Francesco Fulvio Frugoni
L’epulone
a cura di Giordano Rodda
Biblioteca Pregoldoniana
lineadacqua edizioni
2022
Francesco Fulvio Frugoni
L’epulone
a cura di Giordano Rodda
© 2022 Giordano Rodda
© 2022 lineadacqua edizioni
Biblioteca Pregoldoniana, nº 35
Collana diretta da Javier Gutiérrez Carou
Supervisore per i dialetti: Piermario Vescovo
Comitato scientifico: Beatrice Alfonzetti, Francesco Cotticelli, Andrea Fabiano, Javier Gutiérrez Carou, Simona Morando, Marzia Pieri, Anna Scannapieco e Piermario
Vescovo
www.usc.gal/goldoni
javier.gutierrez.carou@usc.gal
Venezia - Santiago de Compostela
lineadacqua edizioni
san marco
3717/d
30124
Venezia
www.lineadacqua.com
ISBN dell’edizione completa: 9788832066753
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Biblioteca Pregoldoniana,
nº 35
Nota al testo
Malgrado Frugoni nell’elenco delle
proprie opere in appendice al Cane di Diogene faccia riferimento a una ristampa
ginevrina,[1] non si rintracciano (oltre
al manoscritto) altre edizioni dell’Epulone oltre alla princeps impressa
a Venezia nel 1675 presso i Combi-La Noù[2]. Il testo era stato concepito
già sulla fine degli anni Sessanta ad Aix e, per la parte delle prose critiche,
a Piacenza. L’ed. Venezia 1675 costituisce dunque il testo sulla quale la presente
edizione è condotta:
L’EPULONE | OPERA MELO-DRAMATICA |
ESPOSTA, | CON LE PROSE MORALI-CRITICHE,| DAL P. | FRANCESCO FULVIO FRUGONI | MINIMO,
| LETTOR, THEOLOGO, PREDICATORE, CONSULTOR, | E QUALIFICATORE DEL S. OFFICIO &c.
| ADHUC GEMIT ILLE SUB AURO. | VENETIA, MDCLXXV | PRESSO COMBI, & LA NOÙ | CON
LICENZIA DE’ SUPERIORI, E PRIVILEGIO.
Il volume, in quarto, presenta
un’antiporta disegnata dal peintre-graveur Valentin
Lefèvre e incisa dalla monaca Isabella Piccini, abilissima maestra di bulino,[3] che rappresenta un ritratto
di Battista Nani con il motto «opposita iuxta se posita» portato in trionfo da angeli guerrieri, mentre un demonio
con coda di serpente è incatenato a una roccia con la scritta «L’epulone»; tre cartigli
mostrano la scritta «nihil est in Nanis
inane», «merces gloria» e, tenuta nel becco da un cigno,
animale araldico dei Nani, il motto «contraria contrariis». Il frontespizio presenta
anche una marca non identificata, «La Minerva». È infine presente un ritratto di
Frugoni a b8v, firmato «Lazaronus» (forse Giovanni
Battista Lazaroni), con le scritte «vera effigies patris Francisci Fulvii Frugoni, ordinis Minorum; civis aetas annorum
lux in tenebris, et imago viva in umbra mor[tis]»; un cartiglio sopra il ritratto
riporta il motto ovidiano (dai Tristia, 1, 1) «Me
mare, me venti» e un altro sotto, dal primo libro dell’Eneide (vv. 208-209), «Curis ingentibus aeger spem vultu simulat».
I versi dell’Epulone
sono astrofici e si nota fin da subito una spiccata polimetria, tipica della più
barocca versificazione frugoniana: si alternano nella stessa scena quaternari, quinari,
senari, settenari, novenari ed endecasillabi variamente rimati, più monosillabi
e bisillabi soprattutto (ma non esclusivamente) nell’‘eco’ nell’ottava scena del
secondo atto. Si nota la consueta predilezione canzonettistica per i versi parisillabi
o comunque brevi per i ‘ridicoli’ e per gli amorosi – anche col ricorso a endecasillabi
sdruccioli; Farfalla, su tutti, è maestro dell’uso contemporaneo di più metri –
laddove soprattutto per le solenni battute di Lazaro, ma anche per diversi soliloqui
di altri personaggi come Elcana, Pellandra
e Nineuse, Frugoni ricorre in prevalenza a endecasillabi
e settenari. È inoltre piuttosto diffusa anche la pratica dell’utilizzo onomatopeico
della stessa sillaba all’interno di un verso regolare (es. il «To’ to’, to’ to’, to’ to’, to’ to’, to’ to’»
di Ghiotto in III.2.30). La spiccata polimetria, non limitata alle arie ma
anche all’interno dei recitativi, rende difficile l’individuazione di eventuali
endecasillabi e settenari ‘spezzati’, come accade invece per il melodramma
riformato post-zeniano e metastasiano; si sono indicati con scansione a scala soprattutto
quelli derivati da rapidi botta e risposta in versi brevi, all’interno di zone
del recitativo che appaiono altrimenti regolari.
Riguardo al rispetto della
precettistica teatrale, soprattutto nei confronti del commento alla Poetica
di Antonio Riccoboni, vera autorità nelle prose frugoniane, lo stesso autore si
esprime a lungo nel Discorso critico. Il prologo «ha [...] virtualmente in
sé racchiusa tutta l’orditura dell’opera, a cui dispone l’aspettativa degli ascoltanti»;
la divisione in cinque atti è fatta «non solo per seguir lo stil commune (benché vi siano state divisione di tre, né so come)
ma per aderir’anche ai documenti del Riccobono» (DC
190). A proposito dei cori e dei balletti allusivi: «Tre volte introduco il
coro nell’Epulone, due volte anche accordando il salto al metro dell’armonia;
moralmente nello scherzo correggendo il vizio, e deridendo il vizioso, per contribuire
con tutt’i numeri allo scopo del drama. Pur’ho introdotto i balletti, misteriosamente allusivi» (DC
190). I cori propri in realtà sono due, nell’atto quinto (quello dei pescatori
e quello dei cuochi), ma Frugoni evidentemente conta anche quello dei “ridicoli”
nella seconda scena del primo atto. L’autore rivendica anche di avere «in parte
osservati» «l’exodo, lo stasimo e ’l parodo, poco praticato
oggidì» (DC 191), di non aver mostrato le morti di Lazaro, Pellandra, Zambra e Nineuse se non
«nel recondito del proscenio» (DC 192), pur esibendone i cadaveri (con l’eccezione
di Lazaro). Va infine ricordata la grande ricchezza di luoghi scenici, che comprendono
l’atrio del palazzo di Nineuse, il relativo giardino,
le stanze di Zambra, il palazzo in prospettiva, le gallerie, un boschetto, la prigione,
il torrente con dirupi dove muore Lazaro, l’anfiteatro, il casino di caccia con
tanto di giardino e fontane, il bosco degli inseguimenti tra gli amorosi, il carcere,
il cortile, il serraglio per le fiere nell’ultimo supplizio di Zambra, lo stagno
dove questa si getta e, a conclusione, l’Inferno e il Limbo a rappresentare le due
destinazioni finali di Nineuse e Lazaro.
Per quanto riguarda i criteri di trascrizione ho seguito le Norme
filologiche generali previste dall’Edizione Nazionale di
Carlo Gozzi.
Francesco
Fulvio Frugoni
L’epulone
All’Eccellenza Illustrissima del Signor
Cavalier Battista Nani,[4] Procurator di San Marco e Senatore
insigne della Serenissima Repubblica Veneta
L’autore, osservantissimo
e riverentissimo servo.
Quando posi la mano alla struttura
di questa mia opera laboriosissima, ebbi l’intento di renderla più ricca e più superba
nella dedicazione che nel titolo. Scelsi perciò a primo lume, tra tanti miei padroni
della grandezza primiera, il personaggio cotanto cospicuo di Vostra Eccellenza,
per farne un contraposto diametrale al mio epulone, acciocché
maggiormente sul paragone di tanta luce ne spiccasser
le ombre.
In
effetti non poteva il mio disegno riuscir più giusto, perciocché tutto il mondo
sa dalla Fama (non mai così veritiera, che nel colmar la sua tromba delle glorie
incontaminate dell’Eccellenza Vostra) che in essa risplendono con la piena della
fulgidezza più limpida tutte quelle virtù che fanno mirabile contrappunto agli enormi
vizi ch’io negli esecrati costumi dell’epulone ho descritti. Altro non ha egli con
Vostra Eccellenza di analogico (però tutto equivoco) che l’induebatur
purpura, et bisso[5]. Veste pure il gran cavalier
Battista Nani la porpora, ma non già di quella grana dello scelerato Nineuse, così macchiata dagli appetiti scolanti del senso. Non
ha Tiro, non ha Sidonia ostro[6] così purgato come quello che
la virtù di Vostra Eccellenza raffinò col merito più degno del suo suggetto, per ogni circostanza sublime. Non ha Elide, non ha
Giudea, bisso[7]
così fino, così albeggiante che pareggi la trasparenza e ’l candore di quegli abiti
interni, onde l’Eccellenza Vostra tanto si adorna.
La
famosissima sua famiglia, che con antifrasi nobilissima spiega la sua augusta grandezza
in un termine di picciolezza misteriosa, ritiene così l’indole della magnificenza
romana, come l’origine antica dalla Mezia, che derivò
dai Sabini, dal vigor de’ quali ebbe Roma, con l’accrescimento
il suo primo lustro.[8] Quindi non è stupore che i
Nani sien così nella clamide, come nella toga, giganti
di valor e di sofferenza, conciossiaché agere,
et pati fortia Romanum est.[9] Per questo anche la non mai
a bastanza lodata Republica Veneta, che della romana incenerita
si può chiamar fenice, risorta nell’acque per non mai andar in cenere, s’ingrandisce
con la prosapia così celebre di Vostra Eccellenza di modo che ne forma un de’ suoi
trofei più fastosi.
Ma
non men della Landi,[10] eroica per tante concorenze, da cui l’Eccellenza Vostra deriva il suo non men
preclaro sangue materno. Ella diramata dal pedale sovrano dei Serenissimi Duchi
di Vittembergh, nell’invitto Adelberto in tempo che ’l
re Pipino aveva l’Italia invasa,[11] ad accreditarsi palma ferace,
ripullulò con alligno fecondo nel salso delle lagune adriatiche per multiplicare a Venezia i trionfi.
Non
parlerò delle alianze dell’una e dell’altra, che stendono
i lor rami d’oro ad intrecciarsi coi lauri più verdeggianti che fan ombra deliziosa
all’aristocrazia, sotto cotesto maestosissimo cielo regalmente adagiata e politicamente
sicura. Questo sarebbe l’assunto di un gran volume, non di angusto volo di penna;
tanto più che la mia si ristringe ad aver solo per iscopo
l’elogio non mendicato e perciò dovizioso di Vostra Eccellenza la cui vita sì eroica
mi fornisce di memorie sì belle, che non faticherà la facondia nell’adornarle, perciocché
portano seco l’abbigliamento con la notizia. Basta il narrarle senz’artificio che
saran credute con la verità, perché accreditate dall’evidenza;
onde son così ampie, che sarebbero sempre d’ogni amplificazione maggiori.
Ma
che sto io anelando a promulgar ciò che tanto è palese? Non v’essendo angolo del
mondo a cui non abbia eccitati gli echi sonori del nome genialissimo di Battista
Nani l’alto rimbombo. Roma il sa, che ’l vide con ciglio
attonito in sembiante d’un Alcibiade, per la venustà dell’aspetto, spirare[12] un Socrate, per la sublimità
della saggezza. Quivi nell’età sua verde, tutta florida per l’eloquenza, tutta fruttifera
per lo sapere, fe’ col suo degno padre, ambasciadore al gran pontefice Urbano VIII, residenza così notabile,[13] che coll’essere segnalato
dall’osservazione, passata in osservanza, verificò l’aforismo di Persio: pulcrum est digito monstrari,
et dicier hic est.[14] Il popolo del Tebro,[15] avvezzo a non maravigliarsi per l’assiduità delle maraviglie,
stupì vedendo in un giovinetto così acerbo un senno così maturo. Nella malatia del genitore[16] supplì con tanto spirito l’obligazione, così onorata come onerosa, di esso, che non meglio
sostenne l’incarco dell’orbe Alcide al deliquio di Atlante.[17] Atlante non favoloso fu Giovanni
Nani, procurator di San Marco, a cui, per la pietà singolare, convien il titolo
di Colonna del Cielo, con cui da Erodoto fu appellato quel monte mauritano che sembra
regger l’Olimpo.[18]
Che se (come rimarca il Fungero) per metathesin, et inversionem, Atlas
de quovis homine supra modum laborioso dici potest: ut literariorum laborum, bellicorum negotiorum, politicarum rerum Atlas:[19] questi son tutti caratteri
così propri di Giovanni Nani, che per dichiararsene legitimo
posseditore gli lasciò tutti a Battista Nani suo figlio, non degenere da genitor sì qualificato. Niente meno da Marina Landi, sua incomparabile
genitrice, che fu specchio di pudicizia, ma specchio di diamante per la sodezza
con cui emendò la fragilità del suo sesso: e per lo chiaro con cui fe’ spiccare lo fulgore del suo spirito. Marina tutta e sempre
calma, per la tranquillità dell’animo inalterabile, di cui fu Zeffiro soave un genio
mansuetissimo. Casta Venere, formata del sale d’una providentissima
assennatezza; da cui nacque Battista Nani, amore deliziosissimo dell’umano genere.
Amore che non vibra parola senza far piaga, ma sanatrice, negli affetti a lui resi:
ognor intento con l’arco teso del suo intelletto infrangibile
ad imbroccar l’utile della sua gran republica, per cui
si fe’ celebrare, a tante sperienze,
infallibile arciere, facendo colpi da maestro con accorta non meno che attenta disinvoltura.
Dicanlo per me, che meglio il diranno le sue splendidissime ambascerie, portate da esso con tal decoro che
gareggiò con la lingua la mano in abbondare l’oro profuso: questa nel dispendio
ostentoso: quella nella dicitura eloquente. Rappresentò sulla Senna, per lo spazio
di un lustro,[20]
il suo principe, in lui non meno compendiato per lo ministero ch’espresso al vivo
nella maestà; e si fe’ sentire armoneggiare
cigno[21] tra i Galli; così ben gli
viene il gentilizio significato del suo candido stemma, che non meno alla voce che
all’innocenza egli è cigno così dolce come albeggiante. Quivi promosse con energia
industriosissima, in cimenti così malagevoli che richiedono un capo di bronzo ed
un’aurea destra, i vantaggi della republica, così riconoscente
del di lui merito, come affidata alla di lui destrezza. Il rinomato cardinal Mazzarino,
che fu l’Ercole italico della sicambra[22] politica e con la sua mazza
clavata fe’ tante forze di capo, ebbe che apprendere nei
frequenti e ferventi congressi di questo veneto Teseo, il quale portò sempre alla
mano il filo, somministratogli dalla sua Arianna Prudenza, per uscire dai laberinti
più vilupposi e fiaccare col peso del pronto consiglio
il minotauro biforme dell’Ambiguità irresoluta. Procurò aiuti rilevanti, e prima
e poi, dalla regia munificenza per lo sussidio di Candia;[23] né fu strano che per così
giusta cagione lasciasse muoversi dalle suasorie di così efficace oratore Luigi
XIV, per esser naturale che il giglio alle rose si pieghi: tali furono sempre di
questo nettareo Nestore le labbra faconde.
Pullularono
vivacissime nell’ambasciata di Germania,[24] e tra quelle nevi alpine s’avvigorì l’ardore sempre più intenso, con antiperistasi[25] saggia, di così grand’uomo;
che le fe’ arrossir colla sua candidezza: dileguar con
la sua fiamma. L’attività di esso non fu mai minore dell’ingenuità del medesimo.
Ferdinando Terzo innamorò della gentilezza erudita, della manierosa intelligenza
di ministro così savio, così provetto. Quel Giove dell’aquilonare[26] Settentrione, mai più non
sembrò meglio un Giove maestoso che quando ebbe appreso un’aquila così perspicace,
che tutta con l’anima nella pupilla (se pur non coll’anima tutta pupilla) fissò
così da vicino l’occhio, non mai palpitante, nella sfera dell’austriaco Sole, senza
incenerire le penne. Tramontato questo, risorse in Leopoldo,[27] l’imperante Cesare, allor
re d’Ungheria e di Boemia; né si dismesse l’aquilina mente del Nani dal contemplar
dell’uno, rediviva nell’altro la luce, famigliarizzando con questa, eziandio tra
i folgori dello Sueco,[28] assalitore del Polacco e del
Dano: come suol appunto l’aquila
a sol rinato rinvigorita e tra ’l fragore dei fulmini scherzare imperterrita. Quanto contribuisse col suo acume, in quelle così ardue
come tenebrose emergenze, al respiro di Europa (come avea
fatto in Francia alla pace di Munster),[29] il protesterà
l’Alemagna cattolica, nemica giurata dei Protestanti rubelli,
a risolvere i nembi de’ quali molto conferì questo zeffiro consigliero,
sempre spirante all’abbonacciamento del Cristianesimo ed al soccorso di Creta fluttuante,
qual Ciclade,[30] tra le
mussulmane tempeste.
Colmata
con applauso universale quella sua decorosissima ed opportunissima residenza, ritornò
alla patria, da lui più volte sollevata, carco d’allori; ma quivi non ristette disimpegnato,
perché troppo prezioso. Appena giuntovi fu prefisso per imbasciador
in Roma al Settimo Alessandro,[31] accioché
si proporzionasser questi due grandi che tanto avean del Magno; l’uno in isciorre
i Gordi[32] dalle colpe letali ad una
croce di mano, e l’altro in recidere ad un taglio di lingua quelli degl’intrighi
politici; ma il Vaticano tanta fortuna non ebbe di rivedere quello del quale avea concepute così fauste speranze:
tutto consacrato, anzi sacrificato, all’amor della patria, per essa non ebbe mai,
né ha presentemente alcun riposo, oracolo dell’eccelso Collegio,[33] sibilla del gran Consiglio,[34] anima del magistrato più dotto
e perciò riformator sensatissimo dello Studio di Padova:[35] sempre in moto, qual angelo,
che coll’operazione è in luogo:[36] senza quiete, come il Sole,
che nella circolazione ha il suo centro; e se ben tra le rose più castificate della porpora reina, sempre
dagli stimoli punto del ben oprare, perché le porpore
son rose che non si colgono mai, né mai si portano senza spine.
Fu
perciò rispedito in Germania, per render più augusta col suo complimento magnificentissimo
l’assunzione di Leopoldo all’imperio.[37] Per rallegrarsi con un’aquila
di due capi,[38]
e perciò due volte coronata, non potea il leone aligero
spedire lione di testa più massiccia ed anche doppia per
la fortezza, non mai per la frode, la qual è così propria di quelli che sogliono
per la simulazione far da bifronti.
Senza
rilascio passò di Germania in Francia, per accrescere il lume alla face della pace,
brandita dal regio imeneo tra la colomba ed il gallo.[39] Intervenne alla conferenza
de’ Pirenei, con cui si raggirò sì gran mole, per istabilirla
più salda, somministrando con dimostrazione ingegniera
gli sistemi più quadranti; e tutto rivolto al profitto del publico,
quindi più sempre singolarizzato nel merito, fe’ decretare,
con l’interposizione di Mazzarino, a cui si era stretto così nell’amicizia, come
nelle consulte, considerabili aiuti per la sussistenza di Candia, attaccata e lacera
dai veltri, se non pur dai mastini di quella Diana lunare che sempre va a caccia
dei regni altrui.[40]
Restituito
a Venezia trionfò in un Campidoglio di cuori, ed assai presto subentrò Procurator
meritevolissimo di San Marco al chiarissimo Leonardo Foscoli,[41] perché il nardo[42] olezzante di tal leon morto
venisse a ridondanza ristorato nel mele di questo leone vivo. L’anno 1663 fu eletto
dal maggior Consiglio a folla di voti, nell’applauder
tumultuosi, Capitan Generale del Mare;[43] ma nel dispensò con impulso
non minor la republica, per non azardare
nella dilicata complessione di lui mille de’ suoi cittadini
in uno che solo vale per mille; compiacendosi più d’averlo per occhio destro, quando
non convenisse che le servisse di destra occhiuta.
Nol poté già risparmiar allora che pacificatasi con l’ottomano,
insorsero gli disturbi, eccitati dai turbanti di Mahoma[44] nei perturbati confini della
Dalmazia. Quelle scintille avean quasi che riacceso un
incendio, già serpeggiante a combustione; onde per ispegnerlo
non seppero i Soloni adriatici trovar chi meglio del Nani riuscir potesse opportuno.[45] Tutti poser
gli sguardi amoreggianti quest’elezione sopra un così facondo Mercurio, che caduceator ambidestro, parea l’unico
risarcitore dell’infranta concordia, così tosto che rassodata.
Non rifiutò la svisceratezza ch’egli ha sempre col fatto professata alla sua invitta
Republica, un’intrapresa così eterogenea; benché si procurasse
quanto mai sapesse di sfuggirla per la sua nativa modestia. Partì con plenipotenza
straordinaria, fiancheggiata da un’assistenza guerriera, e nobilitata da un equipaggio
sontuosissimo. Cominciò il trattato con Mamut Bassà, già Bassà di Buda, ed allora
Caimecan[46] di Costantinopoli; ma l’interruppe
la morte di questo, che con differire il concordato poi con Cussain
Bassà, cavallerizzo maggiore del sultano, spedito a quest’effetto
dalla Porta,[47]
ampliò la gloria nel gran commissario Nani di aver terminata così malagevole commissione.
Rinoncio agli storici le individuali circostanze di questo
successo, grande per più conseguenze: solo soggiungo, quanto prevaglia la virtù anche negli animi più efferati, poiché da
essa imparano gl’infedeli a mantenere e a ristabilire l’amicizia e la fede. Il Nani
per tanto conciliossi la venerazione, non che l’affetto,
di quei barbari, e fe’ veder in pratica all’universo che
la Repubblica veneta, non men della Lesbia, abbia il suo Terpandro;[48] ma non men della romana in
esso ha il suo Catone Uticense, atteso la di lui provatissima probità e la limpidezza
inalterabile, così di petto, come di mano.
Or
qui mi rivolto di nuovo a Vostra Eccellenza con cui non ho proseguito ragionar,
tuttoché verace, perché ho temuta la sua modestia, che suol
accrescere alla di lui porpora la murice.[49] Ho per mallevador tutto il
mondo, il quale sapendo più di quello ch’io non so esprimere, dei fasti, a fasci
adunati da Vostra Eccellenza, son certo che mi doverà
tacciare di troppo Tacito[50] nel publicare
così dimezate le di lei preclarissime
prerogative. Ma la mia penna si curva, così per lo peso di esse, come per l’ossequio
del mio debito; e perciò mi rimetto nei primieri preambuli
di questa obbligata dedicatoria, in cui le presento più un Lazaro che un epulone.
Questo le viene strascinato a pie’ dalla virtù che rende il savio trionfatore del vizio ed
in risulta d’ogni vizioso: quello si prostra umiliato all’eminenza generosissima
del di lei grand’animo e ravvivato dall’afflato spiritosissimo del di lei gran riflesso.
Non ha il premio maggior candidato di Vostra Eccellenza, che è tutta candore:
non ha il castigo del ricco avaro maggiore confusione della liberalità di Vostra
Eccellenza, che tutta è bontà: non ha il ricorso del povero afflitto maggior ricovro di Vostra Eccellenza, che tutto è amorevolezza.
I
letterati, sotto l’ala del di lei cigno argutissimo, le cantano inni di riconoscenza,
come al loro Apollo; e divenuti epuloni di Lazari, perché
nodriti della di lei grazia, sempre ad essi imbandita, banchettano lautamente in
Apolline. Ma qual maggiore epulone de’ libri dell’Eccellenza
Vostra, che nel suo gabinetto, in cui, come celibe, s’è sposato tutto a Minerva,
divora le più sostanziose notizie, così morali e filosofiche, come politiche. La
sua sontuosissima Historia,[51] per cui ha la bella italiana
lingua anche il suo Sallustio, allo stile non ai costumi,[52] percioché
l’Eccellenza Vostra vive così candidamente come scrive, senz’altra passione che
del vero, senz’altro interesse che dell’onesto, è un Panteone
dell’immortalità in cui Vostra Eccellenza averà sempre
il luogo più rilevato, e per cui viverà il di lei nome
all’Eternità gloriosa; siché può dirsi di essa con Marziale:
Ipsa tibi niveo trahet aurea pollice fila.[53]
Quindi
è che delle mie fatiche ingegnose altro miglior giudice non ricerco dell’Eccellenza
Vostra, in cui le lettere hanno il lor protettore altissimo che non sol le favorisce,
ma le alimenta col suo studioso esercizio. Gran fortuna mia l’aver incontrato un
così magnanimo Abramo, che mi raccoglie nel suo clementissimo seno[54] e mi erudisce col suo dottissimo
senno. Anche imparo da Vostra Eccellenza, esemplarissima
idea d’ogni virtuosa operazione, a non attendere altra gloria che la celeste, per
cui ella ha sempre affaticato; non facendo stima di ciò che solo si pregia da questo
secolo illuso; ma della solidità di quella rettezza che si può dir la misura della
vita del giusto. Conchiudo col sensatissimo Felice Minuzio,
mentre ammiro in Vostra Eccellenza la massima della certa felicità. Multi totum iter ignorant verae gloriae; fascibus enim, et purpuris gloriari vanus error hominis,
et inanis cultus dignitatis fulgere purpura, mente
sordescere.[55] Questi sono i caratteri degli
epuloni moderni, a’ quali non posso dar in faccia con
maggior rimproccio che col vivo esempio di così grande contrario, come il gran cavalier
e procuratore Battista Nani: lettere da scrivers’intorno
con asterismi di stelle all’Artico ed all’Antartico, per insegnar a ben vivere all’universo.
Sentimenti e risentimenti dell’autore,
al lettor discretto e non numerico[56]
Parliamsi un poco insieme, o mio lettore, dopo
un anno che non si siam parlati. Promisi di darti l’Epulone ben tosto,[57] non ti maravigliar se ho tardato più che non pensai, atteso che quegli
per esser divenuto, a tanto cibo che gli ho imbandito, così corpulento, si è mosso
tardi. Ben sai che tutti quelli della sua sfera sono Saturni voraci, che perciò
si muovono lentamente.[58] Gli ho empiuto il capo, se
non lo stomaco, di sostanziosissimo estratto; dunque non dei stupire s’egli a tanto
pelo ch’ha in testa, ha ponderato il suo passo. L’ho caricato di gioie per satollare
la sua avarizia, solita a sorbir[59] gli Eritrei.[60] L’ho abbeverato di perle macinate,
per estinguere la sua sete, avvezza ad abbeverarsi nei Gangi,[61] ho diramata l’eloquenza in
canali d’oro potabile, in rivi d’argento armoniosi, per secondar le sue voglie,
che si lasciarono rapire a seconda sempre dai fiumi d’oro e d’argento.
Ah
piacesse al cielo che il Giordano avesse tanti bevitori come il Patolo,[62] e che seccasse il Rio della
Plata perché non avrebber le colpe tanta sorgente! Il
mio scopo in quest’opera non è diverso da quello di Cristo Redentore, il quale per
isvellere i mortali epicurizzanti
dal limaccio del vizio proceduto dalle acque dorate delle ricchezze, propose loro
l’esempio terribile dell’epulone; sicome per animare i
piagati della fortuna, i lacerati dalla povertà, gli afflitti dalla fame, i perseguitati
dall’ingiustizia, gli espulsi della politica ed i negletti dall’ingratitudine, espose
un Lazaro. Il mondo si divide in Lazari ed epuloni: cioè
in predestinati e presciti;[63] troverai dunque in questo
libro tutta l’economia della salute. Gli epuloni sogliono coronarsi di rose, i Lazari di spine; che pertanto, e spine, e rose ho qui affasciate
per piacere a’ Lazari, desioso
di consolarli: per dispiacer agl’epuloni, bramoso di trafiggerli, perché a questo
ho preparate le spine, a quelli le rose.
Stia
pure che gli epuloni prendan per essi le rose, delle quali
son ghiotti, e lascino le spine ai Lazari, dalle quali
questi son cinti: avverrà forse che quelli, adusati ad inghiottir tutto, con dar
di morso alle mie rose, diventino, d’asini d’oro che sono, uomini veri. Ma i Lazari si rivolteranno, senza temerle, tra le mie spine, perché
avendo la pelle logra dalla lebbra delle disgrazie, non paventeranno più che lor
sia lacerata. In effetto questa è un’opera che mi costa tutto il capitale del mio
capo; e può essere che sia ben accolta da i ricchi poiché non tratta solo che di
tesori. Anche dovrebbe piacere ai poverelli, perché non niego lor le molliche della
mensa dell’anima deliziante; ma procuro di sfamarli col pane della verità e colla
panatica della speranza. Io son certo che prendendo refezione in questa dispensa
moralissima, si rinforzeranno a sostenere i disastri d’una sorte proterva. Benediranno Dio d’esser Lazari
e non epuloni, perché si vederanno portati dalle Intelligenze
spiritosissime nel seno di Abramo, cioè nel godimento d’aver osservata la legge
di natura, e per conseguenza quella di Cristo, e d’avere creduto a Dio, perché sia
loro imputata la giustizia di Abramo.
Circa
il componimento poetico, base fondamentale su cui ho innalzata cotanta mole, non
dirotti altro, sol che ne ho abbastanza scritto nel Discorso critico intorno
alla poesia dramatica. In tutto il rilievo della fabbrica
vasta ho fatto prima da Euclide in tirar tante linee che formano tutti gli elementi
e i problemi della geometria della salute dell’anima. Ho anche fatto da Vitruvio
per edificare con isquadra archetipa e con commodità maestosa una mole così capace che può servire ad ogni
genere di genti di agiato albergo. Tutte quasi le discipline liberali han conferito
al disegno, contribuito alla struttura; e basta ch’io mi sia sodisfatto più del
mio solito, per contentar tutti, anche più del mio solito, in questa operosissima
mia fatica. Ti so ben dire che mi lusingo forte nel darla al publico, in cannonizarla per la mia
più particolare, tra le tante mie. Vedrai che non ho trasognato, benché in comporla
quasi che tutta di notte, perché mi è parso questo il tempo opportuno a trattare
di sogni, cioè della vanità di questo secolo, pieno di tante larve, in cui camminan tra l’ombre tante fantasime.
L’ho manipolata nei più gelati rigori del verno, tutto concentrato nella solitudine
taciturna, tenendo le dieci ore seguite l’inchiostro in vena, svenando il mio ingegno
e lambiccandolo al lume della lucerna, la quale, se non è d’Epitteto per lo prezzo,
è di Cleante per lo travaglio.[64] Ti so dire che mi sono sentito scaldar la testa
scrivendo tra le nevi più aspre, onde non aspettare da me freddure, secondo la professione
del mio stile, nemicissimo di esse, come il mio genio è derisore delle medesime.
Sai la raggion dell’antiperistasi,
che intus existens
prohibet extraneum.[65] Bisogna scriver con fuoco,
per incenerire il vizio, accatastato sui cuori, per dileguare il ghiaccio, impetrito negli affetti. Dirotti più: ho scritto con le mani
piagate dal freddo, e quasi che stecchite dalla chiragra,[66] la quale soglio patire in
quel tempo atroce: forse convenia che così fosse, perché
dovea scriver de’ Lazari rubati,
de’ quali io son uno, e de’ ladri rapaci, de’ quali fu l’epulone l’archimandritta.
Il
dramatico fu da me quattr’anni sono abbozzato in Provenza,
dove per il mio rilascio da mordentissime cure, che mi
tennero un anno distratto dallo scrivere, andai nella città di Aix (che per me lo
su, e ’l sarà sempre de’ sospiri, poiché vi perdei la mia così saggia, come lacrimata,
Minerva,[67]
per lusingarne anche il genio armonioso e solleticarne la pietà insigne) componendo
il resto, che fu il più, sopra il cominciato da me in Venezia. Tutte le prose sono
state da me delineate in Piacenza, dove ridotto dalla mia poca salute, che si va
ristorando pigramente, non posso smaltire lo spiacere delle mie perdite, sempre
più croniche per una, quanto men provocata, altretanto
più proterva fortuna. Ma che fare? Siamo in tempi
ne’ quali ha la virtù più martiri che confessori, e basta professarla per esser
sospetto a i professori del vizio, che vorrebber impunemente
peccare, perciò abboriscono chiunque con la penna e colla
lingua; ma ciò che importa più, con la vita e con l’esempio, li vaglia a correggere.
Così sogliono i Lazari
tanto esser perseguitati e mal veduti dagli epuloni.
Se
poi brami d’intendere, perché dopo la mia Heroina
intrepida,[68]
io ti dia (più che qualunque altra) quest’altra opera, dirottelo
con la mia usata ingenuità geniale. Vedutomi trattar da Lazaro dalla sconoscenza
affettata di alcuni, da me obbligati per più conti, mi accinsi a consolarmi a guisa
di Lazaro con le lusinghe morali della speranza, la quale non è mai meglio fitta
altamente nel cielo che quando è affatto divelta dalla terra.
