo e d’alma:

                                   pur è nave da ogni salma,

                                   pur è ferro da ogni lima:

20                                mio padron fedel la stima.

                                   Cento scudi strapiccanti

                                   porto a lui per quell’ingorda,

                                   che dà corda e non s’accorda

                                   sol che al suono dei contanti:

25                                cento scudi strapiccanti.

 

            lazaro           Ahi, chi mi dà un ristoro?

                                   Di fame, di dolor, misero, io muoro!

 

            bisticcio        Ecco qui la fantasma,

                                   lo spedal camminante,

30                                il calcabil calcante,

                                   il fondaco del canchero e de l’asma!

 

            lazaro           Ahi, chi mi dà un conforto?

 

            bisticcio        Va’ via ser Collotorto.

                                   Tu sei un cialtrone,

35                                un sacco d’inganni,

                                   un ceffo di zanni,

                                   e fai del santone:

                                   tu sei un cialtrone![130]

 

 

SCENA VI

 

Lazaro solo.

 

            lazaro           Sia per amor di voi, Nume sovrano!

                                   purché la vostra mano

                                   tenga a fren questo mio spirto gemente,

                                   il cor non si risente.

5                                  Ingiuriosi torti, aspri rigori,

                                   si cangeranno in trionfali onori.

                                   Questa mendicità che ognun disprezza,

                                   diverrà mia ricchezza:

                                   salvisi l’alma e ’l fior non tolga il frutto;

10                                che, se la gloria è stella, è porto il flutto.[131]

                                   Anch’io mi vidi mescere

                                   da Fortuna ridente

                                   piaceri in tazza d’or;

                                   ma ricusò di crescere

15                                con periglio eminente

                                   al precipizio il cor:

                                   quand’infelice e povero

                                   da tutti derelitto,

                                   da ogni alloggio proscritto,

20                                nel ciel ho con la speme alto ricovero.

                                   Le mie brame fameliche

                                   del petto estenuato

                                   fanno scempio crudel,

                                   ma tra le schiere angeliche

25                                risarcirò inostrato

                                   questo lacero vel.

                                   Chi giunto al fin persevera,

                                   tra gli scherni avvilito,

                                   poi d’onor arricchito,

30                                al nettare divin lo spirto abbevera.

 

 

SCENA VII

 

Zelfa sola.

 

Giardino.

 

            zelfa             A quest’aure gementi, 

                                   a questi fior ridenti,

                                   sfogherò il mio dolor col pianto amaro.

                                   O mia mesta bellezza,

5                                  che val tua fulgidezza?

                                   Se vil sembri al mio crudo, e pur sì caro!

                                   O mostro ingrato,

                                   Nineuse amato,

                                   chi t’insegnò

10                                tradir la legge,

                                   che la Natura

                                   candida e pura

                                   d’onor fregiò?

                                   Zelfa avvilita,

15                                sposa aborrita,

                                   pera quel dì:

                                   quel dì funesto,

                                   quel giorno infesto,

                                   che ad empio schermo

20                                l’alvo materno

                                   ti partorì.

                                   Piangete occhi miei tepidi

                                   le notti fredde, e stupide,

                                   i Soli solitari,

25                                gli astri protervi e rigidi,

                                   le Lune infauste e gelide

                                   che ’l mio fior infruttifero

                                   con ombre meste aduggiano!

                                   Ah mi sommergano

30                                sospiri e lacrime,

                                   che m’improcellano

                                   lo spirto esanime!

                                   È tormento

                                   l’alimento

35                                che al respiro il fiato germina:

                                   e sia sorte

                                   sol la morte,

                                   ch’ogni mal pietosa termina.

 

 

SCENA VIII

 

Pellandra, Elidoro a parte e Zelfa.

 

            pellandra     Mentr’ella al pianto molle il fren rilascia

                                   su l’onte maritali,

                                   soppiattatevi qui bello Elidoro,

                                   ch’io me ne vo per consolarla ad uopo:

5                                  ma sia l’unico scopo

                                   il far per voi d’amor frizzar gli strali.

                                   Scaltro dunque attendete

                                   la fera al varco, e quando a voi s’appunti,

                                   comparite a ferir la feritrice,

10                                che bellezza oratrice

                                   tra gli amorosi dardi è il più piagante

                                   de l’arco di un amante.

                                   Ella tace al singhiozzo,

                                   m’appresso e col mio fil nel laberinto

15                                di ben arduo procinto

                                   scaltramente ufficiosa or or vi guido.

 

            elidoro         Cara Pellandra a voi tutto m’affido.

 

            pellandra     Zelfa, signora amata,

                                   perché tanto sconforto?

20                                Per un indegno? A torto

                                   la vostr’alma agitata

                                   si strugge inutilmente:

                                   che s’ei le fiamme ha spente

                                   per voi, non le ravviva

25                                un’anima spirante ad alma schifa.

                                   Un connubio ineguale

                                   strinse al lupo l’agnella,

                                   al can la pecorella,

                                   l’ermellina al cinghiale.

30                                Io compatisco il vostro fiore in erba:

                                   questa beltà negletta,  

                                   per gli affanni, e per gli anni,

                                   è doppiamente acerba.

                                   Dunque, che più s’aspetta

35                                da una saggia vendetta,

                                   se troppo chiari sono i disinganni?

 

            zelfa             Madre, ah madre, (che tale

                                   da voi succhiai col latte ’l nome, a cui

                                   crebbe l’affetto mio di figlia aggiunto

40                                con insensibil senso) io gemo afflitta

                                   ben con ragion, offesa,

                                   lasciata e vilipesa,

                                   val per me consiglio.

                                   Son io colomba, e pure amo l’artiglio

45                                d’un avoltor rapace

                                   che mi rubò col core ogni mia pace.

                                   È destino fatale

                                   ch’io sia fida a un ingrato

                                   con onestà leale:

50                                basta che ’l cielo a lui m’abbia legato.

 

            pellandra     Pertinace follia

                                   è la che tormenta e non ha palma.

                                   Figlia, questa vostr’alma,

                                   fatta de l’odio amante,

55                                ostinata dirò, più che costante,

                                   chi la tradisce apprezza,

                                   chi l’apprezza deride,

                                   chi l’idolatra ancide.

                                   Ah gioite, or che v’alletta

60                                a goder l’età vezzosa;

                                   che marcisce al fin la rosa,

                                   se lo stel la tien negletta.

                                   Fortuna è femmina,

                                   chiomata è giovine,

65                                ma vecchia incalvasi,

                                   né si può prendere,

                                   qualor le cadano

                                   i crini argentei.

                                   Or che ’l pel sì prezioso

70                                vi biondeggia, o figlia, in oro,

                                   di chi ’l pregia sia tesoro,

                                   se ’l disprezza un ferreo sposo.

                                   Da chi è saggia, come vaga,

                                   con amore amor si paga.

75                                Che dite, o cara figlia?

                                   Perché torva torcete

                                   contro a chi vi consiglia

                                   amorosa quiete,

                                   se pria nebbiose, or le fulminee ciglia?

 

80        zelfa             Pellandra e non più madre,

                                   poiché ’l latte in velen belva cangiasti,

                                   ah come delirasti!

                                   O Pudicizia,

                                   fregio de l’anima,

85                                tanto più nobile

                                   quanto più immobile,

                                   deh tu perdonami,

                                   se troppo offesiti

                                   nel tutto attendere

90                                de l’Orco il vomito!

                                   Parti da me larva di Stige immonda,

                                   ch’io ti detesto, orribilmente esosa;

                                   tu se’ l’arpia del più spietato artiglio:

                                   si sfiori pur di mia beltà la rosa,

95                                purché de l’onor mio fiorisca il giglio.

 

            pellandra     Mia signora, frenate

                                   il furor! Ascoltate!

 

            zelfa             Non più, non più! Poiché partir non vuoi,

                                   mi sottraggo veloce agli occhi tuoi!

 

 

SCENA IX

 

Pellandra ed Elidoro.

 

            pellandra     Furor di giovinetta,

                                   che inesperta vaneggia,

                                   che gelosa fumeggia,

                                   accesa a la vendetta,

5                                  foco è di paglia e nebbia mattutina,

                                   che al soffio si dilegua e cade in brina.

                                   Ecco Elidoro afflitto! Ei quereloso

                                   ver me ritorce il guardo,

                                   e col passo tremante il piè ritroso;

10                                ma con traccia novella

                                   io, che sono d’amor la Farinella,[132]

                                   l’avvolgerò, poiché si facil crede.

 

            elidoro         Ah Pellandra bugiarda! Io prestar fede

                                   a voi! Più non sia mai. Troppo deluso

15                                m’ha il vostro inganno. Andate a trattar suso,

                                   senza più maneggiar trame amorose!

 

            pellandra     Deh mio bello Elidoro

                                   temprate il vostro sdegno,

                                   che ’l mio schernito ingegno

20                                da le proprie ruine ha il suo ristoro!

 

            elidoro         Ah vecchia fementita.[133]

                                   Molto voi promettete,

                                   ma poi nulla farete.

 

            pellandra     Farò, ma vi consiglio

25                                meco ad aver più penna e meno artiglio.[134]

 

            elidoro         Or venite al punto,

                                   che già linea sembrate, ancorché curva![135]

 

            pellandra     Son curva a sostener il vostro amore.

 

            elidoro         No! Per formar un arco al mio dolore.

 

30        pellandra     Arco son io, ma per ferir colei

                                   che con superbia pazza,

                                   chi l’invita a gioir così strapazza.

                                   Udite pur! Ella non così mai

                                   risentita parlommi. Al fin la donna

35                                cangia spesso il pensier, come la gonna;[136]

                                   ma non perciò s’ha da ristar: coraggio;

                                   che se bellezza è un maggio,

                                   ha i suoi tuoni, ma poi certo il sereno,

                                   ed il fulmine suo scocca in baleno.

 

40        elidoro         Lusinghiere menzogne!

                                   Non più raggiri no! Che conchiudete?

 

            pellandra     Pazienza! Attendete!

                                   Io, che l’umor di Zelfa ho ben compreso,

                                   so ch’ella suol mutarsi ad ogni tasto,

45                                e non, come la lingua, il core ha casto.

                                   È la femina cangiante,

                                   perché varia il suo cervello:

                                   quando più fa la costante,

                                   alor più dà nel zimbello.

50                                Se somiglia a una Diana,

                                   come Luna ancor è vana,

                                   e sa ben dare le occasioni

                                   per far cervi gli Ateoni:

                                   or è scema ed or ritorna,

55                                che ogni mese fa le corna.[137]

 

            elidoro         Deh finitela omai, vecchia importuna,

                                   con questa vostra Luna!

 

            pellandra     Elidoro avvampante,

                                   Zelfa gelosa è ben, ma non gelata.

60                                Quel suo fasto astioso

                                   è fumo che svanisce a una soffiata.

                                   Ha l’animuccia in carne: or tanto basta,

                                   perché formata sia di fragil pasta.

 

            elidoro         Oh che noiosa cronica è costei!

 

65        pellandra     Ecco i consigli miei!

                                   Zelfa suol ricovrarsi

                                   nel boschetto a cantar sotto il meriggio,

                                   per esalar le sue noiose ambasce;

                                   ed oggi a punto, a punto,

70                                che Zambra in casa a gongolar ne viene,

                                   è giusto il dì per rinvenirla sola.

                                   Lusingarla a quattr’occhi,

                                   che ’l più segreto Amor non vuol mezano;

                                   e, se non s’amollisce,

75                                assalirla importuno. Un soffio irato

                                   gran fiamma al fin raccende:

                                   benché punga spinosa

                                   non si lascia però di cor la rosa.

 

            elidoro         Voglio tentare ancor questa ventura!

 

80        pellandra     Sì, che l’arte può vincer la natura.

                                   Io la porta del parco

                                   v’aprirò a mezo giorno, e circa il resto

                                   mi raccomando a voi. Se poi lasciate

                                   scappar la preda, e vi cadran le brache,

85                                vi dirò cacciator, ma da lumache.

 

            elidoro         Oh che vecchia baiona!

                                   Ella è trista così, come buffona.

 

Per fine di questo primo atto escono a danzar quattro Scimmie, che vengono poi rapite a volo da quattro Aquile.

 

 

 

ATTO SECONDO

 

 

SCENA I

 

Nineuse, Zambra, che si abbiglia, e Graffio in disparte.

 

Camera.

 

            nineuse         Bell’aurora mattutina,

                                   che t’ingemmi ’l crin vezzosa,

                                   e fai sorger porporina

                                   dai ligustri tuoi la rosa:

5                                  Hai nel viso il Sol nascente,

                                   hai nel labro il fior ridente,

                                   e d’Amor diviso l’astro

                                   in un cielo d’alabastro.

                                   Deh rimira il tuo leale,

10                                se di te più bel riflesso

                                   vuoi vedere: che non è in esso

                                   del cristallo il doppio e ’l frale;

                                   ma sfavilla ognor costante

                                   a’ tuoi sguardi, qual diamante.

 

15        zambra          Anima del mio core!

 

            nineuse         Cor de l’anima mia!

                                   Fiamma del mio pensier!

 

            zambra          Luce al mio giorno!

                                   Tu sola il Sol,

 

20        nineuse         Tu solo il Sol,

 

            nineuse         che con la doppia face

            e zambra        degli occhi tuoi più chiaro il dì mi apporti.

 

            zambra          Io l’aurora

                                   che s’indora

25                                a’ tuo’ rai pregiati e fulgidi:

                                   a te sol dal mio sen turgidi

                                   questi gigli acerbi sorgono:

                                   a me porgono

                                   i tuoi lumi ’l bel da splendere:

30                                tu mio Sol, tu solo accendere

                                   puoi quest’alma a te sol alba.

 

            nineuse         O mia cara, a te s’inalba

                                   il mio petto innamorato!

 

            zambra                                              O mio grato!

                                   O mia vita, per te muoro!

 

            nineuse         O mio cor, io per te vivo!

 

35        zambra          O mia vita, senza te,

                                   ogni noia alligna in me!

 

            nineuse         O mia bella, teco sol

                                   del pensiero ha centro il vol!

 

            zambra          O mio Nineuse fido!

 

40        nineuse         O Zambra idolo mio!

 

            zambra          A te tutta m’affido.

 

            nineuse         O mia dea, più che in me, in te son io.

 

            zambra          Respiro amabile!

 

45        nineuse         Dolce conforto!

 

            zambra          Piacer mio stabile,

                                   a te sol vivo,

 

            nineuse         e senza te son morto.

 

            zambra          Or dunque andiamo,

 

50        nineuse         dunque godiamo.

 

            nineuse         Tempo che fugge

            e zambra        solo si strugge

                                    per chi non ama,

                                   per chi non gode.

55                                Dei sogni eterni

                                   fantasmi alterni,

                                   per cui gli brama,

                                   formi la frode.[138]

 

            graffio          (Oh che soave giorno!

60                                O copia rara, a cui non manca il corno!) (a parte)

                                   Signor mio, deh scusate, se v’impiccio:

                                   vi dimanda Bisticcio.

 

 

SCENA II

 

Bisticcio ed i sopradetti.

 

            bisticcio        Eccovi, padron mio dolc’e piccante

                                   numerato il contante.

                                   Oh come pesa! M’ha slombata un’anca:

                                   signor! Cresce la carne, il quattrin manca!

 

5          nineuse         Taci, che nudo Amor, ricco di fede,

                                   tutto dà e tutto chiede.

 

            bisticcio        La grammatica d’Amore[139]

                                   del preterito si scorda,

                                   al presente solo ha il core,

10                                col dativo sol si accorda.

                                   Gode ognor de l’ablativo,

                                   né capisce il genitivo,

                                   se non va co ’l deponente;

                                   ma sovente

15                                per passivo fa il latino,

                                    e ’l participio vuol pria del supino.

 

            nineuse         Mia bella! Ecco una stilla

                                   d’un ocean ch’io deggio al tuo gran merto.

                                   S’io fossi un Creso, certo

20                                (cotanto m’innamori)

                                   farei de’ miei tesori

                                   sgorgarti a piè fulgenti,

                                   senz’argine i torrenti.

 

            zambra          Amante generoso,

25                                amato prezioso,

                                   mio Nineuse gentile,

                                    ogni tesoro, a par di te, mi è vile.

                                   Te sol bramo:

                                   te sol amo:

30                                tu donante,

                                   io costante.

                                   Tu m’apri, con lo scrigno, il cor nel petto;

                                   ma più mi compra il tuo cortese affetto:

                                   son tutta tua: qual fui sempre sarò,

35                                sin ch’io respirerò.

                                   Clizia fedel, che tra fiori amori[140]

                                   m’aggiro a te mio Sol, mentre m’indori.

 

            nineuse         O radice de l’alma mia!

 

            zambra          O trofeo de la mia speme!

 

40        nineuse         Per chi gela la gelosia

            e zambra       sol serpeggi, se amando teme:

                                   cresca eterno il nostro ardore!

 

            nineuse         E viva Zambra viva!

 

            zambra          Viva, viva Nineuse!

 

45        graffio          E viva Amore!

 

            nineuse         Cara Zambra ti attendo,

                                   per dar pascolo agli occhi ad un convito,

                                   dove sarò felice

                                   con aver su la mensa una fenice.

 

50        graffio          (Ma che fa il verme.) (a parte)[141]

 

            zambra          Sì, poiché sol ti cole,

                                   mentre tu la ravvivi, o mio bel Sole.

 

            nineuse         A rivedersi, a rivedersi amica!

 

            graffio          Altrettanto il villan disse a l’ortica.

 

55        zambra          Ah no! Riforma il dire,

                                   o mio vago desire,

                                   che la tua bella imago,

                                   onde mio spirto impresso è così pago,

                                   negli occhi ognor mi brilla,

60                                perché tu sei la mia cara pupilla.

 

            graffio          Pupillo egli è più tosto, ella tutrice,

                                   che in buon vulgar vuol dir scorticatrice.[142]

 

 

SCENA III

 

Graffio, Zambra ed Eliabbe.

 

            graffio          Oh che piccion piumato!

                                   Per esser arrostito

                                   è ben che sia pelato.

 

            zambra          Il mio gusto, nutrito

5                                  ognor di questa razza d’uccellotti,

                                   i pipioni cangiar suole in merlotti.[143]

 

            graffio          Ma questo è un uccellaccio di rapina,

                                   che, se non può ghermir le colombelle

                                   vezzose e le pudiche tortorelle,

10                                (tanto a la carne agogna)

                                   non manca di calarsi a una carogna.

 

            zambra          Prorompi omai, caro Eliabbe, meco

                                   a concordar salate

                                   sul milenso Nineuse le risate.

 

15        eliabbe          Eccomi cara Zambra:

                                   te se’ pur fina! Oh come

                                   l’udito arrise a l’ironia piccante,

                                   ond’acciecasti ’l forsennato amante!

                                   Io di soppiatto attento intesi ’l tutto

20                                di quel mio bestiale,

                                   più, che fratel, rivale;

                                   ma se fedel mi sei, come a te sono,

                                   senti, ed andiamo a tuono,

                                   farai ch’ei per mia sorte

25                                magni, mia bella vita, al fin la morte.

 

            zambra          Zitto! L’aria non senta

                                   ciò che ’l pensier fermenta:

                                   Forse non sia che torni

                                   ad indorare il dì del Sol la face;

30                                che ci tanto ci turba i giorni lieti

                                   con assalt’indiscreti,

                                   per lasciarci dormir, non posi ’n pace.

 

            eliabbe          Dunque a l’opra, o mia fida!

                                   Per satollar d’Amor meglio le brame,

35                                così noioso stame

                                   da tua provida man pur si recida.

                                   Io vado intanto a preparare...

 

            zambra          Ascolta! (gli favella a l’orecchio)

 

            graffio          Si parlano in secreto,

40                                come che lor non die’ tempo la notte

                                   di fabbricar la torre di Nembrotte:[144]

                                   ma la donna cicalona,

                                   che di ciarle ha ’l gozzo pieno,

                                   quando meno

45                                ha ragion, più assai ragiona.

                                   Oh che femmina stravagante

                                   È costei, che tutto sconvolge! 

                                   Qual intrigo ella non ravvolge,

                                   non suo spirto cabalizzante?

50                                Tutti adesca e tutti pela,

                                   tutt’imbarca,

                                   tutti sbarca,

                                   ed è nave da ogni vela.

                                   Oggi Nineuse inganna,

55                                dimani ad Eliabbe

                                   ne filerà una spanna:

                                   insomma ella con tutti è una Rahabbe.[145]

 

            eliabbe          A Dio mio core, a Dio!

 

            zambra          Son tutta tua ben mio:

60                                a rivederti presto!

 

            graffio          Ed io sagace e lesto,

                                   gli farò la mia corte,

                                   come gli fo la spia,

                                   poiché, per vita mia,

65                                turcimanni e buffoni,

                                   adulatori, sgherri e bacchettoni,

                                   sol oggidì han sorte.

 

 

SCENA IV

 

Zambra sola.

 

            zambra          Gioir finché si può,

                                   goder finché si sa,

                                   e quel che fare io vo’,

                                   il resto è vanità.[146]

5                                  Ogni cura m’abbandoni,

                                   sol mi siegua il nume alato,

                                   e con l’arco suo dorato

                                   miei trionfi ognor coroni.

                                   Del mio genio il bel mestiere,

10                                più che ’l cor, la borsa fere.

                                   Questa bellezza amabile

                                   sia l’esca nott’e

                                   d’un affetto mutabile,

                                   che tanto m’arricchì:

15                                poiché Amor è mal instrutto,

                                   se dona il fior e non raccoglie il frutto.

                                   Così Frine a peso d’oro[147]

                                   il suo bel comprar facea,

                                   e solea

20                                con un vezzo e con un muoro,

                                   far languir la greca Atene

                                   in catene,

                                   mentre ai resi cavaglieri

                                   tolse gli scudi, e sol lasciò i cimieri.    

25                                Gioir finché si può,

                                   goder finché si sa,

                                   e quel che fare io vo’,

                                   il resto è vanità.

 

 

SCENA V

 

Graffio e Zambra.

 

            graffio          Madama, or che siam soli,

                                   ammiro il vostr’ingegno,

                                   che sempre avete pregno

                                   di concetti, e non mai l’utero greve,

5                                  benché graviate il sen di mille amanti,

                                   ne l’arricchirvi pronti e gareggianti.

                                   Partì Eliabbe, a voi tutto divoto,

                                   di grazie colmo, e ’l fier Nineuse voto

                                   d’argento: e che sia mai?

 

10        zambra          Graffio, per interesse

                                   Nineuse accolsi, ed Eliabbe amai

                                   per capriccio, che impresse

                                   nel mio cor sì bel foco, onde respiro

                                   ardendo, se ’l rimiro.

20                                Son fratelli amendue: l’un m’innamora

                                   col suo vezzoso aspetto:

                                   l’altro l’arca m’indora

                                   con generoso petto. Ah ben vorrei,

                                   per soddisfar in un gli affetti miei,

25                                che fosse di Nineuse Eliabbe erede!

 

            graffio          Cosa facil si chiede.

 

            zambra          Costui mi parla ad uopo,

                                   perché dà ne lo scopo.

                                   Gli svelerò il segreto?

                                   No, ch’egli è servo! Sì, ch’egli è discreto![148]

 

30        graffio          Ella perplessa rumina tra i denti,

                                   e non ne intendo i bisbigliati accenti.

                                   Padrona! Ah torto avete,

                                   se ’l disegno di far morir Nineuse

                                   a me, così fedel, schiva tacete!

35                                Io complice sarò con man audace

                                   ne l’estirpar l’edace:

                                   egli del padre mio fe’ crudo scempio;

                                   dunque muora quest’empio.

                                   Inghiotta l’epulone[149]

40                                la morte in un boccone,

                                   ch’io, che mi chiamo Graffio,

                                   gli farò, come a ladro, l’epitafio.

 

            zambra          Andiam nel gabinetto,

                                   giaché ’l fato a l’intento

45                                che Nineuse sia spento

                                   par che per assessor mi t’abbia eletto.

 

            graffio          Or, che sarà? Coraggio!

                                   Eccomi tutto pronto in equipaggio.

                                   Lenta mi par la fretta:

50                                A le frodi, ai veleni, a la vendetta!

 

 

SCENA VI

 

Elcana solo.

 

Palagio in prospettiva.

 

            elcana           Poiché ’l vero è così amaro,[150]

                                   vo’ sputarlo da la bocca:

                                   vada pur! Zara a chi tocca[151]

                                   ch’io da l’altrui mal far, mal dire imparo.

5                                  Dirò male, per dir bene:

                                   se talun l’ha per affronto,

                                   è segnal che di lui conto

                                   quel che ha fatto e ciò ch’ha in opra:

                                   non si cuopra, ma s’estingua

10                                con la lingua fulminante,

                                   che tonante tra gli orrori

                                   degli errori strepitando,

                                   saettando i rei pitoni,[152]

                                   fischi e suoni, arguto strale,

15                                sveni ’l male, il vizio fera,

                                   che tiranno al mondo impera.

                                   Oggidì Gerusalemme

                                   divenuta è una Babelle,

                                   e ’l Giordan le sue maremme

20                                inargenta al ciel rubelle.

                                   Ogni scriba è fariseo:

                                   ogni satrapo è levita:

                                   ogni artista gabaonita:

                                   ogni giovine amoreo.[153]

25                                Son secreti i publicani,

                                   ed uniti a l’altrui danno,

                                   per profitto lor, s’affanno

                                   a’ Giudei samaritani.

                                   Evvi a pena un che non trappoli?[154]

30                                Tutto il mondo è una Pentapoli.[155]

                                   La carne fuma più che Gomorra:

                                   la golla bolle più assai d’asfalto:

                                   gli Amaleciti[156]

                                   s’armano uniti

35                                per dar l’assalto

                                   ad Isdraelle;

                                   fia ch’aborra

                                   l’esser Accabbe,

                                   l’esser Gioabbe,[157]

40                                chi vuol regnare,

                                   chi suol fraudare.

                                   Oh quante Bersabee, quanti Assalonni![158]

                                   Quante Tamarri osservo, e quanti Ammoni![159]

                                   Rari sono i Giuseppe e i Giosuè:

45                                ma v’ha più d’un Aron, più d’un Mosè:[160]

                                   non già retto e di zel celeste acceso,

                                    ma contrario e rubelle al Nume offeso;

                                   perciò veggo non sol che spuntan d’oro

                                   le corna ad un vitel, ma a più d’un toro;

50                                e da rustiche verghe, use agli armenti,

                                   nascer ranocchi e pullular serpenti.

                                   I mariti parecchi,

                                   traendo il fatto ed in risulta il nome

                                   da le mogli (ed oh come!)

55                                non sono Isacchi, e si puon dir Rebecchi.

                                   Son molte Iezabelli

                                   che rubano i Nabotti.[161]

                                   Vi son molte Iaelli,

                                   che, dopo avergli cotti

60                                con filtro vaporoso,

                                   nel lor sen limaccioso

                                   trafiggono prostrati

                                   i Sissari ingannati.[162]

                                   Molte Dalide osservo,

65                                che fan lasciarvi ’l pelo,[163]

                                   la forza e la ragione,

                                   a più d’uno Sansone.

                                   L’Invidia malignosa

                                   più d’un Caino ingombra;

70                                l’Ambizion fumosa

                                   più d’un Nabucco inombra:[164]

                                   l’Adulterio omicida

                                   sgozza più d’un Uria:[165]

                                   la bestemmia deicida

75                                arma più d’un Golia:

                                   il connubio tradito

                                   ha più di un Putifarre:[166]

                                   il talamo schernito

                                   geme a più d’una Agarre.[167]

80                                Ecco il palagio a punto anzi la Lerna,

                                   in cui l’Idra s’interna

                                   di tante colpe infeste,

                                   ch’ergon contro al ciel livide creste.

                                   Qui l’epulone impera e seco ha tetto

85                                l’orgoglioso Dispetto,

                                   la Crapula sbavante,

                                   la fastosa Alterezza,

                                   la Lussuria spumante,

                                   la fiera Spietatezza,

90                                il Livor accanito,

                                   la Tirannia crudele,

                                   l’Inganno fementito,

                                   l’Ateismo infedele.

                                   O Solima infelice, io ti deploro,

90                                e, del tuo mal presago, un flebil treno

                                   canto piangendo! Ah sul tuo stato imploro

                                   al giudicio divin più lento il freno!

                                   Ma di lacrime salse inutile gronda

                                   sui corrotti costumi un saggio abbonda.

 

 

SCENA VII

 

Lazaro ed Elcana.

 

            lazaro           Dove, misero, dove

                                   m’aggira, ohimè, svenuto il piè tremante?

                                   Lasso ritorno da l’inedia oppresso

                                   ad urtar moribondo in questi sassi

5                                  naufrago nel mio pianto. Ahi chi ristora

                                   queste languide membra? Ahi chi trattiene

                                   tra le fauci gementi

                                   l’anima fuggitiva,

                                   l’anelito mancante,

10                                il respiro spirante?

                                   Deh ciel soccorrimi,

                                   pietà di me!

                                   Iddio rimirimi

                                   rivolto a sé.

15                                Deh mi dia lena

                                   in questa pena!

                                   Deh con la morte

                                   mi dia la sorte!

                                   Perché chi muore

20                                nel suo Signore,

                                   tutto pietà,

                                   ricontra lieto

                                   felicità.

 

            elcana           O Providenza eterna,

25                                ecco de’ tuoi non penetrati arcani

                                   in questo basso mondo alto argomento!

                                   Un riccone scelerato,

                                   a cui piove l’oro in seno,

                                   ed un povero piagato

30                                di giustizia adorno e pieno.

                                   L’un superbo e l’altro umile:[168]

                                   l’un lascivo e l’altro puro:

                                   l’un pregiato e l’altro vile;

                                   l’un illustre e l’altro oscuro:

35                                l’un rubelle al ciel benefico;

                                   l’altro fido al ciel austero:

                                   l’uno tra tanti beni empio e malefico:

                                   l’altro fra tanti mali almo e sincero.

                                   O divario

40                                nel sagrario

                                   de l’astrusa Providenza

                                   hai racchiuso il tuo giudizio!

                                   L’un dal vizio

                                   perirà nel fumo asborto;

45                                l’altro, scorto

                                   da bell’astro luminoso,

                                   si salverà in un mar sì procelloso.

 

            lazaro           O fortunato incontro! Elcana è questi,

                                   chiaro consolatore

50                                del mio tetro dolore

                                   col suo facondo raggio:

                                   povero, perché saggio,

                                   poiché non può donare,

                                   mi conforta a sperare:

55                                oro non ha, perciò non mel dispensa;

                                   oro è ben ciò che dice e ciò che pensa.

 

            elcana           O mio caro mendico!

 

            lazaro           O mio signor umano!

 

            elcana           O mio pregiato amico!

 

60        lazaro           Eccomi curvo al piano

                                   col mio corpo che piomba,

                                   per non trovar pietà, cercar la tomba.

 

            elcana           La tomba è nido in cui l’alma rinasce;[169]

                                   che mai non muor chi di virtù si pasce.

65                                L’alimento più vitale

                                   fia del cor l’empirea speme:

                                   chi quaggiù spennato geme

                                   a gioir poi spiega l’ale.

                                   Il premio è certo

70                                al vero merto

                                   di chi opra bene:

                                   vi son le pene,

                                   per cui nol crede, e poi prova l’Inferno.

 

            lazaro           O verità vitale!

75                                O pregiabil consiglio!

                                   Dolce ristoro al male

                                   di questo infausto esiglio.

                                   Spera Lazaro, spera!

                                   Il ciel si gira e Providenza impera.

 

 

SCENA VIII

 

Pellandra e Farfalla.

 

Atrio di palagio.

 

            pellandra     Facendiera son d’amori.

                                   Poiché più non ho chi m’ami,

                                   per pescare ad altri i cori,

                                   d’ogni pasta innesco gli ami,

5                                  d’ogni guisa i cibi appresto:

                                   al mio soffio il foco desto,

                                   che portar soglio soverchio,

                                   se già pentola, or coperchio.

                                   O gioventù svanita,

10                                primavera degli anni,

                                   le tue rose sfiorate,

                                   che ridean rugiadose,

                                   scolora il tempo secche in su le spine!

                                   O vecchiaia schernita,

15                                verno di freddi affanni,

                                   sopra le spalle arcate,

                                   con le chiome nevose,

                                   trionfa il tempo assiso infra le brine!

                                   Il passaggio

20                                del mio maggio

                                   fu qual rapido torrente.

                                   Inclemente

                                   col suo rastro ahi come solca

                                   questa mia pelle grinza età bifolca!

25                                Or che farò?

                                   Se più non ho

                                   con che allettar a questo sen gli amanti.

                                   Almen servire

                                   altri che rida e mi rasciugh’i pianti.

30                                L’interesse ne la donna,

                                   che l’invoglia,

                                   non si spoglia

                                   con l’età, né con la gonna.

                                   Vende il fiore ancor in erba

35                                giovinetta incauta e acerba:

                                   poi matura e avara, tutto

                                   vende il frutto;

                                   indi alor che la sorprende

                                   la vecchiezza,

40                                onde spenta è la bellezza,

                                   l’altrui fior, l’altrui frutto espon e vende.

                                   È questo il mestier mio:

                                   con una pietra oh quanti colpi segno!

                                   Se non più volpe al pel, volpe a l’ingegno.

45                                Per tradir Elidoro,

                                   per contentar Nineuse,

                                   a fin che sposi Zambra,

                                   farò che Zelfa resti al vischio presa,

                                   e dal sen marital pera distolta.

 

50        farfalla        Stolta.[170]

 

            pellandra     Stolta! Deh ch’interrompe

                                   con note obbrobriose il parlar mio?

 

            farfalla        Io.

 

            pellandra     Ma chi se’ tu, che sconosciuto audace,

55                                senza faccia mostrar, favelli meco?

 

            farfalla        Eco.

 

            pellandra     Eco tu mi schernisci, e ne sorrido.

 

            farfalla        Rido.

 

            pellandra     Ridi pur! Ma perché?

60                                Perché son vecchia! Ohimè, non è così?

 

            farfalla        Sì.

 

            pellandra     Son vecchia, e pure un pruritello interno

                                   spesso mi va solleticando il core,

                                   qualor de’ giorni miei fugaci e spenti,

65                                la beltà che accendea, vien che rammenti.

 

            farfalla        Menti.