Mi
sono ben presagito, senza ingannarmi, che sarebbero anche ingrati ed infesti, dopo
la sua morte, alla mia eroica principessa, quelli che tanto la disconobbero e l’amareggiarono
in vita. Ella che vivendo ebbe così, per la pazienza, del Lazaro, se morta e rediviva
nelle mie pagine, a guisa di Lazaro è stata benignissimamente accolta dagli Abrami,
come Lazaro dagli epuloni è stata aborrita, perché tacito rimprovero della loro
empietà conglobata. In questo solo diversa da Lazaro; che se questi vivente fu lambito
da i cani dell’epulone, che furono di esso più umani; ella e viva e morta è stata
suggetta (ma sempre più gloriosa) alle zanne livide, ai
latrati mastini di certi molossi e doghi, che da me risparmiati con modestia soverchia,
invece di sentirmene gradimento, m’han divertita la gratitudine, se non ricercata,
dovuta da quegli animi che conoscono le loro obbligazioni; e se non le pagano è
solo per le suggestioni artificiose di quelli che tutto affalsano
e rinvoltano con la loro zelante malizia.
Io
non ricerco, né attendo premio alcuno da chichesia del
mio scrivere e intitolare l’opere mie, perché ho il cuore
così generoso per lo sprezzo dell’interesse, come l’ingegno prodigo per l’abbondanza
del peculio: ma sol mi lagno d’esser così nelle mie dedicatorie passate di tanti
libri riuscito infelice, come fortunato nell’universale accoglimento dei medesimi.
Ho intoppato sempre in argini di livore, o di sordidezza, che m’hann’impedita la ricognizione, almeno d’una grata corrispondenza;
che per la retribuzione sottrattami, ancorché promessami, non mi turbo punto, sapendo
benissimo che Dominus prodigus servus
avarus[69] è una massima che concerne
alla liberalità de’ principi e alla tenacità dei ministri, quando i ministri sien così tenaci come i principi son liberali.
In proposito della mia
eroina singolarmente, un letterato amico mi scrive queste formali parole: Oro
non v’è di carato sì fino, e così abbondante, che possa concambiare
i caratteri dell’eloquentissima, e fastosissima sua Heroina
intrepida, tanto a maraviglia ingioiellata dalla penna
di lei, solita per una così nobile prescrizione, a partorire stupori; seben le dirò il mio parer candido, perché confidentemente richiestomi:
Vostra Paternità ha detratto non poco alla fama di quella degnissima principessa,
scusando le diffalte di quei che l’hann’offesa, e risparmiandone
molti, o colla suppressione de’ fatti occorsi, o con la
maschera dei nomi finti ecc. Ho ricevute più di cinquanta lettere da personaggi
primari circa quest’opera, e forse te le farò gustare in una raccolta, con molte
scritte da uomini insigni; a diversi tempi e rincontri, per attossicare col lor
inchiostro l’invidia e confondere la protervia. Uno, tra gli altri, autorevolmente
mi rampogna d’essere stato soverchio prodigalizzator
degli elogii (questi sono gli espressi termini) trattando
talvolta di alcuni, che altro di lode non hanno, che l’essere, dall’ingrandimento
di tanta dicitura lodati. Gli risposi che il rossore non è proprio dell’inchiostro,
ma che io l’ho lasciato tutto al lor demerito, perché si vergognino di non esser
quelli che gli ho studiosamente effigiati. Questo è lo stile di correggere uno,
quando non gli si può dire, senza turbarlo, quello ch’egli è; onde gli si fa ricordare
quale dovrebb’essere. Confesso invero d’aver ecceduto
in esaltare alcuni, che per quanto s’inalzino, tanto maggiormente
si scorgono immeritevoli; ma bisogna condonare questo eccesso al mio genio, che
non sa esser moderato nella passione di mostrar la sua gratitudine, o di aderire
all’altrui compiacenza quando si tratta di obbligare; a segno che si lascia dalle
suggestioni degli amici prevertire.[70] Per corollario di questa piccola
apologia, io son intrepido quanto la mia eroina in non fare alcuna stima delle nottole
che l’abbian potuta insultare col lor guarire, poiché
tanti cigni l’hanno festeggiata colla loro armonia: e pur le nottole dovrian esser ossequiose a Minerva, ma la mia per avere soverchia
luce le abbaglia e se le fa cadere alla fimbria[71] sbalordite. Prese al balzo
il senso di tal concetto il mio dolcissimo ed ingegnosissimo Padre Maestro Giovan
Benedetto Perazzi, quando nella seconda parte de’ suoi acutissimi distici, tra gli
altri, onde mi ha favorito, m’inscrisse il seguente:
Intrepida
ut variis stat casibus heroina,
sic
in Aristharcos ore Minerva tuo.[72]
Ma
consentiam a’ gufi ed a’ corbi lo sfogo, dovuto alla lor
natura maligna, e rimettiam a’
più opportuna occasione i risentimenti delle mie vendette pacifiche: io ti priego, lettor mio discreto, poiché de’ numerici non mi curo,
a continuarmi la tua virtuosa relazione: intanto procuro di meritarmela con nuovi
fondamenti. Altro da te non pretendo che un occhio limpido e perciò non appanato da quelle cateratte che soglion
cadere da un capo debole, o vaporoso. Voglio informarti che non mi stanco di applicare
a piacerti, poiché tanto mi rinforzi a scriverti. Ma mi troncano l’ale i disastri, non fati ancora, e non mi sollievano gli astri non per anco benevoli. Quelli che dovrian darmi
lena, mi supprimono il volo, e tra le vicissitudini della
mortalità mi deprimono, apprendendo che la mia gloria tutta in ignominia lor risultai;
e pur Iddio è testimonio del mio innocente e latteo procedere. Ma che? Gli aspidi
anche al latte s’avventano, e l’innocenza ha più persecutori che la colpa.
Or
che ho finito l’Epulone, m’accingo a metter mano al proseguimento del Cane
di Diogene,[73]
tanto ricercatomi dalla curiosità universale, che ormai è degenerata in molestia
importuna. Voglio contentare per questo l’ardore delle altrui speranze colla liberazione
della mia fede: sicome nello stesso tempo (instatone[74] da più parti) rinoverò la mia Vergine Parigina e la renderò fenice:[75] anche nel rinascere, dopo
tante impressioni, più molto bella e leggiadra. Ti prometto ancora La tomba aperta
a tutti,[76]
ch’io mio prefiggo per esercizio della mia sepolta divozione, affin di meditar la mia morte, che non mi assalirà mai d’improviso, poiché me la vanno ricordando tutte le larve di questo
secolo. Che dirai? Che ti prometto quando non posso promettermi di attendere? Sono
in procinto di qualche crisi, quindi non sapendo ciò che possa accadermi, o di qualche
lungo viaggio che mi divida per sempre dall’Italia, o di qualche grave malatia che mi congiunga per sempre, come spero, al mio Dio:
in ogni maniera che occorra ciò che il Cielo ha di me prescritto, viverò, e morrò, per tutto. Sempre tuo genialissimo servitore.
La Providenza ti feliciti.
Agli ignoranti critici
Alcuni cavalieri di primo pelo e bizzarri
d’invenzioni, per divertirsi nel contado in cui solean
radunarsi a villeggiare l’autunno, ferono apprestare un
sontuosissimo convito, con tutta la squisitezza delle vivande manierosamente manipolato;
indi posero a mensa una dozzina di que’ villani più zotici
ed agresti che rivenir sapessero in quel distretto rurale. Stupirono a prima fronte
que’ ruvidi omaccioni, così all’abbaglio dell’argenteo
vasellame, come all’olezzo della dilicatissima imbanditura. Provocati lunsighieramente
a cibarsi stesero le tremoli destre ad attingere vergognosi una lieve forcellata da que’ regalatissimi piatti,
ed appena ebbero sulle fauci ’l boccone, che ne sentirono stupidito il palato, non
potendo soffrire il piccante delle droghe, né il dolce de i condimenti. Miravansi l’un l’altro, sospesi più che l’asino di Buridano tra i biondi solchi della biada abbondante, né osavano
proseguire, ancorché animati dagli astanti cavalierotti,
che ne soghignavano attenti, quand’uno di essi rivolto
a que’ gocciolioni gl’interpellò
perché non magnassero, e sentissi rispondere che quei non erano cibi da tali stomachi,
usati a cipolle, e rape. Siché bisognò provederli di confacente cicoria, verificandosi ’l proverbio
che similes amant
labra lactucas.[77] Questo fatto vo’ che mi vaglia
per rispondere a quelli che non altro van criticando nelle mie opere, che la ridondanza
de’ sali e la ripienezza della sostanza. Io per lor aviso,
non imbandisco la mia tavola, come suol dirsi, con la
lesina in punta,[78]
né a gente grossa, ma bensì a chi abbia stomaco digestivo da quintessenze ed alle
gole che sono così ghiotte come quella di Cleopatra, la quale in un sorso inghiottì
a mensa con Marcantonio, mezo il valsente di tutto un
Gange.[79] Quando in un componimento
v’è assai di che nutrir l’intelletto, se questo è debole di calore a concuocerlo,
non è colpa se non di chi non lo può smaltire. Professo io nello scrivere, perché
scrivo a chiunque intenda e capisca anche più di quello che scrivo, di seccare con
l’attico sale il tumore affiatico per cui tanti libri
hanno più della milza che del cuore, in cui ogni picciola
fibra ha il suo movimento vivace. Quando l’estensivo non escluda l’intensivo, come
vediamo nella luce meridionale del Sole non si può dire che ne ridondino i raggi.
Ogni mia linea perciò porta seco qualche riflesso; che se poi le nottole se ne offendono,
tal sia di loro che non han tanto lume per sopportarlo. Ma gli asini (secondo Pausania)
col dar di morso alle viti, le resero più feraci;[80] ed i mastini, col mordere
le murici, ferono schizzarne le porpore. Conchiudo con
Marziale, avend’anch’io i miei Cosconi:
Non
sunt lunga quibus nihili est quod demere possis,
sed tu Cosconi distica lunga facis.[81]
Agli epuloni dei libri
A voi, a voi ho imbandita, come le
altre mie, quest’opera, così pingue, con molti manicaretti, e favori, perché so
che siete tanti Tulli, degni di banchettare in Apolline.
Hanno anche le lettere i lor Luculli ed i loro Apicii, che sono di gusto così delicato, come vario. Tali vi
voglio, e perciò mi sforzo di regalarvi al possibile col trattarvi alla grande,
facendovi servire dalle scienze e dalle Muse, che con attilata
puntualità vi trinciano i piatti più superbi, non per lo fumo, ma per lo prezzo,
ed in nappi gioiellati vi assistono a mescere l’ambra pura nell’ambrosia purgata
dell’eloquenza. Io non vi metto in tavola erbaggi di gran rilievo e di poco succhio,
ma cibi di molto costo, comprati da me coll’argento del mio sudor
faticoso e con l’oro della pallidezza, da me contratta, contro al mio naturale,
nel riverbero delle carte. Un gran cavalier, mio intimo amico, allor che voleva
invitar qualche straordinario personaggio, facea tutta
la notte vegghiare i suoi cuochi; e solea dire che il convito dovea misurarsi
colle forze del convitante e colla qualità del convitato. Altretanto
io ne pratico; e perciò non lascio che dormano l’ingegno e ’l giudicio che sono i cucinieri degl’intellettuali banchetti,
per aver sempre alla mensa dell’anima uomini di pezza, e non pezzi d’uomini. Voglio
dei Varroni,[82] che sien
porci delle lettere, e che non abbiano e non appetiscano le lettere da porci: che
mettano il grifo in ogni truogolo grasso e ne sorbano l’erudizione recondita: che
abbiano il sapor di tutte le scienze, come il maiale si dice averlo di tutte le
carni; ma non però che sien sordidi e letaminosi, bensì profumati e politi, come il porcello, nodrito
da Profusio a conto di Spelunchia,
da me descritto nella mia Heroina intrepida.[83] Se non pur ne’ miei Ritratti
critici.[84]
Nel resto voi stupirete che un Lazaro, com’io, tanto presuma, e che si prometta
di convitare con tale apparecchio gli epuloni letterati come voi; ma cessi la maraviglia, perché se un Lazaro bastava a refrigerar la lingua
di un Nineuse con una stilla d’acqua, io mi prometto di
poter ammorzare con tante stille d’inchiostro la vostra sete; giovandomi credere
che chi ha di che dissetarci, possa far anche gli sforzi per trovi la fame, la qual
suol satollata generar la sete. Magnate dunque e bevete,
absque commutatione,[85] ch’io non pretendo altro da
voi che uno state sani.
Ai Lazari
dei libri
Poveri Lazari,
piagati dalla lebbra dell’ignoranza, coperti degli stracci che andate raccogliendo
intorno, cuciti così all’ingrosso e tanto mal commessi che vi fanno comparir ridicoli
più che mal vestiti, vi compatisco, perché non avete capitale. Voi, ch’altro più
non bramate che satollarvi delle molliche, le quali cadono dalle mense laute degli
epuloni letterati, bench’io tanto non presuma che tra
questi mi annoveri (se non è forse per la grande ingordigia che professo nel divorare
i libri) v’invito ad assidervi alla mia tavola e quivi di nodrirvi
a cingolo rilasciato: di più ad entrare in questa farmacopea che apro, tra l’altre mie di tanto spaccio, e di prendere tutti gli unguenti
che vi piace, senza alcun sborso, per far un empiastro alle vostre piaghe scolanti;
perché molti di voi son soliti a farmi quest’onore di valersi de’ miei cataplasmi,
ed anco per corrobborare lo spirito, suggetto ai mancamenti di cuore ed alle vertigini di capo, di
prevalersi de’ miei lattovari.[86] Mi contento inoltre che siate
padroni di questo mio fondaco e prendiate quanto panno vi aggrada, senza misura,
o pagamento, per celar le vostre vergogne, per ristorar le vostre sdrucite tonache,
per ripararvi dalle vostre freddure. Ma che? Sono in obbligo anche di avvertirvi
che i deboli di complessione, come voi, quando mangiano soverchio son suggetti sovente al vomito di ciò che non puon digerire: che uno ch’abbia gli abiti interni logori e vili,
se si mette addosso una buona cappa entra subito in sospetto d’averla rubata, o
che sia presa in prestito. Vi pongo anche sotto il riflesso che medicando colle
mie pezze, e co’ mie’ balsami, le vostre ferite, può facilmente
accadere che i canti critici, de’ quali è il mondo così abbondante, sotto pretesto
di lambirvi coll’adularvi, le scuoprano e le rinfreschino
di modo (come han fatto più volte) che sien giudicate
incurabili. Nientedimeno vi lascio in arbitrio di proseguire l’usanza vostra, e
poiché vi conosco in estrema necessità, mi contento che vi cibiate, vi vestiate
e vi curiate del mio, perché veramente siete poveri di spirito. Iddio v’aiuti e
vi liberi da quella che in voi, più che ne’ poveri di corpo, si può veramente chiamare
turpis aegestas.[87]
Dell’illustrissimo conte Giovan Francesco
Isolani[88] Cavalier primario e senator
bolognese sonetto all’autore.
Di satrapico lusso arti sudate,
ostri rifolgoranti, astri eritrei,
obelischi ostentosi, urne gemmate,
del superbo epulon
furo i trofei.
Ma da falce letal
giacquer troncate
al fin le membra molli ai duri omei;
e lo spirto fellon
l’alme dannate
accrebbe agli atri orror flegetontei.
Qui mentre adusto in rogo eterno strilla,
onde l’Erebo cupo alto risuona,
chi una mica non die’ chiede una stilla.
Or dica (se per lui tutto Elicona,
in così chiaro umor, dolce zampilla)
più che Abram mi negò, Fulvio mi dona.
Economia di quest’opera
L’epulone, opera melodrammatica, con un prologo d’invenzione.
Discorso critico intorno la poesia dramatica.
Parenesi agli Epuloni moderni.
Parenesi alle Zambre moderne.
Moralizzamenti critici sopra alcuni testi del prologo.
Cento Riflessi arguti sopra
alcuni testi dell’opera.
Consolatoria ai moderni Lazari,
per sigillo di essa.
Luxuriem lucris emimus, luxuque rapinas.[89]
Manilius
Lib. 3. Astronomicon
Individui che rappresentano.
Nel prologo.
La ricchezza e la povertà.
La crapula e l’astinenza.
La lussuria e la pudicizia.
La calunnia
e l’innocenza.
L’ateismo e la fede.
Nell’opera.
nineuse
epulone.
bisticcio servo grazioso.
farfalla buffone.
ghiotto parasito.
lazaro povero.
graffio turcimanno d’amore.
zelfa moglie dell’epulone, poi sotto la sembianza
di Silvino pastore.
pellandra vecchia, nutrice di Zelfa.
elidoro amante di Zelfa,
poi sotto la sembianza di Dorilla
pastora.
zambra cortigiana,
sposata dall’eulone.
elcana savio critico.
cospettone sgherro, con alcuni smargiazzi.
Una pitonessa e quattr’ombre.
Due angioli.
Un corriero.
Quattro furie.
abramo.
Coro di pescatori.
Coro di cuochi e di guatteri.
Balletti allusivi.
I.
Quattro
Scimmie, poi rapite da quattro Aquile.
II.
Quattro
Satiri, portati via da quattro Civettoni.
III.
Quattr’Ombre,
che si convertono in altretanti cipressi.
IV.
Turba
di Lapidatori, che danzando si percuotono.
V.
Quattro
Furie, che chiudono l’opera.
Cangiamenti di scene.
1. Atrio di palazzo dell’epulone.
2. Giardino appresso il palazzo.
3. Stanze e camera di Zambra.
4. Palazzo in prospettiva.
5. Gallerie, o sia loggie.
6. Boschetto.
7. Prigione interiore.
8. Torrente con dirupi.
9. Anfiteatro.
10. Casino in prospetto, con giardino e
fontane.
11. Bosco.
12. Carcere sotterraneo.
13. Cortil rustico.
14. Serraglio di fere.
15. Stagno.
16. Inferno e Limbo.
La scena è Gerusalemme, coi sobborghi.
Prologo
Esce
la Ricchezza.
ricchezza Io
sono, io son colei,
a
cui tutto si piega ed ubbidisce:
mi
conoscete pure a l’auree strisce,
che
sparge il bel fulgor dei lampi miei.
5 Son io la Ricchezza,
del
mondo la possa:
dal
forte mio braccio[90]
la
casta Bellezza,
la
Fede ha la scossa.
10 Io compro l’onore:
al
mio gran calore
si
strugge ogni ghiaccio:
al
mio gran vigore
la
selce si spezza,
15 ogni alma è commossa.
Io
son la Ricchezza,
del
mondo la possa.
Esce
la Povertà.
povertà Son io la Povertà,
che
vo nuda e gemente,
20 in questa fredda età,
per
l’avarizia algente.
Questi
cenci stracciosi,
questi
occhi lacrimosi,
son
caratteri miei.
25 Io mi pasco d’omei,[91]
e
di mie crude brame
si
nutrisce la fame.
Il
ventre mi rugge,
la
noia mi svena,
30 la colpa mi fugge,
mi
siegue la pena.
Ognuno
m’abborre,
ognun
mi trascorre;
e
dei ricchi ostelli
35 le porte ferrate
mi
stridon, serrate
da
rei chiavistelli.
Nessuno
mi dà,
nessuno
mi sente.
40 Son io la Povertà,
che
vo nuda, e gemente.
Esce
la Crapula.
crapula Io son la Crapula ghiotta,
grossa,
tonda e regalata.
A
tal segno son ridotta,
45 che non posso più gonfiata.
Il
mio ventre pieno e duro
serve
a me di gran tamburo;
su
cui suono fortemente
a
la guerra che fa il dente.[92]
50 Altra cura, altro pensiero
il
mio cor mai non si piglia,
che
di stare in gozzoviglia
col
rinfresco del bicchiero.
Di
saper a me non cale,
55 pur ch’io magni e beva in
tuono:[93]
il
mio grasso bello e buono
unge
sempre ogni stivale;[94]
e
perché mia gola inghiotta
mi
fo serva scorporata.[95]
60 Io son la Crapula ghiotta,
grossa
tonda e regalata.
Esce
l’Astinenza.
astinenza Ed io son l’Astinenza
smunta,
e non posso più;
ma
sol ne l’apparenza,
65 che son tutta virtù.
La
Continenza bella
è
mia cara sorella:
la
Penitenza austera
è
mia madre severa.
70 Son de la Povertà
compagna
indissolubile:
senza
me la Pietà
è
caduca e volubile.
Ma se ben di rose molli
75 non infioro il lieto viso;
come
fregi osceni e folli
le
detesta il mio sorriso,
che,
spuntando il divin Sole,
sopra
i miei labri aduggiati,
80 ai
di lui raggi beati
nascer
fa gigli e viole.
Tale
il mio genio fu:
questa
è di me l’essenza;
perch’io son l’Astinenza
85 smunta, e non posso più;
ma
sol ne l’apparenza,
che
son tutta virtù.
Esce
la Lussuria.
lussuria Ed io son la Lussuria,
figlia
del Senso indomita:
90 son l’amorosa furia,
che
vischio e fuoco vomita.
Son
una dolce insania,
son
un tormento amabile:
una
tenace pania,
95 un gorgo insaziabile.
Son
una febbre cronica,
una
lionza orribile,
una
sirena armonica,
son
un’arpia terribile.
100 Nemica
de l’Empireo,
con
disprezzo venereo
gli
volto infida gli omeri:
al
celibato i vomeri,
co’
miei sali mortiferi
105 anche
rendo infruttiferi.
Scema
la morte semino
tra
sfinimenti sordidi,
e
negli affetti morbidi
la
colpa ognor congemino.[96]
110 Con trombe di baci,
lascivi
e sonori,
destar
so gli amori
osceni
e fugaci.
Mia
pace è guerriera,
115 pugnando m’adagio:
mia
guerra è paciera,
ch’io
pugno ne l’agio.
Alor che vo più in furia
resto
vinta e non domita:
120 perch’io son
la Lussuria,
figlia
del Senso indomita.
Esce
la Pudicizia.
pudicizia
Io son la Pudicizia,
ch’in
seno a’ gigli nasco:
sempre
tra gigli pasco
125 d’una
vera letizia.
Non
mai mi lascio cogliere,
perché
son rosa occulta:
son
fanciulla anche adulta,
e
’l mio cinto può sciogliere
130 sol
man fedel e pura,
su
cui l’anima giura.
Non
son già fragil calamo,
ben
sì colonna forte:
se
ben con rara sorte
135 d’Imeneo
reggo il talamo.
La
fedeltà mi guida,
ed
il candor mi seguita;
son
colomba che snida,
se
l’astor mi perseguita;
140 e con
veloci vanni
fuggo
gl’infid’inganni:
e
con rivolti artigli
mi
schermisco ai perigli.
Ohimè
quante perfidie,
145 dovunque
io son, ritrovo!
Pochi
gli amici provo,
molte
e strane le insidie.
Gli
stessi consanguinei
ver
me talor cospirano,
150 e tra
miei fior s’aggirano
taciturni
e anguinei.
Talor
costante uccisa
risorgo
ancor più bella,
benché
sanguinea stella,
155 non
mai dal ciel divisa;
e
con lieta mestizia
muoro,
ma poi rinasco:
io
son la Pudicizia,
che
in seno a’ gigli nasco.
Esce
la Calunnia.
160 calunnia Io, che d’atro color la faccia tingo,
son
la Calunnia fiera e tortuosa,
che
con livide mischie il falso pingo;
bugiarda,
lusinghiera e cavillosa
fina
per l’artificio
165 sembro
virtù zelante;
pur al bene gelante
son dispietato vizio.
Io scandalo d’ogni astro;
mentre tingo, son tinta:
170 mentre
dipingo, impiastro;
mentre fingo, son finta.
L’Odio mi generò,
l’Ira mi partorì:
il Livor mi
lattò
175 l’Invidia
mi nodrì.
M’instrusse
la Frode,
vestimmi l’Inganno
del più tetro panno,
che tesse il Sospetto,
180 che
cuce il Dispetto
maligno,
che gode,
qualor vegga il male,
qual serpe letale,
ravvolgersi al giusto
185 afflitto
ed angusto,
ch’io tutta astiosa
perseguito e stringo:
son la Calunnia fiera e tortuosa,
io,
che d’atro color la faccia tingo.
Esce
l’Innocenza.
190 innocenza Son l’Innocenza, mal conosciuta,[97]
benché sì bella, da pochi
amata:
da l’Odio vengo calunniata:
nessun m’accoglie: nessun
m’aiuta.
A questi fiori, qual Primavera,
195 sembra
ch’io rida tra le tempeste;
e del mio core le noie meste
mi rasserena l’aura ch’ei
spera.
Pur da me stessa resa sicura
mi raddolcisco tra le amarezze:
200 e coltivata
fra le asperezze
l’arte confondo con la natura.
Tra le spine che le affollano,
le mie rose ognor
rampollano;
e tra i nembi che gli offendono
205 anche
più miei raggi splendono.
Pur tanti mi scherniscono
con dispettosi aspetti:
pur tanti mi feriscono
co’
velenosi affetti.
210 Non
errai, pur errante
me ne vo, piagata e lacera:
calcata e non calcante,
più assai la Fama infame,
che la vorace fame,
215 il
cor mi preme e macera.
Ma Iddio che ’l tutto sa,
che ’l tutto vede,
il giudice sarà de la mia fede;
e livida impostura al mio candore
qual nube al Sol, accrescerà il fulgore.
220 Deluso
il mondo ch’or mi rifiuta,
vedrammi
al fine dal ciel pregiata:
son l’Innocenza mal conosciuta,
benché sia bella, da pochi amata.
Esce
l’Ateismo.
ateismo Io
l’Ateismo son, che il ciel disprezzo,
225 e nel
soglio stellante impugno Dio:
a la bestemmia forsennata
avvezzo,
per nume ho ’l Caso incerto,
il Fato rio.
De’ cori imperversati amabil vezzo,
tolgo il timor ch’al fin
si paghi ’l fio,[98]
230 se
de l’alma la morte al bell’ingegno
co’
sofismi del senso arguto insegno.
De l’eloquenza a l’arte,
con cui parlo facondo
commosso, arreso il mondo
235 mi
siegue e crede in parte,
senza legge penosa, incerta
ed atra,
non più superstizioso ed
idolatra.
Per me ministri e regi,
con sagace analitica,
240 appreser la politica[99]
che lor accrebbe i fregi.
Al mio scettrato imperio
l’Infedeltà ubbidisce,
s’accresce l’Adulterio,
245 la
Lussuria gioisce:
la Superbia s’estolle,
l’Avarizia multiplica;
la Calunnia fruttifica,
la Crapula più bolle;
250 quand’io
con artifizio
sono il padre del vizio:
così mi rendo in prezzo,
e prendo ognor
più brio.
Io l’Ateismo son, che ’l
ciel disprezzo,
255 e nel
soglio stellante impugno Dio.
Esce
la Fede.
fede Io sono, io son la Fede,
che tanto vede più, quanto
men vede,
perché con occhio puro e
aquilino,
se quaggiù lippo o cieco,
260 ma
non mai torvo o bieco,
veggo,
s’innalzo il volo, il Sol divino:
che, se ’l corporeo lume
è corto e infetto,
supplisce il teologal de l’intelletto.
De le virtù reina imperiale
265 su
trono di diamante alta m’affido:
son candida colomba, e spiego
l’ale
de la gloria sovrana al chiaro
nido.
Se non ho grazia, il bello
mio non vale,
e senza l’opre in mio pensier è infido:
270 sperabili
oggetti unica essenza,
ed argomento lor senza apparenza.
Speranza e Caritade
l’un e l’altra m’è suora;
questa è Sol che non cade;
275 quella
è Luna crescente, ed io l’aurora.
Io l’aurora rugiadosa,
cui la notte cede il campo,
mentre fugge palpitosa
al balen d’ogni
mio lampo,
280 che
brillando eccelso e vero
al mortale passeggiere,
se vacilla, il più assicura,
e la vista accende pura.
Io son, io son la Fede,
285 che
tanto vede più, quanto men vede.
ricchezza Olà, che larva è quella?[100]
povertà Larva se’ tu, perché tosto sparisci.
ricchezza E tanto, folle, ardisci?
Povera
femminella,
290 sgombra di qua, ch’io te soffrir non posso,
con
tanti stracci addosso!
povertà Sgombra,
sgombra pur tu,
superba,
ladra, oscena:
de’
falli tuoi la pena
295 oggi non tarda più.
ricchezza E
t’inoltro così povera altera?
povertà Son
Amazone nuda, ma guerriera:
non
ti temo, ch’ho un cor pien di
speranza.
ricchezza Aspetta!
Io punirò tanta baldanza.
Qui
si battono con le spade.
300 povertà A te questa!
ricchezza Ahimè, ferma!
povertà Ah
t’ho rispinta!
ricchezza Non
più, non più: son vinta.
Qui
s’apre il suolo e tranghiottisce la Ricchezza.
povertà Va’
pur, empia, a provar tormento eterno,
poiché
de l’oro il centro è al fin l’inferno![101]
Qui
resta a parte la Povertà spettatrice.
crapula Se vinta è la Ricchezza,
305 che farò?
Temerò
che
vada a fondo ancora
questa che in me s’indora
corporuta pinguezza?
310 Non son già di ricotta,
ma
porto il pett’a botta,[102]
né
mi mette paura
questa
falsa figura,
poich’ella a pena ha fiato:
315 sol se non mi colpisse nel palato.
astinenza A noi monna
zambracca![103]
non
son io, come pensi, or così fiacca.
crapula Tira
pur!
astinenza Vibra pur!
crapula Ohimè
la gola!
astinenza Non
sarà questa sola.
320 crapula Oh schermitrice scaltra!
astinenza Codarda! Eccone un’altra!
crapula Mi
pesa troppo il ventre.
astinenza Pur che mia spada v’entre
tel farò ben calare.
325 Questa volta il tuo spiedo a te non serve.
crapula Pur
è la mia difesa: oh che proterve
stelle!
Ahi, ahi, ahi! Oh che punta intestina!
astinenza Ti
diei ne la tettina,
non
potrai più lattare.
330 crapula Ferma un po’, se ti pare,
lasciami
respirar: se troppo forte...
astinenza Io
vo’ darti la morte:
non
fe’ mai teco l’Astinenza pace.
crapula Ohimè!
La gola ancor tu m’hai trafitta.
335 astinenza Ti scannai, come scrofa, e t’ho sconfitta.
crapula Son
morta.
astinenza Ed io son viva.
D’Acheronte
a la riva
scendi
a ber,
crapula Ah crudele!
astinenza dopo
tanto mangiar, un vin di fiele.
Qui si profonda la Crapula
e l’Astinenza si ritira a parte.
340 ateismo Che farem
noi, se spente
son
già due nostre Amazoni sì brave?
lussuria Pugniam unitamente.
calunnia Il
mio petto non pave: è di macigno.
ateismo Oh
che fato maligno!
345 Non mai più, come qui, tremommi ’l core.
fede Coraggio
amiche! A l’infernale orrore
faciam piombar questo funereo mostro,
che
veste bisso ed ostro,[104]
e
con l’empie seguaci,
350 confiniamo de l’Orco ai seni opaci.[105]
pudicizia e Ecco
di pronte ad eternar tue glorie!
innocenza Nostre le
palme son, tue le vittorie.
Qui si battono tre contra
tre; indi (soccorrendo la Povertà e l’Astinenza le compagne) restano l’Ateismo,
con la Lussuria e colla Calunnia, vinti ed absorti.
povertà, Oggi
quaggiù trionfano
astinenza, i
decreti adorabili:
355 pudicizia, né più tetri si gonfiano
innocenza i vizi abbominabili.
e fede A
l’epulon, rubelle
del
ciel, guerre fulminee
oggi
saran le stelle,
360 agli aspetti sanguinee,[106]
onde
la vita misera
sia
tronca a questo Sisera;[107]
e
Providenza eterna
farà
veder che giusto Iddio governa.
Il
fine del Prologo.
ARGOMENTO
Sant’Ireneo, Origene, Tertulliano,[108] con altri molti, opinarono
che il racconto vangelico dell’epulone fosse storia seguita
e non semplice parabola.[109] Eutimio, tra quelli, ne specifica
il nome, attestando che si chiamasse Nineuse. Il più probabil è che fosse fatto seguito, ma parabolicamente da Cristo
vangelizzante adornato. Questo serve di fondamento alla
favola, misticamente misteriosa, del drama, la quale,
come verisimile nella struttura, ha per fondamento la verità nel fatto. Si finge
dunque l’epulone, come quello che si suppone il Sardanapalo della Giudea, impaniato
nelle sue delizie, ravvolto ne’ suoi delitti, rivolto incostantemente agli amori
osceni; e perché (secondo la massima del senso alla ragion rubelle):
Nel
convito d’amor quell’alma è saggia
che
satolla di un cibo un altro assaggia:
Egli,
che sopra modo fu intento a compiacere le svogliatezze della sua gola, in conseguenza
fu probabilmente proclivo a contentar l’esigenza della
sua libidine, percioché la Lascivia suol esser la primogenita della Crapula. Innamora dunque di
Zambra cortigiana, e perciò sopra l’esser donna vana ed interessata, anche più infedele,
come prostituta. Quindi si macchina con arti solite l’eccidio a Zelfa, moglie dell’empio, così onesta, come bella; onde sollecitata
da Elidoro, che serve di zimbello innocente a farla cogliere
dalla malizia dell’impostura, vien condannata di adultera e destinata alle pietre,
dalle quali si sottrae per industria dell’amante, da cui per serbar fede al marito
e per non obbligarsi grata al suo liberatore, s’invola, e rincontratolo, a lui con
artificio si niega. Succedono varie curiosissime peripezie,
che conducono l’epulone, con Zambra ad una morte improvisa,
ed Elidoro e Zelfa al matrimonio
bramato.