 

            pellandra     Eco bugiarda tu,

                                   non ti burlar di me.

                                   Che la mia gioventù,

70                                più bella assai di te,

                                   fu vezzosa così,

                                   ch’ogni sguardo invaghì.

                                   Or che son vecchiarella,

                                   con mia passion il so

75                                che ’l tempo mi pelò,

                                   poiché a molti attaccai la pelarella;[171]

                                   e così son burlata,

                                   ch’io pelar non so più, perché pelata.

 

            farfalla        Pelata Pellandruccia,

80                                Io son l’eco e son lecco[172]

                                   di questa tua boccuccia,

                                   che somiglia partito un fico secco.

                                   Lascia, lasciati amare,

                                   che seben vecchia sei,

85                                pur piaci agli occhi miei:

                                   così molte oggidì brutte e sdentate,

                                   perché soglion donar, vengono amate.

 

            pellandra     Or via ti donerò, ma d’uopo è pria,

                                   che ad una traccia mia servi opportuno:

90                                di due ch’ho di bisogno, io ti vo’ l’uno.

                                   Vien via, che parleremo un po’ po’ insieme!

 

            farfalla        Son un, ma non ho già faccia de due,

                                   che va cercando questa vecchia Ancroia,

                                   questa furba Pellandra,

95                                più Troia che Cassandra,[173]

                                   pur la Cassandra fa per una Troia.

 

 

SCENA IX

 

Nineuse solo.

 

            nineuse         Già l’ora, ancorché lenta, il vol appresta,

                                   in cui la bella mia diletta Zambra,

                                   ha da colmar di gusto saporito

                                   l’occhio, di lei nodrito;

5                                  ed io, per raddoppiare il ben perfetto,

                                   le accomuno fedel la mensa e ’l letto.

                                   Oggi è quel dì fatale

                                   in cui sciolto verrò

                                   del laccio maritale,

10                                che ’l corpo, e non il cor, giammai legò.

                                   Che vo’ far io d’una beltà sciapita,

                                   di una moglie gelosa,

                                   che ognora inviperita

                                   sgorga il velen da la sua bocca esosa?

15                                Ah, s’io scuoto un giogo tal,

                                   oh qual gioia, oh qual tripudio,

                                   vo’ che renda trionfal

                                   sopra Zelfa il mio ripudio!

                                   Nuovi frutti e nuovi fior,

20                                infestonino il mio talamo,

                                   e gl’intrecci un dolce Amor,

                                   che rimbombi a suon di calamo.

                                   Ma, deh qual mi sconvolge atro ribrezzo

                                   d’un error così atroce,

                                   di colpa sì feroce?

25                                Ah, non è colpa, no, quello che piace!

                                   Iddio non v’è, non vede:

                                   ben è folle chi crede,[174]

                                   ch’ei pensi a noi: no, ch’ei ci lascia in pace.

 

 

SCENA X

 

Ghiotto e Nineuse.

 

            ghiotto        Signor, corpo e cospetto,

                                   di cui non dico! Oh come

                                   fumeggia il vostro tetto!

                                   I volatili a some

5                                  gorgogliano bolliti,

                                   e sudano arrostiti

                                   per chi bollir, per chi sudar fa tanti,

                                   a lesso e a rosto amanti.

                                   Molto uccellam’è giusto

10                                per chi uccella sì spesso:

                                   chi di pelare ha gusto,

                                   Ama il pelato a la vaccina appresso:

                                   e ben Zambra la bella,

                                   poiché vi dà la vita, è una vitella.

 

15        nineuse         Ghiotto, mio caro, il fumo

                                   illustra i miei contenti,

                                   mentr’io diserto e spiumo

                                   la terra, e l’aria, i miei primi elementi.

 

            ghiotto        De l’acqua egli fa giuoco,

20                                e per ultimo lascia indietro il foco.[175]

 

            nineuse         L’allegrezza oggi s’incorpori,

                                   e s’imporpori,

                                   abbracciata a Bacco, Venere,

                                   tra ritorte amiche e tenere:

25                                col mio tetto i cori avvampino:

                                   lieto il pampino

                                   si rintrecci a’ muschi ed ellere,

                                   che nol vaglia il duol a svellere.

 

            ghiotto        Unto labro e palat’umido,

30                                ventre tumido,

                                   gola aperta e denti subiti,

                                   sciolta cintola e non dubiti

                                   di lasciarsi ’l loco togliere,

                                   chi vuol cogliere

35                                de la via arcignatonica

                                   la gran palma maccheronica.[176]

 

 

SCENA XI

 

Zelfa sola.

 

Galleria.

 

            zelfa             In questa ria magion, larva diuturna,

                                   m’agita Gelosia, Furia del core

                                   con la face notturna

                                   d’un infernal dolore.

5                                  Misera, ed ancor vivo

                                   così mesta e tradita?

                                   Quando Morte m’invita

                                    a travarcar di Stige il negro rivo.

                                   Già l’ora s’avvicina,

10                                in cui Zambra odiata

                                   mi calcherà su questa foglia il petto,

                                   m’infesterà lo spirto al suo respiro:

                                   ed io lo soffrirò?

                                   No no, no no, no no!

15                                Ah la sgozzerò qui!

                                   Sì sì, sì sì, sì sì!

                                   Ma chi darà vigor al braccio imbelle?

                                   Se, svenata dal piano, infievolisco,

                                   e qual rosa, non colta,

20                                calpestata languisco:

                                   pur pur questa è la volta

                                   in cui, per l’odio fera,

                                   sbranerò quell’altera.

 

 

SCENA XII

 

Nineuse e Zelfa.

 

            nineuse         A che tanto guaire?

                                   Perché tanto strillare?

                                   Non ti vo’ più soffrire.

                                   Non più querele no, lasciami stare,

5                                  che non ti posso e non ti voglio amare.

 

            zelfa             Ah Nineuse crudele,

                                   ecco la tua fedele,

                                   ch’ogni furor depone ad un tuo cenno!

                                   Più gelosa esser non vo’:

                                   se tu m’ami almeno un dì,

10                                tutto poi ti lascerò

                                   a colei che ti rapì

                                   al mio seno e morirò:

                                   più gelosa essere non vo’.

                                   Ah mio caro,

15                                come amaro

                                   è lo stral con cui mi feri!

                                   Deh ristora,

                                   pria che muora,

                                   il mio spirto a cui tu imperi!

20                                Pace pace, anima mia,

                                   sdegno fier non m’arda più!

                                   Ah se tu

                                   vuoi scacciar la Gelosia,

                                   pace pace, anima mia!

 

25        nineuse         Oh qual magico ensalmo[177]

                                   le viscere mi cerca e mi sconvolge!

                                   Io non so, se l’impalmo,

                                   poiché con dolci note il cor m’avvolge.

                                   Non più mai così bella

30                                m’occorse di vederla:

                                   mentre il pianto l’imperla,

                                   mi par tra l’ombre sue fulgida stella.

                                   Ma che sogno? Dov’è

                                   verso Zambra la ?

35                                Zelfa lasciami stare,

                                   che non ti posso e non ti voglio amare!

 

            zelfa             Oh sentenza spietata

                                   da la tua bocca ingrata!

 

            nineuse         Muori! Non t’amo, no!

 

40        zelfa              Nineuse, io morir vo’;

                                   ma, se m’ami almeno un dì,

                                   tutto poi ti lascerò

                                   a colei che ti rapì

                                   al mio seno, e morirò.

 

45        nineuse         Muori e lasciami stare,

                                   che non ti posso e non ti voglio amare.

 

            zelfa              Ohimè, che colpo estremo!

                                   Tutta gelida tremo.

                                   Ah ti voglio ubbidire!

50                                Eccomi pronta e intrepida al morire!

 

Qui Zelfa con uno stilo si vuol uccidere, ma la trattien Ninesue, nelle cui braccia trambascia.

 

            nineuse         Ferma, deh ferma! Oh cieli,

                                   che follia, qual furore?

                                   Zelfa, col tuo pallore,

                                   onde il tuo bel più sveli,

55                                vergognoso rosso m’imprimi al volto.

                                   Ah come son io stolto

                                   a sprezzarvi, o bellezze lusinghiere,

                                   così caste e sincere!

                                   Zelfa, vivi e respira,

60                                che ’l mio cor t’ama e ’l mio ciglio t’ammira.

 

            zelfa             Che sento? È ver, Nineuse, o pur vaneggio?

 

            nineuse         È vero, amica, è ver: t’onoro e preggio.

                                   A questo seno indissolubilmente,

                                   in stringerti, mi dono:

65                                non già quel che già fui, ma quel che sono.

                                   A l’amor tuo possente

                                   non più m’accecherà Zambra, e sarò

                                   tuo fedel, Zelfa mia, finché vivrò.

 

 

SCENA XIII

 

Zambra, Zelfa e Nineuse.

 

            zambra          Olà, che stravaganza?

                                   Che veggio? Ah qual incanto

                                   Nineuse ti trasforma e m’impetrisce?

                                   Tu con Zelfa abbracciato!

5                                  E ’l miro? E’ l suofro? O ciel, o ciel irato!

 

            nineuse         Perdona, o Zambra. Io del tuo bel mi privo,

                                   già che Zelfa sol amo e a lei sol vivo.

 

            zambra          Ah sleale! Ah fellon! Ah fementito!

                                   Scelerato! Sacrilego! Aborrito!

10                                Incostante! Spergiuro!

                                   Va’, che di te non curo!

                                   A tal ingiuria,

                                   di sdegno furia,

                                   la Volontà,

15                                con odio stabile,

                                   tutta implacabile,

                                   ti agiterà.

 

            nineuse         Ohimè, chi mi riscuote

                                   da l’infingardo mio cupo letargo?

20                                Ferma, deh ferma il tuo giusto furore,

                                   bella baccante! A la pietà perdona

                                   ch’ho di costei. Se pur d’amarla finsi,

                                   fu sogno imaginoso: or che son desto,

                                   benché sia finto amore, io lo detesto.

 

25        zambra          O fortunata istanza!

 

            zelfa             O tradita speranza!

 

            zambra          Nineuse, idol mio!

 

            zelfa             Caro cor del cor mio!

 

            zambra          Dunque mi lascerai?

 

30        zelfa             Dunque non m’amerai?

 

            zambra          Son la tua Zambra mesta.

 

            zelfa             Son la tua Zelfa onesta.

 

            zambra          Deh come abbandonata!

 

            zelfa             Deh perché disprezzata?

 

35        nineuse         O dolce violenza!

                                   Ceda pur Zelfa a Zambra in competenza!

                                   Beltà gradita,

                                   mio ben, mia vita,

                                   cor mio perdonami!

40                                tu, ch’hai la palma

                                   sola de l’alma,

                                   la palma donami.

 

            zambra          La palma prenditi,

                                   di questo cor:

45                                Nineuse renditi

                                   a un giusto amor:

                                   stringimi, che son tua: sciogli costei:

                                   tua sarò, mio sarai, non mai di lei.

 

            nineuse         O bellezza amorosa!

 

50        zambra          O mio ben ricovrato!

 

            nineuse         O mia Zambra vezzosa!

 

            zambra          O mio Nineuse amato!

 

            zelfa             O mia speme delusa!

                                   Ahi che farò negletta?

55                                Che risolvo confusa,

                                   dal dolor intercetta?

                                   Caro Nineuse mio pietà di me!

                                   Ecco a’ tuoi piè mi prostro:

                                    scaccia quest’empio mostro,

60                                contrario a la mia :

                                   questo spettro odioso,

                                   che turba il mio riposo.

 

            nineuse         Zelfa lasciami stare,

                                   che non ti posso e non ti voglio amare.

 

65        zambra          Oh quanto godo al tuo pazzo furore!

                                   Tu se’ mostro di doglia ed io d’amore.

 

            zelfa             Tu mostro d’impietà,

                                   ed io di castità!

                                   Infame, impura, scelerata, indegna!

70                                Cloaca sensuale, arpia fetente.

                                   Idra che infesti la Sionia gente:

                                   Lerna in cui l’Idra ogni vizio regna.

 

            zambra          Tu menti, o vanarella,

                                   povera scimunita,

75                                codarda, poltronella,

                                   rosaccia scolorita!

                                   Io ti derido e sprezzo,

                                   che val più di te tutta un sol mio vezzo.

 

Qui Zelfa s’avventa con lo stilo a trafigger Zambra.

 

            zelfa             Chi più mi frena il braccio,

80                                mentre mi sprona il petto

                                   lo sdegno a vendicarmi?

                                   Perfida col tuo scempio

                                   soddisfarommi, e col tuo sangue impuro,

                                   poiché col pianto mio spegner nol posso,

85                                smorzerò di Nineuse il rogo osceno.

 

            nineuse         Forsennata, che fai? Di questo seno

                                   io le fo scudo, a cui die’ tempra Amore:

                                   se vuoi tormi la vita, uccidi Zambra,

                                   l’anima del mio core.

90                                Zelfa, lasciami stare,

                                   che non ti posso e non ti voglio amare.

 

            zambra          Tienla stretta, mio ben, ch’io la disarmo.

 

            zelfa              Che alterezza! Che forza! O cieli aita!

 

            zambra          Il ciel non t’ode, o semplicella! Invano

95                                si svuote a la vendetta un astro insano.

                                   To’, prendi ’l ferro cieco,

                                   ch’io non ti temo no, né la puoi meco?

 

            zelfa             Irrigidisco e fremo,

                                   palpitosa, dolente: ah come tremo,

100                              Zelfa corri a la morte:

                                   o cieli, o stelle, o mondo, o vita, o sorte!

 

            nineuse         Muori e lasciami stare,

                                   che non ti posso e non ti voglio amare.

                                   Andianne amica a festeggiar contenti,

105                              per brindar ai lamenti

                                   di quella scioperata,

                                   che già fuma la mensa preparata.

 

            zambra          Fuma di gioia, e sia più saporita

                                   per te, mia dolce vita.

 

 

SCENA XIV

 

Pellandra, Farfalla e Bisticcio.

 

Boschetto.

 

            pellandra     In queste folte macchie

                                   vi appiatterete uniti,

                                   e n’uscirete ad uopo alor che Zelfa

                                   vedrete accolta ad Elidoro in seno,

5                                  per attestarne il fatto,

                                   a fin di darle in brocca un scaccomatto:

                                   così Nineuse brama:

                                   la pedina oggidì scaccia la dama.

                                   Nel mondo la frode

10                                prevale oggidì:

                                   non val e non gode,

                                   chi mai non ardì.

                                   Se reca altrui danno,

                                   profitto è l’inganno,

15                                di cui ben l’ordì;

                                   quind’io con arte scaltra,

                                   or son una, or son altra.

 

            farfalla        Così farem con visto tosto e pronto;

                                   ma non ci torna a conto

20                                lasciare i buon bocconi,

                                   per divenir falsidici e spioni.

 

            bisticcio        Già la mensa odorosa

                                   stuzzica il naso ad irritar la gola,

                                   e ’l fumo fin qua vola

25                                ad eccitar la mia brama ventrosa;

                                   siché, Pellandra mia, per un po’ d’oro

                                   tu m’hai posto al martoro.

 

            pellandra     Io non so più che dirvi:

                                   così Nineuse vuol per arricchirvi.

 

30        farfalla        Questo è ben preparaci l’antimonio!

 

            pellandra     Testimoni sarete

                                   di quanto osserverete.

 

            bisticcio        Oh quanti sono, oh quanti,

                                   che han più di noi testa di testimonio!

 

35        pellandra     Quando avrete i contanti,

                                   resterete contenti.

 

            bisticcio        Eccoci dunque a la grand’opra intenti,

            e farfalla     e con occhio linceo

                                   bandiremo per or Bacco e Morfeo.

 

40        pellandra     Ed io, mentre vi lascio affissi al varco,

                                   vado Elidoro ad introdur nel parco.

 

 

SCENA XV

 

Bisticcio e Farfalla.

 

            bisticcio        Oh che vecchia malandrina!

                                   Ha la brina

                                   sopra il capo e ’l foco in testa.

                                   Ella impesta

5                                  col suo fiato arcifetente:

                                   con un dente,

                                   che per sorte l’è rimasto,

                                   morde e straccia,

                                   gran cagnaccia,

10                                che si trova ad ogni pasto.

 

            farfalla        Oh che vecchia sgangherata,

                                   che sdentata

                                   magna più d’una pantera!

                                   Lusinghiera

15                                tutti adesca e ognuno inganna.

                                   Ha la manna

                                   sopra il labro e ’l fiel nel core.

                                   Sempre falsa

                                   fa una salsa,

20                                in cui mesce odio ed amore.

 

            bisticcio        Più che rugosa doppia:

 

            farfalla        Schiuma d’ogni pignatta:

 

            bisticcio        ad ogni carne gatta:

 

            farfalla        è corno d’ogni copia:

 

25        bisticcio        pestifera,

 

            farfalla        mortifera,

 

            bisticcio        è uno spedal di vizi,

 

            farfalla        groppo di malefizi,

 

            bisticcio        pur bisogna soffrirla!

 

30        farfalla        pur bisogna ubbidirla!

 

            bisticcio        Nineuse vuol così, così vogl’io.

 

            farfalla        Ma che sarà, se poi paghiam il fio?

 

            bisticcio        Meglio è viver infame

                                   che morirsi di fame.

35                                Oggidì l’impostura

                                   divenuta è natura.

                                   Non dubitar Farfalla!

                                   Vuo’ tu del ben? Ruba, tradisci e falla.

                                   L’occasione invita,

40                                e la calunnia omai resta impunita.

 

            farfalla        Dunque a le mani, a noi!

                                   Se ’l mal verrà, ci penseremo poi.[178]

 

            bisticcio        Ma sento un calpestio che ’l suolo batte.

 

            farfalla        Ricovriamsi veloci in queste fratte.

 

 

SCENA XVI

 

Zelfa sola con uno stilo alla mano.

 

            zelfa             Animatevi al furore

                                   o de l’Orco aduste suore,

                                   perché il braccio, non più tardo,

                                   lasci al fin d’esser codardo!

5                                  Gelosia, tu sai perché

                                   la mia morte io brami e vo’.

                                   Se non val più la mia

                                   dunque invano al mondo sto!

                                   L’onta mia troppo è visibile,

10                                l’amor mio troppo è crudel.

                                   Dunque appaghi l’irascibile

                                   l’empietà d’un infedel.

                                   Mentre il duolo è giunto al cumolo,

                                   che più spero e aspetto più?

15                                Ah si cangi ’l letto in tumolo,

                                   poiché freddo ognor mi fu!

                                   Mia speme è finita,

                                   finisca la vita.

                                   Misera Zelfa, io sento

20                                nel mio tenero petto un cor sì folle,

                                   che di morir pavento,

                                   senz’ardir, senza brio, femmina molle:

                                   che s’avessi al dolor coraggio uguale,

                                   sarebbe un minor mal termine al male,

25                                onde in pianti mi sfaccio,

                                   né più ’l fellon terria l’impura in braccio.

                                   Ma che giova il lamento,

                                   se più cresce il tormento!

                                   E le lacrime imperlano a l’ingrato

30                                il talamo violato:

                                   ed i sospiri accendono al severo

                                   lo sdegno ancor più fiero:

                                   e le meste querule al contumace

                                   son armonia che piace.

35                                Dunque Zelfa al morire,

                                   se non vuoi più languire!

                                   Mia speme è finita,

                                   finisca la vita!

                                   Poiché sordo a’ miei fremiti

40                                mi niega il ciel di compassione un giorno;

                                   ascoltino i miei gemiti

                                   i tronchi, l’aure, i sassi e l’ombre intorno!

                                   Da te, Nineuse, a un giusto amor ribello,

                                   a l’ombre, ai sassi, a l’aure, ai tronchi appello.

45                                Sfortunata,

                                   disperata,

                                   ceder voglio al rio destino!

                                   Se la morte

                                   mi sia sorte,

50                                al mio fato il capo inchino.

                                   Mia speme è finita,

                                   finisca la vita.

 

 

SCENA XVII

 

Elidoro e Zelfa.

 

            elidoro         Ferma, trattieni, o bella, o cara, il braccio!

                                   Qual follia, qual furor, qual impietade,

                                   a svenarti sospinge il pugno armato?

                                   Per un marito ingrato!

5                                  Abbi di te, mio ben, di me pietade;

                                   che se Zelfa si uccide,

                                   Nineuse gode, io muoro, e Zambra ride.

 

            zelfa             Ohimè, chi mi sorprende?

                                   Chi mi trattien il colpo?

10                                Ah, se’ tu che m’attingi!

                                   Ah, se’ tu che mi stringi!

                                   Lascia, lasciami audace,

                                   non turbar la mia pace,

                                   mentre contenta io muoro,

15                                e più assai che la morte, odio Elidoro.

 

            elidoro         Non ti lascerò no, se non mi lasci

                                   questo ferro spietato,

                                   se, pria che a te, passar mi debbe il petto;

                                   ond’io teco l’ho stretto

20                                con divieto opportuno al tuo furore:

                                   che non vivrà Elidor, se Zelfa muore.

 

            zelfa             Scioglimi omai! Che fia!

 

            elidoro         Trattienti anima mia!

 

            zelfa             Temerario, arrogante!

 

25        elidoro         Amorosa baccante!

 

            zelfa             Abborrito protervo!

 

            elidoro         Sono il fedel tuo servo.

 

            zelfa             Dunque a me forza fai?

 

            elidoro         Sì, perché t’amo, e ’l sai.

 

30        zelfa             So che sei un impuro.

 

            elidoro         D’amarti ognor più giuro.

 

            zelfa             Ti detesto sdegnosa.

 

            elidoro         Io t’imploro pietosa.

 

            zelfa             Di libertà mi privi.

 

35        elidoro         Son tuo schiavo legato.

 

            zelfa             Sei tiranno odiato.

 

            elidoro         Muori a Nineuse, ad Elidoro vivi!

 

 

SCENA XVIII

 

Bisticcio, Farfalla, Zelfa ed Elidoro.

 

            bisticcio        Olà, olà! Che bella zuffa è questa?

 

            farfalla        Signora Zelfa mia, bella è la festa.

 

            bisticcio        A la trappola colta!

 

            farfalla        Con un drudo ravvolta!

 

5          bisticcio        È questo dunque il marital contratto?

 

            farfalla        Questa è la fedeltà, la gelosia?

 

            bisticcio        Fai da colomba e ti troviam arpia!

 

            farfalla        A Nineuse andiam a dire il fatto.

 

            elidoro         Oh che perfidia strana!

 

10        zelfa             Oh calunnia inumana!

 

            elidoro         Deh mi permetti, o Zelfa,

                                   che in ver costor ad uopo il ferro io torca!

 

            zelfa             Qui convien che ’l rilasci al giusto impegno.

                                   Prendilo per punir quest’impostori!

 

15        elidoro         Scelerati! Attendete, io vi farò!

 

            bisticcio        Aspettar? Pria ch’ohimè, vo’ dire oibò!

 

            zelfa             Intanto io sottrarommi a questo mostro.

 

            farfalla        Gambe mie, senza più, son tutto vostro.

 

Escono, per fine dell’atto secondo, a danzar quattro Satiri, che rapiti a volo da quattro Civettoni, s’affondano poi precipitati.

 

 

 

ATTO TERZO

 

 

SCENA I

 

Lazaro solo.

 

Atrio, con tavola in prospettiva di lontano, e Nineuse con Zambra assisi.

 

lazaro           Dove n’andrò, per rinvenir pietà?

                        Se non la trovo in ciel,

                        il mondo, al povero troppo crudel,

                        per me certo non l’ha;

5                                  quindi è fatal

                                   che la mia morte sol mi sia vital.

                                   Poiché la vita mia pena così,

                                   fia respiro il morir,

                                   e tante crude noie al fin finir:

10                                quinci sarà per me l’ultimo dì.

                                   Dolce ristor:

                                   che chi nel mal ben vive, al ben non muor.

                                   Or Lazaro cadente      

                                   posa pur anco

15                                tremulo il fianco

                                   su questa foglia algente,

                                   e prendi, col prostrarti al suo, misura

                                   de la tua sepoltura:

                                   ma prova ancor, se forse impietosito

20                                il riccone impietrito

                                   ti lasciasse raccor con man mendica,

                                   caduta da la mensa una mollica.

                                   Oggi, più che giammai,

                                   questa magion altera il fumo spande,

25                                e le laute vivande

                                   con vapor odoroso

                                   stuzzican l’appetito anche ritroso,

                                   mentre a tavola assiso

                                   beve Nineuse il riso,

30                                brindando a Zambra in tazza d’or brillante:

                                   ed io qui lacrimante,

                                   fantasma di dolor, d’affanno asperso,

                                   mia doglia non iscemo, e pur la verso!

                                   Oh dispendio detestabile!

35                                Oh diletto corto e labile!

                                   Ch’altro sia

                                   il nutrirsi al sen l’arpia,

                                   poi negar con fier rimprovero

                                   al mendico un vil ricovero.

40                                Già mi pare, al fragore

                                   de l’aureo vasellame,

                                   a l’argenteo bagliore,

                                   che col riflesso a me colma la fame,

                                   del satrapico prando il fin vicino:

45                                ed io, digiun svenuto,

                                   che farò?

                                   M’esporrò,

                                   chiedendo un tozzo, a l’usual rifiuto!

                                   Deh, per amor di quel che v’alimenta

50                                fatemi carità!

                                   Signor, signor, pietà!

                                   Ohimè, par che m’osservi e non mi senta;

                                   tornerò ad esclamar: pietà signore,

                                   d’un che di fame e di miseria muore.

55                                Ancor non m’ode: o cieli! Egli è di sasso.

                                   Pietà, pietà! Son di gridarla, ahi, lasso!

                                   Ma rapido un si vibra a discacciarmi:

                                   che debbo far? La pazienza m’armi.

 

 

SCENA II

 

Ghiotto, Lazaro e cani.

 

            ghiotto        Importuno mascalzone,

                                   odioso pezzentone,

                                   via di qua! Che tant’urlare?

                                   Non v’ha nulla che a te dare.

5                                  Sempre qui molesto aggiorni;

                                   ma se torni

                                   a turbar col tuo guaire

                                   quest’albergo di contenti,

                                   incapevol di lamenti,

10                                giuro a Baccon, te ne farò pentire.[179]

 

            lazaro           Amico, ascolta un poco!

                                   Poco ti chieggo umil, poiché sol bramo,

                                   dopo che ’l tuo signor sgombri la mensa,

                                   che mi lasci carpon carpir sul suolo

15                                gli sparsi micolini

                                   che avanzano ai mastini.

 

            ghiotto         Oh tu se’ pur milenso!

                                   Va’ via, che né men questo io darti penso:

                                   e, se più resti a masticar rimbrotti,

20                                io contro aizzerotti

                                   una turma di cani,

                                   perché ti faccia in brani:

                                   che così a punto il mio signor irato

                                   di far m’ha commandato.

 

25        lazaro           Non temo. Il ciel, umano ai poverelli,

                                   gli cangierà in agnelli.

 

            ghiotto        Non temi? Or il vedrai! Chiamar gli vo’.

                                   Truffardo, Mascellar, Pardo, Vespone,

                                   Griffildo, Palandran, Straccia, Scorzone!

30                                To’ to’, to’ to’, to’ to’, to’ to’, to’ to’.

 

            lazaro           Oh Dio! Vengono a me fieri e stridenti.

                                   Aita, o ciel, tu lor rintuzza i denti.

 

            ghiotto        Il cielo troppo è lontano: ah tel diss’io,

                                   che pagherai del non temergli ’l fio!

35                                Ma che veggio? Oh codardi!

                                   Divengono conigli e son liopardi.

                                   S’accosciano a leccarlo

                                   invece di sbranarlo.

                                   Su mordete! Che fate?

40                                Ghermite, lacerate!

 

            lazaro           Invan gli attizzi: oh come

                                   la lor fierezza instrutta

                                   ad emular le tigri,

                                   in te, nel tuo signor, par che trasmigri.

45                                Ecco le fere dome e l’uom rubelle

                                   con l’empietà ferir, morder le stelle.

                                   Mi lambiscon le piaghe, al tuo dir sordi:

                                   così col proprio imputridito sangue,

                                   il povero che langue

50                                nutre oggidì nel mondo i cani ingordi.

 

            ghiotto        Orsù,

                                   non più, va’ via,

                                   che sei stregon di bacchettoneria:

                                   ti conosco ben io, quinci ti scaccio;

55                                ma per più presto far, ti porto in braccio.

                                   Oh che furbo cialtron di mala razza!

                                   Io vo’ gittarlo a predicare in piazza.

                                   Pesa, come un leccione,[180]

                                   pur è sempre digiun l’ippocritone.

 

60        lazaro           Mio Dio, tutto per voi soffrir si de’:

                                   così vogl’io, così vuol la mie .

 

 

SCENA III

 

Bisticcio, Farfalla, con Nineuse e Zambra che s’alzano da tavola.

 

            bisticcio        Nuova, signor, inaspettata e strana

                                   siam costretti a recarvi,

                                   che sola può lo stomaco svoltarvi.

 

            nineuse         E qual novella fia? Forse la vana

5                                  di Zelfa al fin s’è uccisa? Ah mio Bisticcio,

                                   s’ella è tal, ti fo dare un gran pasticcio!

 

            farfalla        Il pasticcio, signor mio prezioso,

                                   Zelfa l’ha fatto, ma troppo è brodoso.

 

            nineuse         S’è forse col velen tolta di vita?

 

10        farfalla        No! S’è ben impiccata

                                   a un albero di frutta riservata.[181]

 

            zambra          Costui, scherzando ancora, il vero addita.

 

            nineuse         Or via dite, che v’è!

 

            bisticcio        Lascia parlare a me! Zelfa, signore,

15                                di pudicizia fiore,

                                   quella che tanto a voi

                                   rimproccia i torti suoi,

                                   poiché fregiate il talamo di questa

                                   bella Zambra di lei più fida e onesta,

20                                da noi testé trovata

                                   con un drudo abbracciata

                                   nel parco fu.

 

            nineuse                                 Che sento?

 

            farfalla        Noi, noi fummo al cimento.

 

            zambra          O femminaccia falsa! O congiuntura

25                                per me d’altra ventura!

                                   Il mio processo or ora il doppio vale.

 

            nineuse         O moglie indegna, o perfida, o sleale!

                                   Ma, chi è colui, chi fu, che tanto osò?

 

            farfalla        Io vel dipingerò.

30                                Un giovinello[182]

                                   profumatello,

                                   con la pirucca,

                                   che si ristucca,

                                   si stregghia e terge:

35                                che ’l crin asperge

                                   di cipria polve:

                                   che si dissolve

                                   in guardi e vezzi:

                                   che a tutti prezzi

40                                compra le amanti:

                                   che porta i guanti

                                   di muschio e d’ambra,

                                   s’è presa Zelfa e a voi lasciata ha Zambra.

 

            nineuse         Questi è certo Elidoro! Andiam amica:

45                                che per punir tal onta,

                                   in te la mia vendetta è bella e pronta.

 

            zambra          Sarò qual più vorrai, ma non turbarti,

                                   che a me sola toccò fida l’amarti.

 

 

SCENA IV

 

Zelfa sola.

 

Boschetto.

 

            zelfa             Ero col dubbio cor, col corpo lasso,

                                   né so perplessa, misera, agitata,

                                   dov’io diverta il passo

                                   così calunniata.

5                                  Questo de’ miei disastri ultimo eccesso

                                   mi trae la morte appresso.

                                   Ohimè! Cresce il mio mal, manca il conforto:

                                   cielo, ah ciel, sempre flutti, e non mai porto!

                                   Quindi perisco, oh Dio, senza perire,

10                                morendo ognor per non saper morire.

                                   M’odia Nineuse, pur da me amato;

                                   m’ama Elidoro, pur odiato.

                                   L’uno è sposo, ma sleale,

                                   l’altro amante sensuale:

15                                mi fugge l’uno e per dietro li corro,

                                   mi siegue l’altro e sempre più l’abborro:

                                   così la gran marea de’ miei cordogli

                                   m’agita ognor tra due contrari scogli.

                                   O mia vita,

20                                che l’uscita

                                   col morir trovar non sai,

                                   chi t’ha spinto

                                   al laberinto

                                   fatal di tanti guai?

25                                Zelfa infelice, or che ti parla Amore?

                                   Di non tornar offesa a l’empio nido,

                                   in cui, stretto a la vipera l’infido,

                                   sugge da un morso osceno atro livore.

                                   Ma no! Riedi pur, riedi,

30                                che irato Amor ti persuade invano

                                   a lasciar l’inumano.

                                   Prova, deh prova ancor mesta a’ suoi piedi,

                                   se col tuo pianto amaro

                                   puoi raddolcirlo, e quando

35                                non sia per altro, il giusto Amor consente,

                                   ch’io debba a lui mostrarmi,

                                   poiché mai non si cela un innocente.

                                   Intanto, a prender lena

                                   ne l’angusta mia pena,

40                                sotto quest’elce ombrosa

                                   convien ch’io cada afflitta e sonnacchiosa.

                                   Ahi come stanca sono!

                                   Al sonno il corpo, al duol l’alma abbandono.

 

 

SCENA V

 

Elidoro e Zelfa che dorme.

 

            elidoro         Poiché sottratti a’ miei giusti furori

                                   si ricovrar ne la magion superba

                                   i malign’impostori,

                                   torno a calcar mia speme in su quest’erba,

5                                  per rintracciar di Zelfa sospirata

                                   l’orma desiderata.

                                   Invan la ricercai

                                   là, dove la lasciai stupida e mesta

                                   in quest’erma foresta;

10                                e benché a l’amor mio l’adito chiuda,

                                   sempre più fiera e cruda,

                                   pur l’amo sempre più, perché più bella

                                   l’ingemma il pianto ed il dolor l’instella.

                                   Aurette sussurranti,

15                                che ne’ mirti ronzanti,

                                   con sibilo fugace i vanni aprite:[183]

                                   voi che tutte amorose

                                   ci svelate le rose,

                                   dov’è Zelfa, dov’è? Non la coprite.

20                                Ardente l’affetto

                                   mi spigne a cercarla:

                                   se ben l’ho nel petto,

                                   non vaglio a trovarla:

                                   che, se non sono in lei, non sono in me;

25                                ed ella, perché m’odia, esce di sé;

                                   pur col piè, come al cor, sempre indefesso,

                                   per non trovarla, omai perdo me stesso.

                                   Ma sento un respiro

                                   qui gemer vicino:

30                                che scuopro? Che miro?

                                   Meriggio e mattino.

                                   Ecco nel mezzodì l’alba che ancora

                                   imperla il verde suolo e l’erbe infiora!

                                   Ella dorme palpitante,

35                                singhiozzosa ed anelante,

                                   e le guance rosate

                                   da le lacrime ha vergate.

                                   S’io la sveglio, ella mi scaccia:

                                   s’io la stringo ella si offende:

40                                ah ben fia che miri e taccia;

                                   che più bella e non più altera,

                                   più vezzosa e non più fiera,

                                   onde il cor più si raccende,

                                   mite il sonno a me la rende.

45                                Ma pur l’ossecrerò con bassi accenti,[184]

                                   per accordar la voce al suon de’ venti.

                                   Dormi, dormi a l’aura placida

                                   o mia cara, ancor che rigida,

                                   che ’l tuo viso più s’implacida

50                                e ’l tuo petto men s’infrigida;

                                   e poiché d’Amor il premio

                                   è dovuto a un fedel genio,

                                   mentre avvien ch’io sola sciegliati

                                   per mia sorte incomparabile,

55                                non fuggir più inarrivabile,

                                    ma s’amar mi vuoi, risvegliati.

 

            zelfa             No no, Elidoro, no

                                   che mai non t’amerò! (come sognando)

 

            elidoro         Ella sognando ancor m’aborre ingrata.

60                                O Zelfa dispietata.

 

            zelfa             Nineuse, io vo’ morire,

                                   perché non m’ami, e pria che ti tradire.

 

            elidoro         La sentenza è mortale:

                                   io però non rampogno;

65                                che per esser un sogno, ella non vale.

                                   A giudicio sì fello,

                                   da Zelfa addormentata

                                   a Zelfa risvegliata appello, appello!

 

 

SCENA VI

 

Nineuse, Bisticcio, Farfalla, Cospettone, Zambra, Zelfa ed alcuni Sgherri.

 

            nineuse         Ferma là, ferma là, ferma fellone!

 

            cospettone  Saldo lì! Giuro a Marte!

                                   Renditi a Cospettone![185]

 

            elidoro         Ohimè resto sorpreso! Ov’è la porta?

 

5          zelfa[186]          Ohimè, chi mi risveglia? Ohimè son morta!

 

            nineuse         T’ho pur colta, o sleal, col drudo a canto!

 

            elidoro         Qui difesa non val, scampo non giova.

 

            cospettone  Non far, giuro a Baccon, che tu ti muova.

 

10        nineuse         Legatelo a quel cerro!

                                   Temerario, impudente, indegno, vile,

                                   l’onta che festi al marital mio letto,

                                   laverai col tuo sangue.

 

            elidoro         Mentisti, e ’l sangue mio, del tuo più puro

15                                macchia lavar non può, se non l’impresse.

                                   Ascolta, se pur sei,

                                   com’io son, cavalier, gli accenti miei.

 

            nineuse         Cavalier tu! Se’ paltonier villano:

                                   di rimirar, non che d’udire ho a sdegno

20                                i pari tuoi: legatelo a quel cerro!

                                   Pera il perfido, pera!

 

            elidoro         Non val ragion, se violenza impera.

 

            cospettone  Vien via sputa zibetto e moscon d’oro?

 

            zelfa             Misera, ancor non muoro? Ohimè Nineuse,

25                                Nineuse amato intendi!

                                   Ah crudel, così dunque or tu mi prendi!

                                   Per i capegli? Ahi sorte, ah sorte ria!

 

            nineuse         Sì, ma non già come fortuna mia,

                                   perché sei mia vergogna.

 

30        zelfa             Io di colui

                                   sempre fei sprezzo altero, e tu lo fai,

                                   ma il non saperlo e far così ti giova.

 

            nineuse         Femmina fementita,

                                   adultera, abborrita

35                                mi pagherai ben presto,

                                   de la legge la pena, o scelerata.

                                   E sarai lapidata.

 

            zelfa              Io dal tuo cor di pietra

                                   so che a tragger non vaglio altro che sassi.

 

40        nineuse         Tuo merto non impetra

                                   altro a punto da me: così sarassi.

                                   Vien via pur, vieni, e cedi

                                   con la tua morte a la mia vita il loco.

 

            zambra          Ella merita il foco.

45                                Vedi, Nineuse, vedi

                                   che faccia arrogantella;

                                   e pur teco facea la santarella!

 

            nineuse         Cospettone!

 

            cospettone                          Signor!

 

            nineuse                                             Mentr’io ne vado

                                   a rinserrare, ad accusar costei,

50                                sventra colui e me ne porta il core;

                                   Ma pria spezzate le sue membra a’ cani

                                   ripartirai, per divorarle a brani.

 

            cospettone  Tanto da me, signor, verrà eseguito.

 

            zelfa             O Nineuse impetrito,

                                   egli, come pur io, benché insolente,

55                                per l’amor che a te porto, egli è innocente!

 

            nineuse         Ben il dicesti. Or via non più parole!

 

            zelfa             Pietà, pietà! Non v’è chi mi console.

 

            farfalla        Va’ pur, va’ là, che te n’andrai di volo

60                                da Corneto a Sassuolo![187]

 

            zelfa             Povera strapazzata!

 

            bisticcio        Oh che miscuglio è questo! Oh che insalata!

 

 

SCENA VII

 

Cospettone, Elidoro e sgherri.

 

            cospettone  Or via, spogliam costui, per isventrarlo!

 

elidoro         Ascolta, amico, ascolta un innocente!

 

            cospettone  Del tuo pianto mi rido, e mescolarlo

                                   vo’ col tuo sangue.

 

5          elidoro         Ohimè, perché clemente

                                   non sarai tu con generoso core

                                   a chi solo in desio peccò d’amore?

 

            cospettone  Io clemente! L’hai ben detta!

                                   Questa destra furibonda

10                                sol di stragi e morti abbonda,

                                   fabbra ognor de la vendetta.

                                   Son quell’io che cader faccio

                                   col mio braccio ogni cantone,

                                   quando il taglio.

15                                Perché ho petto e perché vaglio

                                   io mi chiamo Cospettone.

 

            elidoro         Aita o ciel! Se non mi salva l’oro

                                   dal ferro di costui, svenato muoro.

                                   Mio caro Cospettone, ah non rifiuti

20                                la tua pietà di liberarmi ad uopo!

                                   Ti esibisco due mila e anche più scuti.

 

            cospettone  Hai dato ne lo scopo:

                                   lascia un po’ che vi pensi! Io da l’avaro

                                   Nineuse mai non ebbi un quattrinaccio;

25                                ch’ei sol mi dà ciò che coi denti straccio:

                                   or discorriam sul sodo! Ov’è il denaro?

                                   Quello che addosso porti, è mio de iure,[188]

                                   perché del giustiziato

                                   erede resta il boia ab intestato.[189]

 

30        elidoro         Non questo sol, ma quanto

                                   de l’opulenza mia vasto m’abbonda,

                                   ti ripartirò grato. A le tue forze

                                   sommetterommi occulto, infin ch’io compia

                                   la mia parola, oltre il restarti sempre,

35                                per sì gran beneficio il core avvinto.

 

            cospettone  Saggiamente discorri, ed io son vinto;

                                   ma come al sanguinario e rio comando

                                   sodisferò di sviscerarti ’l core,

                                   per portarlo a Nineuse?

 

40        elidoro         Hai pronto il modo.

                                   Non mancan belve a questo parco intorno,

                                   e nei vicini armenti.

 

            cospettone  Ben t’apponesti al punto: olà sargenti

                                   miei fidi, ite veloci, ed apportate

45                                un montone squisito,

                                   per trarne il cor e darne il resto ai cani:

                                   così creder farem ch’abbiam ucciso

                                   Elidoro, che a noi col proprio bene

                                   la sua vita ricambia:

50                                in tanto a sciorlo

                                   m’addatto, per celarlo in questi cespi;

                                   e poi ben travvisato

                                   trarollo al mio facinoroso albergo,

                                   per ivi custodirlo.

 

55        elidoro         O mio benefattore ad arricchirti

                                   farò piover tesori, ognor più grato;

                                   sin a l’estremo stato,

                                   consumerò tutti del cor gli spirti.

 

 

SCENA VIII

 

Eliabbe solo.

 

Strada.

 

            eliabbe          Fluttuante il pensier vie più m’ondeggia,

                                   né so perché: vorrei morto Nineuse,

                                   del patrimonio mio con torvo inganno

                                   usurpator tiranno,

5                                  che nel mio ben d’ogni mio mal festeggia,

                                   empio fratel: così restarne erede,

                                   e a chi mancò di , mancar di fede;

                                   ma d’uopo è pria che Zambra a lui si sposi,

                                   per far feretro a lui de le sue braccia:

10                                che tanto macchinò la nostra traccia.

                                   Or il punto qui sta s’egli in effetto,

                                   profanator del marital suo letto,

                                   ripudia Zelfa, a lui per Zambra infesta;

                                   ma, deh con qual ragion, s’ella è sì onesta!

15                                Siasi onesta quanto sa,

                                   ben saprà

                                   quel fellon il laccio sciogliere,

                                   per accogliere

                                   nel suo sen colmo d’insania

20                                la beltà che ’l cor gl’impania.

                                   Oggidì, quando sien sudici,

                                   si seducon tosto i giudici,

                                   purché l’or si faccia intendere;

                                   poiché suol comprar e vendere

25                                la malizia

                                   a l’incanto la giustizia.

 

 

                                   SCENA IX

 

                                   Graffio ed Eliabbe.

 

            graffio          Signor, liete novelle

                                   veloce arreco, e Zambra a voi m’invia!

 

            eliabbe[190]      Dille, mio Graffio, che le ascolto attento,

                                   per saper ciò che vuol l’anima mia.

 

5          graffio          Zelfa, colta al zimbello

                                   con l’innamoratello,

                                   non sol avrà lo sfratto al rito ebreo,

                                   ma le faran ancora,

                                   senza lunga dimora,

10                                di pietre un mausoleo;[191]

                                   e la signora Zambra inculminata

                                   verrà tosto a Nineuse maritata;

                                   e così abbiam sortito a questo titolo

                                   per la gran trama il capo del gomitolo.

15                                Tant’ella a voi riparte, e vi scongiura

                                   di presto andar senz’alcun’orma impressa

                                   a rinvenirla ov’a’ suoi carmi oscura

                                   il ciel, quando le par, la pitonessa,[192]

                                   per consultar con essa

20                                la forma, e ’l fin di così gran negozio:

                                   Su via! Tempo non è di stare in ozio.

 

            eliabbe          Ma come andò? Conviene che tu mel dica,

                                   poiché non cavo ancor chiaro il costrutto,

                                   mentre creder non so Zelfa impudica.

 

25        graffio          Venite! Per cammin vi dirò il tutto.

 

 

SCENA X

 

Elcana solo.

 

            elcana           Oh che mondo stralunato,

                                   che non vede il torto ingiusto,

                                   onde il povero, ma giusto

                                   oggidì vien bersagliato!

5                                  Oh che mondo stralunato!

                                   Un susurro volante

                                   corre per la città, che colta in fallo

                                   sia stata Zelfa, e ch’Elidoro amante,

                                   per cader farla, entrò con lei nel ballo.

10                                Quindi Nineuse, accinto a la vendetta,

                                   in carcere inuman la tien ristretta.

                                   Sto a veder che i nostri satrapi,

                                   senza farne altro squitinio,

                                   con stil cieco in cera tetrica[193]

15                                segneran tosto il ripudio,

                                    e, bevendo a un aureo poculo,

                                   diverran ciechi e flessibili,

                                   proferendo il reo giudicio

                                   che condanni al duro scempio

20                                la fedel con nuovo esempio.

                                   Oh che mondo stralunato,

                                   che non vede il torto ingiusto,

                                   onde il povero, ma giusto

                                   oggidì vien bersagliato!

25                                Oh che mondo stralunato!

                                   Questo riccon superbo;

                                   adultero, omicida, avaro, esoso:

                                   gomorrita maturo,

                                   gabaonita acerbo,

30                                falso, maligno, ladro, ambizioso,

                                   sanguinario, spergiuro:

                                   de la tribù infernal di Zabulone,[194]

                                   e di quella di Dan sol con le donne;[195]

                                   che sì che fa passar per disonesta

35                                la moglie col capriccio sensuale

                                   di sposar Zambra, e aver per cagion tale,

                                   non già per quella, il cornucopia in testa![196]

                                   Così chi oggetto sordido

                                   al suo disio prefigge,

40                                l’onor proprio trafigge;

                                   e pescando nel torbido

                                   un infame piacer che ’l macchia e ’l danna,

                                   con bugiarde apparenze il volgo inganna.

                                   Oh che mondo stralunato,

45                                che non vede il torto ingiusto,

                                   onde il povero, ma giusto

                                   oggidì vien bersagliato!

                                   Oh che mondo stralunato!

 

 

SCENA XI

 

Lazaro ed Elcana.

 

            lazaro           Ecco il povero, giusto no,

                                   ch’io non so,

                                   se l’umor ch’acre m’impustula,

                                   se ’l calor che ’l cor m’abbrustula,

5                                  mi contamini ed accenda,

                                   con prurito impaziente,

                                   con ardor d’ira bollente

                                   l’alma che al creator fie che si renda.

                                   Ohimè, che fo più al mondo? Il mio dolore

10                                cresce con la mia fame, e ’l cor mi manca.

                                   Logora la mia vita

                                   brama la morte, e con le bocche aperte

                                   di queste piaghe a terminar l’invita

                                   le mie pene ben aspre e mal sofferte.

 

15        elcana           Lazaro, il tuo sconforto

                                   non è perpetuo no: la carne grave,

                                   come sorta da terra, a terra piomba;

                                   ma lo spirto, prosorto[197]

                                   da la divinità, cader non pave

20                                col corpo a imputridir dentro la tomba.

                                   Dal ciel l’origine

                                   la ragionevole

                                   alma sortì:

                                   ne la vertigine

25                                del niente fievole

                                   mai la colpì.

                                   Ben può risolvere

                                   natura in polvere

                                   il corpo fral,

30                                ma non rivolvere

                                   ciò che ad estinguere

                                   corta non val.

 

            lazaro           O consigli celesti!

                                   Elcana, amico saggio,

35                                con l’ingegnoso tuo fervido raggio

                                   la brama di morire,

                                   per dar fine al martire, in me più desti.

                                   Speranza felice,

                                   che l’anima elice

40                                dal centro del cor,

                                   col tempo, che vola,

                                   la pena m’invola,

                                   mi tempra il dolor.

                                   Al riposo un’anelante,

45                                palpitante

                                   sempre aspira,

                                   e sospira

                                   la sua sfera,

                                   che qua giù mai non fu vera.

 

50        elcana           Fortunato, che sai

                                   filosofar sì ben dentro a’ tuoi stracci,

                                   e da le piaghe tue spremer fortezza,

                                   spera che al fin darai

                                   termine al mal, se con quel Dio t’abbracci,

55                                che converte in vigor la fievolezza.

                                   Del ricco l’alterezza

                                   il baratro ha per meta, e ’l precipizio

                                   va sempre unito al vizio;

                                   ma l’innocenza giusta, ancorché lacera,

60                                se ben il duol la macera,

                                   qua giù calcata, fuggitiva imbelle,

                                   fissa in ciel, poi lassù calca le stelle.

                                   A burchielletto,[198]

                                   che non s’ingolfa nel mar infido,

65                                ma rade il lido,

                                   la vita è simile del poveretto:

                                   quinci, se insorge di morte atroce

                                   l’Euro feroce,

                                   non si dilunga, né mai si sferra,

70                                ma ne la rabbia investe e prende terra.

 

            lazaro           Signor, i tuoi raccordi

                                   così soave accordi al Ver eterno,

                                   che vorrei esser morto,

                                   per arenar nel porto

75                                il mio legno sdrucito

                                   in un mar fementito,

                                   dove tante procelle ognor discerno;

                                   ma più non le pavento,

                                   che ’l mio presentimento

80                                presagisce al disio la calma pronta,

                                   mentre a la sofferenza

                                   divina Providenza,

                                   stella foriera, in ciel mai non tramonta.

 

            elcana           Povero fortunato,

85                                contraposto fatale,[199]

                                   del riccon bestiale!

                                   Tu nel patir beato,

                                   ei nel piacer penante:

                                   tu nel dolor costante:

90                                ei scarso ne la copia

                                   tu pago de l’inopia:

                                   egli purpureo mostro

                                   veste di bisso e d’ostro,

                                   tu mitissimo agnello

95                                porti stracciato il vello:

                                   tu giusto e mansueto,

                                   egli empio e disumano:

                                   tu limpido e discreto,

                                   ei sordido ed insano.

100                              Or che sarà? Ben presto

                                   il fin d’entrambi a dir sen viene il resto.[200]

 

 

SCENA XII

 

Pellandra sola.

 

Logge.

 

            pellandra     Sagace mio core

                                   scoppiata è la mina!

                                   Se Zelfa meschina

                                   tra i sassi oggi muore;

5                                  e Zambra l’amata,

                                   ma più fortunata

                                   Nineuse oggi sposa,

                                   oh che gran cosa hai fatta, oh che gran cosa!

                                    Deh qual io mi son la destra

10                                de le trappole ingegnera,

                                   de le trame la maestra,

                                   degli amori la terzera![201]

                                   Ben si scorge da l’effetto,

                                   che so por la sposa in letto.

15                                So ben io ciò che vi vuole,

                                   per recar la sorte in braccio:

                                   fo de’ fatti e non parole

                                   con ordir secreto il laccio:

                                   e già che son pell’ed osso,

20                                e goder, ahi, più non posso,

                                   tutta impiego i modi scaltri,

                                   sol per far che godan gli altri.

                                   Ma vien lieto Nineuse in ver me ratto,

                                   con Bisticcio e Farfalla:

25                                se ’l pensier non mi falla,

                                   dannata è Zelfa: a l’oca il becco è fatto.[202]

 

 

SCENA XIII

 

Nineuse, Bisticcio, Farfalla e Pellandra.

 

            nineuse         Pellandra, oh come riedo a te contento,

                                   poiché la traccia nostra ebbe l’intento!

                                   I giudici uniformi,

                                   dopo aver ascoltata

5                                  di questi due conformi

                                   l’asservito attestato,

                                   con gradibil decreto han sottoscritto

                                   il gastigo a l’adultera prescritto.

 

            pellandra     Va ben ed io ne godo,

10                                poiché, reciso il nodo,

                                   sciolto verrete dal noioso impaccio,

                                   e stringeravvi a Zambra un più bel laccio.

                                   Ma Zelfa poverina[203]

                                   spruzza di compassion qualche scintilla

15                                al mio petto infedel che la lattò,

                                   ond’or compunto inclina

                                   a salvarla, se può: né deggio intanto

                                   negarle, almen di qualche stilla, il pianto:

                                   pietà, signor, per lei ragion v’implora.

 

20        nineuse         No! Convien ch’ella muora.

                                   Muora Zelfa e Zambra viva:

                                   Zambra dolce e Zelfa esosa;

                                   che non vuol novella sposa.

                                   Ombra intorno emula e schiva;

25                                muora Zelfa e Zambra viva!

                                   Pria che del Sol la face in mar s’estingua,

                                   ciò che detto ha mia lingua,

                                   s’appressa il Fato a comprovar col fatto.

                                   Odi Pellandra mia! Teco fo patto:

30                                ad ogni altro tuo voto io son d’accordo,

                                   ma, se prieghi per Zelfa, eccomi sordo.

 

            pellandra     Poiché così ti piace,

                                   la tua voglia fia legge; io vo’ giurarla;

                                   ma permettimi almen ch’ov’ella giace

35                                prigioniera, me n’entri a consolarla.

 

            nineuse         Tanto a te sola sia, come a nutrice,

                                   volentieri permesso. Il guiderdone

                                   darotti poi de l’opra tua felice;

                                   ma che brontoli tu, caro buffone?

 

40        farfalla        Signor, mi provo a far da poetone

                                   a Zelfa l’epitafio, e vo’ servirla

                                   ben con la mia Musaccia,

                                   che le rime stiraccia,

                                   poiché ella vi risparmia il seppellirla.

 

45        bisticcio        Sarà la vena dura,

                                   come la sepoltura:

                                   signor, non l’ascoltate,

                                   ch’egli è un poeta a punto da sassate.[204]

 

            nineuse         Lascialo dir, che le freddure a punto

50                                son da sepolcro!

 

            farfalla                                Al termine son giunto

                                   del quatternario, e chi mel biasma, ha torto,[205]

                                   ch’io sol non son poeta beccamorto.

                                   Or sentitelo un po’, per vita mia,

                                   signor, e date un urto, un calcio, un bando

55                                a la malinconia;

                                   ch’io vi lusingo a ciò di quando, in quando.

 

            nineuse         Su dillo, e fa’ che chiaro a me s’imprima!

 

            farfalla        Un po’ di pazienza! Or vo alla meta.

 

            nineuse         La pazienza è propria del poeta.

 

60        farfalla        Sì, ch’ei patisce in ricercar la rima.

 

            bisticcio        Più tosto in sostener con le sue brame,

                                   con dar la fama altrui, la propria fame.

 

            pellandra     Oh che buffon! Le mortadelle indora.

 

            farfalla        Vi mancavate voi monna Pandora!

65                                Udite dunque, o mio signor, udite,

                                   ma, per non interrompermi, tossite

                                   prima, ch’io vi farò per meraviglia

                                   stringer le spalle e raggrottar le ciglia.

 

            nineuse         Ancor non finirai!

 

70        bisticcio        Finiscila oramai!

 

            farfalla        Pria che morta, sepolta: oh caso raro!

                                   Qui giace Zelfa, e ’l tumolo a lei pesa,

                                   non al marito: egli avanzò la spesa,

                                   perch’ella moglie fu d’un ricco avaro.

75                                Ohimè! La rima in fin m’ha strascinato;

                                   pietà, perdon, ho errato,

                                   perché pensai cantar ricco preclaro;

                                   Ma ’l verso è troppo longo[206]

                                   né ’l raccorcia dittongo, o sinaleffa:

80                                in somma io son poeta, ma da beffa.

 

            nineuse         Sei poeta buffone, e questo basta.

 

            bisticcio        Signor, vien Cospetton col cor ne l’asta.

 

 

SCENA XIV

 

Cospettone ed i sopradetti.

 

            cospettone  Ecco il cor d’Elidoro,

                                   dal mio braccio trafitto,

                                   che ancor fuma svenato,

                                   come d’innamorato, arso e confitto.

5                                  Signor, ei disse, io muoro

                                   per la mia cara Zelfa, e son contento:

                                   sol del crudo Nineuse io mi lamento,

                                   perché dannato a torto;

                                   ma cresce il disconforto,

10                                mentre Zelfa, mia vita, ancorché schiva,

                                   per decreto inuman, fia che non viva.

                                   Oh spietata sentenza,

                                   lapidar l’onestà ne l’innocenza!

                                   Volea più dir, ma l’interruppe il ferro;

15                                ch’io con questo mio terso coltellaccio,

                                   se ’l fui giammai, vieppiù burbero e sgherro,

                                   gli fei d’un colpo in petto un brutto straccio:

                                   e poi verso la strozza[207]

                                   fischiò l’acciar, che sibilando sgozza:

20                                così del sangue al mormorio spumante

                                   gli smorzai la parola in un istante.

 

            nineuse         Ma che seguì del corpo,

                                   tosto che vomitò gli spirti insani?

 

            cospettone  Signor il fei gittar fumante a’ cani,

25                                che ancor ne rodon l’ossa.

 

            nineuse         Così vuol, così fa la mia gran possa!

                                   Or va, prendi una tazza,

                                   in cui riposto il cor, recalo a Zelfa,

                                   e dille ch’el beva al suo morire

30                                questo, per ristorarsi, almo elisire:

                                   ma sappimi poi dir ciò che dirà.

 

            cospettone  In tutto si farà, come ordinate:

                                   a rivedersi al suon de le sassate.

 

            nineuse         Ed io ne vo, per far che sieno scelti

35                                lapidatori arditi, agili, e svelti.

 

 

SCENA XV

 

Pellandra, Bisticcio e Farfalla.

 

            pelladra       O Zelfa poverina,

                                   a che t’ho mai ridotta!

 

            farfalla        O vecchia malandrina

                                   or fai tu la marmotta,

5                                  e ’l tardo pentimento

                                   ti sminuisce il muso e accresce il mento.

 

            bisticcio        Oh che furba volpaccia!

                                   Deh con qual faccia rabbronzita e tosta

                                   raggira il dir, per non pagar la posta!

 

10        farfalla        È la femmina invecchiata

                                   ne la frode al maleficio,

                                   l’arsenal d’ogni artificio,

                                   scaltra, doppia e raffinata:

 

            bisticcio        in effetto ella è una volpe,

15                                che s’ingrassa d’altrui polpe.

 

            pellandra     Io volpe? Deh no!

                                   Miratemi attenti,

                                   che son senza denti:

                                   più tosto un’agnella.

 

20        bisticcio        Più tosto lupa ingorda, avara e fella.[208]

 

            pellandra     Ho dolce il sangue e compassivo il core.

                                   Ohimè, se Zelfa muore, io son risolta

                                   di morir, che per me rimasta è colta.

 

            farfalla        Per te colta ella fu,

25                                e perché di Zimbel t’abbiam servito,

                                   pagaci dunque su,

                                   né sfuggir truffarella il patuito!

 

            pellandra     Amici, pazienza:

                                   deh non m’interrompete!

30                                vo’ pria far penitenza:

                                   al mio dolor cedete.

                                   Ah non turbate un buon proponimento

                                   per mercenario e vil emolumento!

 

            bisticcio        O vecchia ippocritona,

35                                non ci raggiri più: pagaci presto,

                                   se non vuol sul tuo grugno

                                   dal mio fulmineo pugno un caldo arresto!

 

            farfalla        O furbaccia vegliarda,

                                   che, quante rughe, hai tante colpe addosso,

40                                seben sei pelle ed osso,

                                   stomacosa, scanfarda,[209]

                                   turcimanna di carne,

                                   peli i piccioni e fai pelar le starne;

                                   ma non pelerai noi, brutta, sdentata,

45                                che rimarrai pelata!

 

            pellandra     Ohimè, che intrigo è questo?

                                   Lasciatemi partir!

 

            farfalla                                            No, ferma là!

 

            bisticcio        Non ti muover di qua!

 

            pellandra                                         Povera me:

                                   non mi tenete, ohimè!

 

50        farfalla        A noi, Bisticcio, a noi! Strignila stretta.

 

            pellandra     Ahi, ahi, non posso più! Farfalla aspetta.

 

            bisticcio        Taci, che ti farò!

 

            farfalla        La pelle, il fiel, gli occhi cavar ti vo’.

 

            pellandra     Io son assassinata: aiuto! Aiuto!

55                                Che volete da me? Non vel rifiuto.

 

            bisticcio        Vogliam quattrini, e ’nvan tua bocca priega.

 

            farfalla        Vogliam succhiarti ’l sangue, o brutta strega!

 

            pellandra     Ohimè ’l capo! Ohimè ’l collo! O fier imbroglio!

                                   Che nodo vilupposo! Ahi non lo scioglio!

 

60        bisticcio        Lasciala pur garrire,

                                   ch’io per la chioma l’ho! Non può fuggire.

 

            pellandra     O Nineuse! O Nineuse! Aita, aita!

 

            farfalla        Invan mentita il reo Nineuse appelli.

 

            bisticcio        Fortunaccia, t’abbiam per i capelli.

 

65        pellandra     Or il vedremo: ad uopo io mi riscuoto,

                                   e, del debito mio per certo pegno,

                                   questo argento del crin vi lascio in pegno.[210]

 

 

SCENA XVI

 

Farfalla e Bisticcio.

 

            farfalla        O noi delusi!

 

            bisticcio        O noi confusi!

 

            farfalla        Fugge la falsa, veloce il piede.

 

            bisticcio        Folle chi crede,

5                                  chi crede a donna che non ha fede.

 

            farfalla        Pazzo chi ha fede,

                                   chi ha fede a donna che a nulla crede.

 

            bisticcio        Oh che bel pagamento!

                                    La volpe lasciò il pel, non l’ardimento.

 

10        farfalla        O malnato costumaccio,

                                   che sconvolge etad’e sesso!

                                   A la moda oggi ’l mondaccio

                                   muta il pel, né il vizio in esso:

                                   e la femmina pelata,

15                                la grigiona e la canuta,

                                   del candor nemica astuta;

                                   cangian pelo a l’invernata:

                                   così par, ma pare a pena,

                                   che sia l’Ecuba un’Elena,

20                                mentre appar ringiovinita,

                                   come pianta rifiorita,

                                   e col crine riccio e biondo,

                                   tesse inganni a tutto il mondo.

 

            farfalla        Oh che frode! O quante zucche

25        e bisticcio     se volasser le pirucche![211]

 

 

SCENA XVII

 

Pitonessa, Zambra, Eliabbe, Graffio e quattr’Ombre.

 

Grotta sotterranea.

 

            pitonessa      Questo è lo speco, amici,

                                   dove tra l’ombre arcane,

                                   pitonessa di Dite, il ver disvelo:[212]

                                   quindi ne’ campi aprici

5                                  del sotterraneo regno, ov’ho il mio cielo,

                                   veggo del Fato rio l’orme più strane.

                                   In fogge disumane

                                   il sembiante trasformo, e, ancorché ’l vieti,

                                   soglio scrutar di Dio gli alti secreti.

15                                De l’abisso tributaria

                                   fo che ’l mar gli euri improcellano,

                                   che le scosse i monti svellano

                                   al mugghiar d’un turbo in aria.

                                   Di questa verga mia guizzante al gemito

20                                grandinose tempeste aggiro ed eccito;

                                   E qualor carmi tetri ardendo recito,

                                   mi risponde de l’Orco il mesto fremito:

                                   così strisciar io fo raggio veridico

                                   de’ mormoranti ensalmi al suo fatidico.

25                                Or chiedete

                                   che volete!

                                   V’aprirò con tuon fanatico

                                   del futuro

                                   più sicuro

30                                il successo a un dir enfatico.

 

            zambra          Saggia, il nostro desire

                                   sol ricerca da te, se ’l nostro intento

                                   d’avvelenar Nineuse avrà l’evento,

                                   e s’oggi è ’l dì fatal ch’ei dee morire?

 

35        pitonessa      Or vi servo fedel, ma non temete,

                                   se scatenar vedete

                                   qui, sotto a’ vostri piè, l’inferno ombroso,

                                   al mio stretto scongiuro ossequioso.

                                   D’Acheronte sentitemi

40                                numi ossecrati, orribili!

                                   Di questa verga ai sibili

                                   v’appello: o là ubbiditemi!

                                   Io son colei che onorovi

                                   e sui vietati tripodi

45                                v’offro capri e polipodi,

                                   mentre prostrata adorovi.

 

Qui muggendo si scuote la terra ad un tremoto.

 

            zambra          Ohimè, che fier ribrezzo!

 

            graffio          Ohimè, che sconcio vezzo!

                                   Povero Graffio, ohimè, questa canzone

50                                ti costerà un testone.

 

            eliabbe          Oh che tremor m’aggira!

                                   Freme il suol, geme il cor, l’aria sospira.

 

            pitonessa      Non temete! Si strecciano

                                   già le larve onorevoli,

55                                ed al vol concordevoli,

                                   per venir s’apparecchiano.

                                   A questo picchio attonita

                                   con vaporosa enfiagine,

                                   da la cupa voragine

60                                l’ombre la terra vomita.

 

Escono quattr’Ombre da quattro parti.

 

            graffio          Ahi, ahi! Tutto interizzo,

                                   senza brio, senza lena, attratto e vizzo.

                                   Oh che gran stramazzata!

                                   Addio zucca pelata!

65                                Ma è un mal che si ristucca,

                                   non mancherà pirucca.

                                   Ciò che mi preme più, con gran tormento,

                                    oh che ruina! Ho rotto il fondamento.

 

            zambra          Non più, non più! Son morta:

70                                Viva Nineuse pur! Ferma l’incanto!

                                   Ohimè, caro Eliabbe, ov’è la porta?

 

            eliabbe          Da la magion del pianto

                                   non può venir, sol che terror funesto.

                                   Anch’io gelido resto.

 

75        pitonessa      Non temete! Or narratemi,

                                   ombre amiche, se aspettasi

                                   da voi Nineuse? Affrettasi

                                   sua morte? Il segno datemi!

 

Qui l’Ombre si curvano e poi sfrizzano.

 

            graffio          Ohimè, ohimè! Oh che spietato crollo!

80                                Mi ruppi ’l fianco ed or mi fiacco il collo.

 

            pitonessa      Ditemi pur, se prefico

                                   il Fato oggi lo stermina

                                   dal mondo, e s’a lui termina

                                   l’aura un sorso venefico?

 

Qui l’Ombre si curvano, come prima.

 

85        graffio          Oh che fieri tormenti!

                                   Col batter tanto a me cascano i denti.

 

            pitonessa      Chiare novelle, o Zambra: oggi Nineuse

                                   morirà di veleno. Ombre sparite,

                                   per arrivarne il gran tripudio a Dite!

 

90        zambra          Andiamo, andiam dolc’Eliabbe al sole!

 

            eliabbe          Sì, mia bella, io ti reggo

                                   e poiché in ciel scritto il destino io leggo

                                   muora l’empio Nineuse, il ciel lo vuole.

           

            graffio          Ah ah, ah ah, ah ah! Per respirare

95                                fatemi largo omai, ch’io vo’ sciallare!

 

Conchiudono quest’atto terzo le quattr’Ombre con un funesto balletto, le quali poi si convertono in quattro alberi di cipresso.

 

 

 

ATTO QUARTO

 

 

SCENA I

 

Elidoro travvisato con barba posticcia e Zelfa legata di funi.

 

Prigione interiore.

 

            elidoro         Ecco, adultera donna, estinto il core

                                   di quel che fu tuo cor, tuo ben diletto:

                                   Nineuse a lui fe’ sviscerar il petto,

                                   ch’ei gli rubò fellon teco l’onore.

5                                  Mentre il ferro il trafisse

                                   sai tu ciò ch’egli disse,

                                   vomitando, rubello al pentimento,

                                   tinto nel sangue suo l’ultimo accento?