Atrio
di palagio.
SCENA I
Nineuse, Bisticcio e Farfalla.
nineuse Olà canaglia, olà!
bisticcio Padron
siam tutti qui.
nineuse Dov’è
il buffon? Che fa?
farfalla Signor
vi do il buondì.
5 nineuse E
Ghiotto ove n’andò?
farfalla Non
è tempo di tavola
(mi
disse pur testè)
non do a parole fé:
quando
si magnerà, mi produrrò.
10 nineuse Egli
è un gran parasito.
farfalla Credo
che sia l’eroe de l’appetito.
Con
quella sua boccaccia sgangherata
divorerebbe
un’asina salata:
e
poi si fa de l’Andromaco,[110]
15 in
dir che non magnò.
bisticcio Ha
ben ragion di dirlo: egl’ingoiò.
farfalla Oh
che trippa! Oh che stomaco!
I
suoi denti,
arcifrementi,
20 dov’ei
sia
nascer
fan la carestia;
assassin de la dispensa,
gran
guerriero in su la mensa,
ma
leccardo,
25 fa
ne’ piatti ’l Mandricardo.
E
di Bacco palladino
a
la botte dà il bottino.
nineuse Non è ver: tu se’ matto,
ch’egli non sa colpir sol che di piatto.[111]
30 farfalla La
scorporata sua cupa ingordagine
è
un pelago, un abisso, una voragine.
nineuse Porta
il zizzalardon con le sue brame,[112]
de
la sua guerra effetti e peste e fame.
farfalla Sì,
ch’altro ei non sa fare,
35 per
poter magnar tutto,
a
l’armonia del rutto,
che
riveder i conti e non pagare.
bisticcio Egli
è un grand’aritmetico,
e
quando siam in desco,
40 ebbro
ebreo, qual tedesco,
slacciato
il corpaccion tronfo e patetico,
mentre
in bianco restar ci fa il vin nero,
forma
sopra il boccal zero via zero.[113]
nineuse Non
più lingue affilate,
45 perché
troppo tagliate.
farfalla Signor!
Noi con le lingue, ed ei coi denti.
SCENA
II
Ghiotto
ed i sudetti.
ghiotto Ecco qui buffon! Tu te ne menti.
farfalla Mentite
a me?
ghiotto Mentite
a te!
farfalla Ma
chi se’ tu!
5 ghiotto Di
te, per ogni conto, molto di più.
farfalla Ed
in che? Dove? Quando? E con qual modo?
nineuse Oh
quanto, oh come godo!
ghiotto Nel
proceder con garbo, e con crianza.
farfalla Oibò!
Vuoi dire nel far forze di panza.
10 ghiotto Tu
menti, o lingua stolta!
farfalla Mio
caro Ghiotto ascolta!
Accetto
la mentita,[114]
ancorché
inviperita,
perché
so ben che la tua bocca sola
15 mi
può tirar stoccate ne la gola.
bisticcio La
rogna è ne le capre:
si scardassano il pelo: oh che buffoni!
Cozzan come montoni: ognun si scorna:
e
in questa casa mai non mancan corna.
20 ghiotto Farfalla
non mi offende,
seben co’ detti suoi l’onor mi fende:
perché
l’onor è una mera chimera:[115]
e
solo il crapulare,
purché
non sia crepare,
25 è
diletto costante e virtù vera:
per
questo così ben mia lingua frizza,
e
suol filosofar chi epicurizza.
farfalla Noi siamo sempre insieme,
si
scherza e si strambotta,
30 e
Ghiotto temulento mai non teme,
ch’ha
la cotenna grossa e ’l pett’a botta.[116]
nineuse Or
va, buffon mio bello,
col
tuo Ghiotto a far pace un po’ in tinello!
bisticcio Il
suo bravo corpaccio
35 non
la farà perciò mai col tinaccio.
ghiotto È
ver che mai non langue
la
mia vena in succhiare a Bacco il sangue.
nineuse Andate
pur andate!
Bevete!
Scialaqquate!
40 Ch’io
volentieri al vostro umor m’aggiusto,
e
gusto di nutrir chi ha sì buon gusto.
nineuse, In questa vita,
ghiotto, fugace
sì,
farfalla ma dilettosa,
45 e bisticcio non passi
dì
che
non si colga
che
non si tolga
d’amor
la rosa
che
a noi fiorì;
50 perché
poi langue,
svenuta,
esangue
sul
verde stelo,
alor che ’l gelo
d’età
severa
55 verso
la sera
la scolorì.
Se
’l Senso invita,
non
sia tradita
la
carne amata,
60 ma
regalata
viva
quaggiù;
poiché lassù,
l’alma
che muore, piacer non ha,
e
sogno vano è l’eternità.[117]
65 nineuse Or
tu, mio caro Ghiotto,
ordina,
protomastro di cucina,[118]
un
prando stamattina,
che
sia degno del tuo ventre ingegniero,
del
mio stomaco altero,
70 ch’io
sin d’ier ho invitata
la
mia bella fedele,
la
mia Zambra adorata,
ch’ordisce
al mio piacer sì ricche tele,
con
le maniere sue vezzose e tenere;
75 ond’io, novel Lucullo
con
soave trastullo,
in
Apolline no, banchetto in Venere.
ghiotto Con
questa mia golaccia architettonica
dissegnerò deliziose macchine:
80 sien i denti arrotati a franger macine,
io, ch’Archimede son d’arte gnatonica,[119]
farò
cader con unta matematica
de
la frugalità l’alta prammatica.
bisticcio Oh
questa sì ch’è fina!
85 Zambra
in casa oggi pranza,
non
mancherà vaccina.[120]
nineuse Farfalla olà. Fa’ ben cibar que’ cani,[121]
che
son del genio mio caro diporto:
mira
che non m’irriti!
90 Si
smembri lor una vitella intera.
farfalla La
mia cura severa
meglio
che voi, signor, gli tien nodriti.
bisticcio Oh
questa sì ch’è bella!
Al
padron la vaccina, ai can vitella.
SCENA
III
Lazaro,
Nineuse, Bisticcio e Graffio.
lazaro Signor, pietà, pietade![122]
Ecco
il povero afflitto,
da la fame trafitto,
ch’ai
piè mesto vi cade.
5 Queste
piaghe rodenti
parlano
a’ miei lamenti,
e
’l mio morboso affanno
pur
palese vi fanno:
sì
che dirvelo (oh Dio!) più non accade.
10 Signor,
pietà, pietade!
nineuse Bisticcio,
a la mia grata,
a
la mia cara Zambra
vanne
veloce, ed il buon dì le arreca,
mio
paraninfo, e dì ch’io vado a lei,
15 per
dar più lieto il giorno a gl’occhi miei.
bisticcio Vado
levrier.[123]
nineuse Fermati! Un dolce
messo
de
la mia diva a me sen vien espresso.
graffio Generoso
Nineuse,
gloria
de’ cavalier, pompa del fasto,
20 al
cui purpureo manto
s’abbaglia
il sol, che ascende al suo meriggio:
Zambra,
la vostra Zambra,
che
di Solima è Flora, a voi s’inchina,[124]
oracolo
d’amore,
25 di
Venere sibilla:
stella
che solo a voi fulgida brilla.
Con
augurio sviscerato
ella
a voi manda il buondì
e
un viglietto, profumato
30 da la sua man vezzosa: eccolo qui!
Oh che felicità
contra
ogni morbo erotico
è
il dominio despotico
di
sì rara beltà!
35 nineuse O
me felice! In queste linee belle,
foriere
del mio Sol, leggo le stelle.
O
caratteri cari!
Fumo
del foco mio, strisce de l’alba,
io
vi bacio, io vi succhio e da voi suggo,
40 l’alimento
del cor, latte d’amore!
bisticcio Questa
signora Zambra
s’attacca
più che non fa paglia a l’ambra.[125]
lazaro Signor,
pietà, pietade!
Estenuato
e lasso
45 a
dar non vaglio un passo:
la
fame, ahi, mi tormenta,
il
dolor si fermenta
ne la mia carne trita,
onde
tutta una piaga è la mia vita,
50 la
mia vita che cade:
signor,
pietà, pietade!
nineuse Cento
scudi a me chiede
la
mia diletta Zambra;
ma
questo è poco premio a la sua fede.
55 bisticcio Io
mel pensai di lancio,
tosto
che vidi ’l messo:
questi
è un corbo che vien dalla carogna,
ed
a metter per tutto il becco agogna:
uncinato
avoltore,
60 grifo
de la cornacchia ambasciadore.
lazaro Signor,
per carità,
io
vi chieggo pietà!
graffio Legge
Nineuse attento,
ed
oh con qual contento!
65 Saporita è la lettera inviata.
bisticcio Gli
costerà salata!
Tutt’il sangue de la cassa
smugner vuol questa mignatta:
dì
non passa
70 che
non faccia qualche tratta.
Insomma
non può stare
la
femmina: o che pela, o fa pelare!
nineuse Torna
Bisticcio in casa,
e
fa’ che il tesoriere
75 cento
scudi ti conti
per
dargli a Zambra sfolgorati e pronti.
bisticcio Io
vado ratto. O fortunata femmina,
che
miete il dì ciò che la notte semina!
graffio Io
men vo a darle avviso,
80 che
i contanti fan l’ale a l’improviso.
nineuse Va’
pur mio Graffio, e dille
che
se non bastan cento, saran mille,
pur
ch’ella m’ami, e solo,
come
stella fedel, m’abbia per polo.
85 graffio Di
questo, padron mio, siate pur certo,
credetelo
a Roberto,[126]
che
Zambra è stella fida,
e
solo ha voi per meta:
oh
che milenso! A tutti ella è cometa.[127]
90 lazaro Signor,
pietà, mercé!
Soffrir
non posso (ahimè!)
de
l’adulto palato
il
prurito affamato.
Eccomi
qui languente,
95 Lazaro
afflitto e lasso,
che sol mi resta a far l’ultimo passo,
più
per la povertà, che per le piaghe
aborrito
e fetente:
mi
rode il cor, perché non rode il dente,
100 che sul tremulo labro appar qual è:
signor,
pietà, mercé!
nineuse Taci
sozzo, poltrone![128]
Non
mi stordir: che gente da bastone!
SCENA
IV
Lazaro
solo.
lazaro Oh
tormentosa ed odievol
vita!
Sprezzata Povertà
più non trova pietà, se cerca aita.
O Lazaro infelice!
5 Invan tua bocca
elice
lacrimose querele
a l’uscio di un crudele,
che le tue piaghe flebili,
al pianto, al sospirar sono indelebili.
10 Invan riedo affamato,
invan gemo piagato
al
varco infesto del palagio infausto,
in
cui Nineuse alberga,
che
ognun mi dà le terga;
15 ed
il ricco fastoso,
al
cenno imperioso,
mi
sgrida e mi flagella
con
torvo guardo e ruvida favella:
sì
che mie piaghe flebili,
20 al
piano, al sospirar sono indelebili.
Di
parasiti e sgherri
al
motteggio sfacciato,
al
corteggio spietato,
stando
a la lauta mensa
25 severamente
assiso,
ottura
al mio pregar l’orecchio d’angue,
mentre
ai mastin dispensa
le
saporite carne, i grassi polli:
ed
io con gli occhi molli
30 chiedo
invan di raccor quella che avanza,
trascurata
sostanza
di
reliquie di pane,
che
la rifiuta un cane;
ma
le mie plaghe flebili,
35 al
pianto, al sospirar sono indelebili.
SCENA
V
Bisticcio
e Lazaro.
bisticcio Oh
che strana passionaccia
questo
mio padrone ha in testa!
Ogni
voglia disonesta
strettamente
il cor gli allaccia:
5 oh
che strana passionaccia!
Egli
è un can d’ogni macello,
un
taffan da tutte rozze,
un
mastin di tutte nozze,
d’ogni
ancudine martello:
10 egli
è un can d’ogni macello.
Questa
Zambra inzuccherata
vende
cari i suoi confetti;
come
pillole ha i risetti[129]
su
la bocca inorpellata:
15 questa
Zambra inzuccherata.
Mio
padron fedel la stima,
che
gli sia di corpo e d’alma:
pur
è nave da ogni salma,
pur
è ferro da ogni lima:
20 mio
padron fedel la stima.
Cento
scudi strapiccanti
porto
a lui per quell’ingorda,
che
dà corda e non s’accorda
sol
che al suono dei contanti:
25 cento
scudi strapiccanti.
lazaro Ahi,
chi mi dà un ristoro?
Di
fame, di dolor, misero, io muoro!
bisticcio Ecco
qui la fantasma,
lo
spedal camminante,
30 il
calcabil calcante,
il
fondaco del canchero e de l’asma!
lazaro Ahi,
chi mi dà un conforto?
bisticcio Va’
via ser Collotorto.
Tu
sei un cialtrone,
35 un
sacco d’inganni,
un
ceffo di zanni,
e
fai del santone:
tu
sei un cialtrone![130]
SCENA
VI
Lazaro
solo.
lazaro Sia per amor di voi, Nume sovrano!
purché
la vostra mano
tenga
a fren questo mio spirto gemente,
il
cor non si risente.
5 Ingiuriosi
torti, aspri rigori,
si cangeranno in trionfali onori.
Questa
mendicità che ognun disprezza,
diverrà
mia ricchezza:
salvisi l’alma e ’l fior non tolga il frutto;
10 che,
se la gloria è stella, è porto il flutto.[131]
Anch’io
mi vidi mescere
da
Fortuna ridente
piaceri
in tazza d’or;
ma
ricusò di crescere
15 con
periglio eminente
al
precipizio il cor:
quand’infelice
e povero
da
tutti derelitto,
da
ogni alloggio proscritto,
20 nel
ciel ho con la speme alto ricovero.
Le
mie brame fameliche
del
petto estenuato
fanno
scempio crudel,
ma
tra le schiere angeliche
25 risarcirò
inostrato
questo
lacero vel.
Chi
giunto al fin persevera,
tra
gli scherni avvilito,
poi
d’onor arricchito,
30 al
nettare divin lo spirto abbevera.
SCENA
VII
Zelfa sola.
Giardino.
zelfa A quest’aure gementi,
a
questi fior ridenti,
sfogherò
il mio dolor col pianto amaro.
O
mia mesta bellezza,
5 che
val tua fulgidezza?
Se
vil sembri al mio crudo, e pur sì caro!
O
mostro ingrato,
Nineuse amato,
chi
t’insegnò
10 tradir
la legge,
che
la Natura
candida
e pura
d’onor fregiò?
Zelfa avvilita,
15 sposa
aborrita,
pera
quel dì:
quel
dì funesto,
quel
giorno infesto,
che
ad empio schermo
20 l’alvo
materno
ti
partorì.
Piangete
occhi miei tepidi
le
notti fredde, e stupide,
i
Soli solitari,
25 gli
astri protervi e rigidi,
le
Lune infauste e gelide
che
’l mio fior infruttifero
con
ombre meste aduggiano!
Ah
mi sommergano
30 sospiri
e lacrime,
che
m’improcellano
lo
spirto esanime!
È
tormento
l’alimento
35 che
al respiro il fiato germina:
e
sia sorte
sol
la morte,
ch’ogni
mal pietosa termina.
SCENA
VIII
Pellandra, Elidoro
a parte e Zelfa.
pellandra Mentr’ella al pianto molle il fren
rilascia
su
l’onte maritali,
soppiattatevi
qui bello Elidoro,
ch’io
me ne vo per consolarla ad uopo:
5 ma
sia l’unico scopo
il
far per voi d’amor frizzar gli strali.
Scaltro
dunque attendete
la
fera al varco, e quando a voi s’appunti,
comparite
a ferir la feritrice,
10 che
bellezza oratrice
tra
gli amorosi dardi è il più piagante
de
l’arco di un amante.
Ella
tace al singhiozzo,
m’appresso
e col mio fil nel laberinto
15 di
ben arduo procinto
scaltramente
ufficiosa or or vi guido.
elidoro Cara
Pellandra a voi tutto m’affido.
pellandra Zelfa, signora amata,
perché
tanto sconforto?
20 Per
un indegno? A torto
la
vostr’alma agitata
si
strugge inutilmente:
che
s’ei le fiamme ha spente
per
voi, non le ravviva
25 un’anima
spirante ad alma schifa.
Un
connubio ineguale
strinse
al lupo l’agnella,
al
can la pecorella,
l’ermellina al cinghiale.
30 Io
compatisco il vostro fiore in erba:
questa
beltà negletta,
per
gli affanni, e per gli anni,
è
doppiamente acerba.
Dunque,
che più s’aspetta
35 da
una saggia vendetta,
se
troppo chiari sono i disinganni?
zelfa Madre,
ah madre, (che tale
da
voi succhiai col latte ’l nome, a cui
crebbe
l’affetto mio di figlia aggiunto
40 con
insensibil senso) io gemo afflitta
ben
con ragion, offesa,
lasciata
e vilipesa,
né
val per me consiglio.
Son
io colomba, e pure amo l’artiglio
45 d’un
avoltor rapace
che
mi rubò col core ogni mia pace.
È
destino fatale
ch’io
sia fida a un ingrato
con
onestà leale:
50 basta
che ’l cielo a lui m’abbia legato.
pellandra Pertinace
follia
è
la fé che tormenta e non ha palma.
Figlia,
questa vostr’alma,
fatta
de l’odio amante,
55 ostinata
dirò, più che costante,
chi
la tradisce apprezza,
chi
l’apprezza deride,
chi
l’idolatra ancide.
Ah
gioite, or che v’alletta
60 a
goder l’età vezzosa;
che
marcisce al fin la rosa,
se
lo stel la tien negletta.
Fortuna
è femmina,
chiomata
è giovine,
65 ma
vecchia incalvasi,
né
si può prendere,
qualor le cadano
i
crini argentei.
Or
che ’l pel sì prezioso
70 vi
biondeggia, o figlia, in oro,
di
chi ’l pregia sia tesoro,
se
’l disprezza un ferreo sposo.
Da
chi è saggia, come vaga,
con
amore amor si paga.
75 Che
dite, o cara figlia?
Perché
torva torcete
contro
a chi vi consiglia
amorosa
quiete,
se
pria nebbiose, or le fulminee ciglia?
80 zelfa Pellandra e non più madre,
poiché
’l latte in velen belva cangiasti,
ah
come delirasti!
O
Pudicizia,
fregio
de l’anima,
85 tanto
più nobile
quanto
più immobile,
deh
tu perdonami,
se
troppo offesiti
nel
tutto attendere
90 de
l’Orco il vomito!
Parti
da me larva di Stige immonda,
ch’io
ti detesto, orribilmente esosa;
tu
se’ l’arpia del più spietato artiglio:
si sfiori pur di mia beltà la rosa,
95 purché
de l’onor mio fiorisca il giglio.
pellandra Mia
signora, frenate
il
furor! Ascoltate!
zelfa Non
più, non più! Poiché partir non vuoi,
mi
sottraggo veloce agli occhi tuoi!
SCENA IX
Pellandra
ed Elidoro.
pellandra Furor di giovinetta,
che
inesperta vaneggia,
che
gelosa fumeggia,
accesa
a la vendetta,
5 foco
è di paglia e nebbia mattutina,
che
al soffio si dilegua e cade in brina.
Ecco
Elidoro afflitto! Ei quereloso
ver
me ritorce il guardo,
e
col passo tremante il piè ritroso;
10 ma
con traccia novella
io, che sono d’amor la Farinella,[132]
l’avvolgerò,
poiché si facil crede.
elidoro Ah
Pellandra bugiarda! Io prestar fede
a
voi! Più non sia mai. Troppo deluso
15 m’ha
il vostro inganno. Andate a trattar suso,
senza
più maneggiar trame amorose!
pellandra Deh
mio bello Elidoro
temprate
il vostro sdegno,
che
’l mio schernito ingegno
20 da
le proprie ruine ha il suo ristoro!
elidoro Ah
vecchia fementita.[133]
Molto
voi promettete,
ma
poi nulla farete.
pellandra Farò,
ma vi consiglio
25 meco
ad aver più penna e meno artiglio.[134]
elidoro Or
venite al punto,
che
già linea sembrate, ancorché curva![135]
pellandra Son
curva a sostener il vostro amore.
elidoro No!
Per formar un arco al mio dolore.
30 pellandra Arco
son io, ma per ferir colei
che
con superbia pazza,
chi
l’invita a gioir così strapazza.
Udite
pur! Ella non così mai
risentita
parlommi. Al fin la donna
35 cangia
spesso il pensier, come la gonna;[136]
ma
non perciò s’ha da ristar: coraggio;
che
se bellezza è un maggio,
ha
i suoi tuoni, ma poi certo il sereno,
ed
il fulmine suo scocca in baleno.
40 elidoro Lusinghiere
menzogne!
Non
più raggiri no! Che conchiudete?
pellandra Pazienza!
Attendete!
Io,
che l’umor di Zelfa ho ben compreso,
so
ch’ella suol mutarsi ad ogni tasto,
45 e
non, come la lingua, il core ha casto.
È
la femina cangiante,
perché
varia il suo cervello:
quando
più fa la costante,
alor più dà nel zimbello.
50 Se
somiglia a una Diana,
come
Luna ancor è vana,
e
sa ben dare le occasioni
per
far cervi gli Ateoni:
or
è scema ed or ritorna,
55 che
ogni mese fa le corna.[137]
elidoro Deh
finitela omai, vecchia importuna,
con
questa vostra Luna!
pellandra Elidoro avvampante,
Zelfa gelosa è ben, ma non gelata.
60 Quel
suo fasto astioso
è
fumo che svanisce a una soffiata.
Ha
l’animuccia in carne: or tanto basta,
perché
formata sia di fragil pasta.
elidoro Oh
che noiosa cronica è costei!
65 pellandra Ecco
i consigli miei!
Zelfa suol ricovrarsi
nel
boschetto a cantar sotto il meriggio,
per
esalar le sue noiose ambasce;
ed
oggi a punto, a punto,
70 che
Zambra in casa a gongolar ne viene,
è
giusto il dì per rinvenirla sola.
Lusingarla
a quattr’occhi,
che
’l più segreto Amor non vuol mezano;
e,
se non s’amollisce,
75 assalirla
importuno. Un soffio irato
gran
fiamma al fin raccende:
benché
punga spinosa
non
si lascia però di cor la rosa.
elidoro Voglio
tentare ancor questa ventura!
80 pellandra Sì,
che l’arte può vincer la natura.
Io
la porta del parco
v’aprirò
a mezo giorno, e circa il resto
mi
raccomando a voi. Se poi lasciate
scappar
la preda, e vi cadran le brache,
85 vi
dirò cacciator, ma da lumache.
elidoro Oh
che vecchia baiona!
Ella
è trista così, come buffona.
Per fine di questo primo
atto escono a danzar quattro Scimmie, che vengono poi rapite a volo da quattro Aquile.
ATTO SECONDO
SCENA
I
Nineuse, Zambra, che si abbiglia, e Graffio in disparte.
Camera.
nineuse Bell’aurora mattutina,
che
t’ingemmi ’l crin vezzosa,
e
fai sorger porporina
dai
ligustri tuoi la rosa:
5 Hai
nel viso il Sol nascente,
hai
nel labro il fior ridente,
e
d’Amor diviso l’astro
in
un cielo d’alabastro.
Deh
rimira il tuo leale,
10 se
di te più bel riflesso
vuoi
vedere: che non è in esso
del
cristallo il doppio e ’l frale;
ma
sfavilla ognor costante
a’ tuoi sguardi, qual diamante.
15 zambra Anima
del mio core!
nineuse Cor de l’anima mia!
Fiamma
del mio pensier!
zambra Luce
al mio giorno!
Tu sola il Sol,
20 nineuse Tu solo il Sol,
nineuse che con la doppia face
e zambra degli
occhi tuoi più chiaro il dì mi apporti.
zambra Io
l’aurora
che
s’indora
25 a’ tuo’ rai pregiati e fulgidi:
a
te sol dal mio sen turgidi
questi
gigli acerbi sorgono:
a
me porgono
i
tuoi lumi ’l bel da splendere:
30 tu
mio Sol, tu solo accendere
puoi
quest’alma a te sol alba.
nineuse O
mia cara, a te s’inalba
il
mio petto innamorato!
zambra O mio
grato!
O
mia vita, per te muoro!
nineuse O
mio cor, io per te vivo!
35 zambra O
mia vita, senza te,
ogni
noia alligna in me!
nineuse O
mia bella, teco sol
del
pensiero ha centro il vol!
zambra O
mio Nineuse fido!
40 nineuse O
Zambra idolo mio!
zambra A
te tutta m’affido.
nineuse O
mia dea, più che in me, in te son io.
zambra Respiro
amabile!
45 nineuse Dolce
conforto!
zambra Piacer
mio stabile,
a
te sol vivo,
nineuse e
senza te son morto.
zambra Or
dunque andiamo,
50 nineuse dunque
godiamo.
nineuse Tempo
che fugge
e zambra solo
si strugge
per
chi non ama,
per
chi non gode.
55 Dei sogni eterni
fantasmi
alterni,
per
cui gli brama,
formi
la frode.[138]
graffio (Oh
che soave giorno!
60 O
copia rara, a cui non manca il corno!) (a parte)
Signor mio, deh scusate, se v’impiccio:
vi
dimanda Bisticcio.
SCENA
II
Bisticcio
ed i sopradetti.
bisticcio Eccovi,
padron mio dolc’e piccante
numerato
il contante.
Oh
come pesa! M’ha slombata un’anca:
signor!
Cresce la carne, il quattrin manca!
5 nineuse Taci,
che nudo Amor, ricco di fede,
tutto
dà e tutto chiede.
bisticcio La
grammatica d’Amore[139]
del
preterito si scorda,
al
presente solo ha il core,
10 col
dativo sol si accorda.
Gode
ognor de l’ablativo,
né
capisce il genitivo,
se
non va co ’l deponente;
ma
sovente
15 per
passivo fa il latino,
e ’l participio vuol pria
del supino.
nineuse Mia
bella! Ecco una stilla
d’un
ocean ch’io deggio al tuo gran
merto.
S’io
fossi un Creso, certo
20 (cotanto
m’innamori)
farei
de’ miei tesori
sgorgarti
a piè fulgenti,
senz’argine
i torrenti.
zambra Amante
generoso,
25 amato
prezioso,
mio
Nineuse gentile,
ogni tesoro, a par di te,
mi è vile.
Te sol bramo:
te sol amo:
30 tu donante,
io costante.
Tu
m’apri, con lo scrigno, il cor nel petto;
ma
più mi compra il tuo cortese affetto:
son
tutta tua: qual fui sempre sarò,
35 sin
ch’io respirerò.
Clizia
fedel, che tra fiori amori[140]
m’aggiro
a te mio Sol, mentre m’indori.
nineuse O
radice de l’alma mia!
zambra O
trofeo de la mia speme!
40 nineuse Per chi gela la gelosia
e zambra sol serpeggi, se amando teme:
cresca
eterno il nostro ardore!
nineuse E
viva Zambra viva!
zambra Viva,
viva Nineuse!
45 graffio E
viva Amore!
nineuse Cara
Zambra ti attendo,
per
dar pascolo agli occhi ad un convito,
dove
sarò felice
con
aver su la mensa una fenice.
50 graffio (Ma
che fa il verme.) (a parte)[141]
zambra Sì, poiché sol ti cole,
mentre
tu la ravvivi, o mio bel Sole.
nineuse A
rivedersi, a rivedersi amica!
graffio Altrettanto
il villan disse a l’ortica.
55 zambra Ah
no! Riforma il dire,
o
mio vago desire,
che
la tua bella imago,
onde
mio spirto impresso è così pago,
negli
occhi ognor mi brilla,
60 perché
tu sei la mia cara pupilla.
graffio Pupillo
egli è più tosto, ella tutrice,
che
in buon vulgar vuol dir scorticatrice.[142]
SCENA
III
Graffio,
Zambra ed Eliabbe.
graffio Oh che piccion piumato!
Per
esser arrostito
è
ben che sia pelato.
zambra Il
mio gusto, nutrito
5 ognor di questa razza d’uccellotti,
i
pipioni cangiar suole in merlotti.[143]
graffio Ma
questo è un uccellaccio di rapina,
che,
se non può ghermir le colombelle
vezzose
e le pudiche tortorelle,
10 (tanto
a la carne agogna)
non
manca di calarsi a una carogna.
zambra Prorompi
omai, caro Eliabbe, meco
a
concordar salate
sul
milenso Nineuse le risate.
15 eliabbe Eccomi
cara Zambra:
te
se’ pur fina! Oh come
l’udito
arrise a l’ironia piccante,
ond’acciecasti ’l forsennato amante!
Io
di soppiatto attento intesi ’l tutto
20 di
quel mio bestiale,
più,
che fratel, rivale;
ma
se fedel mi sei, come a te sono,
senti,
ed andiamo a tuono,
farai
ch’ei per mia sorte
25 magni,
mia bella vita, al fin la morte.
zambra Zitto!
L’aria non senta
ciò
che ’l pensier fermenta:
Forse
non sia che torni
ad
indorare il dì del Sol la face;
30 che
ci tanto ci turba i giorni lieti
con
assalt’indiscreti,
per
lasciarci dormir, non posi ’n pace.
eliabbe Dunque
a l’opra, o mia fida!
Per
satollar d’Amor meglio le brame,
35 così
noioso stame
da
tua provida man pur si recida.
Io
vado intanto a preparare...
zambra Ascolta!
(gli
favella a l’orecchio)
graffio Si parlano in secreto,
40 come
che lor non die’ tempo la notte
di
fabbricar la torre di Nembrotte:[144]
ma
la donna cicalona,
che
di ciarle ha ’l gozzo pieno,
quando
meno
45 ha
ragion, più assai ragiona.
Oh
che femmina stravagante
È
costei, che tutto sconvolge!
Qual
intrigo ella non ravvolge,
non
suo spirto cabalizzante?
50 Tutti
adesca e tutti pela,
tutt’imbarca,
tutti
sbarca,
ed
è nave da ogni vela.
Oggi
Nineuse inganna,
55 dimani ad Eliabbe
ne
filerà una spanna:
insomma
ella con tutti è una Rahabbe.[145]
eliabbe A
Dio mio core, a Dio!
zambra Son
tutta tua ben mio:
60 a
rivederti presto!
graffio Ed
io sagace e lesto,
gli
farò la mia corte,
come
gli fo la spia,
poiché,
per vita mia,
65 turcimanni
e buffoni,
adulatori,
sgherri e bacchettoni,
sol
oggidì han sorte.
SCENA IV
Zambra sola.
zambra Gioir finché
si può,
goder finché si
sa,
e quel che fare
io vo’,
il resto è vanità.[146]
5 Ogni cura m’abbandoni,
sol mi siegua il nume alato,
e con l’arco suo
dorato
miei trionfi ognor coroni.
Del mio genio
il bel mestiere,
10 più che ’l cor, la borsa fere.
Questa bellezza
amabile
sia l’esca nott’e dì
d’un affetto mutabile,
che tanto m’arricchì:
15 poiché Amor è mal
instrutto,
se dona il fior
e non raccoglie il frutto.
Così Frine a peso
d’oro[147]
il suo bel comprar
facea,
e solea
20 con un vezzo e con
un muoro,
far languir la
greca Atene
in catene,
mentre ai resi
cavaglieri
tolse gli scudi,
e sol lasciò i cimieri.
25 Gioir finché si può,
goder finché si
sa,
e quel che fare
io vo’,
il resto è vanità.
SCENA V
Graffio e Zambra.
graffio Madama, or che siam soli,
ammiro il vostr’ingegno,
che sempre avete
pregno
di concetti, e
non mai l’utero greve,
5 benché graviate
il sen di mille amanti,
ne l’arricchirvi
pronti e gareggianti.
Partì Eliabbe, a voi tutto divoto,
di grazie colmo,
e ’l fier Nineuse voto
d’argento: e che
sia mai?
10 zambra Graffio, per interesse
Nineuse accolsi, ed Eliabbe amai
per capriccio,
che impresse
nel mio cor sì bel foco, onde respiro
ardendo, se ’l
rimiro.
20 Son fratelli amendue: l’un m’innamora
col suo vezzoso
aspetto:
l’altro l’arca
m’indora
con generoso petto.
Ah ben vorrei,
per soddisfar
in un gli affetti miei,
25 che fosse di Nineuse Eliabbe erede!
graffio Cosa facil
si chiede.
zambra Costui mi parla ad uopo,
perché dà ne lo
scopo.
Gli svelerò il
segreto?
No, ch’egli è
servo! Sì, ch’egli è discreto![148]
30 graffio Ella perplessa rumina tra i denti,
e non ne intendo
i bisbigliati accenti.
Padrona! Ah torto
avete,
se ’l disegno
di far morir Nineuse
a me, così fedel, schiva tacete!
35 Io complice sarò
con man audace
ne l’estirpar
l’edace:
egli del padre
mio fe’ crudo scempio;
dunque muora quest’empio.
Inghiotta l’epulone[149]
40 la morte in un boccone,
ch’io, che mi
chiamo Graffio,
gli farò, come
a ladro, l’epitafio.
zambra Andiam
nel gabinetto,
giaché ’l fato a l’intento
45 che Nineuse sia spento
par che per assessor
mi t’abbia eletto.
graffio Or, che sarà? Coraggio!
Eccomi tutto pronto
in equipaggio.
Lenta mi par la
fretta:
50 A le frodi, ai veleni,
a la vendetta!
SCENA VI
Elcana
solo.
Palagio in prospettiva.
elcana Poiché ’l vero è così amaro,[150]
vo’ sputarlo da la bocca:
vada pur! Zara
a chi tocca[151]
ch’io da l’altrui
mal far, mal dire imparo.
5 Dirò male, per
dir bene:
se talun l’ha per affronto,
è segnal che di lui conto
quel che ha fatto
e ciò ch’ha in opra:
non si cuopra, ma s’estingua
10 con la lingua fulminante,
che tonante tra
gli orrori
degli errori strepitando,
saettando i rei
pitoni,[152]
fischi e suoni,
arguto strale,
15 sveni ’l male, il
vizio fera,
che tiranno al
mondo impera.
Oggidì Gerusalemme
divenuta è una
Babelle,
e ’l Giordan le
sue maremme
20 inargenta al ciel
rubelle.
Ogni scriba è
fariseo:
ogni satrapo è
levita:
ogni artista gabaonita:
ogni giovine amoreo.[153]
25 Son secreti i publicani,
ed uniti a l’altrui
danno,
per profitto lor,
s’affanno
a’ Giudei samaritani.
Evvi a pena un che non trappoli?[154]
30 Tutto il mondo è
una Pentapoli.[155]
La carne fuma
più che Gomorra:
la golla bolle più assai d’asfalto:
gli Amaleciti[156]
s’armano uniti
35 per dar l’assalto
ad Isdraelle;
né fia ch’aborra
l’esser Accabbe,
l’esser Gioabbe,[157]
40 chi vuol regnare,
chi suol fraudare.
Oh quante Bersabee, quanti Assalonni![158]
Quante Tamarri
osservo, e quanti Ammoni![159]
Rari sono i Giuseppe
e i Giosuè:
45 ma v’ha più d’un
Aron, più d’un Mosè:[160]
non già retto
e di zel celeste acceso,
ma contrario e rubelle al Nume offeso;
perciò veggo non sol che spuntan d’oro
le corna ad un
vitel, ma a più d’un toro;
50 e da rustiche verghe,
use agli armenti,
nascer ranocchi
e pullular serpenti.
I mariti parecchi,
traendo il fatto
ed in risulta il nome
da le mogli (ed
oh come!)
55 non sono Isacchi,
e si puon dir Rebecchi.
Son molte Iezabelli
che rubano i Nabotti.[161]
Vi son molte Iaelli,
che, dopo avergli
cotti
60 con filtro vaporoso,
nel lor sen limaccioso
trafiggono prostrati
i Sissari ingannati.[162]
Molte Dalide osservo,
65 che fan lasciarvi
’l pelo,[163]
la forza e la
ragione,
a più d’uno Sansone.
L’Invidia malignosa
più d’un Caino
ingombra;
70 l’Ambizion fumosa
più d’un Nabucco
inombra:[164]
l’Adulterio omicida
sgozza più d’un
Uria:[165]
la bestemmia deicida
75 arma più d’un Golia:
il connubio tradito
ha più di un Putifarre:[166]
il talamo schernito
geme a più d’una
Agarre.[167]
80 Ecco il palagio a
punto anzi la Lerna,
in cui l’Idra
s’interna
di tante colpe
infeste,
ch’ergon contro
al ciel livide creste.
Qui l’epulone
impera e seco ha tetto
85 l’orgoglioso Dispetto,
la Crapula sbavante,
la fastosa Alterezza,
la Lussuria spumante,
la fiera Spietatezza,
90 il Livor accanito,
la Tirannia crudele,
l’Inganno fementito,
l’Ateismo infedele.
O Solima infelice,
io ti deploro,
90 e, del tuo mal presago,
un flebil treno
canto piangendo!
Ah sul tuo stato imploro
al giudicio divin più lento il freno!
Ma di lacrime
salse inutile gronda
sui corrotti costumi
un saggio abbonda.
SCENA VII
Lazaro ed Elcana.
lazaro Dove, misero,
dove
m’aggira, ohimè,
svenuto il piè tremante?
Lasso ritorno
da l’inedia oppresso
ad urtar moribondo
in questi sassi
5 naufrago nel mio
pianto. Ahi chi ristora
queste languide
membra? Ahi chi trattiene
tra le fauci gementi
l’anima fuggitiva,
l’anelito mancante,
10 il respiro spirante?
Deh ciel soccorrimi,
pietà di me!
Iddio rimirimi
rivolto a sé.
15 Deh mi dia lena
in questa pena!
Deh con la morte
mi dia la sorte!
Perché chi muore
20 nel suo Signore,
tutto pietà,
ricontra lieto
felicità.
elcana O Providenza
eterna,
25 ecco de’ tuoi non
penetrati arcani
in questo basso
mondo alto argomento!
Un riccone scelerato,
a cui piove l’oro
in seno,
ed un povero piagato
30 di giustizia adorno
e pieno.
L’un superbo e
l’altro umile:[168]
l’un lascivo e
l’altro puro:
l’un pregiato
e l’altro vile;
l’un illustre
e l’altro oscuro:
35 l’un rubelle al ciel benefico;
l’altro fido al
ciel austero:
l’uno tra tanti
beni empio e malefico:
l’altro fra tanti
mali almo e sincero.
O divario
40 nel sagrario
de l’astrusa Providenza
hai racchiuso
il tuo giudizio!
L’un dal vizio
perirà nel fumo
asborto;
45 l’altro, scorto
da bell’astro
luminoso,
si salverà in
un mar sì procelloso.
lazaro O fortunato incontro!
Elcana è questi,
chiaro consolatore
50 del mio tetro dolore
col suo facondo
raggio:
povero, perché
saggio,
poiché non può
donare,
mi conforta a
sperare:
55 oro non ha, perciò
non mel dispensa;
oro è ben ciò
che dice e ciò che pensa.
elcana O mio caro mendico!
lazaro O mio signor
umano!
elcana O mio pregiato
amico!
60 lazaro Eccomi curvo
al piano
col mio corpo
che piomba,
per non trovar
pietà, cercar la tomba.
elcana La tomba è nido
in cui l’alma rinasce;[169]
che mai non muor chi di virtù si pasce.
65 L’alimento più vitale
fia del cor l’empirea speme:
chi quaggiù spennato
geme
a gioir poi spiega
l’ale.
Il premio è certo
70 al vero merto
di chi opra bene:
vi son le pene,
per cui nol crede, e poi prova l’Inferno.
lazaro O verità vitale!
75 O pregiabil consiglio!
Dolce ristoro
al male
di questo infausto
esiglio.
Spera Lazaro,
spera!
Il ciel si gira
e Providenza impera.
SCENA
VIII
Pellandra e Farfalla.
Atrio
di palagio.
pellandra Facendiera son d’amori.
Poiché
più non ho chi m’ami,
per
pescare ad altri i cori,
d’ogni
pasta innesco gli ami,
5 d’ogni
guisa i cibi appresto:
al
mio soffio il foco desto,
che
portar soglio soverchio,
se
già pentola, or coperchio.
O
gioventù svanita,
10 primavera
degli anni,
le
tue rose sfiorate,
che
ridean rugiadose,
scolora
il tempo secche in su le spine!
O
vecchiaia schernita,
15 verno
di freddi affanni,
sopra
le spalle arcate,
con
le chiome nevose,
trionfa
il tempo assiso infra le brine!
Il
passaggio
20 del
mio maggio
fu
qual rapido torrente.
Inclemente
col
suo rastro ahi come solca
questa
mia pelle grinza età bifolca!
25 Or
che farò?
Se
più non ho
con
che allettar a questo sen gli amanti.
Almen servire
altri
che rida e mi rasciugh’i pianti.
30 L’interesse
ne la donna,
che
l’invoglia,
non
si spoglia
con
l’età, né con la gonna.
Vende
il fiore ancor in erba
35 giovinetta
incauta e acerba:
poi
matura e avara, tutto
vende
il frutto;
indi
alor che la sorprende
la
vecchiezza,
40 onde
spenta è la bellezza,
l’altrui
fior, l’altrui frutto espon e vende.
È
questo il mestier mio:
con
una pietra oh quanti colpi segno!
Se
non più volpe al pel, volpe a l’ingegno.
45 Per
tradir Elidoro,
per
contentar Nineuse,
a
fin che sposi Zambra,
farò
che Zelfa resti al vischio presa,
e
dal sen marital pera distolta.
50 farfalla Stolta.[170]
pellandra Stolta!
Deh ch’interrompe
con
note obbrobriose il parlar mio?
farfalla Io.
pellandra Ma
chi se’ tu, che sconosciuto audace,
55 senza
faccia mostrar, favelli meco?
farfalla Eco.
pellandra Eco
tu mi schernisci, e ne sorrido.
farfalla Rido.
pellandra Ridi
pur! Ma perché?
60 Perché
son vecchia! Ohimè, non è così?
farfalla Sì.
pellandra Son
vecchia, e pure un pruritello interno
spesso
mi va solleticando il core,
qualor de’ giorni miei fugaci e spenti,
65 la
beltà che accendea, vien che rammenti.
farfalla Menti.
pellandra Eco
bugiarda tu,
non
ti burlar di me.
Che
la mia gioventù,
70 più
bella assai di te,
fu
vezzosa così,
ch’ogni
sguardo invaghì.
Or
che son vecchiarella,
con
mia passion il so
75 che
’l tempo mi pelò,
poiché
a molti attaccai la pelarella;[171]
e
così son burlata,
ch’io
pelar non so più, perché pelata.
farfalla Pelata
Pellandruccia,
80 Io
son l’eco e son lecco[172]
di
questa tua boccuccia,
che
somiglia partito un fico secco.
Lascia,
lasciati amare,
che
seben vecchia sei,
85 pur
piaci agli occhi miei:
così
molte oggidì brutte e sdentate,
perché
soglion donar, vengono amate.
pellandra Or
via ti donerò, ma d’uopo è pria,
che
ad una traccia mia servi opportuno:
90 di
due ch’ho di bisogno, io ti vo’ l’uno.
Vien
via, che parleremo un po’ po’ insieme!
farfalla Son
un, ma non ho già faccia de due,
che
va cercando questa vecchia Ancroia,
questa
furba Pellandra,
95 più
Troia che Cassandra,[173]
pur
la Cassandra fa per una Troia.
SCENA
IX
Nineuse solo.
nineuse Già
l’ora, ancorché lenta, il vol appresta,
in
cui la bella mia diletta Zambra,
ha
da colmar di gusto saporito
l’occhio,
di lei nodrito;
5 ed
io, per raddoppiare il ben perfetto,
le
accomuno fedel la mensa e ’l letto.
Oggi
è quel dì fatale
in
cui sciolto verrò
del
laccio maritale,
10 che
’l corpo, e non il cor, giammai legò.
Che
vo’ far io d’una beltà sciapita,
di
una moglie gelosa,
che
ognora inviperita
sgorga
il velen da la sua bocca esosa?
15 Ah,
s’io scuoto un giogo tal,
oh
qual gioia, oh qual tripudio,
vo’
che renda trionfal
sopra
Zelfa il mio ripudio!
Nuovi
frutti e nuovi fior,
20 infestonino
il mio talamo,
e
gl’intrecci un dolce Amor,
che
rimbombi a suon di calamo.
Ma,
deh qual mi sconvolge atro ribrezzo
d’un
error così atroce,
di
colpa sì feroce?
25 Ah,
non è colpa, no, quello che piace!
Iddio
non v’è, non vede:
ben
è folle chi crede,[174]
ch’ei
pensi a noi: no, ch’ei ci lascia in pace.
SCENA
X
Ghiotto
e Nineuse.
ghiotto Signor,
corpo e cospetto,
di
cui non dico! Oh come
fumeggia
il vostro tetto!
I
volatili a some
5 gorgogliano
bolliti,
e
sudano arrostiti
per
chi bollir, per chi sudar fa tanti,
a
lesso e a rosto amanti.
Molto
uccellam’è giusto
10 per
chi uccella sì spesso:
chi
di pelare ha gusto,
Ama
il pelato a la vaccina appresso:
e
ben Zambra la bella,
poiché
vi dà la vita, è una vitella.
15 nineuse Ghiotto,
mio caro, il fumo
illustra
i miei contenti,
mentr’io diserto e spiumo
la
terra, e l’aria, i miei primi elementi.
ghiotto De
l’acqua egli fa giuoco,
20 e
per ultimo lascia indietro il foco.[175]
nineuse L’allegrezza
oggi s’incorpori,
e
s’imporpori,
abbracciata
a Bacco, Venere,
tra
ritorte amiche e tenere:
25 col
mio tetto i cori avvampino:
lieto
il pampino
si rintrecci a’ muschi ed ellere,
che
nol vaglia il duol a svellere.
ghiotto Unto
labro e palat’umido,
30 ventre
tumido,
gola
aperta e denti subiti,
sciolta
cintola e non dubiti
di
lasciarsi ’l loco togliere,
chi
vuol cogliere
35 de
la via arcignatonica
la
gran palma maccheronica.[176]
SCENA
XI
Zelfa sola.
Galleria.
zelfa In
questa ria magion, larva diuturna,
m’agita
Gelosia, Furia del core
con
la face notturna
d’un
infernal dolore.
5 Misera,
ed ancor vivo
così
mesta e tradita?
Quando
Morte m’invita
a travarcar
di Stige il negro rivo.
Già
l’ora s’avvicina,
10 in
cui Zambra odiata
mi
calcherà su questa foglia il petto,
m’infesterà
lo spirto al suo respiro:
ed
io lo soffrirò?
No
no, no no, no no!
15 Ah
la sgozzerò qui!
Sì
sì, sì sì, sì sì!
Ma
chi darà vigor al braccio imbelle?
Se,
svenata dal piano, infievolisco,
e
qual rosa, non colta,
20 calpestata
languisco:
pur
pur questa è la volta
in
cui, per l’odio fera,
sbranerò
quell’altera.
SCENA
XII
Nineuse e Zelfa.
nineuse A che tanto guaire?
Perché
tanto strillare?
Non
ti vo’ più soffrire.
Non
più querele no, lasciami stare,
5 che
non ti posso e non ti voglio amare.
zelfa Ah Nineuse
crudele,
ecco
la tua fedele,
ch’ogni
furor depone ad un tuo cenno!
Più
gelosa esser non vo’:
se
tu m’ami almeno un dì,
10 tutto
poi ti lascerò
a
colei che ti rapì
al
mio seno e morirò:
più
gelosa essere non vo’.
Ah
mio caro,
15 come amaro
è
lo stral con cui mi feri!
Deh
ristora,
pria
che muora,
il
mio spirto a cui tu imperi!
20 Pace
pace, anima mia,
sdegno
fier non m’arda più!
Ah
se tu
vuoi
scacciar la Gelosia,
pace
pace, anima mia!
25 nineuse Oh
qual magico ensalmo[177]
le
viscere mi cerca e mi sconvolge!
Io
non so, se l’impalmo,
poiché
con dolci note il cor m’avvolge.
Non
più mai così bella
30 m’occorse
di vederla:
mentre
il pianto l’imperla,
mi
par tra l’ombre sue fulgida stella.
Ma
che sogno? Dov’è
verso
Zambra la fé?
35 Zelfa lasciami stare,
che
non ti posso e non ti voglio amare!
zelfa Oh
sentenza spietata
da la tua bocca ingrata!
nineuse Muori!
Non t’amo, no!
40 zelfa Nineuse, io
morir vo’;
ma,
se m’ami almeno un dì,
tutto
poi ti lascerò
a
colei che ti rapì
al
mio seno, e morirò.
45 nineuse Muori
e lasciami stare,
che
non ti posso e non ti voglio amare.
zelfa Ohimè, che colpo estremo!
Tutta
gelida tremo.
Ah
ti voglio ubbidire!
50 Eccomi
pronta e intrepida al morire!
Qui Zelfa con uno stilo si vuol
uccidere, ma la trattien Ninesue,
nelle cui braccia trambascia.
nineuse Ferma,
deh ferma! Oh cieli,
che
follia, qual furore?
Zelfa, col tuo pallore,
onde
il tuo bel più sveli,
55 vergognoso
rosso m’imprimi al volto.
Ah
come son io stolto
a
sprezzarvi, o bellezze lusinghiere,
così
caste e sincere!
Zelfa, vivi e respira,
60 che
’l mio cor t’ama e ’l mio ciglio t’ammira.
zelfa Che
sento? È ver, Nineuse, o pur vaneggio?
nineuse È
vero, amica, è ver: t’onoro e preggio.
A
questo seno indissolubilmente,
in
stringerti, mi dono:
65 non
già quel che già fui, ma quel che sono.
A
l’amor tuo possente
non
più m’accecherà Zambra, e sarò
tuo
fedel, Zelfa mia, finché vivrò.
SCENA
XIII
Zambra,
Zelfa e Nineuse.
zambra Olà,
che stravaganza?
Che
veggio? Ah qual incanto
Nineuse ti trasforma e m’impetrisce?
Tu
con Zelfa abbracciato!
5 E
’l miro? E’ l suofro? O ciel, o ciel irato!
nineuse Perdona,
o Zambra. Io del tuo bel mi privo,
già
che Zelfa sol amo e a lei sol vivo.
zambra Ah
sleale! Ah fellon! Ah fementito!
Scelerato!
Sacrilego! Aborrito!
10 Incostante!
Spergiuro!
Va’,
che di te non curo!
A
tal ingiuria,
di
sdegno furia,
la
Volontà,
15 con
odio stabile,
tutta
implacabile,
ti
agiterà.
nineuse Ohimè,
chi mi riscuote
da
l’infingardo mio cupo letargo?
20 Ferma,
deh ferma il tuo giusto furore,
bella
baccante! A la pietà perdona
ch’ho
di costei. Se pur d’amarla finsi,
fu
sogno imaginoso: or che son desto,
benché
sia finto amore, io lo detesto.
25 zambra O
fortunata istanza!
zelfa O
tradita speranza!
zambra Nineuse, idol mio!
zelfa Caro
cor del cor mio!
zambra Dunque
mi lascerai?
30 zelfa Dunque
non m’amerai?
zambra Son
la tua Zambra mesta.
zelfa Son
la tua Zelfa onesta.
zambra Deh
come abbandonata!
zelfa Deh
perché disprezzata?
35 nineuse O
dolce violenza!
Ceda
pur Zelfa a Zambra in competenza!
Beltà
gradita,
mio
ben, mia vita,
cor mio perdonami!
40 tu,
ch’hai la palma
sola de l’alma,
la palma donami.
zambra La palma prenditi,
di
questo cor:
45 Nineuse renditi
a
un giusto amor:
stringimi,
che son tua: sciogli costei:
tua
sarò, mio sarai, non mai di lei.
nineuse O
bellezza amorosa!
50 zambra O
mio ben ricovrato!
nineuse O
mia Zambra vezzosa!
zambra O
mio Nineuse amato!
zelfa O
mia speme delusa!
Ahi
che farò negletta?
55 Che
risolvo confusa,
dal
dolor intercetta?
Caro
Nineuse mio pietà di me!
Ecco
a’ tuoi piè mi prostro:
scaccia quest’empio mostro,
60 contrario
a la mia fé:
questo
spettro odioso,
che
turba il mio riposo.
nineuse Zelfa lasciami stare,
che
non ti posso e non ti voglio amare.
65 zambra Oh
quanto godo al tuo pazzo furore!
Tu
se’ mostro di doglia ed io d’amore.
zelfa Tu
mostro d’impietà,
ed
io di castità!
Infame,
impura, scelerata, indegna!
70 Cloaca
sensuale, arpia fetente.
Idra
che infesti la Sionia gente:
Lerna
in cui l’Idra ogni vizio regna.
zambra Tu
menti, o vanarella,
povera
scimunita,
75 codarda,
poltronella,
rosaccia scolorita!
Io
ti derido e sprezzo,
che
val più di te tutta un sol mio vezzo.
Qui
Zelfa s’avventa con lo stilo a trafigger Zambra.
zelfa Chi
più mi frena il braccio,
80 mentre
mi sprona il petto
lo
sdegno a vendicarmi?
Perfida
col tuo scempio
soddisfarommi, e col tuo sangue impuro,
poiché
col pianto mio spegner nol posso,
85 smorzerò
di Nineuse il rogo osceno.
nineuse Forsennata,
che fai? Di questo seno
io
le fo scudo, a cui die’ tempra Amore:
se
vuoi tormi la vita, uccidi Zambra,
l’anima
del mio core.
90 Zelfa, lasciami stare,
che
non ti posso e non ti voglio amare.
zambra Tienla stretta, mio ben, ch’io la disarmo.
zelfa Che alterezza! Che forza! O cieli aita!
zambra Il
ciel non t’ode, o semplicella! Invano
95 si
svuote a la vendetta un astro insano.
To’,
prendi ’l ferro cieco,
ch’io
non ti temo no, né la puoi meco?
zelfa Irrigidisco
e fremo,
palpitosa, dolente: ah come tremo,
100 Zelfa corri a
la morte:
o
cieli, o stelle, o mondo, o vita, o sorte!
nineuse Muori
e lasciami stare,
che
non ti posso e non ti voglio amare.
Andianne amica a festeggiar contenti,
105 per brindar ai lamenti
di
quella scioperata,
che
già fuma la mensa preparata.
zambra Fuma
di gioia, e sia più saporita
per
te, mia dolce vita.
SCENA
XIV
Pellandra, Farfalla e Bisticcio.
Boschetto.
pellandra In
queste folte macchie
vi
appiatterete uniti,
e
n’uscirete ad uopo alor che Zelfa
vedrete
accolta ad Elidoro in seno,
5 per
attestarne il fatto,
a
fin di darle in brocca un scaccomatto:
così
Nineuse brama:
la
pedina oggidì scaccia la dama.
Nel
mondo la frode
10 prevale
oggidì:
non
val e non gode,
chi
mai non ardì.
Se
reca altrui danno,
profitto
è l’inganno,
15 di
cui ben l’ordì;
quind’io con arte scaltra,
or
son una, or son altra.
farfalla Così
farem con visto tosto e pronto;
ma
non ci torna a conto
20 lasciare
i buon bocconi,
per
divenir falsidici e spioni.
bisticcio Già
la mensa odorosa
stuzzica
il naso ad irritar la gola,
e
’l fumo fin qua vola
25 ad
eccitar la mia brama ventrosa;
siché, Pellandra mia, per un po’ d’oro
tu
m’hai posto al martoro.
pellandra Io non so più che dirvi:
così
Nineuse vuol per arricchirvi.
30 farfalla Questo
è ben preparaci l’antimonio!
pellandra Testimoni
sarete
di
quanto osserverete.
bisticcio Oh
quanti sono, oh quanti,
che
han più di noi testa di testimonio!
35 pellandra Quando
avrete i contanti,
resterete
contenti.
bisticcio Eccoci
dunque a la grand’opra intenti,
e farfalla e
con occhio linceo
bandiremo
per or Bacco e Morfeo.
40 pellandra Ed
io, mentre vi lascio affissi al varco,
vado
Elidoro ad introdur nel parco.
SCENA
XV
Bisticcio
e Farfalla.
bisticcio Oh
che vecchia malandrina!
Ha
la brina
sopra
il capo e ’l foco in testa.
Ella
impesta
5 col
suo fiato arcifetente:
con
un dente,
che
per sorte l’è rimasto,
morde
e straccia,
gran
cagnaccia,
10 che
si trova ad ogni pasto.
farfalla Oh
che vecchia sgangherata,
che
sdentata
magna
più d’una pantera!
Lusinghiera
15 tutti
adesca e ognuno inganna.
Ha
la manna
sopra
il labro e ’l fiel nel core.
Sempre
falsa
fa
una salsa,
20 in
cui mesce odio ed amore.
bisticcio Più
che rugosa doppia:
farfalla Schiuma
d’ogni pignatta:
bisticcio ad
ogni carne gatta:
farfalla è
corno d’ogni copia:
25 bisticcio pestifera,
farfalla mortifera,
bisticcio è
uno spedal di vizi,
farfalla groppo
di malefizi,
bisticcio pur
bisogna soffrirla!
30 farfalla pur
bisogna ubbidirla!
bisticcio Nineuse vuol così, così vogl’io.
farfalla Ma
che sarà, se poi paghiam il fio?
bisticcio Meglio
è viver infame
che
morirsi di fame.
35 Oggidì
l’impostura
divenuta
è natura.
Non
dubitar Farfalla!
Vuo’ tu del ben? Ruba, tradisci e falla.
L’occasione
invita,
40 e
la calunnia omai resta impunita.
farfalla Dunque
a le mani, a noi!
Se
’l mal verrà, ci penseremo poi.[178]
bisticcio Ma
sento un calpestio che ’l suolo batte.
farfalla Ricovriamsi veloci in queste fratte.
SCENA
XVI
Zelfa sola con uno stilo alla mano.
zelfa Animatevi al furore
o
de l’Orco aduste suore,
perché
il braccio, non più tardo,
lasci
al fin d’esser codardo!
5 Gelosia,
tu sai perché
la
mia morte io brami e vo’.
Se
non val più la mia fé
dunque
invano al mondo sto!
L’onta
mia troppo è visibile,
10 l’amor
mio troppo è crudel.
Dunque
appaghi l’irascibile
l’empietà
d’un infedel.
Mentre
il duolo è giunto al cumolo,
che
più spero e aspetto più?
15 Ah
si cangi ’l letto in tumolo,
poiché
freddo ognor mi fu!
Mia
speme è finita,
finisca
la vita.
Misera
Zelfa, io sento
20 nel
mio tenero petto un cor sì folle,
che
di morir pavento,
senz’ardir,
senza brio, femmina molle:
che
s’avessi al dolor coraggio uguale,
sarebbe
un minor mal termine al male,
25 onde
in pianti mi sfaccio,
né
più ’l fellon terria l’impura
in braccio.
Ma
che giova il lamento,
se
più cresce il tormento!
E
le lacrime imperlano a l’ingrato
30 il
talamo violato:
ed
i sospiri accendono al severo
lo
sdegno ancor più fiero:
e
le meste querule al contumace
son
armonia che piace.
35 Dunque
Zelfa al morire,
se
non vuoi più languire!
Mia
speme è finita,
finisca
la vita!
Poiché
sordo a’ miei fremiti
40 mi
niega il ciel di compassione un giorno;
ascoltino
i miei gemiti
i
tronchi, l’aure, i sassi e l’ombre
intorno!
Da
te, Nineuse, a un giusto amor ribello,
a
l’ombre, ai sassi, a l’aure,
ai tronchi appello.
45 Sfortunata,
disperata,
ceder
voglio al rio destino!
Se
la morte
mi
sia sorte,
50 al
mio fato il capo inchino.
Mia
speme è finita,
finisca
la vita.
SCENA XVII
Elidoro
e Zelfa.
elidoro Ferma, trattieni, o bella, o cara, il braccio!
Qual follia, qual
furor, qual impietade,
a svenarti sospinge
il pugno armato?
Per un marito
ingrato!
5 Abbi di te, mio
ben, di me pietade;
che se Zelfa si uccide,
Nineuse gode, io muoro, e Zambra ride.
zelfa Ohimè, chi
mi sorprende?
Chi mi trattien il colpo?
10 Ah, se’ tu che m’attingi!
Ah, se’ tu che
mi stringi!
Lascia, lasciami
audace,
non turbar la
mia pace,
mentre contenta
io muoro,
15 e più assai che la
morte, odio Elidoro.
elidoro Non ti lascerò
no, se non mi lasci
questo ferro spietato,
se, pria che a
te, passar mi debbe il petto;
ond’io teco l’ho stretto
20 con divieto opportuno
al tuo furore:
che non vivrà
Elidor, se Zelfa muore.
zelfa Scioglimi omai! Che fia!
elidoro Trattienti anima mia!
zelfa Temerario,
arrogante!
25 elidoro Amorosa baccante!
zelfa Abborrito protervo!
elidoro Sono il fedel tuo servo.
zelfa Dunque a me
forza fai?
elidoro Sì, perché t’amo, e ’l sai.
30 zelfa So che sei un impuro.
elidoro D’amarti ognor più giuro.
zelfa Ti detesto
sdegnosa.
elidoro Io t’imploro pietosa.
zelfa Di libertà
mi privi.
35 elidoro Son tuo schiavo
legato.
zelfa Sei tiranno
odiato.
elidoro Muori a Nineuse, ad Elidoro vivi!
SCENA XVIII
Bisticcio, Farfalla, Zelfa ed Elidoro.
bisticcio Olà, olà!
Che bella zuffa è questa?
farfalla Signora Zelfa
mia, bella è la festa.
bisticcio A la trappola colta!
farfalla Con un drudo ravvolta!
5 bisticcio È questo dunque il marital contratto?
farfalla Questa è la fedeltà, la gelosia?
bisticcio Fai da colomba e ti troviam arpia!
farfalla A Nineuse
andiam a dire il fatto.
elidoro Oh che perfidia
strana!
10 zelfa Oh calunnia
inumana!
elidoro Deh mi permetti,
o Zelfa,
che in ver costor ad uopo il ferro io torca!
zelfa Qui convien
che ’l rilasci al giusto impegno.
Prendilo per punir
quest’impostori!
15 elidoro Scelerati! Attendete,
io vi farò!
bisticcio Aspettar? Pria ch’ohimè, vo’ dire
oibò!
zelfa Intanto io
sottrarommi a questo mostro.
farfalla Gambe mie, senza più, son tutto vostro.
Escono, per fine dell’atto secondo, a danzar quattro Satiri, che
rapiti a volo da quattro Civettoni, s’affondano poi precipitati.
ATTO TERZO
SCENA
I
Lazaro solo.
Atrio, con tavola in prospettiva di
lontano, e Nineuse con Zambra assisi.
lazaro Dove n’andrò, per
rinvenir pietà?
Se non la trovo in ciel,
il mondo, al povero troppo crudel,
per me certo non l’ha;
5 quindi è fatal
che la mia morte
sol mi sia vital.
Poiché la vita
mia pena così,
fia respiro il morir,
e tante crude
noie al fin finir:
10 quinci sarà per me
l’ultimo dì.
Dolce ristor:
che chi nel mal
ben vive, al ben non muor.
Or Lazaro cadente
posa pur anco
15 tremulo il fianco
su questa foglia
algente,
e prendi, col
prostrarti al suo, misura
de la tua sepoltura:
ma prova ancor,
se forse impietosito
20 il riccone impietrito
ti lasciasse raccor con man mendica,
caduta da la mensa una mollica.
Oggi, più che
giammai,
questa magion altera il fumo spande,
25 e le laute vivande
con vapor odoroso
stuzzican l’appetito anche ritroso,
mentre a tavola
assiso
beve Nineuse il riso,
30 brindando a Zambra
in tazza d’or brillante:
ed io qui lacrimante,
fantasma di dolor, d’affanno asperso,
mia doglia non
iscemo, e pur la verso!
Oh dispendio detestabile!
35 Oh diletto corto
e labile!
Ch’altro sia
il nutrirsi al
sen l’arpia,
poi negar con
fier rimprovero
al mendico un
vil ricovero.
40 Già mi pare, al fragore
de l’aureo vasellame,
a l’argenteo bagliore,
che col riflesso
a me colma la fame,
del satrapico
prando il fin vicino:
45 ed io, digiun svenuto,
che farò?
M’esporrò,
chiedendo un tozzo,
a l’usual rifiuto!
Deh, per amor
di quel che v’alimenta
50 fatemi carità!
Signor, signor,
pietà!
Ohimè, par che
m’osservi e non mi senta;
tornerò ad esclamar:
pietà signore,
d’un che di fame
e di miseria muore.
55 Ancor non m’ode:
o cieli! Egli è di sasso.
Pietà, pietà!
Son di gridarla, ahi, lasso!
Ma rapido un si vibra a discacciarmi:
che debbo far?
La pazienza m’armi.
SCENA II
Ghiotto, Lazaro e cani.
ghiotto Importuno mascalzone,
odioso pezzentone,
via di qua! Che
tant’urlare?
Non v’ha nulla
che a te dare.
5 Sempre qui molesto
aggiorni;
ma se torni
a turbar col tuo
guaire
quest’albergo
di contenti,
incapevol di lamenti,
10 giuro a Baccon, te ne farò pentire.[179]
lazaro Amico, ascolta
un poco!
Poco ti chieggo umil, poiché sol bramo,
dopo che ’l tuo
signor sgombri la mensa,
che mi lasci carpon carpir sul suolo
15 gli sparsi micolini
che avanzano ai
mastini.
ghiotto
Oh tu se’ pur milenso!
Va’ via, che né
men questo io darti penso:
e, se più resti
a masticar rimbrotti,
20 io contro aizzerotti
una turma di cani,
perché ti faccia
in brani:
che così a punto
il mio signor irato
di far m’ha commandato.
25 lazaro Non temo. Il
ciel, umano ai poverelli,
gli cangierà in agnelli.
ghiotto Non temi? Or il vedrai! Chiamar gli
vo’.
Truffardo, Mascellar, Pardo, Vespone,
Griffildo, Palandran, Straccia, Scorzone!
30 To’
to’, to’ to’, to’ to’, to’ to’, to’ to’.
lazaro Oh Dio! Vengono
a me fieri e stridenti.
Aita, o ciel,
tu lor rintuzza i denti.
ghiotto Il cielo troppo è lontano: ah tel diss’io,
che pagherai del
non temergli ’l fio!
35 Ma che veggio? Oh
codardi!
Divengono conigli
e son liopardi.
S’accosciano a
leccarlo
invece di sbranarlo.
Su mordete! Che
fate?
40 Ghermite, lacerate!
lazaro Invan gli attizzi: oh come
la lor fierezza
instrutta
ad emular le tigri,
in te, nel tuo
signor, par che trasmigri.