                                   Io muoro a Zelfa, il so;

10                                ma sempre l’amerò:

                                   che, se l’alma non muor,

                                   immortal fia l’amor:

                                   mio bene, idolo mio,

                                   Zelfa mia cara addio!

 

15        zelfa             Ahi che tragico affanno

                                   compie del mio dolor l’atra misura!

                                   Povera Zelfa! Ohimè qual nube oscura

                                   mi toglie il lume? Oh Dio qual disinganno

                                   mi costringe ad amarti,

20                                or che non posso più, caro, abbracciarti?

                                   Elidoro! Elidoro! Ahi tardi amato

                                   da questo cor ingrato!

                                   Or che vorrei non posso,

                                   quando potea non volli:

25                                tanto strazio han promosso!

                                   Per serbar fede a l’infedel consorte,

                                   o dolce anima mia, ti diei la morte.

                                   Lacrimate occhi dolenti,

                                   perché spenti

30                                del mio Sol i rai sospiro!

                                   Svelto core

                                   dal mio amore

                                   io non muoro, e ancor ti miro!

                                   Ma che giova il lagnarsi,

35                                se non può il ben perduto, ahi, ricovrarsi?

                                   Ah Nineuse spietato e sanguinario,

                                   che Lestrigoni e Cafri e Traci e Sciti[213]

                                   non sol crudele imiti,

                                   ma li sormonti ancor empio sicario,

40                                da una lupa succhiasti

                                   perfido il latte crudo,

                                   poiché di pietà nudo

                                   il mio vezzoso agnel mi lacerasti!

                                   Deh fatal destin

45                                sei pur giunto al fin!

                                   Che vuoi da me più?

                                   Poiché ’l mio dolor

                                   non m’uccide ancora,

                                   perché nol fai tu?

 

50        elidoro         (Fortunato procinto:

                                   o me felice! Ho vinto.) (a parte)

 

            zelfa             O mia vita, o mio bene,

                                   tu con barbaro esempio

                                   per me sì atroci pene,

55                                per me sì enorme scempio

                                   soffristi, e sopravvivo

                                   a te, de l’alma privo?

                                   Tu se’ morto, e non muoro?

                                   Elidoro! Elidoro!

 

60        elidoro         Morto non sono, o cara! (si leva la barba)

                                   Da la mia fede impara

                                   ad essermi fedele, amata amante:

                                   eccomi qui costante,[214]

                                   che con sagace sorte,

65                                per dar la vita a te, scansai la morte!

 

            zelfa             Oh sorpresa importuna!

                                   Quest’adultero inganno,

                                   d’ogni altro è maggior danno,

                                   che tutto il male in me tosto raduna.

70                                Poiché viver ti vedo,

                                   più che pria non ti credo:

                                   ah fu delirio il pianto ed il lamento

                                   del mio cor sul tuo finto or è tormento!

                                   T’amai svenato, sì,

75                                or non più ti amo no:

                                   e quel laccio, che ordì

                                   tua frode, or si spezzò.

                                    La marital mia

                                   da l’estorta pietà

80                                non è divelta già,

                                   poiché ritorno a me;

                                   ma t’aborro ognor più:

                                   va’ via, che fai qui tu?

 

            elidoro         Oh mutanza infelice!

85                                Bella, se a me non lice,

                                   perché fiera l’amarti,

                                   almen consenti almeno,

                                   benché sii pietra viva,

                                   ch’io faccia scudo a te di questo seno.

90                                Già Nineuse ti priva

                                   di respiro tra sassi,

                                   pria sepolta che spenta: or che farassi?

                                   Abbi di te, se non di me, pietade!

                                   Prenditi questi panni e questi peli,

95                                la tua gonna mi lascia, onde mi celi:

                                   t’offro lo scampo, fuggi, ah fuggi presto!

                                   Perché già l’ora cade,

                                   in cui Nineuse a lapidarti, atroce,

                                   arma robuste braccia: io per te resto

100                              ad aspettar, chi mi conduca al posto:

                                   ah fuggi, anima mia, deh fuggi tosto!

 

            zelfa             Strana avventura è questa:

                                   che risolvo? Si desta

                                   ver Elidoro in me pietà novella.

 

105      elidoro         Che pensi? Che risolvi? O cara! O bella!

 

            zelfa             S’io mi salvo ed ei muore?

                                   Ah nol consente Amore!

 

            elidoro         Che rumini sospesa?

 

            zelfa             Io penso a te! Ch’io parta, amico, e poi

110                              tu rimanghi a la presa!

                                   Ah nol vo già, se ’l vuoi!

                                   Son grata, e l’equità fie troppo offesa.

 

            elidoro         Deh lascia, anima mia,

                                   pensarci a me, ch’io so: presto va’ via!

 

 

SCENA II

 

Nineuse e Lazaro.

 

Atrio di palagio.

 

            nineuse         Oggi per me fatale il dì si volge

                                   in cui Zelfa la stolta

                                   fia tra sassi sepolta,

                                   e la mia bella Zambra,

5                                  quanto più posseduta,

                                   tanto più del mio cor donna assoluta

                                   trionferà nel talamo che indora

                                   con le sue luci, e co’ suoi labri infiora.

 

            lazaro           Ahi morte vitale,

10                                che m’uccidi ognor!

                                   Ahi vita mortale,

                                   perché duri ancor?

                                   Svenuto il mio petto,

                                   di pustule infetto,

15                                non ha più respir

                                   e anela a morir.

                                   La fame rodente,

                                   con morso fremente,

                                   con rabbia letale,

20                                mi lacera il cor:

                                   ahi morte vitale,

                                   che m’uccidi ognor!

 

            nineuse         Oh che voce importuna

                                   turba del mio gioire,

25                                col funesto guaire

                                   la ridente fortuna!

 

            lazaro           Già son del mio fine

                                   le mete vicine:

                                   coraggio, o pensier!

30                                Poiché lusinghier

                                   inviti a la calma

                                   in porto quest’alma,

                                   che in legno sì frale

                                   ondeggia al dolor:

35                                ahi vita mortale,

                                   perché duri ancor?

 

            nineuse         M’apposi certo: sì ch’egli è quell’uno  

                                   ch’osa ognor mescolar co’ suoi lamenti,

                                   famelico digiuno

40                                i miei satolli no, stanchi contenti,

                                   infausto cornacchione,

                                   perché t’aggiri ancor per queste logge?

                                   Se già con aspre fogge

                                   ti fei cacciar al suon d’atri rimprocci:

45                                va’ via! Se più t’approcci,

                                   ti sentirai sul dosso un buon bastone.

 

            lazaro           Signor, io muoro.

 

            nineuse         Muori.

 

            lazaro           Di fame.

 

50        nineuse         È poco mal.

 

            lazaro           Ahi che dolori!

 

            nineuse         Me ne rido.

 

            lazaro           Ahi che morbo!

 

            nineuse         Tu sei, furbaccio, un corbo

55                                di malaugurio.

 

            lazaro           Ohimè, pietà vi chieggio.

 

            nineuse         Un calcio ti do invece.

 

            lazaro           A voi, come a padron questo, e più lece.

 

            nineuse         N’avrai anche di peggio:

60                                va’ via!

 

            lazaro                       Signor, pietà, pietà signore,

                                   per amor di quel Dio che ci sostiene!

 

            nineuse         Oh bene! Oh bene! Oh bene!

                                   Che Dio? Pazzo trasogni.

                                   Giuro il ciel, non v’ha Dio;

65                                e quando vi sia pur io lo son io.

 

            lazaro           Che deliri! Che sogni!

                                   Ricco infelice svegliati

                                   dal tuo letargo cupo:

                                   se vuoi che ’l pastor sciegliati,

70                                sii pecora, e non lupo.

                                   Con bestemmie sì orribili

                                   arroti al ciel lo strale,

                                   i cui fischi terribili

                                   già s’odono al tuo male.

75                                S’or ti può morte opprimere,

                                   misero Dio tu sei:

                                   che l’or non ti può esimere

                                   dal ferro di colei

                                   che non teme i rimproveri

80                                nel mieter ricchi e poveri.

 

            nineuse         Ah temerario! Ah bacchettone! Ah spia!

                                   E ’l soffro ancor? Olà si cacci via!

 

 

SCENA III

 

Cospettone con alcuni Sgherri, Lazaro e Nineuse.

 

            cospettone  Padron, eccomi qui col brando in filo!

                                   Che commandate voi? Con questi fidi

                                   seguaci miei vi servirò animoso.

 

            nineuse         Cospetton, vo’ che snidi

5                                  costui da quest’albergo, ov’ha l’asilo

                                   tutt’or, a me stracciato infausto, esoso:

                                   fa’ che più nol riveda,

                                   dallo in dono ai dirupi, ai corbi in preda.

 

            cospettone  Così farò signor. Commilitoni

10                                prendetelo di peso,

                                   ed a suon di sgrugnoni

                                   smascellatelo gittatelo, ove sceso

                                   corre con passo algente

                                   di Cedronne il torrente.[215]

 

15        sgherri          Tanto faremo, a noi!

 

            nineuse         La ricompensa, amici, avrete poi.

 

            lazaro           Aita, o ciel, o Dio!

 

            nineuse         Va’ pur, e paga di tua lingua il fio!

 

 

SCENA IV

 

Cospetton e Nineuse.

 

            cospettone  Or, che a far più mi resta?

 

            nineuse         Vo’ che con quella

                                   turma de’ tuoi sargenti, ad uopo scelta,

                                   ne vadi or ora a condur Zelfa, dove

5                                  nembo di sassi piove.

                                   Già con robusti ardori

                                   attendono l’oggetto

                                   bravi lapidatori,

                                   e ’l curioso aspetto

10                                d’una folta affluenza i gradi preme:

                                   il popolo, che freme

                                   a l’onta, che m’offende, a cento, a mille,

                                   arma, per vendicarmi, atre pupille.

 

            cospettone  Vado, signor, a proseguir l’inchesta.

 

15        nineuse         Va’ pur, va’ tosto ad estirpar l’infesta!

 

 

SCENA V

 

Pellandra ed Elidoro in abito di Zelfa.

 

            pellandra     Che fai, povera figlia?

                                   Ohimè, come ti miro in questa tomba

                                   da l’affanno sepolta! Ah come piomba

                                   il tuo viso! Deh volgi a me le ciglia!

5                                  Che fai povera figlia?

 

            elidoro         Importuna fantasma, ombra letale

                                   cagion d’ogni mio male,

                                   perché venuta sei, con che m’adiro,

                                   a funestar il mio final respiro?

 

10        pellandra     Per consolarti, o cara,

                                   ne la tua pena amara.

 

            elidoro         Perfida, ancor ti mesci

                                   nel mio tetro dolore,

                                   per renderlo maggiore.

15                                Va’ via, larva di morte, ancor non esci?

 

            pellandra     Amata Zelfa, io sono, io son colei,

                                    che col funereo suon di mesti omei

                                   confesso il tradimento,

                                   e ne irrigo col pianto il pentimento.

20                                Deh ricevi lacrimoso

                                   il mio spirto in duolo absorto,

                                   e col tuo guardo pietoso

                                   don al cor qualche conforto!

                                   Ah perdona! Errai: pentita

25                                vorrei dare,

                                   per salvare

                                   la mia Zelfa or or la vita.

 

            elidoro         Congiuntura opportuna! Io vo’ servirmi

                                   de la traccia con cui Zelfa salvai.

30                                Vecchia, non val offrirmi

                                   la vita, se con l’opra or non la dai.

 

            pellandra     Ohimè, son colta al motto! Ah, se potessi,

                                   vorrei ben, che ’l vedessi!

 

            elidoro         Pellandra, se tu vuoi,

35                                ben eseguirlo puoi.

 

            pellandra     E con qual modo, o figlia?

 

            elidoro         Questa mia gonna ed il mio velo piglia,

                                   ch’io prendendo la tua, quindi coperta

                                   ricovrerommi a libertade aperta.

 

40        pellandra     Periglioso consiglio!

                                   Che sarà, s’io lo sceglio?

 

            elidoro         Che sarà? Poco danno

                                   a te può intravenirne:

                                   resta pur qui, ch’uscirne

45                                potrai, scoperto il generoso inganno.

 

            pellandra     E s’io son lapidata

                                   in tua vece, addio pur! Pellandra è andata.

 

            elidoro         Non dubitar! A te, non a me, dono

                                   farà Nineuse al fin del suo perdono.

 

50        pellandra     Ancor non mi risolvo,

                                   e quanto più rivolvo

                                   nel pensier questo invito,

                                   tengo il partir di qua miglior partito.

                                   Noialtre vecchiarelle

55                                abbiam la morte addosso,

                                   non già tra carne e pelle,

                                   ben sì tra pelle ed osso;

                                   e benché siam rugose,

                                   curvate e rantacose,[216]

60                                col piè nel cimitero,

                                   dimandiam tempo a far l’ultimo zero.

 

            elidoro         Fementita, a schernir quest’infelice

                                   dunque venisti? E tu sei mia nutrice?

 

            pellandra     T’amo, figlia, ma temo:

65                                non ho cor da salvarti, e perciò gemo.

 

            elidoro         Se vita mi puoi dar senza perire,

                                   mi lascerai morire!

 

            pellandra     S’altro scampo non v’ha, sol ch’io qui resti,

                                   in vece de le tue, prendi le vesti

70                                mie: chi sa? Nineuse avrà pietade,

                                   se non di te, de la mia grinza etade.

 

            elidoro         Non dubitar Pellandra! Un bell’ardire

                                   prova sorte felice: io do parola

                                   di girne a procurare, anche il tuo scampo,

75                                con non ingrato petto

                                   al tuo fedel rinovellato affetto,

                                   poiché mi veggo aprire

                                   di quest’avello il varco al caro lampo

                                   del tuo propizio aiuto: or non si tardi!

 

80        pellandra     Son in pegno: a noi pur! Più non risguardi!

                                   Questa volta, o mie colpe,

                                   restar fate a la trappola la volpe.

 

 

SCENA VI

 

Bisticcio, Farfalla, Ghiotto, tutti da viaggio con gli stivali.

 

Atrio di palagio.

 

            bisticcio        A la guerra de’ buoni bocconi

                                   s’armino i denti, la gola s’ingiacchi!

                                   A pranzi, a cene, a collazioni

                                   sia petto il ventre, che mai non si stracchi.

 

5          farfalla        Quanto a me ne vado armato,

                                   per far breccia in un pasticcio,

                                   benché sia torrionato

                                   da la crosta che dà impiccio.

                                   Spianerò con man brodosa

10                                la montagna più carnosa,

                                   e col morso mio gagliardo

                                   a sbranar capponi e starne,

                                   con stridor farò scolarne

                                   su la gota il grasso lardo.

 

15        ghiotto        Ed io, che di cucina

                                   son bravo protomastro,

                                   che disceso in cantina

                                   divengo un Zoroastro,[217]

                                   in questo dì che fuma,

20                                farò saltar la spuma

                                   del vin fino a le stelle:

                                   sventrerò le animelle,

                                   per animar il ventre;

                                   ma non fia già che v’entre

25                                alcun cibo pedestre e dozzinale:

                                   abbia pur, se si può, fenicie l’ale.

 

            bisticcio        È partito Nineuse con l’amica

                                   a far le nozze questa sera in villa.

                                   Per andar stretti più, vanno in lettica:

30                                arde l’uno di gioia, e l’altra brilla.

                                   Oh qual, per sì gran peso, alta fatica

                                   faran le mule! Ognuna e geme e stilla

                                   caldo il sudor; ma con ragion è stracca

                                   col carico d’un toro e d’una vacca.

 

35        farfalla        Zelfa intanto a le pietre destinata

                                   or or fia strascinata. Oh sorte dura,

                                   che fa pianger Natura a più non posso,

                                   perché Zambra ha la carne e Zelfa l’osso.

 

            ghiotto        Che importa a me? Purch’io magni a mia possa,

40                                con faccia e panza tosta,

                                   muora pur, muora Zelfa e Zambra goda:[218]

                                   viva Nineuse pur, viva la broda!

 

            bisticcio        A cavallo! A cavallo!

                                   A la pesca, a la caccia, al canto, al ballo!

 

45        ghiotto        Olà! Fate insellarmi un elefante,

                                   ch’ho il ventre un po’ pesante!

 

            farfalla        A cavallo! A cavallo! A nozze! A nozze!

                                   Datemi un buon corsier, non voglio rozze![219]

 

            bisticcio        Ed a me un dromedario camminante;

50                                ma però di portante;

                                   che non van ben gli occhiali

                                   a chi calza stivali,

                                   a cavallo! A cavallo!

                                   A la pesca, a la caccia, al canto, al ballo!

 

 

SCENA VII

 

Eliabbe e Graffio stivalato.

 

Strada.

 

            eliabbe          Palpitoso pensiero

                                   ferma, deh ferma l’ali,

                                   che l’incostanze tue mi son letali!

                                   Disio morto, ed è vero,

5                                  il mio crudel germano,

                                   che ’l ben ereditario a me sottrae;[220]

                                   ma, se interesse il vuol, Natura il niega:

                                   quindi la brama arresto

                                   perplesso, e temo l’esito funesto.

 

10        graffio          Signor, in fretta, in fretta,

                                   aleggiante il polmone,

                                   sopra un legger ronzone,

                                   Zambra mi manda a voi: penando aspetta

                                   quelle polvi, efficaci

15                                a spegner di Nineuse i giorni edaci:

                                   su, presto al dispacciarmi!

 

            eliabbe          Caro Graffio non so, non so piegarmi

                                   a così atroce scempio:

                                   è vero che merta l’empio

20                                mille volte la morte,

                                   ma sento un non so che d’ambiguo e tetro,

                                   con cui dal fatto il mio disegno arretro.

 

            graffio          Oh questa sì che bagna!

                                   Signor, per qual cagione

25                                Or fate il bacchettone?

                                   Ah che vita sì rea mal si sparagna!

                                   Muora Nineuse, muora

                                   questa notte che arriva!

                                   Viva Eliabbe, viva,

30                                e sia del giorno suo Zambra l’aurora!

 

            eliabbe          Che penso? Che risolvo? Ah vada il resto!

                                   Eccomi Graffio amico, eccomi presto.

                                   Prendi le polvi, ov’ha la morte impresse

                                   l’orme letali, e dalle a Zambra in dirle

35                                ch’al suo bel, al mio ben vengo ad offrirle.

 

            graffio          Muora Nineuse, muora

                                   questa notte che arriva!

                                   Viva Eliabbe, viva,

                                   e sia del giorno suo Zambra l’aurora!

 

 

SCENA VIII

 

Elcana solo.

 

            elcana           Oh che mondo,

                                   tutt’immondo,

                                   pien di frodi,

                                   fatto a scale,

5                                  dov’il giusto discende e l’empio sale![221]

                                   Quanti nodi

                                   l’interesse

                                   scaltro tesse!

                                   Quant’inganni

10                                logran gli anni!

                                   Come vane

                                   cure umane,

                                   ondeggiando in questo mare,

                                   vanno a dare

15                                con fier cozzo in duro scoglio,

                                   dove ha soglio

                                   l’alterezza,

                                   che disprezza

                                   l’innocenza:

20                                dov’infido

                                   cova il nido

                                   l’erronea libertà de la coscienza!

                                   Quinci tanti,

                                   fluttuanti,

25                                fur veduti andarne a fondo:

                                   oh che mondo!

                                   Nineuse il ricco, enfiato

                                   da l’orgoglioso fasto,

                                   più de’ corbinfedele,

30                                del povero ulcerato

                                   ha fatti ai corbi pasto:

                                   più minace d’Arturo,

                                   più de le selci duro,

                                   de la sposa fedele

35                                or fa bersaglio ai sassi:

                                   dunque fia che ciò passi

                                    senza vendetta, o cielo,

                                   e che trattenghi ’l foco a tanto gelo?

                                   De la bella innocente

40                                agli accesi sospiri

                                   per far che non s’aggiri

                                   al fin l’orecchio algente,

                                   ostinato a la pena

                                   di lei, che iniquo aborre

45                                con la sua Zambra oscena

                                   a festeggiare sen corre

                                   le nozze in villa: oh Dio

                                   ancor non paga il fio,

                                   di tante colpe carco?

50                                Ma ’l castigo l’attende affisso al varco.

                                   De la Giustizia sospeso

                                   fu l’arco, omai troppo lento:

                                   or ora si curva teso

                                   a far che ’l tristo sia spento:

55                                chi non conosce il ciel, quando è brillante,

                                   n’è fulminato poi, quanto è tonante.

 

 

SCENA X

 

Lazaro moribondo, col capo appoggiato ad un sasso, e due angeli.

 

Torrente con dirupi e cascate d’acque.

 

            lazaro           Ecco il fine del mio duolo,

                                   del mio pianto ecco le mete!

                                   Alma mia prepara il volo

                                   ad un centro di quiete.

5                                  Da questa spoglia frale,

                                   infranta in un dirupo,

                                   esci pur immortale,

                                   per fuggir agna il lupo!

                                   Addio mondo inumano,

10                                che al trono ergi l’ingiusto,

                                   e al precipizio insano

                                   condanni a torto il giusto:

                                   io volentier mi snodo

                                   da’ tuoi lacci, e già godo,

15                                che la mia pena acerba

                                   recisa, e dal puzzore

                                   arsiccia e senza fiore,

                                   sia da la Parca la mia vita in erba.

                                   E tu Nineuse irato,

20                                che con ruvido ciglio

                                   ver me, così famelico e piagato,

                                   vibrasti sanguinario il fier artiglio:

                                   rimanti ’n guerra teco, avaro, edace:[222]

                                   ch’io, ricco di me stesso,

25                                benché misero e oppresso

                                   dal tiranno tuo cor, ne vado in pace!

 

            due angeli    Al riposo

                                   prezioso

                                   vienne pur o anima bella,

30                                che t’appella

                                   quel buon Dio che ti creò

                                   fortunata, per gioire

                                   in quel sen che preparò,

                                   dopo il tuo lungo patire,

35                                come porto, in cui la calma

                                   ride a l’alma,

                                   che nel mar d’ogni disastro

                                   ebbe ognor la per astro.

 

            lazaro           O geni celesti,

40                                or sia che m’appresti

                                   più lieto al morir!

                                   Poiché ’l vostro riso

                                   del mio Paradiso

                                   mi accresce il desir!

45                                Oh come gioisce,

                                   perché s’arricchisce

                                   di speme novella,

                                   che a Dio mi rappella

                                   svegliato il pensier

50                                un raggio, foriero

                                   de l’alba, che spero

                                   in notte sì esosa,

                                   con luce pietosa

                                   m’invita a goder.

 

55        due angeli    Vieni amico, vieni,

                                   dove la pietà

                                   co’ suoi rai sereni

                                   ti raccoglierà!

                                    In questa età,

60                                in cui la colpa tronfa

                                   de la virtù trionfa,

                                   raminga l’innocenza

                                   d’incolpabil coscienza

                                   asilo alcun non ha.

65                                Vieni amico, vieni,

                                   dove la pietà

                                   co’ suoi rai sereni

                                   ti raccoglierà!

 

            lazaro           Andiamo sì, sì,

70                                che del mio Natal

                                   mi splende oggi ’l dì

                                   tranquillo e vital!

                                   Felice morir,

                                   che m’apre al respir

75                                il varco fedel!

                                   Aspirami o ciel.

                                   Mio Nume divin,

                                   de l’arso mio cor

                                   dolcissimo amor,

80                                quest’alma ti do,

                                   perché da te l’ho:

                                   tu ne fosti principio, e ne sei fin.

 

Qui Lazaro agonizza svenuto.

 

            primo             Da questo aspro torrente

            angelo          leviamlo del Giordano

85                                a la riva clemente,

                                   che già con l’alveo sacro

                                   appresta il gran lavacro

                                   al felice cristiano.

 

            secondo        Ben è, perché v’esali

90        angelo          l’alma, spogliata di sue membra frali,

                                   che poi con volo ameno

                                   lieti la porterem d’Abramo al seno.[223]

 

            amendue,       O morte preziosa!

            mentre il       O morte amorosa!

95        portano        O morte vitale!

                                   Felice chi more

                                   in braccio al Signore!

 

 

SCENA XI

 

Pellandra sotto gli abiti di Zelfa velata ed avvinta ad un palo: Cospettone con Sgherri e Lapidatori.

 

Anfiteatro.

 

            cospettone  Schieratevi d’intorno, o bravi arcieri,

                                   e sol passar lasciate,

                                   con chi si sia severi,

                                   a l’adultera Zelfa le sassate:

5                                  e voi, distinti a cori,

                                   scelti lapidatori,

                                   con battute di peso,

                                   fate di felci sibilar sonante

                                   un’armonia soave

10                                a l’onor vilipeso,

                                   con iscoppio tonante,

                                   un concerto, che grave

                                   abbatta l’impudica

                                   del talamo nemica.

 

Qui si schierano gli Sgherri e s’accingono a tirare i Lapidatori.

 

15        pellandra     Udite, udite!

                                   Pietà, pietà!

                                   Deh non ferite,

                                   ch’io non son già

                                   con questo petto

20                                lo scopo eletto

                                   dal reo rigor

                                   di quel furor,

                                   ch’arma le destre

                                   di sasso alpestre,

25                                contra me unite

                                   da l’empietà:

                                   udite, udite!

                                   Pietà, pietà!

                                   Deh svelate questo viso,

30                                che vedrete a l’improviso,

                                   ch’io non son Zelfa dannata!

                                   Ahi meschina,

                                   poverina,

                                   ohimè ’l capo, o che sassata!

 

35        cospettone  Tirate pur, non allentate i colpi,

                                   che indarno e prega e spera:

                                   così scappar soglion le volpi.

 

            pellandra     Ohimè, ohimè, che crudeltà esecranda!

                                   Fermate i sassi, oh Dio!

40                                Che Zelfa non son io, ma son Pellandra.

 

            cospettone  Simular mi convien di non saperlo:

                                   non curo di vederlo:

                                   tirate olà!

 

            pellandra     Udite, udite!

45                                Deh non ferite!

                                   Pietà, pietà!

 

Si finge che dalla violenza de’ sassi le cada il velo, e sia ravvisata per Pellandra.

 

            cospettone  Ah destino, ella è scoperta!

                                   Una pietra la svelò;

                                   e pur sempre meritò

50                                le sassate, o la coperta.

 

In questo suona la tromba e per comando dei Giudici si fermano i Lapidatori.

 

            pellandra     Olà fermate,

                                   fermate olà!

                                   Udite, udite!

                                   Deh non ferite!

55                                Pietà, pietà!

 

            cospettone  La tromba suona e ’l giudice m’appella:

                                   Cospetton! Vuol salvar la vecchiarella!

 

            pellandra     Ahimè, respiro un poco!

                                   Benché così percossa,

60                                che m’han fiaccate l’ossa.

                                   Fischia l’ignobil turba,

                                   che spietata mi cinge:

                                   oh qual onta conturba

                                   il mio volto, e ’l mio core

65                                con atroce dolore!

                                   Ah, che misera sorte!

                                   Questo è peggio che morte.

 

            cospettone  Olà, miei valorosi,

                                   slegate pur colei,

70                                per condurla a Nineuse,

                                   a fin ch’ei ne disponga a suo talento,

                                   e punisca di lei l’alto ardimento

                                   d’aver salvata Zelfa l’esecranda:

                                   tanto il giudice vuol, così comanda.

 

75        pellandra     Misera, e pur son presa, ancorché sciolta!

                                   La giustizia del cielo al fin m’ha colta.

Qui la strascinano via, e i Lapidatori, per chiusa di quest’atto quarto, formano un bizzarro balletto, battendosi di concerto alternamente con le pietre.

 

 

 

ATTO QUINTO

 

 

SCENA I

 

Nineuse, Zambra e Farfalla.

 

Casino in prospettiva, con giardino e fontane.

 

            nineuse         Siam giunti, o Zambra cara,

                                   dove dal tuo bel viso

                                   serenissimo riso il ciel impara.

                                   In questa solitudine amorosa

5                                  da la tua guancia, dal tuo labro apprende

                                   il candor l’amaranto

                                   e l’ostro, onde il suo manto

                                   più vivace raccende,

                                   principessa dei fior, la regia rosa.

10                                Per te, mia Flora,

                                   l’aria s’indora,

                                   s’ingemma il verde prato:

                                   la fronte brilla,

                                   l’augello trilla

15                                col canto innamorato.

                                   Odi quell’usignuolo,

                                   che tra ’l pennuto stuolo,

                                   alato Orfeo gorgheggia!

                                   Egli, al tuo grato arrivo,

20                                pur lieto e più festivo,

                                    dolcemente armoneggia.

 

            zambra          Amata amante,

                                   la tua costante[224]

                                   Zambra ti cole:

25                                tu sol di lei

                                   la fiamma sei,

                                   l’oggetto, il Sole.

                                   Al tuo guardo,

                                   io tutt’ardo:

30                                ma respiro,

                                   s’io ti miro.

                                   Il tuo viso

                                   radioso,

                                   il tuo riso

35                                amoroso,

                                   nascer fa la primavera,

                                   dov’impera:

                                   il tuo piè fa sorger fiori:

                                   tu sei Zeffiro ed io Clori.

 

40        nineuse         Andiamo,

            e zambra        godiamo,

                                   che ’l tempo sen va!

                                   Finita

                                   la vita

45                                contento non v’ha.[225]

 

            farfalla        O vaga canzone!

                                   Al mio calascione[226]

                                   sposar io la vo’;

                                   ma meglio sia quella

50                                de la tarantella,

                                   che vi morsicò.

 

 

SCENA II

 

Cospettone con Pellandra legata: Nineuse, Zambra[227] e Farfalla.

 

            cospettone  Signor, novella strana

                                   vi reco a punto crudo:

                                    questa brutta beffana

                                   fuggir feZelfa, ed in sua vece ascosta

5                                  ne le vesti di lei restò supposta,

                                   e una fiera sassata,

                                   nel venir lapidata,

                                   le fe’ cader il velo,

                                   e si conobbe al fin la volpe al pelo:

10                                quinci ’l giudice, a voi tutto ossequente,

                                   sospese l’atto, e m’ordinò repente

                                   di condurvela in fretta,

                                   perché vostra è l’offesa e la vendetta.

 

            nineuse         Che sento? E tanto osò?

15                                S’incarceri, ch’io vo’

                                   farne pasto a le fere in una fossa.

 

            pellandra     Signor, pietà, pietà! Perdon, perdono!

 

            farfalla        Le fere magneran poco di buono.

 

            cospettone  Sì, ch’ella non è sol che pelle ed ossa.

20                                Vien pur via Pellandraccia!

 

            zambra          Oh che maliziosaccia!

 

            pellandra     Ohimè, quanto rigor! Ahi che fierezza!

 

            zambra          Va’ pur via buona pezza!

                                   Questa volta il tuo piè più non si strica:

25                                salvasti Zelfa, ed hai Zambra nemica.

 

            nineuse         Cospetton, guarda ben che non t’inganni!

 

            cospettone  Vien via sacco di frodi e di malanni!

 

            nineuse         Come l’arrai deposta in luoco oscuro,

                                   ma che sia ben sicuro,

30                                manda per tutto a far ricerca esatta

                                   di quella disonesta.

 

            farfalla        Oibò, che questa, più che l’altra appesta!

 

            cospettone  Va’ pur là fementita,

                                   che, se più sei restia,

35                                con un pugno saltar farotti via

                                   quel dente che ti resta!

 

            farfalla        Che bella Berenice![228]

 

            pellandra     O Pellandra infelice!

 

 

SCENA III

 

Nineuse, Zambra, Farfalla e Ghiotto.

 

            zambra          Che stravaganza strana!

                                   Zelfa ancor non è morta.

 

            nineuse         Amica, poco importa,

                                   poiché per me, per te Zelfa non vive:

5                                  non temer già, ch’estirperò l’insana!

 

            zambra          Deh, mio ben, fa’ tosto

                                   che di vita la prive,

                                   o ferro, o foco, o precipizio, o fiume.

                                   Ch’ella, benché discosto,

10                                è vapor che m’appanna il mio bel lume.

 

            nineuse         Non temer no, che la saprò arrivare:

                                   le braccia ho lunghe.

 

            farfalla        Ma non per donare.

 

            nineuse         Trattiam di divertirsi[229]

15                                a la caccia, a la pesca: or che s’attende?

 

            ghiotto        Padron eccomi qui tutto in faccende!

                                   La caccia è pronta e i servi,

                                   coi segugi a la man, già son a l’alto

                                   quinci ’ntorno del salto.

 

20        farfalla        Non mancan cani e son anche più i cervi.[230]

 

            ghiotto        Intanto io resto a far condir la cena

                                   con la ventrosa mia grave scienza,

                                   che con flemma, con gusto e senza pena,

25                                ai cuochi fa scappar la pazienza.

 

            nineuse         Vago amore,

            e zambra        dolce ardore,

                                   del mio cor, de l’alma mia!

                                   Gelosia che infesta e punge,

                                   da noi lunge:

30                                stringa il braccio

                                   caro laccio

                                   con reciproche ritorte,

                                   né ’l recida altri che morte.

 

            farfalla        Oh, che parlar funesto!

35                                Mal augurio è cotesto:

                                   tutto mi raccapriccio.

                                   S’io muoro: ahi, che spavento!

                                   Lascio per testamento

                                   ch’esser vo’ sepellito in un pasticcio.

 

 

SCENA IV

 

Zelfa in abito di Silvino pastore.

 

Bosco.

 

            zelfa             O vita fallace,

                                   che incerta hai la sorte!

                                   E, benché fugace,

                                   non fuggi la morte.

5                                  Dovunque ti aggiri,

                                   hai teco gli affanni:

                                   al suon dei sospiri

                                   ten voli con gli anni.

                                   Funesta, incostante,

10                                bugiarda e delusa:

                                   vanissima, errante,

                                   perplessa e confusa.

                                   Milizia de l’alma,

                                   tormento del core,

15                                sfrondata hai la palma,

                                   spinoso il tuo fiore.

                                   La colpa ti spinge,

                                   t’incalza la pena:

                                   la noia ti stringe,

20                                l’amor t’incatena:

                                   t’inganna il diletto,

                                   t’accende il desire:

                                   ti turba il sospetto,

                                   t’estingue il gioire.

25                                Il mondo è sì fosco

                                   pur io ti conosco;

                                   e ’nvan cerco pace

                                   per vie così torte.

                                   O vita fallace,

30                                che incerta hai la sorte!