45 Ecco le fere dome
e l’uom rubelle
con l’empietà
ferir, morder le stelle.
Mi lambiscon le piaghe, al tuo dir sordi:
così col proprio
imputridito sangue,
il povero che
langue
50 nutre oggidì nel
mondo i cani ingordi.
ghiotto Orsù,
non più, va’ via,
che sei stregon
di bacchettoneria:
ti conosco ben
io, quinci ti scaccio;
55 ma per più presto
far, ti porto in braccio.
Oh che furbo cialtron
di mala razza!
Io vo’ gittarlo a predicare in piazza.
Pesa, come un
leccione,[180]
pur è sempre digiun l’ippocritone.
60 lazaro Mio Dio, tutto
per voi soffrir si de’:
così vogl’io, così vuol la mie fé.
SCENA III
Bisticcio, Farfalla, con Nineuse e Zambra che s’alzano da tavola.
bisticcio Nuova, signor,
inaspettata e strana
siam costretti
a recarvi,
che sola può lo
stomaco svoltarvi.
nineuse E qual novella
fia? Forse la vana
5 di Zelfa al fin s’è uccisa? Ah mio Bisticcio,
s’ella è tal,
ti fo dare un gran pasticcio!
farfalla Il pasticcio, signor mio prezioso,
Zelfa l’ha fatto, ma troppo è brodoso.
nineuse S’è forse col velen tolta di vita?
10 farfalla No! S’è ben impiccata
a un albero di
frutta riservata.[181]
zambra Costui, scherzando ancora, il vero
addita.
nineuse Or via dite, che
v’è!
bisticcio Lascia parlare a me! Zelfa, signore,
15 di pudicizia fiore,
quella che tanto
a voi
rimproccia i torti
suoi,
poiché fregiate
il talamo di questa
bella Zambra di
lei più fida e onesta,
20 da noi testé trovata
con un drudo abbracciata
nel parco fu.
nineuse Che sento?
farfalla Noi, noi fummo al cimento.
zambra O femminaccia
falsa! O congiuntura
25 per me d’altra ventura!
Il mio processo
or ora il doppio vale.
nineuse O moglie indegna,
o perfida, o sleale!
Ma, chi è colui,
chi fu, che tanto osò?
farfalla Io vel dipingerò.
30 Un giovinello[182]
profumatello,
con la pirucca,
che si ristucca,
si stregghia e terge:
35 che ’l crin asperge
di cipria polve:
che si dissolve
in guardi e vezzi:
che a tutti prezzi
40 compra le amanti:
che porta i guanti
di muschio e d’ambra,
s’è presa Zelfa e a voi lasciata ha Zambra.
nineuse Questi è certo
Elidoro! Andiam amica:
45 che per punir tal
onta,
in te la mia vendetta
è bella e pronta.
zambra Sarò qual più vorrai, ma non turbarti,
che a me sola
toccò fida l’amarti.
SCENA IV
Zelfa
sola.
Boschetto.
zelfa Ero col dubbio cor,
col corpo lasso,
né
so perplessa, misera, agitata,
dov’io
diverta il passo
così
calunniata.
5 Questo
de’ miei disastri ultimo eccesso
mi
trae la morte appresso.
Ohimè!
Cresce il mio mal, manca il conforto:
cielo,
ah ciel, sempre flutti, e non mai porto!
Quindi
perisco, oh Dio, senza perire,
10 morendo
ognor per non saper morire.
M’odia
Nineuse, pur da me amato;
m’ama
Elidoro, pur odiato.
L’uno
è sposo, ma sleale,
l’altro
amante sensuale:
15 mi
fugge l’uno e per dietro li corro,
mi
siegue l’altro e sempre più l’abborro:
così
la gran marea de’ miei cordogli
m’agita
ognor tra due contrari scogli.
O
mia vita,
20 che
l’uscita
col
morir trovar non sai,
chi
t’ha spinto
al
laberinto
sì
fatal di tanti guai?
25 Zelfa infelice, or che ti parla Amore?
Di
non tornar offesa a l’empio nido,
in
cui, stretto a la vipera l’infido,
sugge
da un morso osceno atro livore.
Ma
no! Riedi pur, riedi,
30 che
irato Amor ti persuade invano
a
lasciar l’inumano.
Prova,
deh prova ancor mesta a’ suoi piedi,
se
col tuo pianto amaro
puoi
raddolcirlo, e quando
35 non
sia per altro, il giusto Amor consente,
ch’io
debba a lui mostrarmi,
poiché
mai non si cela un innocente.
Intanto,
a prender lena
ne
l’angusta mia pena,
40 sotto
quest’elce ombrosa
convien
ch’io cada afflitta e sonnacchiosa.
Ahi
come stanca sono!
Al
sonno il corpo, al duol l’alma abbandono.
SCENA
V
Elidoro e Zelfa che dorme.
elidoro Poiché
sottratti a’ miei giusti furori
si ricovrar ne
la magion superba
i
malign’impostori,
torno
a calcar mia speme in su quest’erba,
5 per
rintracciar di Zelfa sospirata
l’orma
desiderata.
Invan la ricercai
là,
dove la lasciai stupida e mesta
in
quest’erma foresta;
10 e
benché a l’amor mio l’adito chiuda,
sempre
più fiera e cruda,
pur
l’amo sempre più, perché più bella
l’ingemma
il pianto ed il dolor l’instella.
Aurette sussurranti,
15 che
ne’ mirti ronzanti,
con
sibilo fugace i vanni aprite:[183]
voi
che tutte amorose
ci
svelate le rose,
dov’è
Zelfa, dov’è? Non la coprite.
20 Ardente
l’affetto
mi
spigne a cercarla:
se
ben l’ho nel petto,
non
vaglio a trovarla:
che,
se non sono in lei, non sono in me;
25 ed
ella, perché m’odia, esce di sé;
pur
col piè, come al cor, sempre indefesso,
per
non trovarla, omai perdo me stesso.
Ma
sento un respiro
qui
gemer vicino:
30 che
scuopro? Che miro?
Meriggio
e mattino.
Ecco
nel mezzodì l’alba che ancora
imperla
il verde suolo e l’erbe infiora!
Ella
dorme palpitante,
35 singhiozzosa
ed anelante,
e
le guance rosate
da le lacrime ha vergate.
S’io
la sveglio, ella mi scaccia:
s’io
la stringo ella si offende:
40 ah
ben fia che miri e taccia;
che
più bella e non più altera,
più
vezzosa e non più fiera,
onde
il cor più si raccende,
mite
il sonno a me la rende.
45 Ma
pur l’ossecrerò con bassi accenti,[184]
per
accordar la voce al suon de’ venti.
Dormi,
dormi a l’aura placida
o
mia cara, ancor che rigida,
che
’l tuo viso più s’implacida
50 e
’l tuo petto men s’infrigida;
e
poiché d’Amor il premio
è
dovuto a un fedel genio,
mentre
avvien ch’io sola sciegliati
per
mia sorte incomparabile,
55 non
fuggir più inarrivabile,
ma s’amar mi vuoi, risvegliati.
zelfa No
no, Elidoro, no
che
mai non t’amerò! (come sognando)
elidoro Ella sognando ancor m’aborre ingrata.
60 O
Zelfa dispietata.
zelfa Nineuse, io vo’ morire,
perché
non m’ami, e pria che ti tradire.
elidoro La
sentenza è mortale:
io
però non rampogno;
65 che
per esser un sogno, ella non vale.
A
giudicio sì fello,
da
Zelfa addormentata
a
Zelfa risvegliata appello, appello!
SCENA
VI
Nineuse, Bisticcio, Farfalla, Cospettone,
Zambra, Zelfa ed alcuni Sgherri.
nineuse Ferma
là, ferma là, ferma fellone!
cospettone Saldo
lì! Giuro a Marte!
Renditi
a Cospettone![185]
elidoro Ohimè
resto sorpreso! Ov’è la porta?
5 zelfa[186] Ohimè,
chi mi risveglia? Ohimè son morta!
nineuse T’ho
pur colta, o sleal, col drudo a canto!
elidoro Qui
difesa non val, scampo non giova.
cospettone Non
far, giuro a Baccon, che tu ti muova.
10 nineuse Legatelo
a quel cerro!
Temerario,
impudente, indegno, vile,
l’onta
che festi al marital mio letto,
laverai
col tuo sangue.
elidoro Mentisti,
e ’l sangue mio, del tuo più puro
15 macchia
lavar non può, se non l’impresse.
Ascolta,
se pur sei,
com’io
son, cavalier, gli accenti miei.
nineuse Cavalier tu! Se’ paltonier villano:
di rimirar, non che d’udire ho a sdegno
20 i
pari tuoi: legatelo a quel cerro!
Pera
il perfido, pera!
elidoro Non
val ragion, se violenza impera.
cospettone Vien
via sputa zibetto e moscon d’oro?
zelfa Misera,
ancor non muoro? Ohimè Nineuse,
25 Nineuse amato intendi!
Ah
crudel, così dunque or tu mi prendi!
Per
i capegli? Ahi sorte, ah sorte ria!
nineuse Sì,
ma non già come fortuna mia,
perché
sei mia vergogna.
30 zelfa Io
di colui
sempre
fei sprezzo altero, e tu lo fai,
ma
il non saperlo e far così ti giova.
nineuse Femmina
fementita,
adultera,
abborrita
35 mi
pagherai ben presto,
de
la legge la pena, o scelerata.
E
sarai lapidata.
zelfa Io dal tuo cor di pietra
so
che a tragger non vaglio altro che sassi.
40 nineuse Tuo
merto non impetra
altro
a punto da me: così sarassi.
Vien
via pur, vieni, e cedi
con
la tua morte a la mia vita il loco.
zambra Ella
merita il foco.
45 Vedi,
Nineuse, vedi
che
faccia arrogantella;
e
pur teco facea la santarella!
nineuse Cospettone!
cospettone Signor!
nineuse Mentr’io ne vado
a
rinserrare, ad accusar costei,
50 sventra
colui e me ne porta il core;
Ma
pria spezzate le sue membra a’ cani
ripartirai,
per divorarle a brani.
cospettone Tanto
da me, signor, verrà eseguito.
zelfa O
Nineuse impetrito,
egli,
come pur io, benché insolente,
55 per
l’amor che a te porto, egli è innocente!
nineuse Ben
il dicesti. Or via non più parole!
zelfa Pietà,
pietà! Non v’è chi mi console.
farfalla Va’
pur, va’ là, che te n’andrai di volo
60 da
Corneto a Sassuolo![187]
zelfa Povera
strapazzata!
bisticcio Oh
che miscuglio è questo! Oh che insalata!
SCENA
VII
Cospettone, Elidoro
e sgherri.
cospettone Or via, spogliam
costui, per isventrarlo!
elidoro Ascolta, amico, ascolta un innocente!
cospettone Del
tuo pianto mi rido, e mescolarlo
vo’
col tuo sangue.
5 elidoro Ohimè,
perché clemente
non
sarai tu con generoso core
a
chi solo in desio peccò d’amore?
cospettone Io
clemente! L’hai ben detta!
Questa
destra furibonda
10 sol
di stragi e morti abbonda,
fabbra ognor de la vendetta.
Son
quell’io che cader faccio
col
mio braccio ogni cantone,
quando
il taglio.
15 Perché
ho petto e perché vaglio
io
mi chiamo Cospettone.
elidoro Aita
o ciel! Se non mi salva l’oro
dal
ferro di costui, svenato muoro.
Mio
caro Cospettone, ah non rifiuti
20 la
tua pietà di liberarmi ad uopo!
Ti
esibisco due mila e anche più scuti.
cospettone Hai
dato ne lo scopo:
lascia
un po’ che vi pensi! Io da l’avaro
Nineuse mai non ebbi un quattrinaccio;
25 ch’ei
sol mi dà ciò che coi denti straccio:
or
discorriam sul sodo! Ov’è il
denaro?
Quello
che addosso porti, è mio de iure,[188]
perché
del giustiziato
erede
resta il boia ab intestato.[189]
30 elidoro Non
questo sol, ma quanto
de
l’opulenza mia vasto m’abbonda,
ti
ripartirò grato. A le tue forze
sommetterommi occulto, infin ch’io compia
la
mia parola, oltre il restarti sempre,
35 per
sì gran beneficio il core avvinto.
cospettone Saggiamente
discorri, ed io son vinto;
ma
come al sanguinario e rio comando
sodisferò
di sviscerarti ’l core,
per
portarlo a Nineuse?
40 elidoro Hai
pronto il modo.
Non
mancan belve a questo parco intorno,
e
nei vicini armenti.
cospettone Ben
t’apponesti al punto: olà sargenti
miei
fidi, ite veloci, ed apportate
45 un
montone squisito,
per
trarne il cor e darne il resto ai cani:
così
creder farem ch’abbiam ucciso
Elidoro, che a noi col proprio bene
la
sua vita ricambia:
50 in
tanto a sciorlo
m’addatto, per celarlo in questi cespi;
e
poi ben travvisato
trarollo al mio facinoroso albergo,
per
ivi custodirlo.
55 elidoro O
mio benefattore ad arricchirti
farò
piover tesori, ognor più grato;
sin
a l’estremo stato,
consumerò
tutti del cor gli spirti.
SCENA
VIII
Eliabbe solo.
Strada.
eliabbe Fluttuante il pensier
vie più m’ondeggia,
né
so perché: vorrei morto Nineuse,
del
patrimonio mio con torvo inganno
usurpator
tiranno,
5 che
nel mio ben d’ogni mio mal festeggia,
empio
fratel: così restarne erede,
e
a chi mancò di fé, mancar di fede;
ma
d’uopo è pria che Zambra a lui si sposi,
per
far feretro a lui de le sue braccia:
10 che
tanto macchinò la nostra traccia.
Or
il punto qui sta s’egli in effetto,
profanator
del marital suo letto,
ripudia
Zelfa, a lui per Zambra infesta;
ma,
deh con qual ragion, s’ella è sì onesta!
15 Siasi onesta quanto sa,
ben
saprà
quel
fellon il laccio sciogliere,
per
accogliere
nel
suo sen colmo d’insania
20 la
beltà che ’l cor gl’impania.
Oggidì,
quando sien sudici,
si seducon tosto i giudici,
purché
l’or si faccia intendere;
poiché
suol comprar e vendere
25 la
malizia
a
l’incanto la giustizia.
SCENA
IX
Graffio
ed Eliabbe.
graffio Signor,
liete novelle
veloce
arreco, e Zambra a voi m’invia!
eliabbe[190] Dille,
mio Graffio, che le ascolto attento,
per
saper ciò che vuol l’anima mia.
5 graffio Zelfa, colta al zimbello
con
l’innamoratello,
non
sol avrà lo sfratto al rito ebreo,
ma
le faran ancora,
senza
lunga dimora,
10 di
pietre un mausoleo;[191]
e
la signora Zambra inculminata
verrà
tosto a Nineuse maritata;
e
così abbiam sortito a questo titolo
per
la gran trama il capo del gomitolo.
15 Tant’ella
a voi riparte, e vi scongiura
di
presto andar senz’alcun’orma impressa
a
rinvenirla ov’a’ suoi carmi oscura
il
ciel, quando le par, la pitonessa,[192]
per
consultar con essa
20 la
forma, e ’l fin di così gran negozio:
Su
via! Tempo non è di stare in ozio.
eliabbe Ma
come andò? Conviene che tu mel dica,
poiché
non cavo ancor chiaro il costrutto,
mentre
creder non so Zelfa impudica.
25 graffio Venite!
Per cammin vi dirò il tutto.
SCENA
X
Elcana solo.
elcana Oh
che mondo stralunato,
che
non vede il torto ingiusto,
onde
il povero, ma giusto
oggidì
vien bersagliato!
5 Oh
che mondo stralunato!
Un
susurro volante
corre
per la città, che colta in fallo
sia
stata Zelfa, e ch’Elidoro amante,
per
cader farla, entrò con lei nel ballo.
10 Quindi
Nineuse, accinto a la vendetta,
in
carcere inuman la tien ristretta.
Sto
a veder che i nostri satrapi,
senza
farne altro squitinio,
con
stil cieco in cera tetrica[193]
15 segneran tosto il ripudio,
e, bevendo a un aureo poculo,
diverran ciechi e flessibili,
proferendo
il reo giudicio
che
condanni al duro scempio
20 la
fedel con nuovo esempio.
Oh
che mondo stralunato,
che
non vede il torto ingiusto,
onde
il povero, ma giusto
oggidì
vien bersagliato!
25 Oh
che mondo stralunato!
Questo
riccon superbo;
adultero,
omicida, avaro, esoso:
gomorrita maturo,
gabaonita acerbo,
30 falso,
maligno, ladro, ambizioso,
sanguinario,
spergiuro:
de
la tribù infernal di Zabulone,[194]
e
di quella di Dan sol con le donne;[195]
che
sì che fa passar per disonesta
35 la
moglie col capriccio sensuale
di
sposar Zambra, e aver per cagion tale,
non
già per quella, il cornucopia in testa![196]
Così
chi oggetto sordido
al
suo disio prefigge,
40 l’onor proprio trafigge;
e
pescando nel torbido
un
infame piacer che ’l macchia e ’l danna,
con
bugiarde apparenze il volgo inganna.
Oh
che mondo stralunato,
45 che
non vede il torto ingiusto,
onde
il povero, ma giusto
oggidì
vien bersagliato!
Oh
che mondo stralunato!
SCENA
XI
Lazaro
ed Elcana.
lazaro Ecco
il povero, giusto no,
ch’io
non so,
se
l’umor ch’acre m’impustula,
se
’l calor che ’l cor m’abbrustula,
5 mi
contamini ed accenda,
con
prurito impaziente,
con
ardor d’ira bollente
l’alma
che al creator fie che si renda.
Ohimè,
che fo più al mondo? Il mio dolore
10 cresce
con la mia fame, e ’l cor mi manca.
Logora
la mia vita
brama
la morte, e con le bocche aperte
di
queste piaghe a terminar l’invita
le
mie pene ben aspre e mal sofferte.
15 elcana Lazaro,
il tuo sconforto
non
è perpetuo no: la carne grave,
come
sorta da terra, a terra piomba;
ma
lo spirto, prosorto[197]
da la divinità, cader non pave
20 col
corpo a imputridir dentro la tomba.
Dal
ciel l’origine
la
ragionevole
alma
sortì:
ne la vertigine
25 del
niente fievole
mai
la colpì.
Ben
può risolvere
natura
in polvere
il
corpo fral,
30 ma
non rivolvere
ciò
che ad estinguere
corta
non val.
lazaro O
consigli celesti!
Elcana, amico saggio,
35 con
l’ingegnoso tuo fervido raggio
la
brama di morire,
per
dar fine al martire, in me più desti.
Speranza
felice,
che
l’anima elice
40 dal
centro del cor,
col
tempo, che vola,
la
pena m’invola,
mi
tempra il dolor.
Al
riposo un’anelante,
45 palpitante
sempre
aspira,
e
sospira
la
sua sfera,
che
qua giù mai non fu vera.
50 elcana Fortunato,
che sai
filosofar
sì ben dentro a’ tuoi stracci,
e
da le piaghe tue spremer fortezza,
spera
che al fin darai
termine
al mal, se con quel Dio t’abbracci,
55 che
converte in vigor la fievolezza.
Del
ricco l’alterezza
il
baratro ha per meta, e ’l precipizio
va
sempre unito al vizio;
ma
l’innocenza giusta, ancorché lacera,
60 se
ben il duol la macera,
qua
giù calcata, fuggitiva imbelle,
fissa
in ciel, poi lassù calca le stelle.
A
burchielletto,[198]
che
non s’ingolfa nel mar infido,
65 ma
rade il lido,
la
vita è simile del poveretto:
quinci,
se insorge di morte atroce
l’Euro
feroce,
non
si dilunga, né mai si sferra,
70 ma
ne la rabbia investe e prende terra.
lazaro Signor,
i tuoi raccordi
così
soave accordi al Ver eterno,
che
vorrei esser morto,
per
arenar nel porto
75 il
mio legno sdrucito
in
un mar fementito,
dove
tante procelle ognor discerno;
ma
più non le pavento,
che
’l mio presentimento
80 presagisce
al disio la calma pronta,
mentre
a la sofferenza
divina
Providenza,
stella
foriera, in ciel mai non tramonta.
elcana Povero
fortunato,
85 contraposto fatale,[199]
del
riccon bestiale!
Tu
nel patir beato,
ei
nel piacer penante:
tu
nel dolor costante:
90 ei
scarso ne la copia
tu
pago de l’inopia:
egli
purpureo mostro
veste
di bisso e d’ostro,
tu
mitissimo agnello
95 porti
stracciato il vello:
tu
giusto e mansueto,
egli
empio e disumano:
tu
limpido e discreto,
ei
sordido ed insano.
100 Or che sarà? Ben presto
il
fin d’entrambi a dir sen viene il resto.[200]
SCENA
XII
Pellandra sola.
Logge.
pellandra Sagace mio core
scoppiata
è la mina!
Se
Zelfa meschina
tra
i sassi oggi muore;
5 e
Zambra l’amata,
ma
più fortunata
Nineuse oggi sposa,
oh
che gran cosa hai fatta, oh che gran cosa!
Deh qual io mi son la destra
10 de
le trappole ingegnera,
de
le trame la maestra,
degli
amori la terzera![201]
Ben
si scorge da l’effetto,
che
so por la sposa in letto.
15 So
ben io ciò che vi vuole,
per
recar la sorte in braccio:
fo
de’ fatti e non parole
con
ordir secreto il laccio:
e
già che son pell’ed osso,
20 e
goder, ahi, più non posso,
tutta
impiego i modi scaltri,
sol
per far che godan gli altri.
Ma
vien lieto Nineuse in ver me ratto,
con
Bisticcio e Farfalla:
25 se
’l pensier non mi falla,
dannata
è Zelfa: a l’oca il becco è fatto.[202]
SCENA
XIII
Nineuse, Bisticcio, Farfalla e Pellandra.
nineuse Pellandra, oh come riedo a te contento,
poiché
la traccia nostra ebbe l’intento!
I
giudici uniformi,
dopo
aver ascoltata
5 di
questi due conformi
l’asservito
attestato,
con
gradibil decreto han sottoscritto
il
gastigo a l’adultera prescritto.
pellandra Va
ben ed io ne godo,
10 poiché,
reciso il nodo,
sciolto
verrete dal noioso impaccio,
e
stringeravvi a Zambra un più bel laccio.
Ma
Zelfa poverina[203]
spruzza
di compassion qualche scintilla
15 al
mio petto infedel che la lattò,
ond’or compunto inclina
a
salvarla, se può: né deggio intanto
negarle,
almen di qualche stilla, il pianto:
pietà,
signor, per lei ragion v’implora.
20 nineuse No!
Convien ch’ella muora.
Muora Zelfa e Zambra viva:
Zambra
dolce e Zelfa esosa;
che
non vuol novella sposa.
Ombra
intorno emula e schiva;
25 muora Zelfa e Zambra viva!
Pria
che del Sol la face in mar s’estingua,
ciò
che detto ha mia lingua,
s’appressa
il Fato a comprovar col fatto.
Odi
Pellandra mia! Teco fo patto:
30 ad
ogni altro tuo voto io son d’accordo,
ma,
se prieghi per Zelfa, eccomi
sordo.
pellandra Poiché
così ti piace,
la
tua voglia fia legge; io vo’ giurarla;
ma
permettimi almen ch’ov’ella
giace
35 prigioniera,
me n’entri a consolarla.
nineuse Tanto
a te sola sia, come a nutrice,
volentieri
permesso. Il guiderdone
darotti poi de l’opra tua felice;
ma
che brontoli tu, caro buffone?
40 farfalla Signor,
mi provo a far da poetone
a
Zelfa l’epitafio, e vo’ servirla
ben
con la mia Musaccia,
che
le rime stiraccia,
poiché
ella vi risparmia il seppellirla.
45 bisticcio Sarà
la vena dura,
come
la sepoltura:
signor,
non l’ascoltate,
ch’egli
è un poeta a punto da sassate.[204]
nineuse Lascialo
dir, che le freddure a punto
50 son
da sepolcro!
farfalla Al termine son giunto
del
quatternario, e chi mel biasma, ha torto,[205]
ch’io
sol non son poeta beccamorto.
Or
sentitelo un po’, per vita mia,
signor,
e date un urto, un calcio, un bando
55 a
la malinconia;
ch’io
vi lusingo a ciò di quando, in quando.
nineuse Su
dillo, e fa’ che chiaro a me s’imprima!
farfalla Un
po’ di pazienza! Or vo alla meta.
nineuse La
pazienza è propria del poeta.
60 farfalla Sì,
ch’ei patisce in ricercar la rima.
bisticcio Più
tosto in sostener con le sue brame,
con
dar la fama altrui, la propria fame.
pellandra Oh
che buffon! Le mortadelle indora.
farfalla Vi
mancavate voi monna Pandora!
65 Udite
dunque, o mio signor, udite,
ma,
per non interrompermi, tossite
prima,
ch’io vi farò per meraviglia
stringer
le spalle e raggrottar le ciglia.
nineuse Ancor
non finirai!
70 bisticcio Finiscila
oramai!
farfalla Pria
che morta, sepolta: oh caso raro!
Qui
giace Zelfa, e ’l tumolo a lei pesa,
non
al marito: egli avanzò la spesa,
perch’ella moglie fu d’un ricco avaro.
75 Ohimè!
La rima in fin m’ha strascinato;
pietà,
perdon, ho errato,
perché
pensai cantar ricco preclaro;
Ma
’l verso è troppo longo[206]
né
’l raccorcia dittongo, o sinaleffa:
80 in
somma io son poeta, ma da beffa.
nineuse Sei
poeta buffone, e questo basta.
bisticcio Signor,
vien Cospetton col cor ne l’asta.
SCENA
XIV
Cospettone ed i sopradetti.
cospettone Ecco
il cor d’Elidoro,
dal
mio braccio trafitto,
che
ancor fuma svenato,
come
d’innamorato, arso e confitto.
5 Signor,
ei disse, io muoro
per
la mia cara Zelfa, e son contento:
sol
del crudo Nineuse io mi lamento,
perché
dannato a torto;
ma
cresce il disconforto,
10 mentre
Zelfa, mia vita, ancorché schiva,
per
decreto inuman, fia che non
viva.
Oh
spietata sentenza,
lapidar
l’onestà ne l’innocenza!
Volea più dir, ma l’interruppe il ferro;
15 ch’io
con questo mio terso coltellaccio,
se
’l fui giammai, vieppiù burbero e sgherro,
gli
fei d’un colpo in petto un brutto straccio:
e
poi verso la strozza[207]
fischiò
l’acciar, che sibilando sgozza:
20 così
del sangue al mormorio spumante
gli
smorzai la parola in un istante.
nineuse Ma
che seguì del corpo,
tosto
che vomitò gli spirti insani?
cospettone Signor
il fei gittar fumante a’ cani,
25 che
ancor ne rodon l’ossa.
nineuse Così
vuol, così fa la mia gran possa!
Or
va, prendi una tazza,
in
cui riposto il cor, recalo a Zelfa,
e
dille ch’el beva al suo morire
30 questo,
per ristorarsi, almo elisire:
ma
sappimi poi dir ciò che dirà.
cospettone In
tutto si farà, come ordinate:
a
rivedersi al suon de le sassate.
nineuse Ed
io ne vo, per far che sieno scelti
35 lapidatori
arditi, agili, e svelti.
SCENA
XV
Pellandra, Bisticcio e Farfalla.
pelladra O
Zelfa poverina,
a
che t’ho mai ridotta!
farfalla O
vecchia malandrina
or
fai tu la marmotta,
5 e
’l tardo pentimento
ti
sminuisce il muso e accresce il mento.
bisticcio Oh
che furba volpaccia!
Deh
con qual faccia rabbronzita e tosta
raggira
il dir, per non pagar la posta!
10 farfalla È
la femmina invecchiata
ne la frode al maleficio,
l’arsenal d’ogni artificio,
scaltra,
doppia e raffinata:
bisticcio in
effetto ella è una volpe,
15 che
s’ingrassa d’altrui polpe.
pellandra Io
volpe? Deh no!
Miratemi
attenti,
che
son senza denti:
più
tosto un’agnella.
20 bisticcio Più
tosto lupa ingorda, avara e fella.[208]
pellandra Ho
dolce il sangue e compassivo il core.
Ohimè,
se Zelfa muore, io son risolta
di
morir, che per me rimasta è colta.
farfalla Per
te colta ella fu,
25 e
perché di Zimbel t’abbiam servito,
pagaci
dunque su,
né
sfuggir truffarella il patuito!
pellandra Amici,
pazienza:
deh
non m’interrompete!
30 vo’
pria far penitenza:
al
mio dolor cedete.
Ah
non turbate un buon proponimento
per
mercenario e vil emolumento!
bisticcio O
vecchia ippocritona,
35 non
ci raggiri più: pagaci presto,
se
non vuol sul tuo grugno
dal
mio fulmineo pugno un caldo arresto!
farfalla O
furbaccia vegliarda,
che,
quante rughe, hai tante colpe addosso,
40 seben sei pelle ed osso,
stomacosa,
scanfarda,[209]
turcimanna
di carne,
peli
i piccioni e fai pelar le starne;
ma
non pelerai noi, brutta, sdentata,
45 che
rimarrai pelata!
pellandra Ohimè,
che intrigo è questo?
Lasciatemi
partir!
farfalla No, ferma
là!
bisticcio Non
ti muover di qua!
pellandra Povera
me:
non
mi tenete, ohimè!
50 farfalla A
noi, Bisticcio, a noi! Strignila stretta.
pellandra Ahi,
ahi, non posso più! Farfalla aspetta.
bisticcio Taci,
che ti farò!
farfalla La
pelle, il fiel, gli occhi cavar ti vo’.
pellandra Io
son assassinata: aiuto! Aiuto!
55 Che
volete da me? Non vel rifiuto.
bisticcio Vogliam quattrini, e ’nvan tua bocca
priega.
farfalla Vogliam succhiarti ’l sangue, o brutta strega!
pellandra Ohimè
’l capo! Ohimè ’l collo! O fier imbroglio!
Che
nodo vilupposo! Ahi non lo scioglio!
60 bisticcio Lasciala
pur garrire,
ch’io
per la chioma l’ho! Non può fuggire.
pellandra O
Nineuse! O Nineuse! Aita, aita!
farfalla Invan mentita il reo Nineuse appelli.
bisticcio Fortunaccia, t’abbiam per i capelli.
65 pellandra Or
il vedremo: ad uopo io mi riscuoto,
e,
del debito mio per certo pegno,
questo
argento del crin vi lascio in pegno.[210]
SCENA
XVI
Farfalla
e Bisticcio.
farfalla O
noi delusi!
bisticcio O
noi confusi!
farfalla Fugge
la falsa, veloce il piede.
bisticcio Folle
chi crede,
5 chi
crede a donna che non ha fede.
farfalla Pazzo
chi ha fede,
chi
ha fede a donna che a nulla crede.
bisticcio Oh
che bel pagamento!
La volpe lasciò il pel, non l’ardimento.
10 farfalla O
malnato costumaccio,
che
sconvolge etad’e sesso!
A
la moda oggi ’l mondaccio
muta
il pel, né il vizio in esso:
e
la femmina pelata,
15 la
grigiona e la canuta,
del
candor nemica astuta;
cangian pelo a l’invernata:
così
par, ma pare a pena,
che
sia l’Ecuba un’Elena,
20 mentre
appar ringiovinita,
come
pianta rifiorita,
e
col crine riccio e biondo,
tesse
inganni a tutto il mondo.
farfalla Oh
che frode! O quante zucche
25 e bisticcio se volasser le pirucche![211]
SCENA
XVII
Pitonessa,
Zambra, Eliabbe, Graffio e quattr’Ombre.
Grotta
sotterranea.
pitonessa Questo
è lo speco, amici,
dove tra l’ombre
arcane,
pitonessa
di Dite, il ver disvelo:[212]
quindi
ne’ campi aprici
5 del
sotterraneo regno, ov’ho il mio cielo,
veggo del Fato rio l’orme più strane.
In
fogge disumane
il
sembiante trasformo, e, ancorché ’l vieti,
soglio
scrutar di Dio gli alti secreti.
15 De
l’abisso tributaria
fo
che ’l mar gli euri improcellano,
che
le scosse i monti svellano
al
mugghiar d’un turbo in aria.
Di
questa verga mia guizzante al gemito
20 grandinose
tempeste aggiro ed eccito;
E
qualor carmi tetri ardendo recito,
mi
risponde de l’Orco il mesto fremito:
così
strisciar io fo raggio veridico
de’
mormoranti ensalmi al suo fatidico.
25 Or
chiedete
che
volete!
V’aprirò
con tuon fanatico
del
futuro
più
sicuro
30 il
successo a un dir enfatico.
zambra Saggia,
il nostro desire
sol
ricerca da te, se ’l nostro intento
d’avvelenar
Nineuse avrà l’evento,
e
s’oggi è ’l dì fatal ch’ei dee morire?
35 pitonessa Or
vi servo fedel, ma non temete,
se
scatenar vedete
qui,
sotto a’ vostri piè, l’inferno ombroso,
al
mio stretto scongiuro ossequioso.
D’Acheronte
sentitemi
40 numi
ossecrati, orribili!
Di
questa verga ai sibili
v’appello:
o là ubbiditemi!
Io
son colei che onorovi
e
sui vietati tripodi
45 v’offro
capri e polipodi,
mentre
prostrata adorovi.
Qui
muggendo si scuote la terra ad un tremoto.
zambra Ohimè,
che fier ribrezzo!
graffio Ohimè,
che sconcio vezzo!
Povero
Graffio, ohimè, questa canzone
50 ti
costerà un testone.
eliabbe Oh
che tremor m’aggira!
Freme
il suol, geme il cor, l’aria
sospira.
pitonessa Non
temete! Si strecciano
già
le larve onorevoli,
55 ed
al vol concordevoli,
per
venir s’apparecchiano.
A
questo picchio attonita
con
vaporosa enfiagine,
da la cupa voragine
60 l’ombre la terra vomita.
Escono
quattr’Ombre da quattro parti.
graffio Ahi,
ahi! Tutto interizzo,
senza
brio, senza lena, attratto e vizzo.
Oh
che gran stramazzata!
Addio
zucca pelata!
65 Ma
è un mal che si ristucca,
non
mancherà pirucca.
Ciò
che mi preme più, con gran tormento,
oh che ruina! Ho rotto il
fondamento.
zambra Non
più, non più! Son morta:
70 Viva
Nineuse pur! Ferma l’incanto!
Ohimè,
caro Eliabbe, ov’è la porta?
eliabbe Da
la magion del pianto
non
può venir, sol che terror funesto.
Anch’io
gelido resto.
75 pitonessa Non
temete! Or narratemi,
ombre
amiche, se aspettasi
da
voi Nineuse? Affrettasi
sua
morte? Il segno datemi!
Qui
l’Ombre si curvano e poi sfrizzano.
graffio Ohimè, ohimè! Oh che spietato crollo!
80 Mi
ruppi ’l fianco ed or mi fiacco il collo.
pitonessa Ditemi
pur, se prefico
il
Fato oggi lo stermina
dal
mondo, e s’a lui termina
l’aura
un sorso venefico?
Qui
l’Ombre si curvano, come prima.
85 graffio Oh
che fieri tormenti!
Col
batter tanto a me cascano i denti.
pitonessa Chiare
novelle, o Zambra: oggi Nineuse
morirà
di veleno. Ombre sparite,
per
arrivarne il gran tripudio a Dite!
90 zambra Andiamo,
andiam dolc’Eliabbe al sole!
eliabbe Sì,
mia bella, io ti reggo
e
poiché in ciel scritto il destino io leggo
muora l’empio Nineuse, il ciel lo
vuole.
graffio Ah
ah, ah ah, ah ah! Per respirare
95 fatemi
largo omai, ch’io vo’ sciallare!
Conchiudono quest’atto
terzo le quattr’Ombre con un funesto balletto, le quali poi si convertono in quattro
alberi di cipresso.
ATTO QUARTO
SCENA
I
Elidoro travvisato con barba
posticcia e Zelfa legata di funi.
Prigione
interiore.
elidoro Ecco, adultera donna, estinto il core
di
quel che fu tuo cor, tuo ben diletto:
Nineuse a lui fe’ sviscerar il petto,
ch’ei
gli rubò fellon teco l’onore.
5 Mentre
il ferro il trafisse
sai
tu ciò ch’egli disse,
vomitando,
rubello al pentimento,
tinto
nel sangue suo l’ultimo accento?
Io
muoro a Zelfa, il so;
10 ma sempre l’amerò:
che,
se l’alma non muor,
immortal fia l’amor:
mio
bene, idolo mio,
Zelfa mia cara addio!
15 zelfa Ahi
che tragico affanno
compie
del mio dolor l’atra misura!
Povera
Zelfa! Ohimè qual nube oscura
mi
toglie il lume? Oh Dio qual disinganno
mi
costringe ad amarti,
20 or
che non posso più, caro, abbracciarti?
Elidoro! Elidoro! Ahi tardi amato
da
questo cor ingrato!
Or
che vorrei non posso,
quando
potea non volli:
25 tanto
strazio han promosso!
Per
serbar fede a l’infedel consorte,
o
dolce anima mia, ti diei la morte.
Lacrimate
occhi dolenti,
perché
spenti
30 del
mio Sol i rai sospiro!
Svelto
core
dal
mio amore
io
non muoro, e ancor ti miro!
Ma
che giova il lagnarsi,
35 se
non può il ben perduto, ahi, ricovrarsi?
Ah
Nineuse spietato e sanguinario,
che Lestrigoni e Cafri e Traci e Sciti[213]
non
sol crudele imiti,
ma
li sormonti ancor empio sicario,
40 da
una lupa succhiasti
perfido
il latte crudo,
poiché
di pietà nudo
il
mio vezzoso agnel mi lacerasti!
Deh
fatal destin
45 sei
pur giunto al fin!
Che
vuoi da me più?
Poiché
’l mio dolor
non
m’uccide ancora,
perché
nol fai tu?
50 elidoro (Fortunato
procinto:
o
me felice! Ho vinto.) (a parte)
zelfa O mia vita, o mio bene,
tu
con barbaro esempio
per
me sì atroci pene,
55 per
me sì enorme scempio
soffristi,
e sopravvivo
a te, de l’alma privo?
Tu se’ morto, e non muoro?
Elidoro! Elidoro!
60 elidoro Morto
non sono, o cara! (si leva la barba)
Da la mia fede impara
ad
essermi fedele, amata amante:
eccomi
qui costante,[214]
che
con sagace sorte,
65 per
dar la vita a te, scansai la morte!
zelfa Oh
sorpresa importuna!
Quest’adultero
inganno,
d’ogni
altro è maggior danno,
che
tutto il male in me tosto raduna.
70 Poiché
viver ti vedo,
più
che pria non ti credo:
ah
fu delirio il pianto ed il lamento
del
mio cor sul tuo finto or è tormento!
T’amai
svenato, sì,
75 or
non più ti amo no:
e
quel laccio, che ordì
tua
frode, or si spezzò.
La marital
mia fé
da
l’estorta pietà
80 non
è divelta già,
poiché
ritorno a me;
ma
t’aborro ognor più:
va’
via, che fai qui tu?
elidoro Oh
mutanza infelice!
85 Bella,
se a me non lice,
perché
fiera l’amarti,
almen consenti almeno,
benché
sii pietra viva,
ch’io
faccia scudo a te di questo seno.
90 Già
Nineuse ti priva
di
respiro tra sassi,
pria
sepolta che spenta: or che farassi?
Abbi
di te, se non di me, pietade!
Prenditi
questi panni e questi peli,
95 la
tua gonna mi lascia, onde mi celi:
t’offro
lo scampo, fuggi, ah fuggi presto!
Perché
già l’ora cade,
in
cui Nineuse a lapidarti, atroce,
arma
robuste braccia: io per te resto
100 ad aspettar, chi mi conduca al posto:
ah
fuggi, anima mia, deh fuggi tosto!
zelfa Strana
avventura è questa:
che
risolvo? Si desta
ver
Elidoro in me pietà novella.
105 elidoro Che
pensi? Che risolvi? O cara! O bella!
zelfa S’io
mi salvo ed ei muore?
Ah
nol consente Amore!
elidoro Che
rumini sospesa?
zelfa Io
penso a te! Ch’io parta, amico, e poi
110 tu rimanghi a
la presa!
Ah
nol vo già, se ’l vuoi!
Son
grata, e l’equità fie troppo offesa.
elidoro Deh
lascia, anima mia,
pensarci
a me, ch’io so: presto va’ via!
SCENA
II
Nineuse e Lazaro.
Atrio
di palagio.
nineuse Oggi
per me fatale il dì si volge
in
cui Zelfa la stolta
fia tra sassi sepolta,
e
la mia bella Zambra,
5 quanto
più posseduta,
tanto
più del mio cor donna assoluta
trionferà
nel talamo che indora
con
le sue luci, e co’ suoi labri infiora.
lazaro Ahi
morte vitale,
10 che
m’uccidi ognor!
Ahi
vita mortale,
perché
duri ancor?
Svenuto
il mio petto,
di
pustule infetto,
15 non
ha più respir
e
anela a morir.
La
fame rodente,
con
morso fremente,
con
rabbia letale,
20 mi
lacera il cor:
ahi
morte vitale,
che
m’uccidi ognor!
nineuse Oh
che voce importuna
turba
del mio gioire,
25 col
funesto guaire
la
ridente fortuna!
lazaro Già
son del mio fine
le
mete vicine:
coraggio,
o pensier!
30 Poiché
lusinghier
inviti
a la calma
in
porto quest’alma,
che
in legno sì frale
ondeggia
al dolor:
35 ahi
vita mortale,
perché
duri ancor?
nineuse M’apposi
certo: sì ch’egli è quell’uno
ch’osa
ognor mescolar co’ suoi lamenti,
famelico
digiuno
40 i
miei satolli no, stanchi contenti,
infausto
cornacchione,
perché
t’aggiri ancor per queste logge?
Se
già con aspre fogge
ti
fei cacciar al suon d’atri rimprocci:
45 va’
via! Se più t’approcci,
ti
sentirai sul dosso un buon bastone.
lazaro Signor,
io muoro.
nineuse Muori.
lazaro Di
fame.
50 nineuse È
poco mal.
lazaro Ahi
che dolori!
nineuse Me
ne rido.
lazaro Ahi
che morbo!
nineuse Tu
sei, furbaccio, un corbo
55 di
malaugurio.
lazaro Ohimè,
pietà vi chieggio.
nineuse Un
calcio ti do invece.
lazaro A
voi, come a padron questo, e più lece.
nineuse N’avrai
anche di peggio:
60 va’
via!
lazaro Signor, pietà, pietà signore,
per
amor di quel Dio che ci sostiene!
nineuse Oh
bene! Oh bene! Oh bene!
Che
Dio? Pazzo trasogni.
Giuro
il ciel, non v’ha Dio;
65 e
quando vi sia pur io lo son io.
lazaro Che
deliri! Che sogni!
Ricco
infelice svegliati
dal
tuo letargo cupo:
se
vuoi che ’l pastor sciegliati,
70 sii
pecora, e non lupo.
Con
bestemmie sì orribili
arroti
al ciel lo strale,
i
cui fischi terribili
già
s’odono al tuo male.
75 S’or
ti può morte opprimere,
misero
Dio tu sei:
che
l’or non ti può esimere
dal
ferro di colei
che
non teme i rimproveri
80 nel
mieter ricchi e poveri.
nineuse Ah
temerario! Ah bacchettone! Ah spia!
E
’l soffro ancor? Olà si cacci via!
SCENA
III
Cospettone con alcuni Sgherri, Lazaro e Nineuse.
cospettone Padron,
eccomi qui col brando in filo!
Che
commandate voi? Con questi fidi
seguaci
miei vi servirò animoso.
nineuse Cospetton, vo’ che snidi
5 costui
da quest’albergo, ov’ha l’asilo
tutt’or,
a me stracciato infausto, esoso:
fa’
che più nol riveda,
dallo
in dono ai dirupi, ai corbi in preda.
cospettone Così
farò signor. Commilitoni
10 prendetelo
di peso,
ed
a suon di sgrugnoni
smascellatelo
gittatelo, ove sceso
corre
con passo algente
di
Cedronne il torrente.[215]
15 sgherri Tanto
faremo, a noi!
nineuse La
ricompensa, amici, avrete poi.
lazaro Aita, o ciel, o Dio!
nineuse Va’ pur, e paga di tua lingua il fio!
SCENA
IV
Cospetton e Nineuse.
cospettone Or,
che a far più mi resta?
nineuse Vo’
che con quella
turma
de’ tuoi sargenti, ad uopo scelta,
ne
vadi or ora a condur Zelfa,
dove
5 nembo
di sassi piove.
Già
con robusti ardori
attendono
l’oggetto
bravi
lapidatori,
e
’l curioso aspetto
10 d’una
folta affluenza i gradi preme:
il
popolo, che freme
a
l’onta, che m’offende, a cento, a mille,
arma,
per vendicarmi, atre pupille.
cospettone Vado,
signor, a proseguir l’inchesta.
15 nineuse Va’
pur, va’ tosto ad estirpar l’infesta!
SCENA
V
Pellandra ed Elidoro
in abito di Zelfa.
pellandra Che fai, povera figlia?
Ohimè,
come ti miro in questa tomba
da
l’affanno sepolta! Ah come piomba
il
tuo viso! Deh volgi a me le ciglia!
5 Che
fai povera figlia?
elidoro Importuna
fantasma, ombra letale
cagion d’ogni mio male,
perché
venuta sei, con che m’adiro,
a
funestar il mio final respiro?
10 pellandra Per
consolarti, o cara,
ne la tua pena amara.
elidoro Perfida,
ancor ti mesci
nel
mio tetro dolore,
per
renderlo maggiore.
15 Va’
via, larva di morte, ancor non esci?
pellandra Amata
Zelfa, io sono, io son colei,
che col funereo suon di mesti omei
confesso
il tradimento,
e
ne irrigo col pianto il pentimento.
20 Deh
ricevi lacrimoso
il
mio spirto in duolo absorto,
e
col tuo guardo pietoso
don
al cor qualche conforto!
Ah
perdona! Errai: pentita
25 vorrei
dare,
per
salvare
la
mia Zelfa or or la vita.
elidoro Congiuntura
opportuna! Io vo’ servirmi
de
la traccia con cui Zelfa salvai.
30 Vecchia,
non val offrirmi
la
vita, se con l’opra or non la dai.
pellandra Ohimè,
son colta al motto! Ah, se potessi,
vorrei
ben, che ’l vedessi!
elidoro Pellandra, se tu vuoi,
35 ben
eseguirlo puoi.
pellandra E
con qual modo, o figlia?
elidoro Questa
mia gonna ed il mio velo piglia,
ch’io
prendendo la tua, quindi coperta
ricovrerommi a libertade aperta.
40 pellandra Periglioso
consiglio!
Che
sarà, s’io lo sceglio?
elidoro Che
sarà? Poco danno
a
te può intravenirne:
resta
pur qui, ch’uscirne
45 potrai,
scoperto il generoso inganno.
pellandra E
s’io son lapidata
in
tua vece, addio pur! Pellandra è andata.
elidoro Non
dubitar! A te, non a me, dono
farà
Nineuse al fin del suo perdono.
50 pellandra Ancor
non mi risolvo,
e
quanto più rivolvo
nel
pensier questo invito,
tengo
il partir di qua miglior partito.
Noialtre
vecchiarelle
55 abbiam
la morte addosso,
non
già tra carne e pelle,
ben
sì tra pelle ed osso;
e
benché siam rugose,
curvate
e rantacose,[216]
60 col
piè nel cimitero,
dimandiam tempo a far l’ultimo zero.
elidoro Fementita, a schernir quest’infelice
dunque
venisti? E tu sei mia nutrice?
pellandra T’amo,
figlia, ma temo:
65 non
ho cor da salvarti, e perciò gemo.
elidoro Se
vita mi puoi dar senza perire,
mi
lascerai morire!
pellandra S’altro
scampo non v’ha, sol ch’io qui resti,
in
vece de le tue, prendi le vesti
70 mie:
chi sa? Nineuse avrà pietade,
se
non di te, de la mia grinza etade.
elidoro Non
dubitar Pellandra! Un bell’ardire
prova
sorte felice: io do parola
di
girne a procurare, anche il tuo scampo,
75 con
non ingrato petto
al
tuo fedel rinovellato affetto,
poiché
mi veggo aprire
di
quest’avello il varco al caro lampo
del
tuo propizio aiuto: or non si tardi!
80 pellandra Son
in pegno: a noi pur! Più non risguardi!
Questa
volta, o mie colpe,
restar
fate a la trappola la volpe.
SCENA
VI
Bisticcio,
Farfalla, Ghiotto, tutti da viaggio con gli stivali.
Atrio
di palagio.
bisticcio A
la guerra de’ buoni bocconi
s’armino
i denti, la gola s’ingiacchi!
A
pranzi, a cene, a collazioni
sia
petto il ventre, che mai non si stracchi.
5 farfalla Quanto
a me ne vado armato,
per
far breccia in un pasticcio,
benché
sia torrionato
da la crosta che dà impiccio.
Spianerò
con man brodosa
10 la
montagna più carnosa,
e
col morso mio gagliardo
a
sbranar capponi e starne,
con
stridor farò scolarne
su
la gota il grasso lardo.
15 ghiotto Ed
io, che di cucina
son
bravo protomastro,
che
disceso in cantina
divengo
un Zoroastro,[217]
in
questo dì che fuma,
20 farò
saltar la spuma
del
vin fino a le stelle:
sventrerò
le animelle,
per
animar il ventre;
ma
non fia già che v’entre
25 alcun
cibo pedestre e dozzinale:
abbia
pur, se si può, fenicie l’ale.
bisticcio È
partito Nineuse con l’amica
a
far le nozze questa sera in villa.
Per
andar stretti più, vanno in lettica:
30 arde
l’uno di gioia, e l’altra brilla.
Oh
qual, per sì gran peso, alta fatica
faran le mule! Ognuna e geme e stilla
caldo
il sudor; ma con ragion è stracca
col
carico d’un toro e d’una vacca.
35 farfalla Zelfa intanto a le pietre destinata
or
or fia strascinata. Oh sorte
dura,
che
fa pianger Natura a più non posso,
perché
Zambra ha la carne e Zelfa l’osso.
ghiotto Che
importa a me? Purch’io magni a mia possa,
40 con
faccia e panza tosta,
muora pur, muora Zelfa e Zambra goda:[218]
viva
Nineuse pur, viva la broda!
bisticcio A
cavallo! A cavallo!
A
la pesca, a la caccia, al canto, al ballo!
45 ghiotto Olà!
Fate insellarmi un elefante,
ch’ho
il ventre un po’ pesante!
farfalla A
cavallo! A cavallo! A nozze! A nozze!
Datemi
un buon corsier, non voglio rozze![219]
bisticcio Ed
a me un dromedario camminante;
50 ma
però di portante;
che
non van ben gli occhiali
a
chi calza stivali,
a
cavallo! A cavallo!
A
la pesca, a la caccia, al canto, al ballo!
SCENA
VII
Eliabbe e Graffio stivalato.
Strada.
eliabbe Palpitoso pensiero
ferma,
deh ferma l’ali,
che
l’incostanze tue mi son letali!
Disio
morto, ed è vero,
5 il
mio crudel germano,
che
’l ben ereditario a me sottrae;[220]
ma,
se interesse il vuol, Natura il niega:
quindi
la brama arresto
perplesso,
e temo l’esito funesto.
10 graffio Signor,
in fretta, in fretta,
aleggiante
il polmone,
sopra
un legger ronzone,
Zambra
mi manda a voi: penando aspetta
quelle
polvi, efficaci
15 a
spegner di Nineuse i giorni edaci:
su,
presto al dispacciarmi!
eliabbe Caro
Graffio non so, non so piegarmi
a
così atroce scempio:
è
vero che merta l’empio
20 mille
volte la morte,
ma
sento un non so che d’ambiguo e tetro,
con
cui dal fatto il mio disegno arretro.
graffio Oh
questa sì che bagna!
Signor,
per qual cagione
25 Or
fate il bacchettone?
Ah
che vita sì rea mal si sparagna!
Muora Nineuse, muora
questa
notte che arriva!
Viva
Eliabbe, viva,
30 e
sia del giorno suo Zambra l’aurora!
eliabbe Che
penso? Che risolvo? Ah vada il resto!
Eccomi
Graffio amico, eccomi presto.
Prendi
le polvi, ov’ha la morte impresse
l’orme letali, e dalle a Zambra in dirle
35 ch’al
suo bel, al mio ben vengo ad offrirle.
graffio Muora Nineuse, muora
questa
notte che arriva!
Viva
Eliabbe, viva,
e
sia del giorno suo Zambra l’aurora!
SCENA
VIII
Elcana solo.
elcana Oh che mondo,
tutt’immondo,
pien di frodi,
fatto
a scale,
5 dov’il
giusto discende e l’empio sale![221]
Quanti
nodi
l’interesse
scaltro
tesse!
Quant’inganni
10 logran gli anni!
Come
vane
cure
umane,
ondeggiando
in questo mare,
vanno
a dare
15 con
fier cozzo in duro scoglio,
dove
ha soglio
l’alterezza,
che
disprezza
l’innocenza:
20 dov’infido
cova
il nido
l’erronea
libertà de la coscienza!
Quinci
tanti,
fluttuanti,
25 fur veduti andarne a fondo:
oh
che mondo!
Nineuse il ricco, enfiato
da
l’orgoglioso fasto,
più
de’ corbi ’nfedele,
30 del
povero ulcerato
ha
fatti ai corbi pasto:
più
minace d’Arturo,
più
de le selci duro,
de
la sposa fedele
35 or
fa bersaglio ai sassi:
dunque
fia che ciò passi
senza vendetta, o cielo,
e
che trattenghi ’l foco a tanto
gelo?
De
la bella innocente
40 agli
accesi sospiri
per
far che non s’aggiri
al
fin l’orecchio algente,
ostinato
a la pena
di
lei, che iniquo aborre
45 con
la sua Zambra oscena
a
festeggiare sen corre
le
nozze in villa: oh Dio
ancor
non paga il fio,
di
tante colpe carco?
50 Ma
’l castigo l’attende affisso al varco.
De
la Giustizia sospeso
fu
l’arco, omai troppo lento:
or
ora si curva teso
a
far che ’l tristo sia spento:
55 chi
non conosce il ciel, quando è brillante,
n’è
fulminato poi, quanto è tonante.
SCENA
X
Lazaro
moribondo, col capo appoggiato ad un sasso, e due angeli.
Torrente
con dirupi e cascate d’acque.
lazaro Ecco
il fine del mio duolo,
del
mio pianto ecco le mete!
Alma
mia prepara il volo
ad
un centro di quiete.
5 Da
questa spoglia frale,
infranta
in un dirupo,
esci
pur immortale,
per
fuggir agna il lupo!
Addio
mondo inumano,
10 che
al trono ergi l’ingiusto,
e
al precipizio insano
condanni
a torto il giusto:
io volentier mi snodo
da’ tuoi lacci, e già godo,
15 che
la mia pena acerba
recisa,
e dal puzzore
arsiccia
e senza fiore,
sia
da la Parca la mia vita in erba.
E
tu Nineuse irato,
20 che
con ruvido ciglio
ver
me, così famelico e piagato,
vibrasti
sanguinario il fier artiglio:
rimanti
’n guerra teco, avaro, edace:[222]
ch’io,
ricco di me stesso,
25 benché
misero e oppresso
dal
tiranno tuo cor, ne vado in pace!
due angeli Al
riposo
prezioso
vienne pur o anima bella,
30 che
t’appella
quel
buon Dio che ti creò
fortunata,
per gioire
in
quel sen che preparò,
dopo
il tuo lungo patire,
35 come
porto, in cui la calma
ride
a l’alma,
che
nel mar d’ogni disastro
ebbe
ognor la fé per astro.
lazaro O
geni celesti,
40 or
sia che m’appresti
più
lieto al morir!
Poiché
’l vostro riso
del
mio Paradiso
mi
accresce il desir!
45 Oh
come gioisce,
perché
s’arricchisce
di
speme novella,
che
a Dio mi rappella
svegliato
il pensier
50 un
raggio, foriero
de
l’alba, che spero
in
notte sì esosa,
con
luce pietosa
m’invita
a goder.
55 due angeli Vieni
amico, vieni,
dove
la pietà
co’ suoi rai sereni
ti
raccoglierà!
In questa età,
60 in
cui la colpa tronfa
de
la virtù trionfa,
raminga
l’innocenza
d’incolpabil coscienza
asilo
alcun non ha.
65 Vieni
amico, vieni,
dove
la pietà
co’ suoi rai sereni
ti
raccoglierà!
lazaro Andiamo
sì, sì,
70 che
del mio Natal
mi
splende oggi ’l dì
tranquillo
e vital!
Felice
morir,
che
m’apre al respir
75 il
varco fedel!
Aspirami
o ciel.
Mio
Nume divin,
de
l’arso mio cor
dolcissimo
amor,
80 quest’alma
ti do,
perché
da te l’ho:
tu
ne fosti principio, e ne sei fin.
Qui
Lazaro agonizza svenuto.
primo Da
questo aspro torrente
angelo leviamlo
del Giordano
85 a
la riva clemente,
che
già con l’alveo sacro
appresta
il gran lavacro
al
felice cristiano.
secondo Ben
è, perché v’esali
90 angelo l’alma, spogliata di sue membra frali,
che
poi con volo ameno
lieti
la porterem d’Abramo al seno.[223]
amendue, O
morte preziosa!
mentre il O morte
amorosa!
95 portano O morte vitale!
Felice
chi more
in
braccio al Signore!
SCENA
XI
Pellandra sotto gli abiti di Zelfa velata ed avvinta ad un palo: Cospettone
con Sgherri e Lapidatori.
Anfiteatro.
cospettone Schieratevi
d’intorno, o bravi arcieri,
e
sol passar lasciate,
con
chi si sia severi,
a
l’adultera Zelfa le sassate:
5 e
voi, distinti a cori,
scelti
lapidatori,
con
battute di peso,
fate
di felci sibilar sonante
un’armonia
soave
10 a
l’onor vilipeso,
con
iscoppio tonante,
un
concerto, che grave
abbatta
l’impudica
del
talamo nemica.
Qui
si schierano gli Sgherri e s’accingono a tirare i Lapidatori.
15 pellandra Udite,
udite!
Pietà,
pietà!
Deh
non ferite,
ch’io
non son già
con
questo petto
20 lo
scopo eletto
dal
reo rigor
di
quel furor,
ch’arma
le destre
di
sasso alpestre,
25 contra
me unite
da
l’empietà:
udite,
udite!
Pietà,
pietà!
Deh
svelate questo viso,
30 che
vedrete a l’improviso,
ch’io
non son Zelfa dannata!
Ahi
meschina,
poverina,
ohimè
’l capo, o che sassata!
35 cospettone Tirate
pur, non allentate i colpi,
che
indarno e prega e spera:
così
scappar soglion le volpi.
pellandra Ohimè,
ohimè, che crudeltà esecranda!
Fermate
i sassi, oh Dio!
40 Che
Zelfa non son io, ma son Pellandra.
cospettone Simular
mi convien di non saperlo:
non
curo di vederlo:
tirate
olà!
pellandra Udite,
udite!
45 Deh
non ferite!
Pietà,
pietà!
Si
finge che dalla violenza de’ sassi le cada il velo, e sia ravvisata per Pellandra.
cospettone Ah
destino, ella è scoperta!
Una
pietra la svelò;
e
pur sempre meritò
50 le
sassate, o la coperta.
In
questo suona la tromba e per comando dei Giudici si fermano i Lapidatori.
pellandra Olà fermate,
fermate
olà!
Udite,
udite!
Deh
non ferite!
55 Pietà,
pietà!
cospettone La
tromba suona e ’l giudice m’appella:
Cospetton! Vuol salvar la vecchiarella!
pellandra Ahimè,
respiro un poco!
Benché
così percossa,
60 che
m’han fiaccate l’ossa.
Fischia
l’ignobil turba,
che
spietata mi cinge:
oh
qual onta conturba
il
mio volto, e ’l mio core
65 con
atroce dolore!
Ah,
che misera sorte!
Questo
è peggio che morte.
cospettone Olà,
miei valorosi,
slegate
pur colei,
70 per
condurla a Nineuse,
a
fin ch’ei ne disponga a suo talento,
e
punisca di lei l’alto ardimento
d’aver
salvata Zelfa l’esecranda:
tanto
il giudice vuol, così comanda.
75 pellandra Misera,
e pur son presa, ancorché sciolta!
La
giustizia del cielo al fin m’ha colta.
Qui la strascinano via,
e i Lapidatori, per chiusa di quest’atto quarto, formano un bizzarro balletto, battendosi
di concerto alternamente con le pietre.
ATTO QUINTO
SCENA
I
Nineuse, Zambra e Farfalla.
Casino
in prospettiva, con giardino e fontane.
nineuse Siam
giunti, o Zambra cara,
dove
dal tuo bel viso
serenissimo
riso il ciel impara.
In
questa solitudine amorosa
5 da la tua guancia, dal tuo labro apprende
il
candor l’amaranto
e
l’ostro, onde il suo manto
più
vivace raccende,
principessa
dei fior, la regia rosa.
10 Per
te, mia Flora,
l’aria
s’indora,
s’ingemma
il verde prato:
la
fronte brilla,
l’augello
trilla
15 col
canto innamorato.
Odi
quell’usignuolo,
che
tra ’l pennuto stuolo,
alato
Orfeo gorgheggia!
Egli,
al tuo grato arrivo,
20 pur
lieto e più festivo,
dolcemente armoneggia.
zambra Amata
amante,
la
tua costante[224]
Zambra
ti cole:
25 tu
sol di lei
la
fiamma sei,
l’oggetto,
il Sole.
Al
tuo guardo,
io
tutt’ardo:
30 ma
respiro,
s’io
ti miro.
Il
tuo viso
radioso,
il
tuo riso
35 amoroso,
nascer
fa la primavera,
dov’impera:
il
tuo piè fa sorger fiori:
tu
sei Zeffiro ed io Clori.
40 nineuse Andiamo,
e zambra godiamo,
che
’l tempo sen va!
Finita
la
vita
45 contento
non v’ha.[225]
farfalla O
vaga canzone!
Al
mio calascione[226]
sposar
io la vo’;
ma
meglio sia quella
50 de
la tarantella,
che
vi morsicò.
SCENA
II
Cospettone con Pellandra
legata: Nineuse, Zambra[227] e Farfalla.
cospettone Signor,
novella strana
vi
reco a punto crudo:
questa brutta beffana
fuggir
fe’ Zelfa, ed in sua vece ascosta
5 ne le vesti di lei restò supposta,
e
una fiera sassata,
nel
venir lapidata,
le
fe’ cader il velo,
e
si conobbe al fin la volpe al pelo:
10 quinci
’l giudice, a voi tutto ossequente,
sospese
l’atto, e m’ordinò repente
di
condurvela in fretta,
perché
vostra è l’offesa e la vendetta.
nineuse Che
sento? E tanto osò?
15 S’incarceri,
ch’io vo’
farne
pasto a le fere in una fossa.
pellandra Signor,
pietà, pietà! Perdon, perdono!
farfalla Le
fere magneran poco di buono.
cospettone Sì,
ch’ella non è sol che pelle ed ossa.
20 Vien
pur via Pellandraccia!
zambra Oh
che maliziosaccia!
pellandra Ohimè,
quanto rigor! Ahi che fierezza!
zambra Va’
pur via buona pezza!
Questa
volta il tuo piè più non si strica:
25 salvasti
Zelfa, ed hai Zambra nemica.
nineuse Cospetton, guarda ben che non t’inganni!
cospettone Vien
via sacco di frodi e di malanni!
nineuse Come
l’arrai deposta in luoco oscuro,
ma
che sia ben sicuro,
30 manda
per tutto a far ricerca esatta
di
quella disonesta.
farfalla Oibò,
che questa, più che l’altra appesta!
cospettone Va’
pur là fementita,
che,
se più sei restia,
35 con
un pugno saltar farotti via
quel
dente che ti resta!
farfalla Che
bella Berenice![228]
pellandra O
Pellandra infelice!
SCENA
III
Nineuse, Zambra, Farfalla e Ghiotto.
zambra Che
stravaganza strana!
Zelfa ancor non è morta.
nineuse Amica,
poco importa,
poiché
per me, per te Zelfa non vive:
5 non
temer già, ch’estirperò l’insana!
zambra Deh,
mio ben, fa’ tosto
che
di vita la prive,
o
ferro, o foco, o precipizio, o fiume.
Ch’ella,
benché discosto,
10 è
vapor che m’appanna il mio bel lume.
nineuse Non
temer no, che la saprò arrivare:
le
braccia ho lunghe.
farfalla Ma
non per donare.
nineuse Trattiam di divertirsi[229]
15 a
la caccia, a la pesca: or che s’attende?
ghiotto Padron
eccomi qui tutto in faccende!
La
caccia è pronta e i servi,
coi
segugi a la man, già son a l’alto
quinci
’ntorno del salto.
20 farfalla Non
mancan cani e son anche più i cervi.[230]
ghiotto Intanto
io resto a far condir la cena
con
la ventrosa mia grave scienza,
che
con flemma, con gusto e senza pena,
25 ai
cuochi fa scappar la pazienza.
nineuse Vago
amore,
e zambra dolce
ardore,
del
mio cor, de l’alma mia!
Gelosia
che infesta e punge,
da
noi lunge:
30 stringa
il braccio
caro
laccio
con
reciproche ritorte,
né
’l recida altri che morte.
farfalla Oh,
che parlar funesto!
35 Mal
augurio è cotesto:
tutto
mi raccapriccio.
S’io
muoro: ahi, che spavento!
Lascio
per testamento
ch’esser
vo’ sepellito in un pasticcio.
SCENA
IV
Zelfa in abito di Silvino pastore.
Bosco.
zelfa O vita fallace,
che
incerta hai la sorte!
E,
benché fugace,
non
fuggi la morte.
5 Dovunque
ti aggiri,
hai
teco gli affanni:
al
suon dei sospiri
ten voli con gli anni.
Funesta,
incostante,
10 bugiarda
e delusa:
vanissima,
errante,
perplessa
e confusa.
Milizia
de l’alma,
tormento
del core,
15 sfrondata
hai la palma,
spinoso
il tuo fiore.
La
colpa ti spinge,
t’incalza
la pena:
la
noia ti stringe,
20 l’amor
t’incatena:
t’inganna
il diletto,
t’accende
il desire:
ti
turba il sospetto,
t’estingue
il gioire.