                                   Mutai spoglia e non destino,

                                   che ’l mio mal non mi abbandona:

                                   fato rio non mi perdona,

                                   che son Zelfa e non Silvino;

35                                bench’io finga, e non so come,

                                   di Silvino il sesso e ’l nome.

                                   Per fuggir Elidoro in questa guisa

                                   l’onestà mi divisa;

                                   benché gli abbia promesso

40                                di viver solo e di morir per esso;

                                   ma voglio esser costante

                                   più al marito infedel che al fido amante;

                                   e bramo esser notata,

                                   più che adultera, ingrata:

45                                così legge d’onor spegne quel foco,

                                   che accese Amor bambino, e perciò è poco.

                                   A le pietre (ah sasso duro!)

                                   se ben io son innocente,

                                   crudelmente,

50                                sol per Zambra, mi dannò:

                                   ah s’ei privo

                                   di pietà, non l’ha per me,

                                   né mai ebbe amor, né ,

                                   io per lui sempre l’avrò!

55                                Ma sento un calpestio tra quelle frondi:

                                   Zelfa fuggi, o t’ascondi.

 

 

SCENA V

 

Elidoro sotto nome ed abito di Dorilla.

 

            elidoro         Dillo Amor, non è così?

                                   Che mi giova esser amante

                                   d’una infida ed incostante,[231]

                                   s’ella ingrata mi schernì?

5                                  Dillo Amor, non è così?

                                   E tal fia dunque la fede,

                                   con cui Zelfa si legò

                                   per discior, se l’annodò

                                   il mio cor, che pazzo crede

10                                a colei che lo ferì?

                                   Dillo Amor, non è così?

                                   Or che fai tristo Elidoro?

                                   Se a tracciarla il piè non ha

                                   di lei l’orma, che sen va

15                                da me lungi, ond’io ristoro

                                   più sperar non potrò mai,

                                   se alor, quando la salvai,

                                   più spietata mi tradì.

                                   Dillo Amor, non è così?

20                                La cercai palpitoso

                                   in quella parte, dove

                                   mi die’ parola di trovarsi attenta;

                                   ma la speranza spenta

                                   mi raddoppia le prove,

25                                che son a lei senza rivalsa esoso;

                                   e pur voglio amoroso

                                   proseguir sempre più l’intento mio:

                                   che se fredda è la speme,

                                   in quest’alma, che geme,

30                                in questo cor, che ferve, arde il disio:

                                   così, mentr’ei scintilla,

                                   più che mai de l’amor di Zelfa acceso,

                                   io d’agreste Dorilla

                                    il nome, il manto, in questa selva ho preso,

35                                per fermar travvisato il piè mendace

                                   de la bella fugace.

                                   Arridimi o cielo,

                                   ch’io cerco la sorte!

                                   Sagace la frode

40                                col finto tuo velo

                                   talor merta lode:

                                   arridimi o cielo!

 

 

SCENA VI

 

Pellandra in una gabbia di ferro.

 

Carcere sotterraneo.

 

            pellandra     O Pellandra sfortunata,

                                   arenata

                                   pur al fin sei ne la sabbia!

                                   Miserella,

5                                  qual destin crudel t’appella

                                   a passar dal palo in gabbia?

                                   Infelice mia vecchiezza,

                                   qual gravezza

                                   più ti preme il lasso fianco?

10                                Ahi pur, ahi!

                                   (Come dir si suol) magnai

                                   del mio porro tutto il bianco.[232]

                                   Di mie rose purpurine,

                                   sol le spine

15                                son rimaste sul mio tronco:

                                   tra punture

                                   tanto folte e così dure

                                   meschinella il cor imbronco.[233]

                                   Ma del ciel giusta vendetta

20                                mi saetta,

                                   perché fei d’ogni erba fascio:

                                   se fui volpe

                                   d’ogni vizio, a tante colpe,

                                   or la pelle e ’l pel vi lascio.

25                                Apprendete, o giovinette,

                                   morbidette,

                                   che lograte il vostro bello

                                   tra piaceri

                                   fuggitivi e lusinghieri:

30                                le vaccine a la fin vanno al macello.[234]

 

 

SCENA VII

 

Cospettone, Ghiotto, Bisticcio, Graffio con facelle alla mano e Pellandra.

 

            cospettone  A la vecchia cornacchia omai son l’ale

                                   cadute: eccola qui! Più al vol non vale.

 

            ghiotto        Mal va monna Pellandra!

 

            bisticcio        Qual vacchetta di Fiandra

5                                  io scorticar la vo’.

 

            graffio          Ed io, che Graffio son, te la terrò.

 

            ghiotto        Ella il merita affè da cavaliere:

                                   ne la sua gioventù non seppe fare

                                   altro che scorticare;

10                                e ne la sua vecchiaia

                                   non lasciò la beccaia di tenere.

 

            pellandra     Ohimè, che fan gioco

                                   del mio tristo evento!

                                   O ciel io t’invoco!

15                                T’offesi, or mi pento:

                                   e, benché sia tardo[235]

                                   de l’alma il dolore,

                                   soverchio è ’l rossore

                                   de l’onta in cui ardo.

 

20        cospettone  Ella canta di rabbia,

                                   or che si trova in gabbia.

 

            pellandra     Oh funesta miseria!

                                   Or che forma più non ho,

                                   il mio corpo diventò

25                                del ludibrio la materia.

 

Qui cantano danzando intorno alla gabbia, e Cospettone sonando il corno intercalarmente.

 

            tutti              Vecchiarona,

                                   che poltrona

                                   fosti lupa in gioventù,

                                   e succhiando l’altrui polpe

30                                divenisti astuta volpe,

                                   che fai tu?

                                   Tocca il corno, tocca su!

                                   Le tue tresche

                                   romanesche

35                                son finite: or come fu?

                                   Di pollastre andar a caccia

                                   volponaccia

                                   non puoi più.

                                   Tocca il corno, tocca su!

 

 

SCENA VIII

 

Nineuse da cacciatore.

 

Bosco.

 

            nineuse         Ferve il bosco, agitato

                                   da’ miei fidi levrieri,

                                   da’ miei svelti segusi, ed io sviato

                                   per ignoti sentieri

5                                  vo cercando anelante

                                   la mia Zambra volante

                                   dietro ai daini veloci: ah che smarrita,

                                   e non so come, ho la mia dolce vita!

                                   Sonnacchioso mi sento

10                                pesare il capo, or che ripresa ho moglie;

                                   né pertanto io mi pento;

                                   che ’l piacer costa ben, ma pur si coglie:

                                   e, se volesse Amor cangiarsi spesso,

                                   un’altra vorrei torne adesso, adesso:

15                                che in materia di gusto

                                   quello che piace, è giusto;[236]

                                   ma troppo ho Zambra a core,

                                   mel consiglia ancor novello Amore.

                                   Intanto qui stanco,

20                                per prender respiro

                                   dal lungo mio giro

                                   s’adagia il mio fianco.

 

Si corca sotto ad un albero.

 

 

SCENA IX

 

Elidoro in sembianza di Dorilla.

 

            elidoro         Fanciullo alato,

                                   che vai bendato,

                                   deh ferma il volo!

                                   Che ’l mio piè lasso

5                                  mal regge il passo:

                                   invan s’aggira

                                   mia corta mira:

                                   mio guardo errante,

                                   già palpitante,

10                                smarrito ha il polo.

                                   Fanciullo alato,

                                   che vai bendato

                                   deh ferma il volo!

                                   De la mia bella

15                                fugace stella

                                   perduto ho ’l raggio:

                                   mentre vagando

                                   men vo cercando

                                   Zelfa la vaga,

20                                cresce la piaga,

                                   manca il conforto,

                                   né trovo il porto

                                   del mio viaggio.

                                   De la mia bella

25                                fugace stella

                                   perduto ho ’l raggio.

 

 

SCENA X

 

Nineuse ed Elidoro.

 

            nineuse         Chi mi risveglia, chi?

                                   Sogno ancor, o vaneggio?

                                   Son desto: o ciel, che veggio?

                                   Beltà che mi ferì.

5                                  Pastorella no, ma stella,

                                   che mi sorgi a sol cadente,

                                   abbagliato,

                                   innamorato

                                   dal tuo brillo ho il cor ardente.

 

10        elidoro         Oh Dio, quest’è Nineuse!

                                   Voglio fuggir: ma no; forse chi sa!

                                   Non mi ravviserà.

 

            nineuse         Bella, deh ferma il piè!

 

            elidoro         Voglio schernirlo affè.

15                                Fermo il piè: che vuo’ tu?

 

            nineuse         Parlarti un po’ d’amore.

 

            elidoro         Oibò! Più assai del piede ho fermo il core.

 

            nineuse         Dimmi, cara, chi sei?

 

            elidoro         Che importa a te saper i fatti miei?

 

20        nineuse         Se Diana se’ tu, ben hai ragione

                                   di far così la schiva;

                                   ma non son Ateone.

 

            elidoro         Se prendi moglie, priva

                                   de l’onestà cui servo,

25                                almen diverrai cervo.[237]

 

            nineuse         Non tante sottigliezze!

                                   Tronchiam cammino: io t’amo,

                                   ed amandoti bramo

                                   d’acquistar, d’arricchir le tue bellezze.

 

30        elidoro         Tu deliri. Maggior d’ogni tesoro

                                   è l’onestà, che adoro.

 

            nineuse         Tu fai la vergognosa,

                                   ma benché ritrosetta,

                                   se ben spine saetta,

35                                si coglie pur la rosa.

 

            elidoro         Non son rosa, ma giglio.

 

            nineuse         Ed io per giglio e rosa or or ti piglio!

 

            elidoro         Sta’ in dietro temerario!

 

            nineuse         Il mio gusto recente,

40                                quanto più ardito, è ardente.

 

            elidoro         Ardi pur, e ardisci, quanto sai:

                                   per me leccar le dita or ti potrai!

 

            nineuse         Tu fuggi, ed io ti arresto!

 

            elidoro         Fellon, che tratto è questo?

45                                Dunque sforzar mi vuoi?

 

            nineuse         Lascia pur far a me: tel dirò poi.

 

            elidoro         Son fanciulla illibata.

 

            nineuse         La preda m’è più grata.

 

            elidoro         Mira che ’l ciel gastiga, e Iddio ti vede!

 

50        nineuse         Che ciel? Che Dio? Tu ciel, tu dea! La fede

                                   sol a te giuro amante.

                                   Ah, quanto più restia

                                   mi sei, bell’alma mia,

                                   tanto più ti sarò fido e costante.

 

55        elidoro         Ben fia cangiar di tuono: ascolta, intendi!

                                   invano, invan ti accendi

                                   ver me, se ancor non t’amo; e poiché m’ami,

                                   dà tempo a me, se brami,

                                   che al tuo voler mi pieghi:

60                                più l’amor che la forza a te mi leghi.

 

            nineuse         Son contento: il tuo bel, cara, m’impera:

                                   tempo ti do, ma sol sino a stasera;

                                   perciò ne verrai meco, e col pretesto

                                   di donarti a mia moglie

65                                per ancella gradita,

                                   sarai de le mie voglie

                                   unico oggetto, e cor de la mia vita.

 

            elidoro         Andiam pur, cavagliero!

                                   Dal tuo nobile aspetto

70                                non violento affetto io bramo e spero.

 

            nineuse         Andiam idolo mio!

 

            elidoro         Costui mi prende a sbaglio,

                                   ma ben mi va quest’avventura a taglio.

                                   Mi crede un’altra, e pur io non son io.

 

 

SCENA XI

 

Zelfa in abito di Silvino e Zambra da cacciatrice.

 

            zelfa             Che vuoi da me, che tenti

                                   d’amor larva salace?

                                   Lascia, lasciami ’n pace

                                   a custodir gli armenti;

5                                  ch’io son villanello e amare non so,

                                   né mai t’amerò.

                                   Son Silvino, ed ho silvestre

                                   il mio cor, qual elce dura:

                                   il mio petto, così alpestre

10                                fe’ natura

                                   che disprezza

                                   ogni amor, ogni bellezza;

                                   ch’io son villanello e amare non so,

                                   né mai ti amerò.

 

15        zambra          Caro Silvino, ascolta!

                                   Tosto che m’incontrasti,

                                   l’anima mi rubasti;

                                   ed or che me l’hai tolta,

                                   non vuoi renderla no? Crudel languire

20                                mi fai così? Così mi fai morire?

 

            zelfa             Che languir? Che morir? Ah son follie

                                   di voi lascive e lusinghiere arpie!

 

            zambra          Anima del mio core,

                                   dunque non senti amore?

 

25        zelfa             Nol sento, no!

 

            zambra          Non sai che cosa sia?

 

            zelfa             Io non lo so!

 

            zambra          E l’alma hai sì restia?

 

            zelfa             È ver, io l’ho!

 

30        zambra          Tu dunque uomo non sei?

 

            zelfa             Esser nol vo’.

 

            zambra          Sei sordo a’ prieghi miei?

 

            zelfa             Sempre il sarò!

 

            zambra          Non ardi a’ miei sospiri?

 

35        zelfa             Men guarderò!

 

            zambra          Perché dunque mi miri?

 

            zelfa             Io me ne vo!

 

            zambra          E perché parti tu?

 

            zelfa             Per non sentirti più!

 

40        zambra          E mi sdegni così?

 

            zelfa             Più che non credi, sì!

 

            zambra          Che t’ho fatt’io di mal?

 

            zelfa             Tua vista m’è letal!

 

            zambra          Ch’io ti guardi, che importa?

 

45        zelfa             Vorrei vederti morta!

 

            zambra          O fanciul sempliciotto,

                                   come sei crudo?

 

 

SCENA XII

 

Farfalla, Zambra e Zelfa.

 

            farfalla        E pur il cor m’hai cotto!

 

            zambra          Ohimè, son discoperta!

 

            farfalla        Non mancherà coperta:

                                   madama, eccomi qui vostro valletto,

5                                  tutto , tutto lena e tutto petto!

 

            zambra          Prendi questo diamante,

                                   ma non dir, veh, ch’io sia d’un tronco amante![238]

 

            farfalla        Io vi bacio il tallone

                                   per così bel presente,

10                                che la bocca m’ha chiusa.

                                   Ella è bensì profusa

                                   in favellar sovente,

                                   ma son Efestione,[239]

                                   padronaccia mia bella,

15                                con chi, come voi or me la suggella.

 

            zambra          Questa è poca mercede:

                                   avrai da me più molto,

                                   se convincer mi fai costui, sì stolto,

                                   che mi disprezza ed ad Amor non cede.

 

20        farfalla        Lasciate far a me, che son Farfalla!

 

            zelfa             Sei farfallon da galla.[240]

                                   Non t’appressar buffone,

                                   se non vuoi misurar questo bastone!

 

            farfalla        Io son buffon dimestico,

25                                tu buffalo selvaggio,

                                   che del più vago Sol t’inombri al raggio.

                                   Mira questi occhi ardenti,

                                   pelaghetti di foco:

                                   queste labbra ridenti,

30                                se son da farne gioco!

                                   Queste vermiglie gote,

                                   più che non è Boote,[241]

                                   non t’allettano il guardo?

                                   O sorcio senza denti a sì bel lardo!

35                                Ma non mi par già strano,

                                   che mai non piacque il zucchero al villano.

 

            zelfa             Deh lasciam’importuno,

                                   che ’l tuo garrir m’offende!

 

            zambra          Ed ancor non s’accende?

 

40        zelfa             Io son d’amor, e ’l vo’ morir, digiuno.

 

            farfalla        O razza pecorina,

                                   sei bifolco, e non ami la vaccina!

 

            zambra          Invan si persuade;

                                   ma per un colpo un albero non cade:

45                                s’ei si parte, io son morta.

 

            farfalla        Qui non v’è a chiuder porta.

                                   Conduciamlo a l’albergo,

                                   le mani avvinto il tergo,

                                   e direm che trovato

50                                qui l’abbiam a cacciar, dov’è vietato.

 

            zambra          Ma se fier poi Nineuse il fa morire?

 

            farfalla        Io vel farò condire.

 

            zambra          Fuori burle, ch’io ben saprò placarlo.

                                   Or comincia a legarlo!

 

55        farfalla        Con che?

 

            zambra                                  Con questa banda.

 

            zelfa              Ohimè, che violenza!

 

            farfalla        Sta’ saldo in pazienza!

 

            zambra          Non ti doler, ben mio, che ’l mio rigore,

                                   altro non è che amore.

 

60        farfalla        Marcia pur là, faccia di latte preso!

 

            zambra          Nol maltrattar Farfalla!

 

            zelfa                                                 Oh Dio, son reso!

 

 

SCENA XIII

 

Elcana da romito.

 

            elcana           Sospingo curioso il piede incerto

                                   per queste opache selve,

                                   mosso a filosofar dal genio, esperto

                                   in detestar ne la città le belve;[242]

5                                  quindi le cerco a passi fluttuanti,

                                    mentr’errando men vo, nel bosco erranti.

                                   Ma più erranti e più crudeli

                                   de le fere,

                                   le più alpestri e le più altere,

10                                veggo gli uomini ’nfedeli,

                                   che, dal vizio imbrutaliti,

                                   son Lapiti;[243]

                                   e non san dal mal distorsi,

                                   come gli orsi.

15                                Più macchiati assai de’ pardi,

                                   al ben tardi.

                                   A la colpa non mai pigri,

                                   più che tigri.

                                   De l’inganno dotti ai colpi,

20                                scaltre volpi.

                                   Ai castelli torregianti

                                   elefanti.

                                   A portar tesori avari

                                   dromedari.

25                                Nel tirar calci sfrenati

                                   muli ’ngrati.

                                   Da lascivo lezzo infetti

                                   porci abietti.

                                   A soffrir sul capo impacci

30                                castronacci.

                                   Ne l’aver doppie intenzioni

                                   rei scorzoni.

                                   In tentar perigli e rischi

                                   basilischi.

35                                Nel recar veleni e peste

                                   idre infeste.

                                   In succhiar tanti innocenti

                                   draghi ardenti.

                                   E tal Nineuse, d’ogni mal compendio,

40                                de l’Orco è nato ad impinguar l’incendio.

                                   Che dirò di voi proterve

                                   femminacce, a l’amor serve,

                                   che con sì fetente impero

                                   soggiogate il mondo intero?

45                                Lingua mia dunque le pingi,

                                   come sfingi.

                                   Voi dolose, infide, cupe,

                                   siete lupe.

                                   Voi di frodi e vezzi piene

50                                siete iene.

                                   Voi rapaci a tutte vie

                                   siete arpie.

                                   Voi de’ troni, voi degli ostri

                                   siete i mostri;

55                                voi de’ cori, a rosicarli,

                                   siete i tarli.

                                   Voi, de l’oro al succhio affatte,

                                   le mignatte.

                                   Voi tra rose e tra i lor sterpi,

60                                siete serpi.

                                   Voi, col tosco sopra i baci,

                                   siete vipere mordaci.

                                   Voi sirene ingannatrici:

                                   voi cornacchie gracchiatrici:

65                                velenose, astre, nefaste

                                   siete voi più che ceraste:[244]

                                   e tal di Zambra l’abbozzata effigie

                                   degna è sol di spiccar tra l’ombre stigie

                                   dunque al mondo più stare non vo’,

70                                che tra le fere l’umanità,

                                   esiliata da la città,

                                   filosofando rincontrerò.

                                   Addio dunque, mondo, addio,

                                   poiché tu, rubelle al cielo,

75                                impetrito nel tuo gelo,

                                   sei contrario a l’ardor mio,

                                   con cui sento accesa l’alma

                                   consumar questa mia salma.

                                   Ad ognun tutto m’involo,

80                                per far don di me a me stesso;

                                    Io non vo’ più alcun appresso

                                   l’uom che sa, non è mai solo.[245]

 

 

SCENA XIV

 

Eliabbe ed Elcana.

 

            eliabbe          Venerabil romito,

                                   che sotto il pel d’argento un capo d’oro

                                   chiudi, già che t’ha ’l ciel per mio ristoro

                                   casualmente al mio viaggio unito:

5                                  io, che potrei negli anni esserti figlio,

                                   esser lo vo’ chiedendo a te consiglio.

 

            elcana           Aprimi pur sincero

                                   il tuo cor, che la mia lingua fedele

                                   non saprà mai parlarti d’altro che ’l vero.

 

10        eliabbe          Io, d’un fratel crudele

                                   l’interessata tirannia sopporto,

                                   già lungo tempo, a torto:

                                   ei del mio bene usurpator superbo,

                                   ferocemente acerbo

15                                mi malmena, m’ingiuria e mi deride:

                                   se gli dimando, stride,

                                   e con torbida faccia

                                   mi disprezza protervo e mi minaccia.

 

            elcana           Questo è lo stil del mondo,

20                                in cui galleggia il reo, va il retto al fondo:

                                   o tempi scelerati!

                                   Felici i morti, ed anche più i non nati.

 

            eliabbe          Quegli una tal zambracca,[246]

                                   scandalo de la terra, orror del cielo,

25                                che, di Solima sfinge, ognun divora,

                                   amò gran tempo, ed io di mente fiacca

                                   (la mia colpa ti svelo)

                                   l’amai lascivo ancora;

                                   ed ella me, più che lui, molto amando,

30                                ciò che a quello sottrae, mi dona amica:

                                   così n’andai campando,

                                   e colsi frutti e fior da l’impudica.

 

            elcana           Costume famigliare.

 

            eliabbe          Intenta ad ingannare,

35                                mi trasse, ohimè, con dispietato esempio,

                                   a tramar seco al fratel mio lo scempio.

 

            elcana           Non fosti ’l primo e non sarai l’estremo.

 

            eliabbe          Misero io son pentito, ed in me fremo,

                                   che di sicarie polvi orrida messe

40                                trasmisi a l’empia irreparabilmente,

                                   per infettarne un poculo omicida

                                   con la man veemente,

                                   che non l’amor, non la pietà corresse;

                                   perciò la mia coscienza ognor mi sgrida.

45                                Or che farò, per far, quanto far deggio?

 

            elcana           Mal se ’l velen sottrai, se uccide, peggio.

                                   De’ due mali ’l minor sempre s’imbrocchi.

                                   Ben è che ’l pentimento il cor ti tocchi.

                                   Con lettera, ma cieca e pur veloce

50                                dei avvertir l’adultero germano,

                                   che a la coppa infedele

                                   de la Circe crudele

                                   non affidi leggier l’incauta mano.

 

            eliabbe          Di sì retto parer grazie ti rendo,

55                                ed ad effettuarlo il piè distendo.

 

            elcana           O fuliggini,

                                   o vertigini,

                                   onde va

                                   l’offuscata umanità,

60                                raggirata ognor dal vizio,

                                   a cader nel precipizio!

 

 

SCENA XV

 

Nineuse ed Elidoro in abito di Dorilla.

 

Giardino con fontane.

 

            nineuse         Cara Dorilla,

                                   l’occhio ti brilla,

                                   qual astro mattutino:

                                   la tua vezzosa

5                                  bocca di rosa

                                   col labro purpurino

                                   l’alma m’infiora.

                                   Svelto il tuo crine

                                   d’aurate brine

10                                l’aria colora.

                                   Il tuo petto,

                                   Amor eletto

                                   mi rintuzza e scema il guardo:

                                   la tua neve,

15                                così ardente, se la beve

                                   mia pupilla palpitante,

                                   a l’istante

                                   più m’accende: ohimè, com’ardo!

 

            elidoro         Son io villanella,

20                                ma nobile ho il core:

                                   del corpo è più bella

                                   quest’alma, e l’amore,

                                   che sia disonesto,

                                   le fie sempre infesto.

 

25        nineuse         Crudel, dunque il mio foco

                                   non ti ammollisce no?

 

            elidoro         Tu vuoi far di me gioco,

                                   ed io men riderò.

 

            nineuse         Erri, bella nemica,

30                                ch’io son tutto sincer!

 

            elidoro         Ed io tutta pudica

                                   so ben che non è ver.

 

            nineuse         Oh tu del mio cor cupo

                                   non capisci ’l desir!

 

35        elidoro         Tu sei (perdona) un lupo,

                                   che mi brami inghiottir.

 

 

SCENA XVI

 

Zambra, Nineuse ed Elidoro.

 

            zambra          Al fin t’ho pur raggiunto amor amato.

                                   Oh quanto t’ho cercato!

 

            nineuse         Ed io pur alma cara:

                                   ecco la caccia rara

5                                  che ti presento! Una camozza bella![247]

                                   Or, come ti piac’ella?

 

            zambra          È vezzosa per certo:

                                   dove trovata l’hai?

 

            nineuse         Nel bosco l’incontrai

10                                alor che divagava il piè inesperto:

                                   per serva a te la dono.

 

            zambra          Ben contenta ne sono.

 

            elidoro         Ed io non già.

 

            zambra          Dunque tanto mi sdegni?

 

15        elidoro         Amo la libertà,

                                   ne vo’ che alcun m’impegni.

 

            zambra          Libera tu sarai, te lo prometto:

                                   avrai meco commune il cor e ’l tetto.

 

            elidoro         Io non amo il commune.

 

20        zambra          Ed io son singolare.

                                   Ha il capo fatto a lune:

                                   dolce Nineuse mio, che te ne pare?

 

            nineuse         Bisogna compatirla: è rusticana;

                                   ma, come avrà la lana

25                                deposta, alor fie lieta,

                                   e l’incivilirà tosto la seta.

 

            elidoro         Sempre agnella sarò pura ed intatta.

 

            zambra          Taci là, che sei matta!

                                   Non conosci ’l tuo bene.

 

30        elidoro         Io non credo a scorzoni e anfesibene.[248]

 

 

SCENA XVII

 

Farfalla con Zelfa, in abito di Silvino, legata: Nineuse, Zambra ed Elidoro.

 

            farfalla        Ecco qui, mio signore,

                                   legato il malfatore,

                                   com’un mazzo di cavoli!

                                   Ed io per amor vostro,

5                                  in rispetto de l’ostro che vi cinge,

                                   fo un ufficio che tinge

                                   gli uomini nel caldaro dei diavoli;

                                   cioè son fatto birro e posso dirvi

                                   ch’anco diverrei boia per servirvi.

 

10        nineuse         Chi è? Che ha fatto? E come?

 

            zambra          È un bifolco, trovato

                                   a cacciar nel vietato.

 

            nineuse         E così poco ei rispettò il mio nome?

                                   Olà, sia dato in pasto,

15                                senza indugio, a le fere!

 

            zambra          O parole severe!

 

            elidoro         (Che veggio? E non è quello

                                   di Zelfa il volto amato?[249]

                                   Sì per certo: oh peccato!) (a parte)

20                                Signor, pietà, clemenza! È mio fratello.

 

            nineuse         S’egli tal è, ben volentieri ti dono,

                                   benché sia colto reo, di lui la vita.

 

            elidoro         O bontade infinita!

 

            nineuse         Slegalo pur Farfalla!

 

25        zambra          Io mi conforto.

 

            elidoro         A me tocca snodarlo: o come involto

                                   di stretta banda sei mio bel germano!

                                   (Taci veh, Zelfa mia, son Elidoro!) (sotto voce)

 

            zelfa             Ohimè, peggio del mal è il mio ristoro!

 

30        nineuse         Ha un non so che di spezioso raggio

                                   delineato in faccia.

 

            elidoro         Signor, eccolo scinto!

 

            zelfa             Oh Dio, che laberinto!

                                   Signor son vostro, e di me far vi piaccia

35                                ciò che v’è in grado: eccovi fido il petto!

 

            nineuse         Vo’ che sii mio valletto.

                                   Come ti chiami tu?

 

            zelfa                                                 Silvin mi chiamo.

 

            nineuse         Non sei nulla selvaggio: andiamo!

 

            zambra          Andiamo!

 

40        farfalla        Oh che bella avventura!

                                   Par fatta ad arte, e pur tutta è natura.[250]

 

 

SCENA XVIII

 

Ghiotto solo.

 

Cortil rustico.

 

            ghiotto        Fa’ pur cor, fa’ pur petto, panza mia,

                                   che a tranghiottir intrepido stasera,

                                   con ventricol di struzzo e man d’arpia,

                                   n’accingo de’ volatili la sfera!

5                                  Montagne di montoni

                                   saran da me spianate:

                                   falangi di capponi

                                   tutte a pezzi tagliate;

                                   ch’io son il protomastro, il protocuoco,

10                                e metto la cucina a sangue e fuoco.

                                   Or, che s’ha da far nel mondo,

                                   se non e magnar e bere?

                                   Chi è più grasso e chi è più tondo

                                   con geometrica figura

15                                più perfetto è per natura,

                                   onde fia che a tutti ’mpere

                                   col bicchiere.

                                   Tronfo il ventre, e che galoppe,

                                   sul capron di Lieo, gran re di coppe.[251]

20                                A le nozze fumose

                                   di Nineuse con Zambra

                                   le droghe preziose,

                                   stemperate con l’ambra,

                                   sollecito a l’amore

25                                apporteran col caldo e con l’odore.

                                   Tutta l’Arabia felice[252]

                                   a comparir s’accinge,

                                   che ’l mio comando la spinge,

                                   da le profuse dispense

30                                sopra le prodighe mense:

                                   né mancherà la fenice,

                                   poiché Zambraccia l’eletta,

                                   tutta condita e confetta,

                                   nel mezo starà intonata;

35                                che Zelfa restò pelata.

 

 

SCENA XIX

 

Pellandra, legata ad un palo: Nineuse, Zambra, Elidoro, Zelfa, Cospettone, Farfalla e Bisticcio, con altri muti Spettatori.

 

Serraglio di fere, con amfiteatro.

 

            pellandra     Udite, o cieli, udite

                                   il mio dolor estremo!

                                   E voi, che mi schernite,

                                   onde più afflitta gemo.

5                                  Ahimè, per qual ragione,

                                   senza compassione,

                                   a le fere dannata

                                   è una vecchia sfiancata?

                                   Per finir senz’aita

10                                questa odiosa vita.

 

            cospettone  Taci brutta marmotta!

                                   Non più pianti e non più strilli:

                                   che a la trappola ridotta

                                   t’usciran di testa i grilli;

15                                e pur tu con degna pena

                                   d’un lion sarai la cena.

 

            pellandra     Ah crudel, né men vuoi che mi lamenti!

 

            cospettone  Taci, che con un pugno

                                   su questo grinzo tuo sordido grugno

20                                a l’aria ti farò volare i denti!

 

            farfalla        Fia poca meraviglia, e raro il volo.

 

            nineuse         Olà si sciolga solo

                                    il gran lion massile,[253]

                                   per esser il più fiero!

 

25        bisticcio        Anzi, perché sì altero

                                   non vorrà mai magnar roba sì vile.

 

            elidoro         Per me la vecchiarella

                                   die’ ne l’inciampo, e di salvarla è tempo.

                                   Signor, pietà per quella

30                                vi chieggon gli anni curvi, onde si piega.

 

            farfalla        Lascia tu olà morir sì brutta strega!

 

            elidoro         Poco il castigo importa,

                                   se più punita resta

                                    vivendo a sé, più che ad ogni altro infesta,

35                                e più patisce assai che morta.

 

            nineuse         La vuoi, bella Dorilla? Io te la dono.

 

            elidoro         Ben contenta ne sono.

 

            zambra          Ingelosisco e gelo:

                                   l’armentiera ribalda

30                                troppo, troppo si scalda:

                                   e che si ch’io le fo lasciar il pelo!

 

            nineuse         Andiam anima mia! Perché rampogni?

 

            zambra          Mio ben, pria di dormir credo che sogni:

                                   andiamo pur!

 

            nineuse                                 Vien via, vaga Dorilla,

35                                per servir la mia Zambra.

 

            zambra                                                         E tu Silvino

                                   vien via servi al mio core!

 

            zelfa             Se ’l tuo cor è Nineuse, ecco l’inchino.

 

 

SCENA XX

 

Bisticcio, Farfalla, Cospetton e Pellandra.

 

            cospettone  Vedici qui a slegarti,

                                   ma voglian prima scandassarti ’l pelo.

 

            farfalla        E pur anco se’ salva

                                   brutta befana e scimmiaccia calva!

 

5          bisticcio        Paga ciò ch’hai promesso!

                                   Lo sai ben tu perché.

 

            pellandra     Datemi tempo ohimè!

 

            bisticcio                                            Vogliamlo adesso.

 

            farfalla        Non più parole: ai fatti

                                   conduciamla a l’albergo,

10                                e con un buon staffil di sotto al tergo

                                   le farem confessar a dritto estorto,

                                   dov’ella tenga sotterrato il morto.

 

            cospettone  Buon pensiero, al cospetto

                                   di Cospettone! A voi mi tengo unito.

 

15        bisticcio        È sicuro il partito.

 

            pellandra     Che lioni getei! Che tigri ircani![254]

                                   Son peggio i cortigiani.

 

 

SCENA XXI

 

Elidoro e Zelfa, in abito come sopra.

 

Giardino.

 

            elidoro         Or che siam qui tra fiori,

                                   cara mia Zelfa, soli,

                                   lascia che da la lingua il cuor trasvoli

                                   a protestarti i miei giurati amori:

5                                  son io: non mi conosci? Ancor algenti

                                   hai le ripulse a le mie voglie ardenti!

                                   Dimmi, ah dimmi, perché

                                   non ti muove la

                                   del costant’Elidoro?

10                                Se tu vivi per me,

                                   io per te sempre più,

                                   sempre più per te muoro.

 

            zelfa             Tu deliri e dal ver folle ti svii:

                                   non so, non chi sii,

15                                sicome ch’io mi sia certo che non sai,

                                   non ti conobbi mai;

                                   né so quando, né come

                                   udii di Zelfa e d’Elidoro il nome.

 

            elidoro         Crudel, così tradisci

20                                l’amorosa parola!

                                   Così fuggi d’Amor la dolce scola!

                                   Ah di negare ardisci,

                                   che per me sol dal carcere inumano,

                                   a la morte sottratta, il piè traesti!

25                                Sconoscimento insano,

                                   che a sì grato dover l’alma t’invola:

                                    or dunque, se non or, mai più vedesti

                                   quest’occhio lacrimante

                                   del tuo fedel, ma sfortunato, amante?

 

30        zelfa              Tu se’ pazza, ed io pur, se più t’ascolto,

                                   di te sarò più stolto.

                                   A vaneggiar ti lascio, ad altro aspiro,

                                   e perciò mi ritiro.

 

35        elidoro         Ferma, deh ferma ancor un poco il passo!

                                   Fermati, se sei Saffo!

                                   Ma sopravien Nineuse, ed aspettarlo

                                   mi convien simulando,

                                   per andarlo ingannando:

40                                non convien irritarlo.

                                   Chi sa che ’l tempo al mio dolor sì vivo

                                   non prepari opportuno lenitivo?

 

 

SCENA XXII

 

Nineuse ed Elidoro: Zambra in ascolto a parte.

 

            nineuse         Che hai tu cara Dorilla,

                                   come rosa in ver la sera,

                                   qui tra i fiori solitaria?

                                   Tua beltà, che rea scintilla

5                                  del mio foco, ognor severa

                                   suo rigor dunque non varia?

 

            elidoro         Io son una pastorella

                                   sempliciotta e ritrosella

                                   ad amor che osceno sia:

10                                più olezzante d’ogni fiore

                                   è l’onore

                                   che abbellisce l’alma mia.

 

            nineuse         Io de’ fior mi diletto,

                                   com’appar ben in questi miei giardini:

15                                e talor il più eletto

                                   colgo, benché s’annicchi entro gli spini.

 

            elidoro         Il mio non coglierai,

                                   e se stendi la man ti pungerai.

 

            nineuse         Più aspra è la puntura,

20                                che da’ begli occhi tuoi nel cor mi dura.

 

            elidoro         Signor, lasciami ’n pace,

                                   che Amor non ha per me dardi, né face.

                                   La mia beltà ritrosa

                                   ti consiglia d’amare,

25                                senza tanto cangiare,

                                   la tua novella sposa.

 

            nineuse         Dorilla, in confidenza, a te lo giuro,

                                   di lei più non mi curo

                                   poiché ti vidi: a le tue luci belle

30                                da quel balen fugace il cor si svelle.

                                   Che rumini perplessa?

 

            elidoro         Nel mio proponimento

                                   son sempre più indefessa;

                                   quindi ti stanchi invano,

35                                né stringi altro che vento.

 

            nineuse         Dammi, amica, la mano!

 

            elidoro                                             Oh questo no!

 

            nineuse         Io la fede ti do: per guadagnarti,

                                   mi disporrò a sposarti.

 

            elidoro         Non accetto l’invito!

40                                Quante mogli ad un punto aver vuo’ tu?

 

            nineuse         Quella ch’avea, già fu,

                                   e questa ch’or ho presa,

                                   facil è che svanisca a un colpo estremo.[255]

 

            elidoro         In ciò pertanto io premo:

45                                ma vo’ veder unito al detto il fatto.

 

            nineuse         Son pronto, ed il mio dir sarà un contratto.

 

 

SCENA XXIII

 

Zambra sola.

 

            zambra          O ciel, o stelle, o fato!

                                   Dunque soffrir potrà

                                   cotante crudeltà

                                   il mio bello oltraggiato?

5                                  A così atroce ingiuria

                                   io, divenuta Furia,

                                   s’ei pur or mi sposò,

                                   e già mi disprezzò

                                   con mutanza inumana

10                                per la beltà villana,

                                   che scemo l’invaghì,

                                   e perciò mi tradì,

                                   tanto l’agiterò,

                                   quanto prima l’amai;

15                                né riposo avrò mai,

                                   sin che man omicida

                                   quella vita recida,

                                   che, contro a me proterva,

                                   mi pospone a una serva,

20                                che restia l’innamora.

                                   Periglio è la dimora,

                                   dunque per non morire

                                   fie d’uopo il prevenire.

                                   Al veleno su su!

25                                Zambra, che tardi più

                                   ad esser Parca austera

                                   di Nineuse spietato?

                                   Per l’indegno, pera,

                                   o ciel, o stelle, o fato!

30                                Pera, pera l’ingrato!

 

 

SCENA XXIV

 

Zelfa, Zambra e Nineuse in ascolto a parte.

 

            zelfa             Erro tra queste mura,

                                   come un’ombra noiosa,

                                   nel mio duol palpitosa,

                                   né so dove fissar il piè sicura:

5                                  un marito sleale,

                                   una oscena rivale,

                                   un amante ostinato

                                   forman tutto il rigor d’un empio fato.

                                   Ma Zambra è qui: ohimè, se m’ha sentita!

10                                Perplessa or che farò,

                                   pazzo mi fingerò,

                                   e così la mia traccia avrà l’uscita.

 

            zambra          Che ruminando vai,

                                   se sei Silvino? Ho inteso

15                                che rimproveri dai

                                   del suo rigor al fato: anch’io, che leso

                                   mi trovo il cor per un dolor funesto,

                                   contra di lui rampogno e lo detesto.

 

            zelfa             Io non rumino, come vuoi:

20                                ruminar sogliono i buoi,

                                   ne m’importa un et, o un acca:

                                   rumina pur, se sei la vacca!

 

            zambra          Che follia ti raggira

                                   il capo che vacilla?

25                                Ma ’l tuo senno più brilla,

                                   se per vezzo delira;

                                   e se pur tu se’ stolto,

                                   a me piaci più molto:

                                   che la femmina scaltra il suo sollazzo

30                                più saporito ha da l’amante pazzo.

 

            zelfa             Io son donna, come se’ tu,

                                   ma non già simil a te

                                   tu sei falsa, e la mia

                                   sempre canta cucurucù!

 

35        zambra          Oh tu sai far il gallo! Altro non bramo,

                                   quindi tanto più t’amo.

 

            zelfa             Io son gallo e tu se’ chioccia,

                                   canto ben, ma ruspo male:

                                   tu ben ruspi, ma non vale

40                                il tuo canto una bamboccia.

 

            zambra          O curioso umore! Or su sta cheto!

                                   Troppo hai fatto il faceto.

                                   Ascolta un po’, mio bello,

                                   mio civil villanello!

45                                Io t’amo d’un amor che non ha pari,

                                   più di tutt’i mie’ cari;

                                   ma tu non ami, no: crudel sorridi,

                                   e ridendo m’ancidi!

 

            zelfa             Putta sfacciata mi riderò

50                                di te anche meglio, se ’l ciel vorrà,

                                   né questo core più piagnerà;

                                   or buona notte, ch’io me ne vo!

 

            zambra          Oh capriccio! Oh disprezzo! Ei parte in fretta:

                                   ferma Silvino amato, attendi, aspetta!

 

 

SCENA XXV

 

Nineuse solo.

 

            nineuse         Furor, rabbia, veleno

                                   mi sconvolgon la calma

                                   del piacer in cui l’alma

                                   mi galleggiava in seno.

5                                  Vendetta fiera,

                                   che ’l guardo acciglia

                                   or mi consiglia

                                   pena severa.

                                   Tardi m’avveggio, tardi,

10                                che rapir mi lasciai

                                   da que’ fallaci sguardi:

                                   che troppo inviluppai

                                   mio spirto in que’ capelli,

                                   che sciolti son flagelli,

15                                ed alor che intrecciati

                                   son capelli dorati.

                                   O mia Zelfa così offesa

                                   da me insan, ove se’ tu?

                                   Mal per me, quando protesta

20                                dà impostura,

                                   così dura,

                                   la tua fede, (oh come!) fu:

                                   inutil pentimento

                                   Zelfa non vive, o da me lungi errante

25                                m’aborre con ragion, perciò mi fugge:

                                   io spargo dunque al vento

                                   ne le querele mie l’alma penante,

                                   che in questo petto fier s’incarna e rugge,

                                   ma sia Dorilla casta al par di bella

30                                di Zelfa il cambio, prezioso e degno:

                                   tal sia lo scopo a l’amoroso ingegno,

                                   e muora Zambra infida, empia e rubella!

 

 

SCENA XXVI

 

Pellandra ed Elcana da romito.

 

Stagno.

 

            pellandra     Ecco Pellandra, carca

                                   de’ tuoi funesti dì

                                   la meta inevitabile,

                                   a te sì desiabile,

5                                  poiché ’l destin ordì,

                                   per troncar i tuoi guai,

                                   che tu di te sarai

                                   l’inesorabil Parca.

                                   Questo squalido stagno,

10                                in cui l’acqua ammutisce;

                                   a le mie colpe un bagno,

                                   che le lavi, esibisce;

                                   ne v’è chi mel divieti

                                   tra questi gorghi taciti e secreti.

15                                Ma deh qual nuovo indugio al mio cordoglio

                                   differisce il respiro!

                                   Poiché ver me rimiro

                                   venir bel vecchio, ed aspettar il voglio:

                                   forse da lui consiglio

20                                avrò per terminar sì mesto esiglio!

 

            elcana           A la magione altera

                                   del ricco avaro il piè raggiro intorno,

                                   or che languido il giorno

25                                agonizza veloce in su la sera,

                                   per ristar su l’aguato,

                                   se quel vipereo drago,

                                   che sol di stragi è vago,

                                   dal velen sia salvato.

30                                Quinci, poco distante,

                                   veggo il tetto fumante,

                                   e ’l mio pensier allumo

                                   in meditar che questa

                                   vita, o lieta, o funesta,

35                                al fin se ne va in fumo.

 

            pellandra     Solitario felice,

                                   che qui per sorte a me t’offri sì umano,

                                    ascolta un caso strano!

                                   Io son la peccatrice

40                                Pellandra, che di Zelfa al reo disastro

                                   per un vil interesse,

                                   stimulata da Zambra, che l’oppresse,

                                   e da Nineuse, fei sordido empiastro.

 

            elcana           Non più, non più! Qual fia che ti conforti?

50                                Sei rea di mille morti!

                                   Io non vaglio a soffrirti,

                                   né più sto qui, che ’l suol s’apre a sorbirti.

 

 

SCENA XXVII

 

Pellandra sola.

 

            pellandra     Or sì che condannata

                                   Pellandra sei da una sentenza giusta!

                                   Di tante colpe onusta

                                   non trovi che ti regga (o vil, o ingrata!)

5                                  palmo di terra, e ’l ciel che dolce cribra[256]

                                   raggi sereni al fin a cui l’osserva,

                                   a te proterva al fin fulmini vibra.

                                   Che farai, di Natura

                                   inutil peso, ingiuriosa salma?

10                                Per te non v’ha più calma:

                                   passò ’l piacer, ch’efimero non dura:

                                   tu fieno, larva, spettro, ombra, fantasma,

                                   a l’obbrobrio t’invola, a l’onte, a l’asma.

                                   Muori, Pellandra, muori

15                                poiché di vita indegna,

                                   per i tuoi folli errori

                                   il suol, il Sol, il ciel, l’aria ti sdegna.

                                   Ognun torvo ti dà schive le terga,

                                   rimproverando i sussurrati accenti

20                                a la tua frode iniqua i tradimenti:

                                   dunque or or ti sommerga

                                   questa palude opaca,

                                   e sepellisca un lago una cloaca.

25                                Già de l’oro, che osceno

                                   accumolasti ne’ tuoi giorni avari,

                                   l’altrui mano rapace il pugno ha pieno;

                                   e i tesori sì cari,

                                   che partorì l’impudicizia antica,

30                                qual indica formica,

                                   lasciasti illusa al predator ingordo,

                                   che de’ tuoi fiori ha colto il frutto lordo.

                                   O de l’Orco arsicce Furie

                                   a voi don fo di quest’anima,

35                                che fugace a tante ingiurie

                                   il mio corpo adusto esanima!

                                   Ricevetela,

                                   strascinatela,

                                   percuotetela,

40                                agitatela!

                                   Ben con ragion l’abituato vizio

                                   mi trae dannata a l’immortal supplizio.[257]

 

Qui si getta nello stagno.

 

 

SCENA XXVIII

 

Nineuse ed Elidoro sopra una barchetta: Zambra e Zelfa sopra un’altra barchetta: Bisticcio e Farfalla sulla riva, con coro di Pescatori.

 

            nineuse         Piacer che lusinghiero

                                   m’alletti a l’aura fresca,

                                   che su quest’onde tresca,

                                   da te molto più spero.

5                                  Se la mia bella

                                   vezzosa stella,

                                   or che tramonta il Sole,

                                   coì suoi benigni rai splender mi vuole.

 

            zambra          Che dilettosa sorte,

10                                passar l’ore fugaci

                                   tra contenti veraci

                                   che allontanan la morte!

                                   O me felice,

                                   poiché mi lice,

15                                in sì gran bonaccia,

                                   se un Sol si cela, averne un altro in faccia!

 

            coro di          È una pesca il mondo,

            pescatori      in cui sempre tese

                                   stan dal sommo al fondo

20                                reti a far le prese;

                                   ma più assai che orate

                                   tinche son pigliate;

                                   chi vi logra i fianchi,

                                   prende ombrine e granchi.

 

25        nineuse         Zambra mia, come va?

 

            zambra                                              Non prendo nulla,

                                   che ’l pesce mi schernisce, e si trastulla.[258]

 

            nineuse         (Ed io, per quanto ingegno

                                   m’abbia al pescar, non colgo ancora il segno.

                                   Dorilla, oh, quanto bramo,

30                                Più che con rete, di pigliarti a l’amo!) (a parte.)

 

            elidoro         (Io sono un pesce scaltro,

                                   deludo rete, ed amo: eh vi vuol altro!) (a parte.)

 

            zambra          (Mio Silvino ostinato

                                   ancor non t’ho pescato!

35                                Me ben tosto saran mie voglie liete,

                                   che t’avrò nella rete.) (a parte.)

 

            zelfa             (Fa’ pur, quanto sai

                                   padrona mia ghiotta!

                                   Con rete sì rotta

40                                non mi pescherai.

                                   La libertà è sì cara

                                   che ’l pesce ancor a proseguirla impara.) (a parte.)

 

            zambra          (E pur sempre deliri,

                                   o bocca di coralli,

45                                vorrei pescarti ’l core,

                                   pur mi fuggi ritroso, ingannatore:

                                   ah mio ben tu patisci d’intervalli,

                                   e pur non interrompi i miei martiri!) (a parte.)

 

            nineuse         Che sta dicendo, amica, il pastorello?

 

50        zambra          Gli tentenna il cervello:

                                   mi par ch’egli sia matto.

 

            zelfa             Se sei carne salata, io non son gatto.

 

            nineuse         Avverti, anima mia,

                                   ch’ei non attacchi a te la sua pazzia!

 

55        coro di          È una pesca il mondo,

            pescatori      in cui sempre tese

                                   stan dal sommo al fondo

                                   reti a far le prese;

                                   ma più assai che orate

60                                tinche son pigliate:

                                   chi vi logra i fianchi,

                                   prende ombrine e granchi.

 

            farfalla        Oh che gran pesce! E viva!

                                   A la riva! A la riva!

65        nineuse         Che si riduca in secco.

 

            bisticcio        Io me vo’ magnar un pezzo lecco.[259]

 

            farfalla        Par una lamia: ohimè, ch’ella è vestita!

 

            bisticcio        Emergenza inaudita!

                                   È il corpo di Pellandra: ah che annegata

70                                s’è, come disperata!

 

            farfalla        Cospetto di Pasquino! 

                                   Mi pareva un delfino.

 

            zambra          L’augurio è tristo e tragica la scena.

 

            nineuse         Non importa: coraggio! Andiamo a cena![260]

 

 

SCENA XXIX

 

Graffio, con uno scattolino di polveri velenose.

 

Cortil rustico.

 

            graffio          Già del Sol a l’occaso,

                                   spinta dal fato, a rio Nineuse l’ora

                                   letifera s’appressa: ei dentro un vaso

                                   che mescer li farò la sua Pandora,

5                                  berrà liquido umor, liquida morte;

                                   e già de l’Orco ner batte a le porte.

                                   Queste son le polvi, estratte

                                   da una Libia serpentosa,

                                   e mia man fia che le addatte

10                                a spruzzar quell’alma esosa,

                                   per far ch’esca bestemmiando

                                   dal suo corpo empio e nefando.

                                   Se tante volte fu

                                   in lui da Bacco Venere

15                                scaldata, or fredda in cenere

                                   non l’accenda mai più.

                                   Un libertin da Libero

                                   estinto alfin cadrà,

                                   tosto che il liberà,

20                                ed il mondo sia libero

                                   da un mostro de’ più orribili

                                   che ne l’Ircania sibili.

 

 

SCENA XXX

 

Cospettone, con un’ampolla d’acqua velenosa.

 

            cospettone  Ecco di Zambra in questo vettro espressa

                                   la fragil vita e chiusa, ancorché chiara

                                   in un limpido umor, la morte oscura!

                                   Quel mostro di Natura

5                                  suggerà pur nel primo sorso amara

                                   de l’ultimo respir la noia impressa?

                                   La mia man, che ognor più rigida

                                   ne l’altrui sangue s’insordida,

                                   or è troppo al punir morbida,

10                                mentre il suo vigor s’infrigida

                                   nel veleno, in cui l’intinge

                                   di Nineuse il giusto impero;

                                   pur ne vo lieto ed altero,

                                   che l’Edippo son io di questa sfinge.[261]

 

 

SCENA XXXI

 

Ghiotto e coro di Cuochi e di Guatteri.

 

            ghiotto        Or che la cena

                                   fuma imbandita,

                                   fuori la pena

                                   resti sbandita!

5                                  Tripudiando,

                                   e scilacquando,

                                   poiché si serba

                                   per tal procinto,

                                   col lombo scinto,

10                                cresca superba

                                   questa mia panza,

                                   in cui ogn’intestin per gioia danza.

                                   Voi, de’ buoni bocconi

                                   architetti ingegnosi,

15                                cari commilitoni,

                                   con gli spiedi lardosi,

                                   de la gola guerrieri,

                                   militando ai piaceri,

                                   ergete il ventre tronfo,

20                                d’Imeneo al trionfo,

                                   e con voci canore,

                                   de la felicità si sveglin l’ore.

 

            coro              Or che sono a colmo tumidi

            di cuochi       tanti piatti regalati,

25                                per le salse caldi ed umidi,

                                   per la spesa ben salati:

                                   facciam tutti festa

                                   con lieto sollazzo:

                                   nel vin vada a guazzo

30                                la trippa e la testa!

                                   E che s’ha più a fare?

                                   Sol ber e magnare.

 

            ghiotto        Buono da cavaliere!

                                   La canzon è piccante,

35                                la rima arcifrizzante:

                                   viva il magnar e ’l bere

                                   contra le doglie triste;

                                   che la vita ne l’umido consiste.

 

            coro              Il buon vino,

40        di cuochi       purpurino

                                   con ragion è nostro re:

                                   a la banda,

                                   s’ei comanda,

                                   ci fa gir col capo basso,

45                                tronca il passo,

                                   fa veder quel che non è.

                                   Il buon vino,

                                   purpurino,

                                   con ragion è nostro re.

 

50        ghiotto        Cantate pur, ch’io me ne vo di botto,

                                   come un cinghial con aguzzato dente

                                   a la cena fervente,

                                   per far l’ufficio mio, poiché son Ghiotto.

 

            coro              Cantiamo su su,

 

55        di cuochi       che ’l tempo sen va![262]

                                   Beviamo ognor più,

                                   poich’altro non s’ha

                                   in questa vita amabile,

                                   ma fragil, corta e labile,

60                                giusto, com’un bicchier,

                                   se non magnar e ber!

 

Qui danzano.

 

                                   Viva la cucina,

                                   la cucina viva!

                                   Viva la cantina!

65                                Che, seben n’è priva,

                                   di vita gioconda

                                   l’un e l’altra abbonda.

                                   È meglio esser unto

                                   che pulito e smunto;

70                                e chi è grasso e tondo

                                   va di rado al fondo,

                                    un che sia da broda,

                                   ha la schiena soda,

                                   e se non sa molto,

75                                vien da tutti accolto.

                                   Si dan le prebende

                                   a chi meno intende.

                                   La filosofia,

                                   magra, per la via

80                                sconosciuta errando,

                                   sen va pitoccando;

                                   ma l’ignorantone,

                                   come un gran leccione

                                   liscio ed ingrassato,

85                                mastro è del pignato.

                                   Ognun lo regala,

                                   tutti gli fan ala;

                                   e quand’egli arriva,

                                   trova la pappina.

90                                La cucina viva,

                                   viva la cantina.

 

 

SCENA XXXII

 

Nineuse e Zambra, seduti a mensa: Elidoro da Dorilla, Zelfa da Silvino, Farfalla, Bisticcio, Graffio, Ghiotto, Cospettone ed un Corriere.

 

            nineuse         Questa mensa fastosa

                                   dal tuo bel fiammeggiante,

                                   o bellissima sposa,

                                   con ragion è fumante,

5                                  e ’l tuo soave amore

                                   accresce a le vivande almo sapore.

 

            zambra          Il tuo guardo sì,

                                   che a me sol condì,

                                   mio Nineuse amato,

10                                questi cibi augusti:

                                   sol perché li gusti

                                   gli ama il mio palato.

 

            nineuse         Olà, dov’è il prior dei parasiti?

                                   L’anima dei conviti!

 

15        ghiotto        Signor son qui a sorbirvi.

 

            nineuse         A servirvi dir vuoi; ma ben dicesti;

                                   perché son sempre lesti

                                   gl’ingordi servidori ed i gnatoni,

                                   a sorbire i padroni.

 

20        zambra          Per render l’alma lieta

                                   la prima tazza sia del vin di Creta.

 

            farfalla        È la creta argilosa

                                   simbolo d’una morte polverosa.

 

            nineuse         Cospettone!

 

            cospettone                          Signor!

 

            nineuse                                             De la mia diva

25                                coppier ti fo, dagli a libar del vino

                                   real d’Engaddi.[263]

 

            ghiotto        È scelto e purpurino.

 

            graffio          Ecco, signor, il nappo,

                                   in cui presse l’Amore il primo grappo.

 

30        nineuse         A la salute beo de la mia vita.

                                   A far ragion t’invita

                                   il tuo sposo fedel: beviam alterni,

                                   e sian nostri anni eterni.

 

            zelfa             E s’io beo di torti un bicchierone,

35                                chi mi farà ragione?

 

            zambra          Taci lì sacciutello!

                                    Presto da ber!

 

            cospettone                          Eccomi pronto a darlo.

 

            zambra          Oh tu mal sai versarlo!

                                   La man, che fai? Ti trema.

 

40        cospettone  Per l’allegrezza estrema

                                   di vedervi contenta.

 

            zambra          Mio cor, per sempre spenta

                                   resti la gelosia

                                   in questa coppa che ’l mio spirto invia,

45                                con sospir amoroso al tuo respiro.

 

            nineuse         Bella, quando ti miro,

                                   sempre più mi raccendo,

                                   e ’n renderti ragione a te mi rendo.

 

            farfalla        Un corriero, un corriero!

50                                Si sospenda il bicchiero.

 

            corriero       Signor, signor! In fretta

                                   a voi spedito arrivo,

                                   affannosa staffetta,

                                   con questa carta che mi die’ un ignoto,

55                                in comandarmi accelerato il moto.

 

            nineuse         Che fia mai? Leggerò?

 

            zambra          Mio fedel, deh no!

 

            nineuse         Hai ragion, tempo abbiamo![264]

 

            zambra          Dunque uniti beviamo!

 

60        nineuse         Al segretario, olà, si dia la carta!

 

            zambra          E da bere al corrier, seben molesto.

 

            corriero       Buona notte, signor, ritorno presto.

 

            bisticcio        Son tutte le staffette

                                   impazienti: al fin rompi brachette.

 

65        nineuse         Or beviam di concerto

                                   stretti, la destra chiusa e ’l cor aperto!

 

            zambra          Beviam, idolo mio, che in questa palma

                                   il cor mi stringi, e mi rapisci l’alma!

 

Qui bevono unitamente.

 

            bisticcio        Viva sì bella coppia.

 

70        farfalla        Gli anni matusalemici,

                                   né mai provi gli arsenici

                                   d’una gelosa inopia:

                                   di fiori, e di frutti abbondino,

                                   né secchi mai si sfrondino,

75                                sempre col cornucopia:

                                   viva sì bella coppia!

 

            nineuse         Qual sopor mi sorprende?

 

            zambra          Ahi, qual ardor m’accende?

 

            nineuse         Ohimè, che sento? Aiuto!

 

80        zambra          Ohimè, ch’ho mai beuto?

 

            nineuse         Ah che bevei la morte!

 

            zambra          Oh dispietata sorte!

                                   Il colpo va fallito.

 

            nineuse         Tu m’hai, crudel, estinto.

 

85        zambra          O ciel, come ho mal vinto!

 

            nineuse         Perfida, scelerata!

 

            zambra          Misera, assassinata!

 

            cospettone  Olà, olà! Triaca e bolarmeno![265]

 

            bisticcio        Olà, contraveleno!

 

90        zelfa             Oh Dio, Nineuse muore!

 

            nineuse         Ahi, che letale orrore!

 

            zambra          Ahi, che dolor atroce!

 

            nineuse         Sia maledetto il fato, il ciel: ah cruda

                                   già quest’alma si snuda

95                                per agitarti, al fianco eterna Furia.

 

            zambra          Empio, di tal ingiuria

                                   mi pagherai le pene anche stasera:

                                   son qui per tormentarti atra Megera.

 

Qui s’attorcono rabbiosamente insieme, incalzandosi dentro la scena, dove muoiono accavigliati.

 

            nineuse         Inumana!

 

            zambra                      Protervo! Aspe!

 

            nineuse                                             Cerasta!

100                              Arpia!

 

            zambra                      Drago! Scorzon!

 

            nineuse                                             Vipera, basta.

 

Dentro poi.

 

                                   Perfida, ohimè finisco!

 

            zambra          Scelerato! Inumano! Ohimè perisco!

 

            ghiotto        Amici, oh che frittata!

 

            graffio          Oh, che brutta insalata!

 

105      cospettone  Oh, che salsa piccante!

 

            elidoro         Oh che cena fumante!

                                   Oh che caso letale!

 

            bisticcio        Oh che macel ferale!

                                   Oh che guazzetto!

 

110      farfalla        Da la tavola è un passo al cataletto.

 

            zelfa             Ohimè, Nineuse, ohimè!

                                   Tu morto, o Dio, così,

                                   senza veder il dì

                                   de la mia cara ?

115                              Lacrimate,

                                   distillate

                                   il mio core occhi dolenti!

                                   Amor fiero,

                                   crudo arciero

120                              al mio sen, che dardi avventi?

                                   Lacrimate,

                                   distillate

                                   il mio core occhi dolenti!

                                   Inconsolabile

125                              d’inevitabile

                                   morte cadrò.

                                   Per tal esizio

                                   al precipizio

                                   ratta n’andrò.

 

130      elidoro         Ella sen va con disperato affanno:

                                   la seguirò, per ovviarne il danno.

 

 

SCENA XXXIII

 

Ghiotto, Graffio, Bisticcio, Farfalla, Cospettone, con la comparsa in fine di quattro Furie.

 

            ghiotto        Or che farem, compagni, a tanta pena?

 

            graffio          Trattiam di sotterrarli!

 

            ghiotto        Ma, se noi non potiam risuscitarli,

                                   mettiamsi pur a cena!

 

5          bisticcio        Chi è morto, è morto. Quando il padron more

                                   festeggia il servitore.

 

            farfalla        La vacca e il vitello

                                   son caduti ad un colpo di martello.

 

            cospettone  Ceniam dunque, né siam così balordi!

 

10        bisticcio        Tu non l’hai detto a sordi.

 

Qui si affidono a mensa.

 

            ghiotto        Diam la scalata a questo gran pasticcio!

 

            farfalla        Or or col mio famelico capriccio.

 

            bisticcio        Questo cappon non ha pepe, né sale:

                                   ed ha la pelle a punto da stivale.

 

15        ghiotto        È ver: io lo conosco al becco, a l’anca:

                                   ha di quel che gli manca.

 

            farfalla        Oh tu se’ dilicato!

                                   Ma tal è ’l cibo alfin, quale il palato.

 

            graffio          Che pernice scolante e d’alta grassa!

 

20        ghiotto        Lascia veder! In due boccon trapassa!

 

            graffio          Anche il Graffio talor colto rimane.

 

            farfalla        Qui non si mangia pane?

 

            bisticcio        Questa è casa di carne:

                                   mira che belle starne!

 

25        farfalla        Per costume usitato

                                   i ricchi magnan sempre di pelato.

 

            ghiotto        Olà da bere, olà, ch’io son padrone!

 

            cospettone  Buono per Cospettone!

                                   Beviam tutti ad un tratto!

 

30        farfalla        Ma guarda il vin, perché dà scaccomatto.

 

            bisticcio        Nol vo’ d’Engaddi no, nol vo’ di Creta.

 

            ghiotto        Son del bere la meta.

 

            farfalla        Maledetti que’ tralci!

                                   Vin da cavalli alfin fa tirar calci.

 

35        bisticcio        È un vin di malificio.

 

            graffio          Il nostro sarà un vin senz’artificio.

 

            cospettone  A la salute d’ogni buon compagno:

                                   e nessuno così di noi sparagno.

 

            bisticcio        È morto il gran Fineo, morta è l’arpia.[266]

 

40        tutti              Viva la compagnia!

 

Qui mentre stanno per bere, prorompono quattro Furie, che se ne portano via i corpi di Nineuse, di Zambra, onde ne va la tavola tutta a scompiglio.

 

            cospettone  Ohimè, ohimè, che furiosi spettri!

 

            graffio          Ahi, che gelo a tal vampa!

 

            bisticcio        Per campare si scampa.

 

45        ghiotto        Oh, che spavento atroce m’ha ingoiato!

 

            farfalla        Ed io Farfalla son tutto scottato.

 

Fuggono con disordine.

 

 

SCENA XXXIV

 

Elidoro, Zelfa, Eliabbe ed Elcana.

 

Bosco.

 

            elidoro         Ferma, deh ferma

                                    bella baccante

                                   il piè volante

                                   ad una morte insana!

5                                  Tua mente inferma

                                   per duol indegno

                                   con fiero sdegno

                                   folle ti disumana.

 

            zelfa             Importuno, ed ancora

10                                t’opponi a la quiete

                                   di cui quest’alma ha sete?

                                   Ah giust’è che mi prive

                                   di respiro il dolore!

                                   Con ragion Zelfa muore,

15                                perché Nineuse, il suo sposo, non vive.

 

            elidoro         Che sposo? Un lestrigon empio e fremente,

                                   ch’ai sassi condannò

                                   la più bella innocente,

                                   sposo tua lingua chiama?

20                                E di chi ti salvò

                                   con affetto immortale

                                   l’amor puro e leale

                                   il tuo cor ostinato ancor non ama?

 

            zelfa             Lascia, deh lascia omai

25                                questa inutil inchiesta,

                                   perché, se come onesta

                                   sinor io non t’amai,

                                   or, che son disperata,

                                   e me stessa anche aborro,

30                                al precipizio corro,

                                   per non venir più amata.

 

            elidoro         Oh funesta pazzia!

                                   Trattienti anima mia!

 

            zelfa             Ed ancor non mi sciogli?

 

35        elidoro         Vo’ che prima snodi me.

 

            zelfa             Invan di me t’invogli:

                                   morto è Nineuse e viva è la mia .

 

            eliabbe          Che contesta è mai quella?

                                   Vezzosa pastorella

40                                con un pastor alterca,

                                   e con ritrose note

                                   da le braccia di lui tutta si scuote.

 

            elcana           Cerca Eliabbe, cerca

                                   la cagion del contrasto!

 

45        eliabbe          Ohimè, ch’ho il cuor sì guasto

                                   dal mio rimorso nero,

                                   perché uccisi un fratel, seben severo,

                                   che ad altro penso: andiamo!

 

50        elidoro         Padre, ah padre vi chiamo

                                   povero disperato,

                                   misero innamorato;

                                   venerabil romito,

                                   al soccorso v’imploro,

55                                al consiglio v’invito:

                                   deh per pietà ristoro!

                                   Questa è dell’epulon la vera sposa,

                                   al mio costante amor sempre ritrosa;

                                   e poiché morto è quel tiranno atroce,

60                                al precipizio ella correa veloce,

                                   quand’io qui la trattengo, e la lusingo.

 

            zelfa             Son Zelfa, e più non fingo: ah padre aiuto!

 

            elcana           Di dar non lo rifiuto:

                                   lasciala pur e sia con tuo decoro

65                                il decreto del ciel messo in effetto.

                                   Io son certo che al letto

                                   di Nineuse giammai non feste oltraggio,

                                   e gl’innocenti amori, o cavaliero,

                                   del tuo spirto sincero,

70                                (tali son or) il cielo,

                                   che suol in lana convertire il gelo,

                                   or benedice con empireo raggio.

 

            zelfa             Dunque sposar il deggio?

 

            elcana           Ne le stelle intagliato, o Zelfa, il veggio.

 

75        elidoro         Oh come ne son lieto!

                                   Riverisco del ciel l’alto decreto.

 

            zelfa             Io pur mi rendo agli astri

                                   dopo tanti disastri.

 

            elidoro         O fortunato me! Cara t’impalma

80                                la mia destra: ecco il cor, eccoti l’alma!

 

            zelfa             Son felice ad un punto.

                                   Elidoro t’amai,

                                   ma lo dissimulai:

                                   che donna, amante scaltra

85                                appar ritrosa e ne l’interno è un’altra.

                                   Or che, mio bel, se’ giunto

                                   de lo scambievol foco a spegner tutta

                                    la tormentosa arsura,

                                   l’anima mia ti giura,

90                                nel ben amar instrutta,

                                   che più (se più si può)

                                   di Nineuse, o mio fido, io t’amerò.

 

            elidoro         O mia cara delizia!

 

            zelfa             O mio fatal contento!

 

95        elidoro         Deh lascia la mestizia

                                   con sì nobil evento!

 

            zelfa             Son tua serva inviolabile.

 

            elidoro         Son tuo schiavo strettissimo.

 

            zelfa             Mio ben, mia vita affabile!

 

100      elidoro         Idolo mio dolcissimo.

 

            ambidue         Andiam al sacrificio

                                   grati al ciel, che felicita

                                   un’union sì licita

                                   col suo gran beneficio!

 

105      elcana           Andate pur andate, e vi secondi

                                   Providenza sovrana,

                                   che con maniera strana

                                   vien ch’a i mortali di sue grazie abbondi.

 

            elidoro         Addio, buon vecchio, addio!

 

110      zelfa             Addio saggio, ver me sì retto e pio!

 

            eliabbe          Che farem noi?

 

            elcana                                   Se vuoi restarti meco,

                                   avrem commun la vita, il cor, lo speco.