25 Il
mondo è sì fosco
pur
io ti conosco;
e
’nvan cerco pace
per
vie così torte.
O
vita fallace,
30 che
incerta hai la sorte!
Mutai
spoglia e non destino,
che
’l mio mal non mi abbandona:
fato
rio non mi perdona,
che
son Zelfa e non Silvino;
35 bench’io finga, e non so come,
di
Silvino il sesso e ’l nome.
Per
fuggir Elidoro in questa guisa
l’onestà
mi divisa;
benché
gli abbia promesso
40 di
viver solo e di morir per esso;
ma
voglio esser costante
più
al marito infedel che al fido amante;
e
bramo esser notata,
più
che adultera, ingrata:
45 così
legge d’onor spegne quel foco,
che
accese Amor bambino, e perciò è poco.
A
le pietre (ah sasso duro!)
se
ben io son innocente,
crudelmente,
50 sol
per Zambra, mi dannò:
ah
s’ei privo
di
pietà, non l’ha per me,
né
mai ebbe amor, né fé,
io
per lui sempre l’avrò!
55 Ma
sento un calpestio tra quelle frondi:
Zelfa fuggi, o t’ascondi.
SCENA
V
Elidoro sotto nome ed abito di Dorilla.
elidoro Dillo Amor, non è così?
Che
mi giova esser amante
d’una
infida ed incostante,[231]
s’ella
ingrata mi schernì?
5 Dillo
Amor, non è così?
E
tal fia dunque la fede,
con
cui Zelfa si legò
per
discior, se l’annodò
il
mio cor, che pazzo crede
10 a
colei che lo ferì?
Dillo
Amor, non è così?
Or
che fai tristo Elidoro?
Se
a tracciarla il piè non ha
di
lei l’orma, che sen va
15 da
me lungi, ond’io ristoro
più
sperar non potrò mai,
se
alor, quando la salvai,
più
spietata mi tradì.
Dillo
Amor, non è così?
20 La
cercai palpitoso
in
quella parte, dove
mi
die’ parola di trovarsi attenta;
ma
la speranza spenta
mi
raddoppia le prove,
25 che
son a lei senza rivalsa esoso;
e
pur voglio amoroso
proseguir
sempre più l’intento mio:
che
se fredda è la speme,
in
quest’alma, che geme,
30 in
questo cor, che ferve, arde il disio:
così,
mentr’ei scintilla,
più
che mai de l’amor di Zelfa acceso,
io
d’agreste Dorilla
il nome, il manto, in questa
selva ho preso,
35 per
fermar travvisato il piè mendace
de
la bella fugace.
Arridimi
o cielo,
ch’io
cerco la sorte!
Sagace
la frode
40 col
finto tuo velo
talor
merta lode:
arridimi
o cielo!
SCENA
VI
Pellandra in una gabbia di ferro.
Carcere
sotterraneo.
pellandra O
Pellandra sfortunata,
arenata
pur
al fin sei ne la sabbia!
Miserella,
5 qual
destin crudel t’appella
a
passar dal palo in gabbia?
Infelice
mia vecchiezza,
qual
gravezza
più
ti preme il lasso fianco?
10 Ahi
pur, ahi!
(Come
dir si suol) magnai
del
mio porro tutto il bianco.[232]
Di
mie rose purpurine,
sol
le spine
15 son
rimaste sul mio tronco:
tra
punture
tanto
folte e così dure
meschinella il cor imbronco.[233]
Ma
del ciel giusta vendetta
20 mi
saetta,
perché
fei d’ogni erba fascio:
se
fui volpe
d’ogni
vizio, a tante colpe,
or
la pelle e ’l pel vi lascio.
25 Apprendete,
o giovinette,
morbidette,
che
lograte il vostro bello
tra
piaceri
fuggitivi
e lusinghieri:
30 le
vaccine a la fin vanno al macello.[234]
SCENA
VII
Cospettone, Ghiotto, Bisticcio, Graffio con facelle
alla mano e Pellandra.
cospettone A la vecchia cornacchia omai
son l’ale
cadute:
eccola qui! Più al vol non vale.
ghiotto Mal
va monna Pellandra!
bisticcio Qual
vacchetta di Fiandra
5 io
scorticar la vo’.
graffio Ed
io, che Graffio son, te la terrò.
ghiotto Ella
il merita affè da cavaliere:
ne la sua gioventù non seppe fare
altro
che scorticare;
10 e
ne la sua vecchiaia
non
lasciò la beccaia di tenere.
pellandra Ohimè,
che fan gioco
del
mio tristo evento!
O
ciel io t’invoco!
15 T’offesi,
or mi pento:
e,
benché sia tardo[235]
de
l’alma il dolore,
soverchio
è ’l rossore
de
l’onta in cui ardo.
20 cospettone Ella
canta di rabbia,
or
che si trova in gabbia.
pellandra Oh
funesta miseria!
Or
che forma più non ho,
il
mio corpo diventò
25 del
ludibrio la materia.
Qui cantano danzando intorno alla gabbia, e Cospettone sonando il corno intercalarmente.
tutti Vecchiarona,
che
poltrona
fosti
lupa in gioventù,
e
succhiando l’altrui polpe
30 divenisti
astuta volpe,
che
fai tu?
Tocca
il corno, tocca su!
Le
tue tresche
romanesche
35 son
finite: or come fu?
Di
pollastre andar a caccia
volponaccia
non
puoi più.
Tocca
il corno, tocca su!
SCENA
VIII
Nineuse da cacciatore.
Bosco.
nineuse Ferve
il bosco, agitato
da’ miei fidi levrieri,
da’ miei svelti segusi, ed io sviato
per
ignoti sentieri
5 vo
cercando anelante
la
mia Zambra volante
dietro
ai daini veloci: ah che smarrita,
e
non so come, ho la mia dolce vita!
Sonnacchioso
mi sento
10 pesare
il capo, or che ripresa ho moglie;
né
pertanto io mi pento;
che
’l piacer costa ben, ma pur si coglie:
e,
se volesse Amor cangiarsi spesso,
un’altra
vorrei torne adesso, adesso:
15 che
in materia di gusto
quello
che piace, è giusto;[236]
ma
troppo ho Zambra a core,
né
mel consiglia ancor novello Amore.
Intanto
qui stanco,
20 per
prender respiro
dal
lungo mio giro
s’adagia
il mio fianco.
Si
corca sotto ad un albero.
SCENA
IX
Elidoro in sembianza di Dorilla.
elidoro Fanciullo alato,
che
vai bendato,
deh
ferma il volo!
Che
’l mio piè lasso
5 mal
regge il passo:
invan s’aggira
mia
corta mira:
mio
guardo errante,
già
palpitante,
10 smarrito
ha il polo.
Fanciullo
alato,
che
vai bendato
deh
ferma il volo!
De
la mia bella
15 fugace
stella
perduto
ho ’l raggio:
mentre
vagando
men vo cercando
Zelfa la vaga,
20 cresce
la piaga,
manca
il conforto,
né
trovo il porto
del
mio viaggio.
De
la mia bella
25 fugace
stella
perduto
ho ’l raggio.
SCENA
X
Nineuse ed Elidoro.
nineuse Chi mi risveglia, chi?
Sogno
ancor, o vaneggio?
Son
desto: o ciel, che veggio?
Beltà
che mi ferì.
5 Pastorella
no, ma stella,
che
mi sorgi a sol cadente,
abbagliato,
innamorato
dal
tuo brillo ho il cor ardente.
10 elidoro Oh Dio, quest’è Nineuse!
Voglio fuggir: ma no; forse chi sa!
Non
mi ravviserà.
nineuse Bella,
deh ferma il piè!
elidoro Voglio
schernirlo affè.
15 Fermo
il piè: che vuo’ tu?
nineuse Parlarti
un po’ d’amore.
elidoro Oibò!
Più assai del piede ho fermo il core.
nineuse Dimmi,
cara, chi sei?
elidoro Che
importa a te saper i fatti miei?
20 nineuse Se
Diana se’ tu, ben hai ragione
di
far così la schiva;
ma
non son Ateone.
elidoro Se
prendi moglie, priva
de
l’onestà cui servo,
25 almen diverrai cervo.[237]
nineuse Non
tante sottigliezze!
Tronchiam cammino: io t’amo,
ed
amandoti bramo
d’acquistar,
d’arricchir le tue bellezze.
30 elidoro Tu
deliri. Maggior d’ogni tesoro
è
l’onestà, che adoro.
nineuse Tu
fai la vergognosa,
ma
benché ritrosetta,
se
ben spine saetta,
35 si
coglie pur la rosa.
elidoro Non
son rosa, ma giglio.
nineuse Ed
io per giglio e rosa or or ti piglio!
elidoro Sta’
in dietro temerario!
nineuse Il
mio gusto recente,
40 quanto
più ardito, è ardente.
elidoro Ardi
pur, e ardisci, quanto sai:
per
me leccar le dita or ti potrai!
nineuse Tu
fuggi, ed io ti arresto!
elidoro Fellon, che tratto è questo?
45 Dunque sforzar mi vuoi?
nineuse Lascia
pur far a me: tel dirò poi.
elidoro Son
fanciulla illibata.
nineuse La
preda m’è più grata.
elidoro Mira
che ’l ciel gastiga, e Iddio ti vede!
50 nineuse Che
ciel? Che Dio? Tu ciel, tu dea! La fede
sol
a te giuro amante.
Ah,
quanto più restia
mi
sei, bell’alma mia,
tanto
più ti sarò fido e costante.
55 elidoro Ben
fia cangiar di tuono: ascolta, intendi!
invano,
invan ti accendi
ver
me, se ancor non t’amo; e poiché m’ami,
dà
tempo a me, se brami,
che
al tuo voler mi pieghi:
60 più
l’amor che la forza a te mi leghi.
nineuse Son
contento: il tuo bel, cara, m’impera:
tempo
ti do, ma sol sino a stasera;
perciò
ne verrai meco, e col pretesto
di
donarti a mia moglie
65 per
ancella gradita,
sarai
de le mie voglie
unico
oggetto, e cor de la mia vita.
elidoro Andiam pur, cavagliero!
Dal
tuo nobile aspetto
70 non
violento affetto io bramo e spero.
nineuse Andiam idolo mio!
elidoro Costui
mi prende a sbaglio,
ma
ben mi va quest’avventura a taglio.
Mi
crede un’altra, e pur io non son io.
SCENA
XI
Zelfa in abito di Silvino e Zambra da cacciatrice.
zelfa Che
vuoi da me, che tenti
d’amor
larva salace?
Lascia,
lasciami ’n pace
a
custodir gli armenti;
5 ch’io
son villanello e amare non so,
né
mai t’amerò.
Son
Silvino, ed ho silvestre
il
mio cor, qual elce dura:
il
mio petto, così alpestre
10 fe’ natura
che
disprezza
ogni
amor, ogni bellezza;
ch’io
son villanello e amare non so,
né
mai ti amerò.
15 zambra Caro
Silvino, ascolta!
Tosto
che m’incontrasti,
l’anima
mi rubasti;
ed
or che me l’hai tolta,
non
vuoi renderla no? Crudel languire
20 mi
fai così? Così mi fai morire?
zelfa Che
languir? Che morir? Ah son follie
di
voi lascive e lusinghiere arpie!
zambra Anima
del mio core,
dunque
non senti amore?
25 zelfa Nol sento, no!
zambra Non
sai che cosa sia?
zelfa Io
non lo so!
zambra E
l’alma hai sì restia?
zelfa È
ver, io l’ho!
30 zambra Tu
dunque uomo non sei?
zelfa Esser
nol vo’.
zambra Sei
sordo a’ prieghi miei?
zelfa Sempre
il sarò!
zambra Non
ardi a’ miei sospiri?
35 zelfa Men
guarderò!
zambra Perché
dunque mi miri?
zelfa Io
me ne vo!
zambra E
perché parti tu?
zelfa Per
non sentirti più!
40 zambra E
mi sdegni così?
zelfa Più
che non credi, sì!
zambra Che
t’ho fatt’io di mal?
zelfa Tua
vista m’è letal!
zambra Ch’io
ti guardi, che importa?
45 zelfa Vorrei
vederti morta!
zambra O
fanciul sempliciotto,
come
sei crudo?
SCENA
XII
Farfalla,
Zambra e Zelfa.
farfalla E
pur il cor m’hai cotto!
zambra Ohimè,
son discoperta!
farfalla Non
mancherà coperta:
madama,
eccomi qui vostro valletto,
5 tutto
fé, tutto lena e tutto petto!
zambra Prendi
questo diamante,
ma
non dir, veh, ch’io sia d’un tronco amante![238]
farfalla Io
vi bacio il tallone
per
così bel presente,
10 che
la bocca m’ha chiusa.
Ella
è bensì profusa
in
favellar sovente,
ma
son Efestione,[239]
padronaccia mia bella,
15 con
chi, come voi or me la suggella.
zambra Questa
è poca mercede:
avrai
da me più molto,
se
convincer mi fai costui, sì stolto,
che
mi disprezza ed ad Amor non cede.
20 farfalla Lasciate
far a me, che son Farfalla!
zelfa Sei
farfallon da galla.[240]
Non
t’appressar buffone,
se
non vuoi misurar questo bastone!
farfalla Io
son buffon dimestico,
25 tu buffalo selvaggio,
che
del più vago Sol t’inombri al raggio.
Mira
questi occhi ardenti,
pelaghetti di foco:
queste
labbra ridenti,
30 se
son da farne gioco!
Queste
vermiglie gote,
più
che non è Boote,[241]
non
t’allettano il guardo?
O
sorcio senza denti a sì bel lardo!
35 Ma
non mi par già strano,
che
mai non piacque il zucchero al villano.
zelfa Deh
lasciam’importuno,
che
’l tuo garrir m’offende!
zambra Ed
ancor non s’accende?
40 zelfa Io
son d’amor, e ’l vo’ morir, digiuno.
farfalla O
razza pecorina,
sei
bifolco, e non ami la vaccina!
zambra Invan si persuade;
ma
per un colpo un albero non cade:
45 s’ei
si parte, io son morta.
farfalla Qui
non v’è a chiuder porta.
Conduciamlo a l’albergo,
le
mani avvinto il tergo,
e
direm che trovato
50 qui
l’abbiam a cacciar, dov’è vietato.
zambra Ma
se fier poi Nineuse il fa morire?
farfalla Io
vel farò condire.
zambra Fuori
burle, ch’io ben saprò placarlo.
Or
comincia a legarlo!
55 farfalla Con
che?
zambra Con
questa banda.
zelfa Ohimè, che violenza!
farfalla Sta’
saldo in pazienza!
zambra Non
ti doler, ben mio, che ’l mio rigore,
altro
non è che amore.
60 farfalla Marcia
pur là, faccia di latte preso!
zambra Nol maltrattar Farfalla!
zelfa Oh Dio,
son reso!
SCENA
XIII
Elcana da romito.
elcana Sospingo
curioso il piede incerto
per
queste opache selve,
mosso
a filosofar dal genio, esperto
in
detestar ne la città le belve;[242]
5 quindi
le cerco a passi fluttuanti,
mentr’errando
men vo, nel bosco erranti.
Ma
più erranti e più crudeli
de
le fere,
le
più alpestri e le più altere,
10 veggo gli uomini ’nfedeli,
che,
dal vizio imbrutaliti,
son
Lapiti;[243]
e
non san dal mal distorsi,
come
gli orsi.
15 Più macchiati assai de’ pardi,
al
ben tardi.
A
la colpa non mai pigri,
più
che tigri.
De
l’inganno dotti ai colpi,
20 scaltre
volpi.
Ai
castelli torregianti
elefanti.
A
portar tesori avari
dromedari.
25 Nel
tirar calci sfrenati
muli
’ngrati.
Da
lascivo lezzo infetti
porci
abietti.
A
soffrir sul capo impacci
30 castronacci.
Ne
l’aver doppie intenzioni
rei
scorzoni.
In
tentar perigli e rischi
basilischi.
35 Nel
recar veleni e peste
idre
infeste.
In
succhiar tanti innocenti
draghi
ardenti.
E
tal Nineuse, d’ogni mal compendio,
40 de
l’Orco è nato ad impinguar l’incendio.
Che
dirò di voi proterve
femminacce, a l’amor serve,
che
con sì fetente impero
soggiogate
il mondo intero?
45 Lingua mia dunque le pingi,
come
sfingi.
Voi
dolose, infide, cupe,
siete
lupe.
Voi
di frodi e vezzi piene
50 siete
iene.
Voi
rapaci a tutte vie
siete
arpie.
Voi
de’ troni, voi degli ostri
siete
i mostri;
55 voi
de’ cori, a rosicarli,
siete
i tarli.
Voi,
de l’oro al succhio affatte,
le
mignatte.
Voi
tra rose e tra i lor sterpi,
60 siete
serpi.
Voi,
col tosco sopra i baci,
siete
vipere mordaci.
Voi
sirene ingannatrici:
voi
cornacchie gracchiatrici:
65 velenose,
astre, nefaste
siete
voi più che ceraste:[244]
e
tal di Zambra l’abbozzata effigie
degna
è sol di spiccar tra l’ombre stigie
dunque
al mondo più stare non vo’,
70 che
tra le fere l’umanità,
esiliata
da la città,
filosofando
rincontrerò.
Addio
dunque, mondo, addio,
poiché
tu, rubelle al cielo,
75 impetrito nel tuo gelo,
sei
contrario a l’ardor mio,
con
cui sento accesa l’alma
consumar
questa mia salma.
Ad
ognun tutto m’involo,
80 per
far don di me a me stesso;
Io non vo’ più alcun appresso
l’uom
che sa, non è mai solo.[245]
SCENA XIV
Eliabbe
ed Elcana.
eliabbe Venerabil romito,
che sotto il pel
d’argento un capo d’oro
chiudi, già che
t’ha ’l ciel per mio ristoro
casualmente al
mio viaggio unito:
5 io, che potrei negli anni esserti figlio,
esser lo vo’ chiedendo
a te consiglio.
elcana Aprimi pur sincero
il tuo cor, che la mia lingua fedele
non saprà mai
parlarti d’altro che ’l vero.
10 eliabbe Io, d’un fratel
crudele
l’interessata
tirannia sopporto,
già lungo tempo,
a torto:
ei del mio bene
usurpator superbo,
ferocemente acerbo
15 mi malmena, m’ingiuria
e mi deride:
se gli dimando, stride,
e con torbida
faccia
mi disprezza protervo
e mi minaccia.
elcana Questo è lo stil
del mondo,
20 in cui galleggia
il reo, va il retto al fondo:
o tempi scelerati!
Felici i morti,
ed anche più i non nati.
eliabbe Quegli una tal
zambracca,[246]
scandalo de la
terra, orror del cielo,
25 che, di Solima sfinge,
ognun divora,
amò gran tempo,
ed io di mente fiacca
(la mia colpa
ti svelo)
l’amai lascivo
ancora;
ed ella me, più
che lui, molto amando,
30 ciò che a quello
sottrae, mi dona amica:
così n’andai campando,
e colsi frutti
e fior da l’impudica.
elcana Costume famigliare.
eliabbe Intenta ad ingannare,
35 mi trasse, ohimè,
con dispietato esempio,
a tramar seco
al fratel mio lo scempio.
elcana Non fosti ’l
primo e non sarai l’estremo.
eliabbe Misero io son
pentito, ed in me fremo,
che di sicarie polvi orrida messe
40 trasmisi a l’empia
irreparabilmente,
per infettarne
un poculo omicida
con la man veemente,
che non l’amor,
non la pietà corresse;
perciò la mia
coscienza ognor mi sgrida.
45 Or che farò, per
far, quanto far deggio?
elcana Mal se ’l velen sottrai, se uccide, peggio.
De’ due mali ’l
minor sempre s’imbrocchi.
Ben è che ’l pentimento
il cor ti tocchi.
Con lettera, ma
cieca e pur veloce
50 dei avvertir l’adultero
germano,
che a la coppa
infedele
de la Circe crudele
non affidi leggier l’incauta mano.
eliabbe Di sì retto parer
grazie ti rendo,
55 ed ad effettuarlo
il piè distendo.
elcana O fuliggini,
o vertigini,
onde va
l’offuscata umanità,
60 raggirata ognor dal vizio,
a cader nel precipizio!
SCENA
XV
Nineuse ed Elidoro in abito
di Dorilla.
Giardino
con fontane.
nineuse Cara Dorilla,
l’occhio ti brilla,
qual astro mattutino:
la tua vezzosa
5 bocca di rosa
col labro purpurino
l’alma m’infiora.
Svelto il tuo
crine
d’aurate brine
10 l’aria colora.
Il tuo petto,
Amor eletto
mi rintuzza e
scema il guardo:
la tua neve,
15 così ardente, se
la beve
mia pupilla palpitante,
a l’istante
più m’accende:
ohimè, com’ardo!
elidoro Son io villanella,
20 ma nobile ho il core:
del corpo è più
bella
quest’alma, e
l’amore,
che sia disonesto,
le fie sempre infesto.
25 nineuse Crudel, dunque il mio foco
non ti ammollisce
no?
elidoro Tu vuoi far di
me gioco,
ed io men riderò.
nineuse Erri, bella nemica,
30 ch’io son tutto sincer!
elidoro Ed io tutta pudica
so ben che non
è ver.
nineuse Oh tu del mio cor cupo
non capisci ’l
desir!
35 elidoro Tu sei (perdona)
un lupo,
che mi brami inghiottir.
SCENA XVI
Zambra, Nineuse
ed Elidoro.
zambra Al fin t’ho pur raggiunto amor amato.
Oh quanto t’ho
cercato!
nineuse Ed io pur alma
cara:
ecco la caccia
rara
5 che ti presento!
Una camozza bella![247]
Or, come ti piac’ella?
zambra È vezzosa per certo:
dove trovata l’hai?
nineuse Nel bosco l’incontrai
10 alor che divagava il piè inesperto:
per serva a te
la dono.
zambra Ben contenta ne sono.
elidoro Ed io non già.
zambra Dunque tanto mi sdegni?
15 elidoro Amo la libertà,
ne vo’ che alcun
m’impegni.
zambra Libera tu sarai, te lo prometto:
avrai meco commune il
cor e ’l tetto.
elidoro Io non amo il commune.
20 zambra Ed io son singolare.
Ha il capo fatto
a lune:
dolce Nineuse mio, che te ne pare?
nineuse Bisogna compatirla:
è rusticana;
ma, come avrà
la lana
25 deposta, alor fie lieta,
e l’incivilirà
tosto la seta.
elidoro Sempre agnella
sarò pura ed intatta.
zambra Taci là, che sei matta!
Non conosci ’l
tuo bene.
30 elidoro Io non credo a
scorzoni e anfesibene.[248]
SCENA XVII
Farfalla con Zelfa,
in abito di Silvino, legata: Nineuse, Zambra ed Elidoro.
farfalla Ecco qui,
mio signore,
legato il malfatore,
com’un mazzo di
cavoli!
Ed io per amor
vostro,
5 in rispetto de
l’ostro che vi cinge,
fo un ufficio
che tinge
gli uomini nel
caldaro dei diavoli;
cioè son fatto
birro e posso dirvi
ch’anco diverrei
boia per servirvi.
10 nineuse Chi è? Che ha fatto?
E come?
zambra È un bifolco, trovato
a cacciar nel
vietato.
nineuse E così poco ei
rispettò il mio nome?
Olà, sia dato
in pasto,
15 senza indugio, a
le fere!
zambra O parole severe!
elidoro (Che veggio? E
non è quello
di Zelfa il volto amato?[249]
Sì per certo:
oh peccato!) (a parte)
20 Signor,
pietà, clemenza! È mio fratello.
nineuse S’egli tal è, ben
volentieri ti dono,
benché sia colto
reo, di lui la vita.
elidoro O bontade infinita!
nineuse Slegalo pur Farfalla!
25 zambra Io mi conforto.
elidoro A
me tocca snodarlo: o come involto
di
stretta banda sei mio bel germano!
(Taci
veh, Zelfa mia, son Elidoro!)
(sotto voce)
zelfa Ohimè, peggio del mal è il mio ristoro!
30 nineuse Ha un non so che di spezioso raggio
delineato in faccia.
elidoro Signor, eccolo
scinto!
zelfa Oh Dio, che
laberinto!
Signor son vostro,
e di me far vi piaccia
35 ciò che v’è in grado:
eccovi fido il petto!
nineuse Vo’ che sii mio
valletto.
Come ti chiami
tu?
zelfa Silvin mi chiamo.
nineuse Non sei nulla selvaggio:
andiamo!
zambra Andiamo!
40 farfalla Oh che bella avventura!
Par fatta ad arte,
e pur tutta è natura.[250]
SCENA XVIII
Ghiotto solo.
Cortil
rustico.
ghiotto Fa’ pur cor,
fa’ pur petto, panza mia,
che a tranghiottir intrepido stasera,
con ventricol di struzzo e man d’arpia,
n’accingo de’
volatili la sfera!
5 Montagne di montoni
saran da me spianate:
falangi di capponi
tutte a pezzi
tagliate;
ch’io son il protomastro,
il protocuoco,
10 e metto la cucina
a sangue e fuoco.
Or, che s’ha da
far nel mondo,
se non e magnar
e bere?
Chi è più grasso
e chi è più tondo
con geometrica
figura
15 più perfetto è per
natura,
onde fia che a tutti ’mpere
col bicchiere.
Tronfo il ventre, e che galoppe,
sul capron di Lieo, gran re di coppe.[251]
20 A le nozze fumose
di Nineuse con Zambra
le droghe preziose,
stemperate con
l’ambra,
sollecito a l’amore
25 apporteran col caldo e con l’odore.
Tutta l’Arabia
felice[252]
a comparir s’accinge,
che ’l mio comando
la spinge,
da le profuse
dispense
30 sopra le prodighe
mense:
né mancherà la
fenice,
poiché Zambraccia l’eletta,
tutta condita
e confetta,
nel mezo starà intonata;
35 che Zelfa restò pelata.
SCENA XIX
Pellandra,
legata ad un palo: Nineuse, Zambra, Elidoro, Zelfa, Cospettone, Farfalla e Bisticcio, con altri muti Spettatori.
Serraglio di fere, con amfiteatro.
pellandra Udite, o cieli, udite
il mio dolor estremo!
E voi, che mi
schernite,
onde più afflitta
gemo.
5 Ahimè, per qual
ragione,
senza compassione,
a le fere dannata
è una vecchia
sfiancata?
Per finir senz’aita
10 questa odiosa vita.
cospettone Taci là brutta marmotta!
Non più pianti
e non più strilli:
che a la trappola
ridotta
t’usciran di testa i grilli;
15 e pur tu con degna
pena
d’un lion sarai la cena.
pellandra Ah crudel, né men vuoi che mi lamenti!
cospettone Taci, che con un pugno
su questo grinzo
tuo sordido grugno
20 a l’aria ti farò
volare i denti!
farfalla Fia poca
meraviglia, e raro il volo.
nineuse Olà si sciolga
solo
il
gran lion massile,[253]
per esser il più
fiero!
25 bisticcio Anzi, perché sì altero
non vorrà mai
magnar roba sì vile.
elidoro Per me la vecchiarella
die’ ne l’inciampo,
e di salvarla è tempo.
Signor, pietà
per quella
30 vi chieggon gli anni curvi, onde si piega.
farfalla Lascia tu olà morir sì brutta strega!
elidoro Poco il castigo
importa,
se più punita
resta
vivendo
a sé, più che ad ogni altro infesta,
35 e più patisce assai
che morta.
nineuse La vuoi, bella
Dorilla? Io te la dono.
elidoro Ben contenta ne
sono.
zambra Ingelosisco e gelo:
l’armentiera ribalda
30 troppo, troppo si
scalda:
e che si ch’io
le fo lasciar il pelo!
nineuse Andiam anima mia! Perché rampogni?
zambra Mio ben, pria di dormir credo che
sogni:
andiamo pur!
nineuse Vien via, vaga Dorilla,
35 per servir la mia
Zambra.
zambra E
tu Silvino
vien via servi
al mio core!
zelfa Se ’l tuo cor è Nineuse, ecco l’inchino.
SCENA XX
Bisticcio, Farfalla, Cospetton e Pellandra.
cospettone Vedici qui a slegarti,
ma voglian prima scandassarti ’l pelo.
farfalla E pur anco se’ salva
brutta befana
e scimmiaccia calva!
5 bisticcio Paga ciò ch’hai promesso!
Lo sai ben tu
perché.
pellandra Datemi tempo ohimè!
bisticcio Vogliamlo adesso.
farfalla Non più parole: ai fatti
conduciamla a l’albergo,
10 e con un buon staffil di sotto al tergo
le farem confessar a dritto estorto,
dov’ella tenga
sotterrato il morto.
cospettone Buon pensiero, al cospetto
di Cospettone! A voi mi tengo unito.
15 bisticcio È sicuro il partito.
pellandra Che
lioni getei! Che tigri ircani![254]
Son
peggio i cortigiani.
SCENA
XXI
Elidoro e Zelfa, in abito
come sopra.
Giardino.
elidoro Or che siam qui tra fiori,
cara
mia Zelfa, soli,
lascia
che da la lingua il cuor trasvoli
a
protestarti i miei giurati amori:
5 son
io: non mi conosci? Ancor algenti
hai
le ripulse a le mie voglie ardenti!
Dimmi,
ah dimmi, perché
non
ti muove la fé
del
costant’Elidoro?
10 Se
tu vivi per me,
io
per te sempre più,
sempre
più per te muoro.
zelfa Tu
deliri e dal ver folle ti svii:
non
so, non chi sii,
15 sicome ch’io mi sia certo che non sai,
non
ti conobbi mai;
né
so quando, né come
udii
di Zelfa e d’Elidoro il nome.
elidoro Crudel, così tradisci
20 l’amorosa
parola!
Così
fuggi d’Amor la dolce scola!
Ah
di negare ardisci,
che
per me sol dal carcere inumano,
a
la morte sottratta, il piè traesti!
25 Sconoscimento
insano,
che
a sì grato dover l’alma t’invola:
or dunque, se non or, mai
più vedesti
quest’occhio
lacrimante
del
tuo fedel, ma sfortunato, amante?
30 zelfa Tu se’ pazza, ed io pur, se più t’ascolto,
di
te sarò più stolto.
A
vaneggiar ti lascio, ad altro aspiro,
e
perciò mi ritiro.
35 elidoro Ferma,
deh ferma ancor un poco il passo!
Fermati,
se sei Saffo!
Ma
sopravien Nineuse, ed aspettarlo
mi
convien simulando,
per
andarlo ingannando:
40 non
convien irritarlo.
Chi
sa che ’l tempo al mio dolor sì vivo
non
prepari opportuno lenitivo?
SCENA
XXII
Nineuse ed Elidoro: Zambra
in ascolto a parte.
nineuse Che hai tu cara Dorilla,
come rosa in ver
la sera,
qui tra i fiori
solitaria?
Tua beltà, che
rea scintilla
5 del mio foco, ognor severa
suo rigor dunque
non varia?
elidoro Io son una pastorella
sempliciotta e
ritrosella
ad amor che osceno
sia:
10 più olezzante d’ogni
fiore
è l’onore
che abbellisce
l’alma mia.
nineuse Io de’ fior mi
diletto,
com’appar ben in questi miei giardini:
15 e talor il più eletto
colgo, benché
s’annicchi entro gli spini.
elidoro Il mio non coglierai,
e se stendi la
man ti pungerai.
nineuse Più aspra è la
puntura,
20 che da’ begli occhi tuoi nel cor mi dura.
elidoro Signor, lasciami
’n pace,
che Amor non ha
per me dardi, né face.
La mia beltà ritrosa
ti consiglia d’amare,
25 senza tanto cangiare,
la tua novella
sposa.
nineuse Dorilla, in confidenza, a te lo giuro,
di lei più non
mi curo
poiché ti vidi:
a le tue luci belle
30 da quel balen fugace il cor si svelle.
Che rumini perplessa?
elidoro Nel mio proponimento
son sempre più
indefessa;
quindi ti stanchi
invano,
35 né stringi altro
che vento.
nineuse Dammi, amica, la
mano!
elidoro Oh questo
no!
nineuse Io la fede ti do:
per guadagnarti,
mi disporrò a
sposarti.
elidoro Non accetto l’invito!
40 Quante mogli ad un
punto aver vuo’ tu?
nineuse Quella ch’avea, già fu,
e questa ch’or
ho presa,
facil è che svanisca a un colpo estremo.[255]
elidoro In ciò pertanto
io premo:
45 ma vo’ veder unito
al detto il fatto.
nineuse Son pronto, ed
il mio dir sarà un contratto.
SCENA XXIII
Zambra sola.
zambra O ciel,
o stelle, o fato!
Dunque soffrir
potrà
cotante crudeltà
il mio bello oltraggiato?
5 A così atroce ingiuria
io, divenuta Furia,
s’ei pur or mi
sposò,
e già mi disprezzò
con mutanza inumana
10 per la beltà villana,
che scemo l’invaghì,
e perciò mi tradì,
tanto l’agiterò,
quanto prima l’amai;
15 né riposo avrò mai,
sin che man omicida
quella vita recida,
che, contro a
me proterva,
mi pospone a una
serva,
20 che restia l’innamora.
Periglio è la
dimora,
dunque per non
morire
fie d’uopo il prevenire.
Al veleno su su!
25 Zambra, che tardi
più
ad esser Parca
austera
di Nineuse spietato?
Per l’indegno,
pera,
o ciel, o stelle,
o fato!