 

            eliabbe          Volentieri mi piego.

                                   Anzi tutto compunto io te ne prego:

115                              così la penitenza

                                   purgherà l’error mio con l’astinenza.[267]

 

            elcana           Andiam, che ’l mondo è così pien d’impacci,

                                   che non v’ha chi gli fugga, o non s’allacci!

 

 

SCENA XXXV

 

Nineuse e Zambra: Lazaro ed Abramo.

 

Quattro Furie.

 

Inferno e Limbo.

 

            nineuse         Ahi, ahi! Ahi, ahi! Ahi, ahi!

            e zambra        Che pene, che affanni, che orrori, che guai!

                                   In questo centro squallido,

                                   in cui la morte vive,

5                                  arde lo spirto pallido

                                   su le sulfuree rive,

                                   dove il foco pestifero

                                   corre in fiume letifero.

 

            zambra          In questi gorghi orribili

10                                d’un mar di fiamme atroci

                                   l’alma tra i mesti sibili

                                   d’euri tetri e feroci

                                   senza calma, o suffragio,

                                   patisce atro naufragio.

 

15        nineuse         Il mio bisso morbido,

                                   il mio fulgid’ostro,[268]

                                   fumicolo e torbido,

                                   or ammanta un mostro

                                   d’ira e d’avarizia

20                                con letal mestizia.

 

            zambra          La mia vil lussuria,

                                   il mio lusso osceno,

                                   raddoppiata Furia

                                   mi tormenta il seno,

25                                in cui sol or godono

                                   vermi che mel rodono.

 

            nineuse         Ahi, ahi! Ahi, ahi! Ahi, ahi!

            e zambra        Che pene, che affanni, che orrori, che guai!

 

            nineuse         Tra queste rie caligini,

30                                qual barlume traspare,

                                   per far le mie fuligini

                                   più dense al mio penare?

                                   Ohimè, che fier rimprovero?

                                   Vedo il deriso Lazero,

35                                non più stracciato e misero,

                                   non più lebbroso e povero.

                                   Ahi, che dolor mi macera!

                                   Ahi, che furor mi lacera!

 

            lazaro           Fortunati stenti,

40        nel seno        cari patimenti,

            di abramo      a voi debbo il tutto!

                                   Per voi dolce calma

                                   dà riposo a l’alma,

                                   se fu amaro il flutto.

 

45        nineuse         O miei lumi offuscati,

                                   tardi v’aprite tardi

                                   con torpiditi guardi

                                   ai lumi disprezzati!

                                   Che mi val chieder pietà

50                                se ’l mio cor fu sì crudele?

                                   Se non mai conobbi ’l ciel,

                                   or il ciel per me non l’ha.

 

            lazaro           Fortunati stenti,

                                   cari patimenti,

55                                a voi debbo il tutto!

                                   Per voi dolce calma

                                   dà riposo a l’alma,

                                   se fu amaro il flutto.

 

            nineuse         Padre, deh padre Abramo!

 

60        abramo          Figlio, che chiedi figlio?

 

            nineuse         Compassion ti chiamo

                                   in questo oscuro esiglio.

 

            abramo          Che vuoi da me ch’attendi?

                                   T’ascolterò, seben l’orecchio offendi.

 

65        nineuse         Io ti priego che mande

                                   la tua pietà Lazaro a queste bande,[269]

                                   perché, dal genio tuo soave spinto,

                                   con l’estremo del dito, in acqua intinto,

                                   la mia lingua refrigeri, abbronzata

70                                in questa fiamma, a cui porge il fomento,

                                   con immortal mortifero tormento,

                                   l’alma mia, la mia salma empia e dannata.

 

            abramo          Figlio non ti raccordi,

                                   che con affetti ’ngordi

75                                vivendo accumulasti a colmo i beni,

                                   e Lazaro, de’ mali a l’affluenza

                                   offrì la pazienza:

                                   or ei qui si ricrea, tu laggiù peni:

                                   né può passar da noi

80                                alcuno a trovar voi,

                                   che tra voi resta, e noi, confuso e fermo

                                   un caos sì tetro ed ermo,

                                   che da voi, né men qua, passar alcuno

                                   può, di conforto e luce ognor digiuno.

 

85        nineuse         Padre, ti prego almeno

                                   che al mio nativo albergo or or dispacci

                                   la tua pietà quel Lazaro che in seno

                                   ti respira, deposti i gravi stracci,

                                   ond’instruisca i miei cinque fratelli,

90                                perché, com’io, del ciel fatti rubelli,

                                   al fin non gli rimiri

                                   in questo loco d’ombre e di martiri.

 

            abramo          Hanno Mosè, i profeti:

                                   ubbidiscano quegli e ne fian lieti.

 

95        nineuse         No, padre Abramo, no! Se alcun de’ morti

                                   ad ammonirgli andrà, per fargli accorti,

                                   germoglieran di penitenza i fiori,

                                   discendran, com’io, tra questi orrori.

 

            abramo          Tu se’ pur sempre stolto!

100                              Se a profeti, a Mosè non danno ascolto,

                                   né serbano la , che in lor talpeggia,[270]

                                   molto men fia che deggia

                                   lor mente insana trar qualche profitto,

                                   s’alcun de’ morti a quei farà tragitto.

 

105      lazaro           Fortunati stenti,

                                   cari patimenti,

                                   a voi debbo il tutto!

                                   Per voi, dolce calma

                                   dà riposo a l’alma,

110                              se fu amaro il flutto.

 

            nineuse         Oh spietato destino?

                                   Che foggia strana innovi?

                                   O ciel, onde si provi

                                   dolor tanto intestino?

 

115      lazaro           Gemi pur penante,

                                   ch’io non più agognante

                                   son a le tue miche!

                                   I tuoi gusti folli,

                                   le tue rose molli

120                              son napelli ed ortiche.[271]

                                   A me la sorte,

                                   a te la morte.

 

            nineuse         A me la morte,

                                   a te la sorte.

 

125      lazaro           L’empireo nume,

                                   da te schernito,

                                   da me servito,

 

            nineuse          Da me schernito,

                                   da te servito,

 

130      ambi                perpetua dà.

 

            nineuse         A me d’ardore,

                                   a te d’orezzo,[272]

                                   per mio disprezzo.

 

            lazaro           Quel caro amore,

 

135      nineuse         Dio non creduto.

 

            lazaro           Di te rifiuto,

                                   da me adorato,

 

            nineuse         da me negato,

 

            lazaro           l’abisso puro,

 

140      nineuse         il centro oscuro,

 

            ambi                sempre darà.

 

            nineuse         Sia maledetto il dì

 

            lazaro           Sia benedetto il dì

 

145      nineuse         che a l’Orco serpentoso,

 

            lazaro           che a sì dolce riposo,

 

            nineuse         la giustizia crudele,

 

            ambi                la giustizia fedele

                                   del ciel mi partorì.

 

150      lineuse          Io penerò,

 

            lazaro           Io gioirò,

 

            ambi                tanto ha prescritto a entrambi ’l Fato eterno.

 

            lazaro           Io ne la Gloria absorto,

 

            nineuse         Io ne l’Inferno.

 

Qui spariscono il Limbo e l’Epulone con Zambra, restando le quattro Furie, che ai fianchi li tormentavano, a chiuder l’opera con un feroce balletto.

 

Il Fine.

 

 

 

Bibliografia

 

Opere citate di Francesco Fulvio Frugoni

 

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Altre opere

 

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[1] «L’epulone con le prose morali-critiche, in quarto: stampato in Venezia, e ristampato in Ginevra» (Francesco Fulvio Frugoni, Del cane di Diogene opera massima del p. Francesco Fulvio Frugoni minimo, i Settimi latrati, cioè la lucerna del cinico, Venezia, Antonio Bosio, 1688, p. 852).

[2] Sui Combi-La Noù si veda Alfonso Mirto, Librai veneziani del Seicento: i Combi-La Noù ed il commercio librario con Firenze, «La Bibliofilia», XCIV, 1, 1992, pp. 61-88.

[3] Luca Trevisan - Giulio Zavatta, Incisori itineranti nell’area veneta nel Seicento. Dizionario bio-bibliografico, Verona, Università degli studi di Verona, 2013, p. 79.

[4] Sulla figura del diplomatico veneziano Battista Felice Gaspari Nani (1616-1678), ambasciatore in Francia e commissario per i confini della Dalmazia, si veda Dorit Raines, Nani, Battista Felice Gaspare, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. LXXVII, Roma, 2021, pp. 692-698, e Storici e politici veneti del Cinquecento e del Seicento, a cura di Gino Benzoni e Tiziano Zanato, Milano-Napoli, Ricciardi, 1982, vol. II, pp. 443-459. I rapporti con Frugoni sono invece puntualmente illustrati da Davide Conrieri, Quattro lettere di Francesco Fulvio Frugoni, in Id., Scritture e riscritture secentesche, cit., pp. 100-123: 117-123.

[5] “Si ricopriva di porpora e bisso” (Lc 16, 19).

[6] La porpora, prodotta tradizionalmente dai Fenici e in particolare dalle città di Tiro e Sidone.

[7] È Pausania, nel secondo volume della Periegesi della Grecia, a citare il bisso dell’Elide e quello (più rossastro) della Giudea.

[8] Si legge nel primo voume degli Elogi del Crasso: «La Nani si nomina tra le [famiglie] romane a tempo degli imperadori, e hassi per un ramo della famiglia Mezia, che vien da’ Sabini» (Lorenzo Crasso, Elogi d'uomini letterati, in Venezia, per Combi e La Noù, 1656, p. 101. Il ratto delle Sabine – che sancì la fusione tra i due popoli – avvenne al compimento del primo lustro dalla fondazione di Roma, nel 749 a.C.

[9] «Et facere et pati fortia Romanum est», “è da romano fare e patire cose forti” (Liv. 2, 12, 9).

[10] Battista Nani era figlio di Giovanni dei Nani e Marina Lando.

[11] «La famiglia poi de’ Landi è rampollo de’ Duchi di Vittembergh diramato da Adelberto nel tempo del re Pipino» (Lorenzo Crasso, Elogi d'uomini letterati, cit., p. 102).

[12] Nel senso di ‘ricordare’.

[13] Battista Nani seguì il padre a Roma all’inizio del 1639 e vi rimase fino a maggio dell’anno successivo.

[14] “È bello essere additati, e che si dica ‘è lui’”: Pers. 1, 28.

[15] Il Tevere, spesso utilizzato per antonomasia per indicare la curia romana.

[16] Giovanni Nani morì il 23 aprile 1647.

[17] Ercole si caricò la volta celeste sulle spalle, sostituendo Atlante mentre questi raccoglieva i pomi del giardino delle Esperidi. Intuì poi il trucco del titano che intendeva assegnarli il gravoso compito per sempre e riuscì a fuggire.

[18] Nelle Storie, IV, 186 3.

[19] “Attraverso la metatesi e l’inversione, si può dire ‘Atlante’ di qualsiasi uomo particolarmente operoso: come un Atlante delle fatiche letterarie, degli affari militari e e degli affari politici” (Jan Fongers (Johannes Fungerus), Etymologicum trilingue, Lugduni, sumptibus Antonii De Harsy, 1607, p. 97). Il repertorio del Fongers è molto utilizzato da Frugoni anche nel Cane di Diogene.

[20] Nani, eletto ambasciatore ordinario in Francia, fu a Parigi dal 1644 al 1648, durante la reggenza di Anna d’Austria e Mazzarino dovuta alla giovane età di Luigi XIV.

[21] Il cigno d’argento in campo verde era lo stemma della famiglia Nani.

[22] I Sicambri erano un’antica popolazione germanica stanziata sulla riva destra del Reno, sconfitta prima da Cesare e poi da Tiberio, e infine trasferita in Gallia.

[23] La guerra di Candia venne combattuta dal 1645 al 1669 tra la Repubblica di Venezia e l’impero ottomano per il possesso dell’isola di Creta.

[24] Nani fu ambasciatore ordinario presso Ferdinando III d’Asburgo dal 1653 (pur partendo solo l’anno successivo) e fino alla incoronazione di Leopoldo I, nel settembre del 1657.

[25] L’azione reciproca di due forze contrarie che si rafforzano a vicenda (qui il freddo delle nevi di Germania che aumenta l’ardore dell’animo del Nani).

[26] Il vento d’aquilone era il vento settentrionale per eccellenza.

[27] Il successore di Ferdinando III, Leopoldo I d’Asburgo, re d’Ungheria e di Boemia dal 1655.

[28] Carlo X Gustavo di Svezia, che dichiarò guerra alla Polonia del 1655 e alla Danimarca nel 1657 durante la guerra di successione svedese.

[29] La pace di Vestfalia del 1648, che pose fine alla guerra dei Trent’anni. «Divisando tutto giorno col cardinal Mazzarini, operò molto per la pace universale in Munster» (Lorenzo Crasso, Elogi d'uomini letterati, cit., pp. 102-103).

[30] Creta non faceva parte delle vicine Cicladi.

[31] «Nella creazione d’Alessandro Settimo al papato ebbe l’occhio la Republica di crear Battista ambasciadore a quel nuovo pontefice. Ma ad altri fu poi commessa tal funzione, perché egli ritornò in Germania a congratularsi con l’imperador Leopoldo» (Lorenzo Crasso, Elogi d'uomini letterati, cit., p. 103).

[32] Allusione al celebre episodio di Alessandro Magno e del nodo di Gordio.

[33] Il Collegio dei Savi (Nani divenne savio grande nel 1654).

[34] Il Maggior Consiglio, del quale Nani entrò a far parte a soli 18 anni, il 4 dicembre 1637, per sorteggio.

[35] Nani venne eletto il 2 gennaio 1654 all’ufficio dei riformatori dello Studio di Padova.

[36] Dal commento di san Tommaso d’Aquino al Liber sententiarum di Pietro Lombardo: «Angelus definitive in loco est per operationem suam» (Scriptum super Sententiis, Ia 37.3.1).

[37] Nani tornò a Vienna in qualità di ambasciatore straordinario per l’incoronazione imperiale.

[38] Lo stemma degli Asburgo è l’aquila bicipite.

[39] Nel luglio 1659 Nani venne eletto ambasciatore straordinario presso Luigi XIV, con il compiuto di chiedere sussidi per la guerra di Candia. Il matrimonio nel 1660 tra Luigi XIV e Maria Teresa d’Asburgo, infanta di Spagna, aveva il compito di rendere più salda la pace tra Francia e Spagna dopo la guerra franco-spagnola, e venne decisa con il Trattato dei Pirenei sottoscritto da Mazzarino e Don Luis Méndez de Haro. «Accedat iam lectissima Hispaniarum heroina Maria Teresa publicae arbitra pacis, communisque gaudii complementum, convolet ad nos quamprimum ex Ibericis oris casta illa columba dulcis olivae ramum praeferens» (Petrus Rosellus, De Antiqua Gallias inter, atque hispanias in divinis, et humanis rebus coomunione, Lugduni, ex typographia Ioannis Gregoire, 1660, p. 71).

[40] Allusione alla luna crescente, simbolo dell’impero ottomano.

[41] Il 3 febbraio 1662 Nani divenne procuratore di S. Marco.

[42] Balsamo profumato.

[43] L’elezione alla prestigiosa carica di capitano generale da Mar, il 15 settembre 1663, nell’ultima fase della guerra di Candia, comportava numerosi rischi: «La carriera politica di numerosi patrizi, già dal Quattrocento, era stata annichilita dall’insuccesso (spesso dovuto a fattori estranei alla loro capacità di leadership) nello svolgimento della loro funzione; altri erano stati innalzati al grado di eroi nazionali. Nani, che conosceva bene quelle storie, non si sentiva preparato per l’incarico e lo rifiutò, consapevole che gli fosse stato giocato un brutto scherzo come reazione alla sua crescente popolarità. La fase militare della guerra di Candia continuò senza di lui, ma il rifiuto ipotecò la sua carriera, che conobbe una brusca frenata» (Dorit Raines, Nani, Battista Felice Gaspare, cit., p. 696).

[44] Maometto.

[45] Si veda la Vita di Battista Nani, cavaliere e procuratore, scritta da Piercaterino Zeno, fratello di Apostolo, e premessa nell’edizione 1720 dell’Historia della Republica Veneta: «Erasi fin l’anno 1669 a’ 6 di settembre tra Veneziani e Turchi stipulata la pace; per la quale dovendosi nella Dalmazia stabilir nuovi confini, a cagion delle nuove conquiste dall’armi della Repubblica fatte in quella provincia, fu di mestieri che dall’una e l’altra parte si deputassero commissari, i quali andassero sopra luogo, e, tolta via ogni differenza, stabilisser que’ termini pe’ quali lo stato veneziano dal turchesco colà si distinguesse. E questo importantissimo quant’onorevole impiego fu da’ Padri addossato al Nani a dì 16 aprile dell’anno 1671» (Battista Nani, Dell’istoria della repubblica veneta, in Degl’istorici delle cose veneziane, vol. VIII, in Venezia, appresso il Lovisa, 1720, p. XII).

[46] Pascià (bassà) e caimacan (caimecan) erano titoli onorifici attribuiti a governatori di province e altri ufficiali dell’impero ottomano.

[47] Il governo ottomano (la Sacra Porta, traduzione del termine turco osmanli Baib-i ‛ali).

[48] Il poeta Terpandro, uno dei padri della poesia lirica, era nato ad Antissa, sull’isola di Lesbo.

[49] Dal murice, com’è noto, si ricava la porpora; qui sta per “rendere ancora più onorevole”.

[50] Proverbiale era la brevitas tacitiana, che peraltro offriva – come qui – l’occasione per bisticci e paronomasie.

[51] L’Historia della Republica Veneta, impressa a Venezia nel 1663 e poi nel 1680 a Bologna in seconda edizione.

[52] Nel 50 a. C. Sallustio era stato espulso dal Senato probri causa (tra le accuse, quella di aver accumulato ricchezze nel governo dell’Africa e di aver commesso adulterio con Fausta, figlia di Silla e moglie di Milone).

[53] Mart. 6, 3: “Ella in persona ti filerà la lana dorata con le sue nivee dita”.

[54] Allusione al seno di Abramo dove Lazaro troverà la ricompensa oltremondana nell’opera.

[55] La citazione corretta dall’Octavius di Minucio Felice (cap. XXXVII) è “Fascibus et purpuris gloriaris? Vanus error hominis et inanis cultus dignitatis, fulgere purpura, mente sordescere” (“Ti vanti di fasci e porpore? È un vano errore dell’uomo, e un futile culto del prestigio, risplendere nella porpora e avere la mente sporca”).

[56] “In grado di intendere finemente” e non “legato solo al dato quantitativo”. Nei Ritratti critici Frugoni scrive: «Si suol dir usualmente di uno che non abbia giudicio, ch’egli abbia il cervello di carta pesta. Sono figure quelle delle carte, e perciò non hanno sostanza benché la tolgano, poiché parlando filosoficamente la figura non è passione della sostanza, ma della quantità. Quella del giuocatore che non ha sostanza, ma cerca di truffar l’altrui, è quantità numerica, ma non discreta, perché se ben consiste ne’ numeri, non è continuata dalla ragione» (Francesco Fulvio Frugoni, Ritratti critici, in Venezia, presso Combi e La Noù, 1669, p. 563).

[57] «Ho alla mano spedito il mio Epulone, opera melo-dramatica, passato (prima d’andare all’Inferno) per lo Purgatorio della più rigorosa censura» (Francesco Fulvio Frugoni, L’heroina intrepida, ovvero la Duchessa di Valentinese. Historia curiosissima del nostro secolo, in Venezia, presso Combi e La Noù, 1673, vol. I, n.n.).

[58] Sugli avari saturnini si veda il ritratto nel Cane di Diogene: «Certi vecchi ha il mondo che son per l’avarizia non mai satolli, e stanno sempre con la falce testa per mietere» (Francesco Fulvio Frugoni, Il cane di Diogene, vol. I, cit., p. 348).

[59] Assorbire, nel senso di “prosciugare”.

[60] Genericamente, gli abitanti delle terre intorno al Mar Rosso.

[61] Il Gange era rinomato per la pesca delle perle.

[62] Il fiume Pattolo in Asia Minore, celebre per le sue sabbie aurifere, così come il Rio della Plata per l’argento.

[63] “Destinati alla dannazione eterna”. «È Cristo morto verissimamente per tutti gli uomini, o giusti, o peccatori, o eletti, o presciti ch’eglino sieno» (Paolo Segneri, Quaresimale, in Firenze, per Iacopo Sabatini, 1679, p. 559).

[64] Racconta Luciano nell’Adversus indoctum che un ricco acquistò per tremila dracme la lanterna di Epitteto, pensando che potesse illuminare anche lui della stessa sapienza. La diligenza di Cleante era proverbiale, perciò lavorare alla sua lucerna significava farlo col massimo impegno.

[65] «Intus enim apparens prohibet extraneum et obstruit» (“l’intrusione di qualcosa di estraneo [nell’intelletto] lo ostacola ed interferisce con lui”), celebre massima aristotelica del De anima, III, 4, 429a.

[66] La gotta.

[67] Aurelia Spinola, duchessa del Valentinois e protettrice di Frugoni, morì ad Aix il 29 settembre 1670.

[68] Pubblicata a Venezia nel 1673 e biografia romanzata della Spinola.

[69] “(quando) il padrone è prodigo, il servo è avaro”. «Ma le Muse dier la paga ad Elindo qual meritava, peroch’ei fe’sempre non solo il fiscale agli uomini letterati, ma fe’ lor anche confiscar quelle ricompense che ’l suo principe destinava a quei ch’avean immortalato il di lui nome, perché si verificasse l’asioma: dominus prodigus, servus avarus» (Francesco Fulvio Frugoni, Il Tribunal della Critica, cit., p. 72).

[70] Corrompere.

[71] L’orlo della veste.

[72] «Come l’eroina sta intrepida durante le varie disavventure, così Minerva nella tua bocca tra gli Aristarchi» (cfr. Distichorum Io. Benedicti Perazzo Veneti Centuriae XV, editio secunda locupletior, Venetiis, ex typographia Andreae Poleti, 1684, p. 97).

[73] Frugoni non vedrà stampato il cane di Diogene, pubblicato tra il 1687 e il 1689.

[74] Sollecitato.

[75] La Vergine parigina venne ripubblicata a Venezia nel 1676, sempre per i Combi-La Noù.

[76] L’opera rimarrà tra quelle solo progettate e puntualmente annunciate nelle appendici dei volumi frugoniani.

[77] “Le labbra vogliono lattughe a loro simili” (dagli Adagia di Erasmo da Rotterdam, 971).

[78] Cioè facendo economie.

[79] Secondo Plinio il Vecchio (Nat. 9 119-121) Cleopatra bevve una perla sciolta nell’aceto dopo aver scommesso con Marco Antonio che sarebbe stata in grado di digerire diecimila talenti.

[80] Nel cap. XXXVIII della Periegesi, Pausania racconta che furono gli asini, mangiando il germoglio della vite, a mostrare come questa in futuro sarebbe diventata in questo modo più fertile, e all’animale a Nauplia venne eretta una statua.

[81] «Non sono lunghi gli scritti nei quali non potresti togliere nulla, ma tu, Cosconio, componi distici lunghi» (Mart. 2, 77).

[82] L’erudito romano per eccellenza, autore di circa 720 libri per 74 opere.

[83] «Era Profusio un signore di Girilva, che per la sua cieca liberalità si trovava arenato nella sabbia sterile del bisogno. [...] Tra le altre che l’avevano ridotto al verde può annoverarsi Spelunchia: una dama delle più sagaci e delle più belle che mai fioreggiassero e fruttificassero sopra il danaro. [...] Egli, ch’era un magnanimo regaladore profuse a mille, a mille quelle monete che ’l zio aveva al cento, a cento aggregate, per conciliarsi l’inclinazione di quella bellissima arpia che gli saccheggiava tutto giorno la mensa lauta; perocé i piatti più studiati, tantosto che comparsi, a Spelunchia si destinavano» (Francesco Fulvio Frugoni, L’heroina intrepida, cit., vol. III, pp. 321-322). Non ho trovato nell’Heroina il riferimento al porcello di Spelunchia; Frugoni stesso ammette la possibilità di essersi confuso con i Ritratti critici (si veda la nota successiva). Si parla comunque del «porcello di Profusio» nel posteriore Cane di Diogene, dicendo che «seben nutrito con truogolo non di broda commune, ma col sugo dai montoni arrostiti in bella corte; ancorché liscio il pelo, con gli orecchini di smeraldo, la gorgiera di perle, col filo della schiena guarnito di guarnito [sic] d’una filza di nastri anglicani, sempr’era di razza di porco» (Francesco Fulvio Frugoni, Il cane di Diogene, cit., vol. VII, pp. 784-785). Nella glossa Frugoni annota «Vedi l’autore nel Ritratto Critico del Lascivo».

[84] Nel Ritratto dedicato al Lascivo: «I più squisiti piatti della mensa eran primizia destinate a quell’animale, per cui si spremeano gli interi montoni arrostiti, per cavarne i succhi più sostanziosi a nodrirlo. I canditi ed i zuccheri erano un’insalata al maiale, che già con la cotica rilucente e col grifo odoroso avea scordata la sua natura, ed era divenuto civile per la forza del trattamento» (Francesco Fulvio Frugoni, Ritratti critici, cit., pp. 227-228).

[85] Riferimento a Is 55 1: «O voi tutti assetati venite all'acqua, chi non ha denaro venga ugualmente; comprate e mangiate senza denaro e, senza spesa, vino e latte» (nella Vulgata, «venite, emite absque argento et absque ulla commutatione vinum et lac»).

[86] Medicamenti.

[87] “Vergognosa povertà”, cit. da Verg. Aen. 6, 273 («malesuada Fames ac turpis Egestas»).

[88] Una lettera del bolognese Gianfrancesco Isolani, letterato ed erudito, senatore nel 1646, compare anche nel Cane di Diogene.

[89] Il verso corretto è «luxuriamque lucris emimus luxuque rapinas» (“e acquistiamo la lussuria col lucro e col lusso la rapacità”), in realtà all’inizio del quarto libro degli Astronomica di Manilio.

[90] forte mio braccio: «Il braccio della Ricchezza è forte, perché ha i denari per nervi. Se dai nervi ha origine il movimento dei corpi, dai denari han la mossa gli affetti» (MC, p. 305).

[91] omei: “ohimè” («Rizzava alla finestra, ove l’omei / prima di Palemone udito avia»; Boccaccio, Teseide, III, 26 4-5). «I respiri della Povertà sono sospiri: sospiri che alimentano il dolore nel riflesso di non tenere con che alimentare la vita: respiri ch’estinguono la vita nella considerazione di non avere con che soffocare il dolore» (MC 323).

[92] a la guerra che fa il dente: «Tamburi sono i ventri de’ crapuloni, a’ quali servono le budella tese di corda stirate; con questi si suona la marchia alla mensa, campo spianato all’ingordigia della Golosità, la quale con quelli raduna i suoi commilitoni alla guerra del dente» (MC 344).

[93] in tuono: mangiare e bere egualmente.

[94] stivale: sta per “ignorante”. «Insorge qui curiosissimo quisito, di cui potrebbe armarsi una problematica questione [...], perché gl’ignoranti soglian chiamarsi stivali? Per quanto m’abbia voltati gli vocabolari più classici del Pergameni, e del Politi, non v’ho rinvenuta questa parola stivali; forse perché gl’ignoranti non si trovano mai sui libri» (MC 348).

[95] scorporata: in Frugoni, “smodata”.

[96] congemino: latinismo per “raddoppio”.

[97] Son l’Innocenza, mal conosciuta: Frugoni fa riferimento qui al suo dramma musicale L’innocenza riconosciuta, che peraltro presenta diversi personaggi riportati, con poche modifiche, nell’Epulone, come Malisarda/Pellandra e Tagliavento/Cospettone.

[98] tolgo il timor ch’al fin si paghi ’l fio: al di là dei peccati dell’epulone tradizionalmente biasimati nelle prediche e nei sermoni che citano l’episodio evangelico, l’avidità e la ghiottoneria, è l’ateismo a essere il vero fulcro della vicenda (si veda l’Introduzione): come si vedrà, Nineuse e Zambra professano in diverse scene il loro scetticismo riguardo all’esistenza di Dio e di un’aldilà. «Gira il mobil primiero degli sferici globi: splende l’astro diurno con regolari circolazioni; alternano con librate vicende gli vari stati le varie stagioni annuali: si uniscono, benché discordi nella tempera, uniformi gli elementi nel corporeo concerto del misto: subalternanti le cagioni, benché disomiglianti ne’ mezi, negli effetti uniformi a generare il composto: e non v’è Dio?» (MC 431).

[99] appreser la politica: si salda, in questi versi, la figura di Frugoni moralizzatore con quella del diplomatico, che sovente vedeva nella protervia dei politici avversi il segno concreto del loro ateismo.

[100] Olà, che larva è quella?: nella schermaglia tra Povertà e Ricchezza si prefigura la dinamica del melodramma tra l’epulone Nineuse e Lazaro.

[101] poiché de l’oro il centro è al fin l’inferno!: si confronti con la trentacinquesima e ultima scena del quinto atto, durante il dialogo tra Nineuse, Lazaro e Abramo, quando il primo lamenta la sua pena « In questo centro squallido / in cui la morte vive» (V.35.3-4).

[102] ma porto il pett’a botta: nel dramma la Crapula è ben rappresentata dal “macaronico” Ghiotto, di cui Farfalla dice «ch’ha la cotenna grossa, e ’l pett’a botta» (I.2.31).

[103] A noi monna zambracca!: la paronomasia tra zambracca (prostituta) e Zambra, corrispettivo femminile dell’epulone nel melodramma, sarà frequente soprattutto nei dialoghi tra i ‘ridicoli’.

[104] che veste bisso ed ostro: le vesti splendide dell’epulone già secondo il Vangelo di Luca.

[105] seni opaci: contrapposti al luminoso seno di Abramo, dove i giusti attendono la venuta di Cristo.

[106] agli aspetti sanguinee: e quindi foriere di sventura.

[107] sia tronca a questo Sisera: Sisara, generale nell’esercito di Iabin, sconfitto dai figli d’Israele su impulso di Debora viene ucciso nel sonno da Giaele dopo aver trovato rifugio nella tenda di Eber, suo marito. In II.6.63 si parla dei «Sissari ingannati».

[108] Sulle fonti citate da Frugoni si veda Barbara Zandrino, La retorica delle illusioni e il ribaltamento, cit., pp. 43-45.

[109] La prima sezione dell’Argomento deriva in buona parte da uno degli autori francesi che Frugoni, anche nel Cane di Diogene, cita di più, il gesuita Nicolas Caussin (si veda Francesco Fulvio Frugoni, Il Tribunal della Critica, cit., p. XXXIX), che nella Sapienza evangelica pubblicata a Bologna nel 1649 scrive: «Eutimio, secondo una certa antica tradizione, dice ch’il suo nome era Nineuse; perché san Ireneo, Origene, e Tertuliano tengono che questa in sostanza fu vera istoria, quantunque vi sia qualche cosa di parabolico nella maniera di raccontarla» (Nicolas Caussin, La sapienza evangelica per trattenimento spirituale nel tempo della Quaresima, Bologna, per Carlo Zenero, 1649, p. 120).

[110] Andromaco: Frugoni chiosa così: «Andromaco fu un ippocrita che s’affumicava la barba con la vampa della paglia, per comparire squalido a mendicare il credito di astinente quando avea la cintola rilasciata sui lombi così dalla crapula, come dalla libidine» (RA, p. 475). Andromaco il Vecchio è considerato anche l’inventore di una celebre triaca.

[111] ch’egli non sa colpir sol che di piatto: gioco di parole tra le imprese culinarie di Ghiotto e il colpire con il piatto della spada, in risposta ai paragoni cavallereschi inaugurati di Farfalla.

[112] zizzalardon: “ghiottone”, ma è probabile un’eco dalla «tragisatiricomedia» Roselmina di Lauro Settizionio (Giovan Battista Leoni), in cui Zizzalardone è «un metafisico della culinaria, che si produce in ricette (prediletta la cacciagione e i frutti di mare) di sfinita, speziatissima, rosolata e sdilinquita butirrosità» (Roberto Gigliucci, Tragicomico e melodramma. Studi secenteschi, Milano-Udine, Mimesis, 2011, p. 10).

[113] mentre in bianco restar ci fa il vin nero, / forma sopra il boccal zero via zero. Due giochi di parole di Bisticcio (che, tenendo fede al suo nome, si produrrà spesso in calembour insieme a Farfalla) per indicare la propensione alla bevuta di Ghiotto (paragonato ai tedeschi, bevitori per antonomasia fin dalle calate dei lanzichenecchi nel Cinquecento).

[114] mentita: la mentita è «l’atto col quale si accusa formalmente qualcuno di mendacio, di doppiezza, di slealtà o gli si reca una grave ingiuria (e, secondo il codice cavalleresco, ne derivava una controversia che doveva essere risolta facendo ricorso alle armi)» (GDLI, vol. X, p. 103).

[115] chimera: si capovolge qui la prospettiva che vede l’uomo peccatore abbassarsi alla ferinità fino a diventare inestinguibile dall’animale e dall’ibrido (si veda l’Introduzione); qui la chimera è invece l’onore, perché a dirlo è un personaggio che ne è privo (Ghiotto è «parasito»). Per Frugoni, «il lor onor è certo (e non mentiscono) una chimera perché un hirco-cervus. Tali sono que’ goccioloni mariti che danno alle mogli tutto il freno in collo, perché possano con tutta la libertà guadagnare il pallio, singolarmente dove corrono le Pasifi, e dove sovrastano i tori: e quindi nascono i minotauri [...]. Per questo il mondo è un laberinto di laberinti, non sol perché vi sono tanti raggiri, ma anche perché vi si trovano tanti minotauri quanti sono gli uomini disonorati, che stimano una chimera l’onore» (RA, p. 477).

[116] pett’a botta: il pettabbotta è una corazza a protezione del torace, capace di sostenere anche i colpi di archibugio.

[117] e sogno vano è l’eternità: nella canzonetta di quinari e doppi quinari affidata ai tre servi Frugoni intende distillare l’essenza dell’odiato epicureismo, a cui si allude già in I.2.27 («Miserabili! Filosofate pur epicurizzando, che poi si rivedremo alla soluzione degli argomenti»; RA, p. 478).

[118] protomastro: «Intende capo mastro» (RA, p. 480).

[119] gnatonica: da gnatone, “ghiottone”, “parassita”.

[120] vaccina: “mucca”, da qui in poi l’animale associato a Zambra; il termine è spesso usato, anche nell’Epulone, come allusione oscena alla donna nel rapporto sessuale («E ciò detto, diede le mosse a uno che, con quella ingordezza che va il frate al brodo, si gì a pasturare della vaccina», Pietro Aretino, Ragionamento della Nanna e dell’Antonia, in Id., Sei giornate, a cura di Giovanni Aquilecchia, Bari, Laterza, 1969, p. 74).

[121] que’ cani: primo riferimento ai cani di Nineuse, spesso presentati come parallelo del loro padrone (si veda più avanti «ai padron la vaccina, ai can vitella», I.2.94) e paradossalmente caratterizzati, grazie all’intervento divino in risposta alle preghiere di Lazaro, da una maggiore mansuetudine.

[122] Signor, pietà, pietade: l’ingresso di Lazaro è salutato per buona parte della scena dall’assoluta indifferenza, con un effetto straniante che, a un livello più microscopico, ribadisce la coesistenza delle due azioni drammatiche all’interno dell’Epulone, e della loro sostanziale estraneità per tutta la durata del melodramma fino al finale allegorico.

[123] Vado levrier: ancora un accenno alla sostanziale identità tra la corte di Nineuse e gli animali.

[124] Solima: Gerusalemme.

[125] più che non paglia a l’ambra: l’ambra (detta anche electrum) ha la proprietà di elettrizzarsi per strofinio, e quindi di attirare corpi di piccole dimensioni. Ne parla già Plinio (fonte di Frugoni anche per le diverse supposte origini della resina fossile) nella Storia naturale: «quando lo sfregamento delle dita introduce in essa [l’ambra] un soffio di calore, l’ambra attrae a sé paglie, foglie secche e fili di tiglio, come la pietra magnetica il ferro» (Plinio il Vecchio, Storia naturale, vol. V, Torino, Einaudi, 1988, p. 775).

[126] Roberto: Frugoni utilizza spesso anche nel Cane di Diogene l’espressione “essere il Roberto” per “essere esperto”, la cui origine è poco chiara; non è da escludere che sia un riferimento al cardinal Bellarmino, sapiente poliedrico per antonomasia della Chiesa cattolica moderna.

[127] A tutti ella è cometa: prima ancora di comparire sulla scena, Zambra è già stata soggetta forse più di qualsiasi altro personaggio alla regressione bestiale del vizio, incarnato dalla vacca per la lussuria e dalla sanguisuga per l’avarizia (laddove il messo Graffio è, come si è visto, «corbo», «unicanto avoltore», «grifo de la cornacchia ambasciadore»). Qui invece, in beffarda risposta all’augurio di Nineuse che Zambra possa essergli «stella fedel» attorno a un unico polo, il paragone è con la cometa, efficace sia per le proprietà fisiche secondo le nozioni astronomiche dell’epoca, che alludono al parassitismo («questa è un’esalazione calda, e secca, pingue, e vischiosa dalla virtù degli astri attraenti sollevata, ed accesa», RA 485), sia per la tradizionale nomea di portatrice di sventura.

[128] Taci sozzo, poltrone!: si esaurisce in una sola battuta la prima delle rarissime interazioni tra Nineuse e Lazaro.

[129] come pillole ha i risetti: «I risetti delle meretrici son come le pillole de’ medici. Queste sogliono essere lusinghieramente dorate, per adescar l’egro, cui travaglia la svogliatezza, a prenderle senza ribrezzo, benché poi, quando le ha sullo stomaco, ne risenta la nausea: tali sono i vezzi delle cortigiane, le quali, non meno de’ medici, vanno in traccia degli ammalati» (RA 488).

[130] tu sei un cialtrone!: si noti la partitura metrica seguita da Bisticcio, le cui battute in questa scena sono prima in ottonari, poi in settenari più un endecasillabo e infine in senari.

[131] se la gloria è stella, è porto il flutto: anche nella conclusiva Lettera ad Innocenzio Peregrino che chiude l’Epulone viene ripreso questo verso sentenzioso, «essendo vero che i fiotti dell’onde, quanto più sono veementi, spingono tanto più presto alla riva».

[132] io, che sono d’amor la Farinella: riferimento a una commedia di grande successo di Giulio Cesare Croce, La Farinella (1695), dove Lelio cerca di conquistare Ardelia, che vorrebbe sposare e presso la quale è stato assunto in abiti femminili sotto il nome di “Farinella”; ma la citazione serve anche a introdurre il tema dello scambio dei generi, che riguarderà l’Epulone con la doppia inversione Elidoro/Dorilla e Zelfa/Silvino nel quinto atto.

[133] fementita: “spergiura”, frequente in Frugoni.

[134] aver più penna e meno artiglio: “essere meno aggressivo”.

[135] già linea sembrate, ancorché curva: allusione alla prolissità di Pellandra, che dà origine a una schermaglia dialettica con giochi di parole sulla vecchiaia della donna e l’arco di Amore.

[136] cangia spesso il pensier, come la gonna: Zelfa dimostrerà invece un’incrollabile fedeltà verso il marito, malgrado questi la condanni a morte e amoreggi continuamente con Zambra (e con Elidoro nei panni di Dorilla). Anche dopo la morte di Nineuse non vorrà cedere alla corte di Elidoro fino a quando l’autorità morale dell’eremita Elcana non la spronerà a rivelare i propri sentimenti.

[137] ogni mese fa le corna: nuovo gioco di parole sulle corna della Luna e quelle simbolo d’infedeltà, alle quali si allude anche con il precedente richiamo all’episodio di Diana e Atteone e con i frequenti accostamenti di Nineuse al cervo.

[138] formi la frode: la colpa esiziale che accomuna Nineuse e Zambra è quella dell’ateismo, rappresentato per Frugoni soprattutto dall’hic et nunc epicureizzante (e non, si ricordi, epicureo). «Il tempo fugge: verissimo. Per questo bisogna redimerlo con la pietà delle opere giuste, con la giustizia delle opere pie: non scialaqquarlo con la disonestà degli empi diletti, con la prodigalità delle colpe esecrabili» (RA 494).

[139] la grammatica d’Amore: un altro dei bisticci di Bisticcio, ricco di doppi sensi osceni e probabilmente ispirato a un autore che Frugoni conosceva bene, l’Antonio Abati delle Frascherie (che compare anche nel Tribunal della critica del Cane), autore di una cantata burlesca per musica su questi toni, «Grammatica d’amore», pubblicata pochi anni prima dell’Epulone (Poesie postume di Antonio Abati, Bologna, per Giovanni Recaldini, 1671, pp. 246-247; ma anche le stesse Frascherie abbondano di giochi di parole sui casi latini).

[140] Clizia fedel: naturalmente antifrastica l’insistenza della volubile Zambra sulla propria costanza, tanto da paragonarsi alla ninfa Clizia trasformata in girasole (Ov. met. 4, 206-270).

[141] ma che fa il verme: in RA 482 Frugoni aveva ricordato che «le mogli onorate son fenici, le disonorate son farfalle»; prosegue quindi il tono antifrastico, sottolineato da Graffio che parla ironicamente di una fenice che non risorge (privata cioè della sua più celebrata caratteristica).

[142] scorticatrice: «Arguta è l’allusione, perché si trovano certi tutori che son beccai; chi è stato pupillo, (com’io pur fui per mia mala sorte) dirà che non ischerzo» (RA 495).

[143] merlotti: le ormai consuete metafore animali vengono riviste in questa scena in chiave ornitologica.

[144] la torre di Nembrotte: la torre di Babele; in quanto amanti, Eliabbe e Zambra passano di notte abbastanza tempo insieme da poter partorire, secondo Graffio, imprese roboanti come quella del re Nembrot, ed è perciò incomprensibile che si parlino ora sottovoce, se non fosse per la loquacità per Frugoni insita nella donna, sempre «cicalona» (più sopra lo si è visto con Pellandra).

[145] Rahabbe: Raab, prostituta o locandiera di Gerico che nel libro di Giosuè aiutò due spie israelite.

[146] il resto è vanità: Zambra espone nel soliloquio la sua filosofia edonista epicureizzante, basata sulla negazione del trascendente e sulla negazione di un giudizio nell’oltretomba; «tolgo il timor ch’al fin si paghi ’l fio», aveva ricordato l’Ateismo nel prologo.

[147] Frine: la celebre etera greca del IV secolo a.C., che venne processata per empietà ma assolta dopo aver mostrato i seni ai giudici, di sua iniziativa o spinta da Iperide nelle vesti di suo difensore («Quando costei era sul punto di essere condannata, [Iperide] la condusse nel mezzo del tribunale e, strappatale la veste, mostrò i seni della donna: al che i giudici, vista la sua bellezza, la assolsero»; Plutarco, Vitae decem oratorum, in Id., Tutti i Moralia, Milano, Bompiani, 2017, p. 1623). «Incantò i suoi giudici, e fe’ vedere che i Paridi sempre danno la preferenza a Venere, in onta di Minvera, quando sian di Venere, più che di Minerva giurati» (RA 498).

[148] No, ch’egli è servo!: così Frugoni sui servi: «Son venali, e vendono chi gli compra: son i cani di Ateone, che sbranano chi gli nutrisce: sono serpi velenose, che trafiggono chi gli fomenta: sono spie famigliari, arpie casalinghe: traditori usuali, e pesti necessarie, quando sien perfidi, come fur molti di quelli, che per esser viziosi non sanno servire alla virtù; essendo quasi ordinario, che quando il signor è buono i servi sien tristi» (RA 499).

[149] epulone: per la prima volta nel testo drammatico Nineuse viene indicato come epulone, ovvero membro del collegio sacerdotale istituito per la celebrazione del banchetto di Giove, sacrificio in onore di Giove, Giunone e Minerva.

[150] Poiché ’l vero è così amaro: nei Riflessi arguti Frugoni rivela la sua fonte, l’ottava delle letrillas satíricas di Quevedo, Pues amarga la verdad. Con il personaggio del santo romito Elcana e il suo soliloquio fittissimo di riferimenti biblici, subito dopo la nascita del progetto di Zambra e Graffio per avvelenare Nineuse e far editare il suo patrimonio al fratello Eliabbe, si dà luogo al primo forte stacco antitetico dell’atto, con Frugoni che così chiosa: «grande stravaganza che un corbo sia generato da una colomba: un aspido da una fenice: un lupo da un’agna: un fulmine da una stella» (RA 500).

[151] Zara a chi tocca: così il GDLI (vol. XXI, p. 1058): «Zara a chi tocca, zara all’avanzo: a chi tocca, si tiene il danno», dall’antico gioco di dadi della zara.

[152] Pitoni: divinatori, come per la pitonessa più avanti, da “Pytho”, l’antico nome di Delfi.

[153] ogni giovane amoreo: gli abitanti di Gabaon erano minacciati dagli Amorrei e con l’inganno riuscirono a ottenere un patto di alleanza da Giosuè, che durante la battaglia fermò il corso del sole (Gs 10, 12-13).

[154] trappoli: “trappolare” sta per “prendere in trappola”.

[155] Pentapoli: la zona della Palestina in cui sorgevano le città di Sodoma, Gomorra, Adama, Zeboim e Zoar.

[156] gli Amaleciti: popolazione del Negev che attaccò gli Israeliti durante l’esodo dall’Egitto.

[157] l’esser Gioabbe: Acab e Ioab sono epitomi di crudeltà nella Bibbia: il primo, re d’Israele e marito di Gezabele, introdusse il culto di Baal a Samaria e perseguitò il profeta Elia; il secondo, generale di Davide, uccise Abner, Amasa e Assalonne, e cospirò per Adonia contro Salomone, che lo mise a morte.

[158] Oh quante Bersabee, quanti Assalonni!: Davide con la bellissima Betsabea, moglie di Uria, commise adulterio; il ribelle Assalonne, terzo figlio di Davide, fu noto per la sua crudeltà e tentò di togliere il trono al padre, prima di essere ucciso da Ioab durante la fuga da Gerusalemme.

[159] Quante Tamarri osservo, e quanti Ammoni!: Tamar, figlia di Davide, venne violentata dal fratello Amnon, poi ucciso da Assalonne durante un banchetto.

[160] Ma v’ha più d’un Aron, più d’un Mosè: Aronne e Mosè non sono qui ricordati per il loro ruolo di guide degli Ebrei, ma per l’episodio del vello d’oro, che Aronne acconsentì a fabbricare su insistenza del popolo, che voleva un dio da adorare non sapendo cosa fosse accaduto a Mosè, asceso al Sinai.

[161] Nabotti: Nabot si rifiutò di cedere la sua vigna al re Acab, e per questo Gezabele ordì un processo fraudolento ai suoi danni, facendolo lapidare a morte.

[162] i Sissari ingannati: Giaele uccise il generale Sisara dei Cananei piantandogli un picchetto nel cranio, dopo che questi aveva trovato ospitalità nella tenda di Eber, marito di Giaele.

[163] che fan lasciarvi ’l pelo: Dalila tradì l’amante Sansone tagliandogli nel sonno la chioma e consegnandolo, senza più forze in quanto non più nella condizione di nazireato, ai Filistei.

[164] Nabucco: il re babilonese Nabucodonosor II causò la prima deportazione del popolo ebraico e distrusse il tempio di Salomone.

[165] Uria: per poter spostare Betsabea, il re Davide ordinò che il marito Uria, suo soldato, fosse messo in prima linea, dove i nemici avrebbero potuto ucciderlo, e così avvenne.

[166] Putifarre: antonomasia dell’ignaro tradito, Putifarre scacciò Giuseppe dalla sua casa, ove serviva, perché questi aveva resistito alle profferte amorose della moglie del padrone, ed era stato quindi da lei calunniato.

[167] Agarre: la schiava Agar ebbe da Abramo Ismaele, dopo che Sara, sterile, la offrì al marito.

[168] L’un superbo e l’altro umile: Elcana sottolinea ancora la natura antitetica di Lazaro e Nineuse con questa serie d’opposti (si veda l’Introduzione).

[169] La tomba è nido in cui l’alma rinasce: è Frugoni stesso a sottolineare il collegamento tra questo verso e il miracolo della fenice, allegoria della Risurrezione cristiana e tra i rarissimi animali accostati agli uomini in senso positivo nel melodramma: «Prudentemente suol morir la fenice, quando, e dove sa che ha da risorgere più vivace» (RA 517).

[170] Stolta: Il dialogo comico tra Farfalla e Pellandra riprende l’usato (e abusato) stilema dell’eco che risponde in rima con le ultime lettere pronunciate da un personaggio (e perciò molto apprezzato nei drammi per musica), che Guarini aveva usato nel soliloquio di Silvio nell’ottava scena del quarto atto del Pastor fido, così come lo stesso Frugoni già nell’Innocenza riconosciuta.

[171] pelarella: la perdita di capelli e peli, sovente (come in questo caso) conseguenza della sifilide o di altre malattie veneree.

[172] lecco: “avido”.

[173] più Troia, che Cassandra: evidente anche qui il doppio senso osceno.

[174] ben è folle chi crede: nuova professione di ateismo da parte di Nineuse.

[175] e per ultimo lascia indietro il foco: «Bel tratto per dire che Nineuse sia un vinolento, ed un dannato» (RA 526).

[176] la gran palma maccheronica: Frugoni è attento lettore di Folengo; più avanti (RA 577) cita la Moscheide a proposito delle gozzoviglie sardanapalesche, e nel Cane di Diogene (vol. IV, p. 416) Frugoni parla di uno spettacolo «ridicolo, da registrar nella Maccaronea di Merlino»; anche l’opulento banchetto che si prepara per l’epulone ricorda da vicino le gozzoviglie di cui è ricchissimo il Baldus.

[177] magico ensalmo: termine spagnolo, che si riferisce a un modo superstizioso per curare attraverso l’applicazione di varie medicine e formule magiche; si veda Sergio Bozzola, Glossario frugoniano, «Studi di lessicografia italiana», XIV (1997), pp. 153-282: 200.

[178] Se ’l mal verrà, ci penseremo poi: anche i ridicoli di Nineuse come Bisticcio e Farfalla hanno in comune col padrone l’assoluta mancanza di una prospettiva di salvezza futura.

[179] giuro a Baccon: Bacco è l’unica divinità verso il quale i servi e gli sgherri di Nineuse si mostrano devoti; anche in III.6.9 Cospettone invocherà il suo nome.

[180] leccione: “maiale”.

[181] a un albero di frutta riservata: come di consueto Farfalla parla in linguaggio figurato e ricco di doppi sensi, per indicare la supposta infedeltà di Zelfa, sorpresa con Elidoro mentre in realtà cercava di sfuggirgli.

[182] Un giovinello: per quanto Elidoro sia uno dei personaggi positivi del dramma, onestamente innamorato di Zelfa e pronto a mettersi in pericolo pur di salvarla, non è immune da osservazioni critiche da parte di Frugoni, che nei Riflessi lo definisce «un damerino modista» (RA 544): «Il diletto del senso l’ha reso stolido, e perché fa leggiadramente del Cupidotto, non si cura punto di parer dotto, ma d’esser cupido. Ah senta egli, ed in lui senta chiunque per avere soverchio il senso, ha così scarso il sentimento!» (RA 545). Il ritratto di Farfalla è peraltro piuttosto preciso, se Nineuse capisce immediatamente che si sta parlando di Elidoro.

[183] vanni: “ali”.

[184] l’ossecrerò: “la pregherò”.

[185] Renditi a Cospettone!: letteralmente «cospettone» sta per “fanfarone”, “smargiasso”.

[186] Qui indicata erroneamente come «Zambra».

[187] da Corneto a Sassuolo: nuovo gioco di parole, dalle corna dell’infedeltà ai sassi della lapidazione. «Corneto» è l’antico nome di Tarquinia.

[188] de iure: “di diritto”.

[189] ab intestato: “da chi non ha fatto testamento”.

[190] Erroneamente indicato come «Elidoro».

[191] di pietre un mausoleo: la lapideranno a morte.

[192] pitonessa: sacerdotessa divinatrice; è uno dei nomi con cui viene anche chiamata la Pizia, oracolo di Apollo a Delfi.

[193] cera tetrica: “aspetto ripugnante”.

[194] Zabulone: Zabulon era il decimo figlio di Giacobbe, progenitore dell’omonima tribù. Zabulus era un comune nome infernale nel Medioevo (da diabolus), da qui la probabile contaminazione con la tribù israelitica.

[195] Dan: progenitore di un’altra delle dodici tribù d’Israele. Una popolare tradizione, forse nata da un’interpretazione della profezia di Giacobbe in Gen 49, 16-18 («Sia Dan un serpente sulla strada, una vipera cornuta sul sentiero») e riportata anche da Agostino e Gregorio Magno, sosteneva che l’Anticristo sarebbe nato da una prostituta della tribù di Dan.

[196] cornucopia: il vaso a forma di corno, simbolo di fertilità e abbondanza, spesso utilizzato come allusione alle infedeltà ai danni di Nineuse.

[197] prosorto: “originato”.

[198] burchielletto: «Questo sodissimo sentimento è tratto di peso dai Tomarii di Aristonimo, portato dallo Stobeo: e come l’autorità fedele, fedelmente parafraseggiata dal testo». Sui cosiddetti Volumetti di Aristonimo – e forse di Aristone di Chio – nel Floriregium di Stobeo, si veda Graziano Ranocchia, Aristone di Chio in Stobeo e nella letteratura gnomologica, in Thinking through excerpts. Studies on Stobaeus, edited by Gretchen Reydam-Schils, Turnhout, Brepols, 2011, pp. 339-386: 345-346.

[199] contraposto fatale: come spesso accade nel dramma, è Elcana a sottolineare l’antitesi strutturale tra Nineuse e Lazaro, come si vede anche dalle coppie di attributi dei versi seguenti.

[200] il fin d’entrambi a dir sen viene il resto: viene confermata la funzione metadiegetica del personaggio di Elcana.

[201] terzera: trave di sostegno del tetto.

[202] a l’oca il becco è fatto: proverbio fiorentino, a significare un lavoro portato a termine.

[203] Ma Zelfa poverina: inizia il pentimento di Pellandra, che non le basterà però a guadagnarsi la redenzione.

[204] ch’egli è un poeta a punto da sassate: «L’idea di questo pensiero è tolta da Petronio Arbitro, che narra non essere stato, per poco, assai lapidato Eumolpo, recitante una poesia: ex his qui in porticibus spatiabantur lapides in Eumolpum recitantem miserunt» (RA 567; Satyricon, 90).

[205] quatternario: quartina, riferita all’epitaffio per Zelfa lapidata nei versi III.13.

[206] Ma ’l verso è troppo longo: l’epitaffio, effettivamente, è in perfetti endecasillabi, mentre «ricco preclaro» al posto di «ricco avaro» farebbe scomparire la sinalefe.

[207] strozza: la gola.

[208] Più tosto lupa ingorda, avara e fella: continuano le similitudini con gli animali mansueti o malvagi.

[209] scanfarda: “prostituta”.

[210] questo argento del crin vi lascio in pegno: Pellandra indossa una parrucca, come si evince anche dalla tirata contro di esse nella scena successiva.

[211] se volasser le pirucche!: la critica alle parrucche riguarda, com’è evidente, la loro capacità di trasformare «un Margite in un Paride, un’Ecuba in un’Elena» (RA 570), e quindi di favorire quel camuffamento ipocrita che Frugoni condanna, in quanto ribalta le decisioni divine: «deve abbominar coloro che presumono di parer diversi da quelli che Iddio gli fe’ volendo appesi apparir sempre giovani» (RA 571).

[212] pitonessa di Dite: la vaticinatrice a cui si rivolgono Zambra ed Eliabbe è sacerdotessa pagana («ne’ campi aprici / nel sotterraneo regno, ov’ho il mio cielo») e ha tutte le caratteristiche del negromante infernale, come la verga magica.

[213] che Lestrigoni e Cafri e Traci e Sciti: popoli noti per la loro crudeltà.

[214] eccomi qui costante: malgrado la sua frivolezza di fondo, la costanza è la caratteristica precipua di Elidoro, nonché di Zelfa, che pur amandolo lo rifiuta per fedeltà a Nineuse appena scopre che non è stato ucciso da Cospettone.

[215] di Cedronne il torrente: il torrente Cedron, che separa il Monte del Tempio dal Monte degli Olivi a Gerusalemme.

[216] rantacose: decrepite e affette da catarro.

[217] Zoroastro: leggendario astrologo babilonese, rielaborazione nella classicità occidentale della figura del profeta iraniano Zarathustra.

[218] muora pur, muora Zelfa e Zambra goda: particolarmente violenta la glossa di Frugoni nel commentare l’egoismo di Ghiotto: «Parole da buffone, da parasito, da ignorante, da spietato, da empio, da infame» (RA 577).

[219] rozze: cavalli di poco valore.

[220] che ’l ben’ereditario a me sottrae: si noti che per Eliabbe – che all’ultimo momento si pentirà e invierà un biglietto per avvertire Nineuse del veleno, poi ignorato dal destinatario – l’odio verso l’epulone nasce da un’ingiustizia (l’eredità sottratta dal fratello) e non dalla lussuria. A differenza di Nineuse, Eliabbe avverte l’inconsistenza del pensiero epicureizzante e soprattutto l’immoralità dell’omicidio che sta per compiere («un non so che d’ambiguo e tetro», IV.7.21).

[221] dov’il giusto discende e l’empio sale!: ritorna il motivo del capovolgimento tipico del «mondo stralunato», che potrà essere corretto soltanto tramite il giudizio divino dopo la morte.

[222] rimanti ’n guerra teco, avaro, edace: «Guerreggia seco ogni reo, perché gli fa guerra la propria coscienza; ma fra tutti coloro ch’hanno in petto uno steccato, l’avaro, e ’l crapulatore sono sempre in duello: il primo colla sua cassa, il secondo con la sua cucina» (RA 584).

[223] d’Abramo al seno: la parabola di Lazzaro e dell’epulone nel Vangelo di Luca parla esplicitamente del seno di Abramo, il luogo giudaico di riposo dei giusti dopo la morte; nella religione cristiana, è il luogo dove questi attendevano la resurrezione di Cristo, origine del limbo.

[224] la tua costante: particolarmente beffarda questa dichiarazione di Zambra, che dell’incostanza, come d’altronde lo stesso Nineuse, è più che legittima rappresentante nel dramma (Nineuse, Eliabbe, Silvino/Zelfa). Sulla lode della vera costanza nell’Epulone si veda il terzo paragrafo dell’Introduzione.

[225] contento non v’ha: ennesima dichiarazione di ateismo di sapore epicureo e invito al carpe diem.

[226] calascione: o colascione, strumento a corda simile al liuto.

[227] Erroneamente indicata come «Zelfa».

[228] Che bella Berenice: l’antifrasi di Farfalla accosta alla «pelata» Pellandra Berenice, la regina cirenaica celebre per la sua chioma, che nell’elegia callimachea consacrò al ritorno vittorioso del marito Tolomeo III Evergete.

[229] Trattiam di divertirsi: l’interesse di Nineuse si conferma costantemente volto alla ricerca immediata del divertimento, in questo caso una caccia, che sarà poi seguita da una pesca.

[230] Non mancan cani e son anche più i cervi: nuova allusione beffarda di Farfalla ai tradimenti di Zambra. «Già che gli epuloni sentir non vogliono dai filosofi la verità, perché non amano il correttivo, l’intendono lor mal grado, ancorché senza emendarsi dai buffoni, che sogliono perciò sovente venire sbalzati, perché mordacemente, a guisa di cani satolli si voltano contro a chi gli nutrisce» (RA 593).

[231] d’una infida ed incostante: quella di Zelfa non è incostanza, come invece accusa il deluso Elidoro; è fedeltà a Nineuse a dispetto di un sincero sentimento per lo stesso Elidoro, che viene subito represso.

[232] del mio porro tutto il bianco: ho ormai trascorso la gran parte della mia vita. Nell’Heroina intrepida: «Favellando tal volta di Profusio e compatendolo, solea dire ch’egli avea magnato il porro dal bianco, perché si era ridotto al verde» (Francesco Fulvio Frugoni, L’heroina intrepida, cit., vol. III, parte seconda, p. 370).

[233] imbronco: “impiglio”.

[234] le vaccine a la fin vanno al macello: è la morale, nonché il motivo drammatico, di Pellandra, che di fronte all’ineluttabilità della sua fine matura un tardivo pentimento. «Facciam pur col riflesso divenir morale questo satirico testo! A voi è diretto, a voi questo documento sperimentale, o femmine vaneggianti, ed anche a voi, o giovinotti lascivi, che a guisa di tanti Ganimedi lasciate rapirvi da quelle aquile che sono tutte arti ed artigli per far di voi preda, e per cibarsi, non già, come vi fanno credere, delle fibbre del vostro cuore, ma delle viscere della vostra borsa» (RA 598).

[235] benché sia tardo: il pentimento di Pellandra arriva quando ormai è troppo tardi, come si vedrà, e come nota Cospettone più avanti è soprattutto dettato dalla situazione di pericolo in cui si trova; ma non avrà miglior fortuna anche quando sarà sfuggita alle fiere di Nineuse.

[236] quello che piace, è giusto: è il «s’ei piace, ei lice» del primo coro dell’Aminta, e che colloca pienamente Nineuse nell’alveo della tragicommedia considerata «epicureizzante» e «libertina» dalla critica cristiana tardosecentesca (si veda l’Introduzione). Inequivocabile la glossa di Frugoni: «Ecco il quod libet licet degli epuloni, che non riconoscono altro Dio che ’l ventre, né d’altra legge, che di quella del diletto, fan conto. Ma non ha legge il diletto, e perciò non è lecito: non ha ragione il gusto, perciò non è giusto. [...] Ammettiam ora il suffragio di Epicuro, grande patrocinator del diletto, ma non già d’arbitrio sordido e scelerato, benché l’infami la commune opinione del vulgo, che forse pretese di far reggere il vizio dalle spalle curvate della filosofia mal intesa: or quegli diceva che negliger si dovessero i corporei piaceri, attesa la lor brevità, che nello spirare lascia una serie prolissa di contaminosi malori» (RA 599-600).

[237] almen diverrai cervo: un altro doppio senso sul destino di Atteone, tramutato in cervo da Diana e poi sbranato dai cani, e quello di Nineuse, destinato a essere vittima delle continue infedeltà di Zambra.

[238] tronco: persona priva di sensibilità.

[239] Efestione: generale di Alessandro Magno e suo proverbiale confidente.

[240] galla: escrescenza tumorale che si forma sulle piante per la puntura di un insetto.

[241] Boote: il cacciatore celeste dell’omonima costellazione, tradizionalmente identificato con Icario o con Arcade.

[242] in detestar ne la città le belve: ancora una volta Elcana enfatizza la vera natura bestiale e ferina dei peccatori, che trovano nella città il loro ambiente ideale.

[243] Lapiti: popolo della Tessaglia, imparentato con i Centauri, che uccisero nell’episodio delle nozze di Piritoo e Ippodamia.

[244] ceraste: “vipere”.

[245] l’uom che sa, non è mai solo: Frugoni glossa questa massima sulla scelta del ritiro dal mondo dell’eremita con l’ultimo dei Riflessi arguti, il centesimo, indicato come Riflesso singolare, che dal discorso morale generale («Resta dunque riflessivamente provato che il savio, quando sia solitario, solo non sia», RA 630) vira sulla meditazione autobiografica: «L’abbate Giacomo Ansaldi [...] mentre mi aggiro in questo riflesso, mi scrive di Venezia, che per ristoro della mia demolita salute io dovrei allentare l’occupazione assidua, che mi tiene sempre teso l’animo nella studiosa applicazione; sforzandosi di persuadermi che la solitudine soverchia col malinconico umore imputridisce la limpidezza della mente, che suol tirare dalla conversazione il respiro; egli però, quando non ha compagnia di qualche grande, o di qualche virtuoso, per cui suol esser anche più grande il grande, come sono molti grandi, che l’hanno per intimo famigliare, va sempre solo, e di sé medesimo sol si compiace: tanto più il regolare, che obbligato per l’instituto alla ritiratezza operosa, quanto è meno visibile, tanto più rassimiglia un angelo». I Riflessi si concludono con il sonetto Non è ’l savio mai solo alor che solo, «parto della mia solitudine» (RA 631).

[246] Zambracca: “prostituta”, e ovvia allusione a Zambra.

[247] camozza: “camoscia”.

[248] scorzoni e anfesibene: lo scorzone è il biacco, serpente molto diffuso; l’anfesibena è un mitico serpente a due teste, simbolo araldico.

[249] di Zelfa il volto amato: si noti che è Elidoro, e non il marito Nineuse, a riconoscere il volto di Zelfa sotto le spoglie di Silvino.

[250] e per tutta è natura: Farfalla sottolinea beffardamente l’artificio dell’episodio, in cui tutti i personaggi coinvolti stanno mentendo.

[251] Lieo: epiteto di Dioniso/Bacco, “liberatore” (dagli affanni).

[252] l’Arabia felice: l’Arabia felix, ossia l’Arabia del sud, l’odierno Yemen.

[253] il gran lion massile: leone della Massilia, la parte orientale della Numidia. Cfr. Orlando Furioso, XVIII 22: «Qual per le selve nomade o massile / cacciata va la generosa belva».

[254] Che lioni getei! Che tigri ircani!: leoni della città di Gat, una delle cinque città principali della Filistia; le tigri d’Ircania, regione della Persia, erano note per la loro ferocia.

[255] facil è che svanisca a un colpo estremo: prende forma l’idea di Nineuse di avvelenare la sua novella sposa Zambra, com’ella vuole fare con lui insieme a Eliabbe.

[256] cribra: “disperde”.

[257] mi trae dannata a l’immortal supplizio: sul supplizio di Pellandra si vedano le parole di Frugoni nei Moralizzamenti Critici a proposito dell’ateismo: «L’ateista tien in petto il demonio, perch’egli è un Giuda, che ha in petto il tradire un Dio; e come Giuda, gran maestro degli ateisti, resterà sospeso da sé medesimo all’eterno patibolo» (MC 450).

[258] che ’l pesce mi schernisce e si trastulla: la pesca infruttuosa dei due atei Nineuse e Zambra nasconde una probabile allusione a uno dei simboli cristologici per eccellenza, il pesce (analogo discorso può farsi per il coro dei pescatori).

[259] lecco: “appetitoso”.

[260] Non importa: coraggio! Andiamo a cena!: Con raggelante indifferenza, Nineuse, accecato dal suo epicureismo, ignora del tutto il monito rappresentato dal corpo di Pellandra.

[261] che l’Edippo son io di questa sfinge: rispondendo correttamente al quesito posto dalla Sfinge di Tebe, Edipo liberò la città e poté sposare Giocasta.

[262] che ’l tempo sen va!: tutta la scena, dai chiari influssi macaronici, è una celebrazione dell’invito a godersi la vita senza pensare al domani.

[263] d’Engaddi: sorgente termale nel deserto di Giuda, citata nel Cantico dei Cantici (1, 14: le «vigne d’Engaddi»).

[264] Hai ragion, tempo abbiamo!: lo sguardo eternamente concentrato solo sul presente di Nineuse sancisce la sua fine, decidendo di non leggere il biglietto inviato da Eliabbe dove sono rivelati i piani di Zambra e il prossimo avvelenamento.

[265] Triaca e bolarmeno!: secondo diverse tradizioni il bolo armeno era uno degli ingredienti principali della triaca, il farmaco universale dell’antichità.

[266] È morto il gran Fineo, morta è l’arpia: secondo il mito degli Argonauti, l’indovino tracio Fineo era perseguitato dalle Arpie.

[267] purgherà l’error mio con l’astinenza: a Eliabbe con l’eremitaggio viene concessa la possibilità di redenzione negata a Pellandra, ormai macchiatasi di peccati troppo gravi.

[268] il mio fulgid’ostro: bisso e ostro erano gli attributi delle vesti dell’epulone già nel Vangelo di Luca. Tutta la scena finale riprende ed espande la seconda parte della parabola, in particolare il dialogo tra l’epulone e Abramo.

[269] a queste bande: da questa parte.

[270] che in lor talpeggia: che si cela in loro.

[271] napelli: specie velenosa di aconito.

[272] orezzo: brezza refrigerante.