30 Pera, pera l’ingrato!
SCENA XXIV
Zelfa,
Zambra e Nineuse in ascolto a parte.
zelfa Erro tra queste mura,
come un’ombra
noiosa,
nel mio duol palpitosa,
né so dove fissar
il piè sicura:
5 un marito sleale,
una oscena rivale,
un amante ostinato
forman tutto il rigor d’un empio fato.
Ma Zambra è qui:
ohimè, se m’ha sentita!
10 Perplessa or che
farò,
pazzo mi fingerò,
e così la mia
traccia avrà l’uscita.
zambra Che ruminando vai,
se sei Silvino?
Ho inteso
15 che rimproveri dai
del suo rigor
al fato: anch’io, che leso
mi trovo il cor per un dolor funesto,
contra di lui
rampogno e lo detesto.
zelfa Io non rumino,
come vuoi:
20 ruminar sogliono
i buoi,
ne m’importa un
et, o un acca:
rumina pur, se
sei la vacca!
zambra Che follia ti raggira
il capo che vacilla?
25 Ma ’l tuo senno più
brilla,
se per vezzo delira;
e se pur tu se’
stolto,
a me piaci più
molto:
che la femmina
scaltra il suo sollazzo
30 più saporito ha da
l’amante pazzo.
zelfa Io son donna,
come se’ tu,
ma non già simil
a te
tu sei falsa,
e la mia fé
sempre canta cucurucù!
35 zambra Oh tu sai far il gallo! Altro non
bramo,
quindi tanto più
t’amo.
zelfa Io son gallo
e tu se’ chioccia,
canto ben, ma
ruspo male:
tu ben ruspi,
ma non vale
40 il tuo canto una
bamboccia.
zambra O curioso umore! Or su sta cheto!
Troppo hai fatto
il faceto.
Ascolta un po’,
mio bello,
mio civil villanello!
45 Io t’amo d’un amor
che non ha pari,
più di tutt’i
mie’ cari;
ma tu non ami,
no: crudel sorridi,
e ridendo m’ancidi!
zelfa Putta sfacciata
mi riderò
50 di te anche meglio,
se ’l ciel vorrà,
né questo core
più piagnerà;
or buona notte,
ch’io me ne vo!
zambra Oh capriccio! Oh disprezzo! Ei parte
in fretta:
ferma Silvino
amato, attendi, aspetta!
SCENA XXV
Nineuse
solo.
nineuse Furor, rabbia, veleno
mi sconvolgon la calma
del piacer in
cui l’alma
mi galleggiava
in seno.
5 Vendetta fiera,
che ’l guardo
acciglia
or mi consiglia
pena severa.
Tardi m’avveggio, tardi,
10 che rapir mi lasciai
da que’ fallaci sguardi:
che troppo inviluppai
mio spirto in
que’ capelli,
che sciolti son
flagelli,
15 ed alor che intrecciati
son capelli dorati.
O mia Zelfa così offesa
da me insan, ove se’ tu?
Mal per me, quando
protesta
20 dà impostura,
così dura,
la tua fede, (oh
come!) fu:
inutil pentimento
Zelfa non vive, o da me lungi errante
25 m’aborre con ragion,
perciò mi fugge:
io spargo dunque
al vento
ne le querele mie l’alma penante,
che in questo
petto fier s’incarna e rugge,
ma sia Dorilla casta al par di bella
30 di Zelfa il cambio, prezioso e degno:
tal sia lo scopo
a l’amoroso ingegno,
e muora Zambra infida, empia e rubella!
SCENA XXVI
Pellandra
ed Elcana da romito.
Stagno.
pellandra Ecco Pellandra, carca
de’ tuoi funesti
dì
la meta inevitabile,
a te sì desiabile,
5 poiché ’l destin ordì,
per troncar i
tuoi guai,
che tu di te sarai
l’inesorabil Parca.
Questo squalido stagno,
10 in cui l’acqua ammutisce;
a le mie colpe
un bagno,
che le lavi, esibisce;
ne v’è chi mel divieti
tra questi gorghi
taciti e secreti.
15 Ma deh qual nuovo
indugio al mio cordoglio
differisce il
respiro!
Poiché ver me
rimiro
venir bel vecchio,
ed aspettar il voglio:
forse da lui consiglio
20 avrò per terminar
sì mesto esiglio!
elcana A la magione
altera
del ricco avaro
il piè raggiro intorno,
or che languido
il giorno
25 agonizza veloce in
su la sera,
per ristar su
l’aguato,
se quel vipereo
drago,
che sol di stragi è vago,
dal velen sia salvato.
30 Quinci, poco distante,
veggo il tetto fumante,
e ’l mio pensier allumo
in meditar che
questa
vita, o lieta,
o funesta,
35 al fin se ne va in
fumo.
pellandra Solitario felice,
che qui per sorte
a me t’offri sì umano,
ascolta
un caso strano!
Io son la peccatrice
40 Pellandra, che di Zelfa al reo disastro
per un vil interesse,
stimulata da Zambra, che l’oppresse,
e da Nineuse, fei sordido empiastro.
elcana Non più, non
più! Qual fia che ti conforti?
50 Sei
rea di mille morti!
Io non vaglio
a soffrirti,
né più sto qui,
che ’l suol s’apre a sorbirti.
SCENA XXVII
Pellandra
sola.
pellandra Or sì che condannata
Pellandra sei da una sentenza giusta!
Di tante colpe
onusta
non trovi che
ti regga (o vil, o ingrata!)
5 palmo di terra,
e ’l ciel che dolce cribra[256]
raggi sereni al
fin a cui l’osserva,
a te proterva
al fin fulmini vibra.
Che farai, di
Natura
inutil peso, ingiuriosa salma?
10 Per te non v’ha più
calma:
passò ’l piacer,
ch’efimero non dura:
tu fieno, larva,
spettro, ombra, fantasma,
a l’obbrobrio
t’invola, a l’onte, a l’asma.
Muori, Pellandra, muori
15 poiché di vita indegna,
per i tuoi folli
errori
il suol, il Sol, il ciel, l’aria ti sdegna.
Ognun torvo ti
dà schive le terga,
rimproverando
i sussurrati accenti
20 a la tua frode iniqua
i tradimenti:
dunque or or ti sommerga
questa palude
opaca,
e sepellisca un lago una cloaca.
25 Già de l’oro, che
osceno
accumolasti ne’ tuoi giorni avari,
l’altrui mano
rapace il pugno ha pieno;
e i tesori sì
cari,
che partorì l’impudicizia
antica,
30 qual indica formica,
lasciasti illusa
al predator ingordo,
che de’ tuoi fiori
ha colto il frutto lordo.
O de l’Orco arsicce
Furie
a voi don fo di
quest’anima,
35 che fugace a tante
ingiurie
il mio corpo adusto
esanima!
Ricevetela,
strascinatela,
percuotetela,
40 agitatela!
Ben con ragion
l’abituato vizio
mi trae dannata
a l’immortal supplizio.[257]
Qui si getta nello stagno.
SCENA XXVIII
Nineuse
ed Elidoro sopra una barchetta: Zambra e Zelfa sopra un’altra barchetta: Bisticcio e Farfalla sulla riva,
con coro di Pescatori.
nineuse Piacer che lusinghiero
m’alletti a l’aura
fresca,
che su quest’onde
tresca,
da te molto più
spero.
5 Se la mia bella
vezzosa stella,
or che tramonta
il Sole,
coì suoi benigni
rai splender mi vuole.
zambra Che dilettosa sorte,
10 passar l’ore fugaci
tra contenti veraci
che allontanan la morte!
O me felice,
poiché mi lice,
15 in sì gran bonaccia,
se un Sol si cela,
averne un altro in faccia!
coro
di È una pesca il mondo,
pescatori in cui sempre tese
stan dal sommo al fondo
20 reti a far le prese;
ma più assai che
orate
tinche son pigliate;
chi vi logra i
fianchi,
prende ombrine
e granchi.
25 nineuse Zambra mia, come
va?
zambra Non
prendo nulla,
che ’l pesce mi
schernisce, e si trastulla.[258]
nineuse (Ed io, per quanto
ingegno
m’abbia al pescar,
non colgo ancora il segno.
Dorilla, oh, quanto bramo,
30 Più che
con rete, di pigliarti a l’amo!) (a parte.)
elidoro (Io sono un pesce
scaltro,
deludo rete, ed
amo: eh vi vuol altro!) (a parte.)
zambra (Mio Silvino ostinato
ancor non
t’ho pescato!
35 Me ben tosto saran mie voglie liete,
che t’avrò nella
rete.) (a parte.)
zelfa (Fa’ pur, quanto
sai
padrona mia ghiotta!
Con rete sì rotta
40 non mi pescherai.
La libertà è sì
cara
che ’l pesce ancor
a proseguirla impara.) (a parte.)
zambra (E pur sempre deliri,
o bocca
di coralli,
45 vorrei pescarti ’l
core,
pur mi fuggi ritroso,
ingannatore:
ah mio ben tu
patisci d’intervalli,
e pur non interrompi
i miei martiri!) (a parte.)
nineuse Che sta dicendo, amica, il pastorello?
50 zambra Gli tentenna il cervello:
mi par ch’egli
sia matto.
zelfa Se sei carne
salata, io non son gatto.
nineuse Avverti, anima
mia,
ch’ei non attacchi
a te la sua pazzia!
55 coro
di È una pesca il mondo,
pescatori in cui sempre tese
stan dal sommo al fondo
reti a far le
prese;
ma più assai che
orate
60 tinche son pigliate:
chi vi logra i
fianchi,
prende ombrine
e granchi.
farfalla Oh che gran pesce! E viva!
A la riva! A la
riva!
65 nineuse Che si riduca in
secco.
bisticcio Io me vo’ magnar un pezzo lecco.[259]
farfalla Par una lamia: ohimè, ch’ella è vestita!
bisticcio Emergenza inaudita!
È il corpo di
Pellandra: ah che annegata
70 s’è, come disperata!
farfalla Cospetto di Pasquino!
Mi pareva un delfino.
zambra L’augurio è tristo e tragica la
scena.
nineuse Non importa: coraggio!
Andiamo a cena![260]
SCENA XXIX
Graffio, con uno scattolino di polveri velenose.
Cortil
rustico.
graffio Già del Sol a l’occaso,
spinta dal fato,
a rio Nineuse l’ora
letifera s’appressa:
ei dentro un vaso
che mescer li
farò la sua Pandora,
5 berrà liquido umor,
liquida morte;
e già de l’Orco
ner batte a le porte.
Queste son le
polvi, estratte
da una Libia serpentosa,
e mia man fia che le addatte
10 a spruzzar quell’alma
esosa,
per far ch’esca
bestemmiando
dal suo corpo
empio e nefando.
Se tante volte
fu
in lui da Bacco
Venere
15 scaldata, or fredda
in cenere
non l’accenda
mai più.
Un libertin da Libero
estinto alfin cadrà,
tosto che il liberà,
20 ed il mondo sia libero
da un mostro de’
più orribili
che ne l’Ircania sibili.
SCENA XXX
Cospettone,
con un’ampolla d’acqua velenosa.
cospettone Ecco di Zambra in questo vettro
espressa
la fragil vita e chiusa, ancorché chiara
in un limpido
umor, la morte oscura!
Quel mostro di
Natura
5 suggerà pur nel
primo sorso amara
de l’ultimo respir la noia impressa?
La mia man, che
ognor più rigida
ne l’altrui sangue
s’insordida,
or è troppo al
punir morbida,
10 mentre il suo vigor s’infrigida
nel veleno, in
cui l’intinge
di Nineuse il giusto impero;
pur ne vo lieto
ed altero,
che l’Edippo son io di questa sfinge.[261]
SCENA XXXI
Ghiotto e coro di Cuochi e di Guatteri.
ghiotto Or che la cena
fuma imbandita,
fuori la pena
resti sbandita!
5 Tripudiando,
e scilacquando,
poiché si serba
per tal procinto,
col lombo scinto,
10 cresca superba
questa mia panza,
in cui ogn’intestin per gioia danza.
Voi, de’ buoni
bocconi
architetti ingegnosi,
15 cari commilitoni,
con gli spiedi
lardosi,
de la gola guerrieri,
militando ai piaceri,
ergete il ventre
tronfo,
20 d’Imeneo al trionfo,
e con voci canore,
de la felicità
si sveglin l’ore.
coro Or che sono a colmo tumidi
di
cuochi tanti piatti regalati,
25 per le salse caldi
ed umidi,
per la spesa ben
salati:
facciam tutti festa
con lieto sollazzo:
nel vin vada a
guazzo
30 la trippa e la testa!
E che s’ha più
a fare?
Sol ber e magnare.
ghiotto Buono da cavaliere!
La canzon è piccante,
35 la rima arcifrizzante:
viva il magnar
e ’l bere
contra le doglie
triste;
che la vita ne
l’umido consiste.
coro Il buon vino,
40 di cuochi purpurino
con ragion è nostro
re:
a la banda,
s’ei comanda,
ci fa gir col
capo basso,
45 tronca il passo,
fa veder quel
che non è.
Il buon vino,
purpurino,
con ragion è nostro
re.
50 ghiotto Cantate pur, ch’io me ne vo di botto,
come un cinghial con aguzzato dente
a la cena fervente,
per far l’ufficio
mio, poiché son Ghiotto.
coro Cantiamo su su,
55 di cuochi che ’l tempo sen va![262]
Beviamo ognor più,
poich’altro non s’ha
in questa vita
amabile,
ma fragil, corta e labile,
60 giusto, com’un bicchier,
se non magnar
e ber!
Qui danzano.
Viva la
cucina,
la cucina viva!
Viva la cantina!
65 Che, seben n’è priva,
di vita gioconda
l’un e l’altra
abbonda.
È meglio esser
unto
che pulito e smunto;
70 e chi è grasso e
tondo
va di rado al
fondo,
un
che sia da broda,
ha la schiena
soda,
e se non sa molto,
75 vien da tutti accolto.
Si dan le prebende
a chi meno intende.
La filosofia,
magra, per la
via
80 sconosciuta errando,
sen va pitoccando;
ma l’ignorantone,
come un gran leccione
liscio ed ingrassato,
85 mastro è del pignato.
Ognun lo regala,
tutti gli fan
ala;
e quand’egli arriva,
trova la pappina.
90 La cucina viva,
viva la cantina.
SCENA XXXII
Nineuse
e Zambra, seduti a mensa: Elidoro da Dorilla, Zelfa da Silvino, Farfalla,
Bisticcio, Graffio, Ghiotto, Cospettone ed un Corriere.
nineuse Questa mensa fastosa
dal tuo bel fiammeggiante,
o bellissima sposa,
con ragion è fumante,
5 e ’l tuo soave
amore
accresce a le
vivande almo sapore.
zambra Il tuo guardo sì,
che a me sol condì,
mio Nineuse amato,
10 questi cibi augusti:
sol perché li
gusti
gli ama il mio
palato.
nineuse Olà, dov’è il prior dei parasiti?
L’anima dei conviti!
15 ghiotto Signor son qui a sorbirvi.
nineuse A servirvi dir
vuoi; ma ben dicesti;
perché son sempre
lesti
gl’ingordi servidori ed i gnatoni,
a sorbire i padroni.
20 zambra Per render l’alma lieta
la prima tazza
sia del vin di Creta.
farfalla È la creta argilosa
simbolo d’una
morte polverosa.
nineuse Cospettone!
cospettone Signor!
nineuse De la
mia diva
25 coppier ti fo, dagli
a libar del vino
real d’Engaddi.[263]
ghiotto È scelto e purpurino.
graffio Ecco, signor, il nappo,
in cui presse
l’Amore il primo grappo.
30 nineuse A la salute beo
de la mia vita.
A far ragion t’invita
il tuo sposo fedel: beviam alterni,
e sian nostri anni eterni.
zelfa E s’io beo
di torti un bicchierone,
35 chi mi farà ragione?
zambra Taci lì sacciutello!
Presto da ber!
cospettone Eccomi pronto a darlo.
zambra Oh tu mal sai versarlo!
La man, che fai?
Ti trema.
40 cospettone Per l’allegrezza estrema
di vedervi contenta.
zambra Mio cor,
per sempre spenta
resti la gelosia
in questa coppa
che ’l mio spirto invia,
45 con sospir amoroso al tuo respiro.
nineuse Bella, quando ti
miro,
sempre più mi
raccendo,
e ’n renderti
ragione a te mi rendo.
farfalla Un corriero,
un corriero!
50 Si sospenda il bicchiero.
corriero Signor, signor! In
fretta
a voi spedito
arrivo,
affannosa staffetta,
con questa carta
che mi die’ un ignoto,
55 in comandarmi accelerato
il moto.
nineuse Che fia mai? Leggerò?
zambra Mio fedel,
deh no!
nineuse Hai ragion, tempo
abbiamo![264]
zambra Dunque uniti beviamo!
60 nineuse Al segretario,
olà, si dia la carta!
zambra E da bere al corrier, seben molesto.
corriero Buona notte, signor,
ritorno presto.
bisticcio Son tutte le staffette
impazienti: al
fin rompi brachette.
65 nineuse Or beviam di concerto
stretti, la destra
chiusa e ’l cor aperto!
zambra Beviam,
idolo mio, che in questa palma
il cor mi stringi, e mi rapisci l’alma!
Qui bevono unitamente.
bisticcio Viva sì bella coppia.
70 farfalla Gli anni matusalemici,
né mai provi gli
arsenici
d’una gelosa inopia:
di fiori, e di
frutti abbondino,
né secchi mai
si sfrondino,
75 sempre col cornucopia:
viva sì bella
coppia!
nineuse Qual sopor mi sorprende?
zambra Ahi, qual ardor
m’accende?
nineuse Ohimè, che sento?
Aiuto!
80 zambra Ohimè, ch’ho mai beuto?
nineuse Ah che bevei la
morte!
zambra Oh dispietata sorte!
Il colpo va fallito.
nineuse Tu m’hai, crudel, estinto.
85 zambra O ciel, come ho mal vinto!
nineuse Perfida, scelerata!
zambra Misera, assassinata!
cospettone Olà, olà! Triaca e bolarmeno![265]
bisticcio Olà, contraveleno!
90 zelfa Oh Dio, Nineuse muore!
nineuse Ahi, che letale
orrore!
zambra Ahi, che dolor
atroce!
nineuse Sia maledetto il
fato, il ciel: ah cruda
già quest’alma
si snuda
95 per agitarti, al
fianco eterna Furia.
zambra Empio, di tal ingiuria
mi pagherai le
pene anche stasera:
son qui per tormentarti
atra Megera.
Qui s’attorcono
rabbiosamente insieme, incalzandosi dentro la scena, dove muoiono accavigliati.
nineuse Inumana!
zambra Protervo!
Aspe!
nineuse Cerasta!
100 Arpia!
zambra Drago!
Scorzon!
nineuse Vipera,
basta.
Dentro poi.
Perfida,
ohimè finisco!
zambra Scelerato! Inumano! Ohimè perisco!
ghiotto Amici, oh che frittata!
graffio Oh, che brutta insalata!
105 cospettone Oh, che salsa piccante!
elidoro Oh che cena fumante!
Oh che caso letale!
bisticcio Oh che macel
ferale!
Oh che guazzetto!
110 farfalla Da la tavola è un passo al cataletto.
zelfa Ohimè, Nineuse, ohimè!
Tu morto, o Dio,
così,
senza veder il
dì
de la mia cara
fé?
115 Lacrimate,
distillate
il mio core occhi
dolenti!
Amor fiero,
crudo arciero
120 al mio sen, che dardi
avventi?
Lacrimate,
distillate
il mio core occhi
dolenti!
Inconsolabile
125 d’inevitabile
morte cadrò.
Per tal esizio
al precipizio
ratta n’andrò.
130 elidoro Ella sen va con disperato affanno:
la seguirò, per
ovviarne il danno.
SCENA XXXIII
Ghiotto, Graffio,
Bisticcio, Farfalla, Cospettone, con la comparsa in fine
di quattro Furie.
ghiotto Or che farem, compagni, a tanta pena?
graffio Trattiam
di sotterrarli!
ghiotto Ma, se noi non potiam risuscitarli,
mettiamsi pur a cena!
5 bisticcio Chi è morto, è morto. Quando il padron
more
festeggia il servitore.
farfalla La vacca e il vitello
son caduti ad
un colpo di martello.
cospettone Ceniam
dunque, né siam così balordi!
10 bisticcio Tu non l’hai detto a sordi.
Qui si affidono
a mensa.
ghiotto Diam la scalata a questo gran pasticcio!
farfalla Or
or col mio famelico capriccio.
bisticcio Questo
cappon non ha pepe, né sale:
ed
ha la pelle a punto da stivale.
15 ghiotto È
ver: io lo conosco al becco, a l’anca:
ha
di quel che gli manca.
farfalla Oh
tu se’ dilicato!
Ma
tal è ’l cibo alfin, quale il palato.
graffio Che
pernice scolante e d’alta grassa!
20 ghiotto Lascia
veder! In due boccon trapassa!
graffio Anche
il Graffio talor colto rimane.
farfalla Qui
non si mangia pane?
bisticcio Questa
è casa di carne:
mira
che belle starne!
25 farfalla Per
costume usitato
i
ricchi magnan sempre di pelato.
ghiotto Olà
da bere, olà, ch’io son padrone!
cospettone Buono
per Cospettone!
Beviam tutti ad un tratto!
30 farfalla Ma
guarda il vin, perché dà scaccomatto.
bisticcio Nol vo’ d’Engaddi no, nol vo’ di Creta.
ghiotto Son del bere la meta.
farfalla Maledetti que’
tralci!
Vin da cavalli
alfin fa tirar calci.
35 bisticcio È un vin di malificio.
graffio Il nostro sarà un vin senz’artificio.
cospettone A la salute d’ogni buon
compagno:
e nessuno così
di noi sparagno.
bisticcio È morto il gran Fineo, morta è l’arpia.[266]
40 tutti Viva
la compagnia!
Qui mentre stanno per bere, prorompono quattro Furie, che se ne
portano via i corpi di Nineuse, di Zambra, onde ne va
la tavola tutta a scompiglio.
cospettone Ohimè, ohimè, che furiosi spettri!
graffio Ahi, che gelo a tal vampa!
bisticcio Per campare si scampa.
45 ghiotto Oh, che spavento atroce m’ha ingoiato!
farfalla Ed io Farfalla son tutto scottato.
Fuggono con disordine.
SCENA XXXIV
Elidoro,
Zelfa, Eliabbe ed Elcana.
Bosco.
elidoro Ferma, deh ferma
bella baccante
il
piè volante
ad
una morte insana!
5 Tua
mente inferma
per
duol indegno
con
fiero sdegno
folle
ti disumana.
zelfa Importuno,
ed ancora
10 t’opponi
a la quiete
di
cui quest’alma ha sete?
Ah
giust’è che mi prive
di
respiro il dolore!
Con
ragion Zelfa muore,
15 perché
Nineuse, il suo sposo, non vive.
elidoro Che
sposo? Un lestrigon empio e fremente,
ch’ai
sassi condannò
la
più bella innocente,
sposo
tua lingua chiama?
20 E
di chi ti salvò
con
affetto immortale
l’amor
puro e leale
il
tuo cor ostinato ancor non ama?
zelfa Lascia,
deh lascia omai
25 questa
inutil inchiesta,
perché,
se come onesta
sinor io non t’amai,
or,
che son disperata,
e
me stessa anche aborro,
30 al
precipizio corro,
per
non venir più amata.
elidoro Oh
funesta pazzia!
Trattienti anima mia!
zelfa Ed
ancor non mi sciogli?
35 elidoro Vo’
che prima snodi me.
zelfa Invan di me t’invogli:
morto
è Nineuse e viva è la mia fé.
eliabbe Che
contesta è mai quella?
Vezzosa
pastorella
40 con
un pastor alterca,
e
con ritrose note
da le braccia di lui tutta si scuote.
elcana Cerca
Eliabbe, cerca
la
cagion del contrasto!
45 eliabbe Ohimè,
ch’ho il cuor sì guasto
dal
mio rimorso nero,
perché
uccisi un fratel, seben severo,
che
ad altro penso: andiamo!
50 elidoro Padre,
ah padre vi chiamo
povero
disperato,
misero
innamorato;
venerabil romito,
al
soccorso v’imploro,
55 al
consiglio v’invito:
deh
per pietà ristoro!
Questa
è dell’epulon la vera sposa,
al
mio costante amor sempre ritrosa;
e
poiché morto è quel tiranno atroce,
60 al
precipizio ella correa veloce,
quand’io
qui la trattengo, e la lusingo.
zelfa Son
Zelfa, e più non fingo: ah padre aiuto!
elcana Di
dar non lo rifiuto:
lasciala
pur e sia con tuo decoro
65 il
decreto del ciel messo in effetto.
Io
son certo che al letto
di
Nineuse giammai non feste oltraggio,
e
gl’innocenti amori, o cavaliero,
del
tuo spirto sincero,
70 (tali
son or) il cielo,
che
suol in lana convertire il gelo,
or
benedice con empireo raggio.
zelfa Dunque
sposar il deggio?
elcana Ne
le stelle intagliato, o Zelfa, il veggio.
75 elidoro Oh
come ne son lieto!
Riverisco
del ciel l’alto decreto.
zelfa Io
pur mi rendo agli astri
dopo
tanti disastri.
elidoro O
fortunato me! Cara t’impalma
80 la
mia destra: ecco il cor, eccoti l’alma!
zelfa Son
felice ad un punto.
Elidoro t’amai,
ma
lo dissimulai:
che
donna, amante scaltra
85 appar ritrosa e ne l’interno è un’altra.
Or
che, mio bel, se’ giunto
de
lo scambievol foco a spegner tutta
la tormentosa arsura,
l’anima
mia ti giura,
90 nel
ben amar instrutta,
che
più (se più si può)
di
Nineuse, o mio fido, io t’amerò.
elidoro O
mia cara delizia!
zelfa O
mio fatal contento!
95 elidoro Deh
lascia la mestizia
con
sì nobil evento!
zelfa Son
tua serva inviolabile.
elidoro Son
tuo schiavo strettissimo.
zelfa Mio
ben, mia vita affabile!
100 elidoro Idolo
mio dolcissimo.
ambidue Andiam al sacrificio
grati
al ciel, che felicita
un’union
sì licita
col
suo gran beneficio!
105 elcana Andate
pur andate, e vi secondi
Providenza
sovrana,
che
con maniera strana
vien
ch’a i mortali di sue grazie abbondi.
elidoro Addio,
buon vecchio, addio!
110 zelfa Addio
saggio, ver me sì retto e pio!
eliabbe Che
farem noi?
elcana Se vuoi restarti meco,
avrem commun la vita, il cor, lo speco.
eliabbe Volentieri
mi piego.
Anzi
tutto compunto io te ne prego:
115 così la penitenza
purgherà
l’error mio con l’astinenza.[267]
elcana Andiam, che ’l mondo è così pien d’impacci,
che
non v’ha chi gli fugga, o non s’allacci!
SCENA
XXXV
Nineuse e Zambra: Lazaro ed Abramo.
Quattro
Furie.
Inferno
e Limbo.
nineuse Ahi,
ahi! Ahi, ahi! Ahi, ahi!
e zambra Che
pene, che affanni, che orrori, che guai!
In
questo centro squallido,
in
cui la morte vive,
5 arde
lo spirto pallido
su
le sulfuree rive,
dove
il foco pestifero
corre
in fiume letifero.
zambra In
questi gorghi orribili
10 d’un
mar di fiamme atroci
l’alma
tra i mesti sibili
d’euri tetri e feroci
senza
calma, o suffragio,
patisce
atro naufragio.
15 nineuse Il
mio bisso morbido,
il
mio fulgid’ostro,[268]
fumicolo e torbido,
or
ammanta un mostro
d’ira
e d’avarizia
20 con
letal mestizia.
zambra La
mia vil lussuria,
il
mio lusso osceno,
raddoppiata
Furia
mi
tormenta il seno,
25 in
cui sol or godono
vermi
che mel rodono.
nineuse Ahi,
ahi! Ahi, ahi! Ahi, ahi!
e zambra Che
pene, che affanni, che orrori, che guai!
nineuse Tra queste rie caligini,
30 qual
barlume traspare,
per
far le mie fuligini
più
dense al mio penare?
Ohimè,
che fier rimprovero?
Vedo
il deriso Lazero,
35 non
più stracciato e misero,
non
più lebbroso e povero.
Ahi,
che dolor mi macera!
Ahi,
che furor mi lacera!
lazaro Fortunati
stenti,
40 nel seno cari
patimenti,
di abramo a
voi debbo il tutto!
Per
voi dolce calma
dà
riposo a l’alma,
se
fu amaro il flutto.
45 nineuse O
miei lumi offuscati,
tardi
v’aprite tardi
con
torpiditi guardi
ai
lumi disprezzati!
Che
mi val chieder pietà
50 se
’l mio cor fu sì crudele?
Se
non mai conobbi ’l ciel,
or
il ciel per me non l’ha.
lazaro Fortunati
stenti,
cari
patimenti,
55 a
voi debbo il tutto!
Per
voi dolce calma
dà
riposo a l’alma,
se
fu amaro il flutto.
nineuse Padre, deh padre Abramo!
60 abramo Figlio,
che chiedi figlio?
nineuse Compassion ti chiamo
in
questo oscuro esiglio.
abramo Che
vuoi da me ch’attendi?
T’ascolterò,
seben l’orecchio offendi.
65 nineuse Io
ti priego che mande
la
tua pietà Lazaro a queste bande,[269]
perché,
dal genio tuo soave spinto,
con
l’estremo del dito, in acqua intinto,
la
mia lingua refrigeri, abbronzata
70 in
questa fiamma, a cui porge il fomento,
con
immortal mortifero tormento,
l’alma
mia, la mia salma empia e dannata.
abramo Figlio
non ti raccordi,
che
con affetti ’ngordi
75 vivendo
accumulasti a colmo i beni,
e
Lazaro, de’ mali a l’affluenza
offrì
la pazienza:
or
ei qui si ricrea, tu laggiù peni:
né
può passar da noi
80 alcuno
a trovar voi,
che
tra voi resta, e noi, confuso e fermo
un
caos sì tetro ed ermo,
che
da voi, né men qua, passar alcuno
può,
di conforto e luce ognor digiuno.
85 nineuse Padre,
ti prego almeno
che
al mio nativo albergo or or dispacci
la
tua pietà quel Lazaro che in seno
ti
respira, deposti i gravi stracci,
ond’instruisca i miei cinque fratelli,
90 perché,
com’io, del ciel fatti rubelli,
al
fin non gli rimiri
in
questo loco d’ombre e di martiri.
abramo Hanno
Mosè, i profeti:
ubbidiscano
quegli e ne fian lieti.
95 nineuse No, padre Abramo, no! Se
alcun de’ morti
ad
ammonirgli andrà, per fargli accorti,
germoglieran di penitenza i fiori,
né
discendran, com’io, tra questi orrori.
abramo Tu
se’ pur sempre stolto!
100 Se a profeti, a Mosè non danno ascolto,
né
serbano la Fé, che in lor talpeggia,[270]
molto
men fia che deggia
lor
mente insana trar qualche profitto,
s’alcun
de’ morti a quei farà tragitto.
105 lazaro Fortunati
stenti,
cari
patimenti,
a
voi debbo il tutto!
Per
voi, dolce calma
dà
riposo a l’alma,
110 se fu amaro il flutto.
nineuse Oh
spietato destino?
Che
foggia strana innovi?
O
ciel, onde si provi
dolor tanto intestino?
115 lazaro Gemi
pur penante,
ch’io
non più agognante
son
a le tue miche!
I
tuoi gusti folli,
le
tue rose molli
120 son napelli ed ortiche.[271]
A
me la sorte,
a
te la morte.
nineuse A
me la morte,
a
te la sorte.
125 lazaro L’empireo
nume,
da
te schernito,
da
me servito,
nineuse Da
me schernito,
da
te servito,
130 ambi perpetua
dà.
nineuse A
me d’ardore,
a
te d’orezzo,[272]
per
mio disprezzo.
lazaro Quel
caro amore,
135 nineuse Dio
non creduto.
lazaro Di
te rifiuto,
da
me adorato,
nineuse da
me negato,
lazaro l’abisso
puro,
140 nineuse il
centro oscuro,
ambi sempre darà.
nineuse Sia
maledetto il dì
lazaro Sia
benedetto il dì
145 nineuse che
a l’Orco serpentoso,
lazaro che
a sì dolce riposo,
nineuse la
giustizia crudele,
ambi la giustizia fedele
del
ciel mi partorì.
150 lineuse Io
penerò,
lazaro Io
gioirò,
ambi tanto ha prescritto a entrambi
’l Fato eterno.
lazaro Io
ne la Gloria absorto,
nineuse Io
ne l’Inferno.
Qui spariscono il Limbo
e l’Epulone con Zambra, restando le quattro Furie, che ai fianchi li tormentavano,
a chiuder l’opera con un feroce balletto.
Il
Fine.
Opere citate di Francesco Fulvio Frugoni
Frugoni,
Francesco Fulvio, Del
cane di Diogene opera massima del p. Francesco Fulvio Frugoni minimo, i Primi latrati, cioè la scuola d’Antistene, la
fontana di Bacco, et la moda smoderata, Venezia, per Antonio Bosio, 1689.
Frugoni,
Francesco Fulvio, Del
cane di Diogene opera massima del p. Francesco Fulvio Frugoni minimo, i Quarti latrati,
cioè i padroni variati, e gl’incontri diversi, Venezia, per Antonio Bosio, 1687.
Frugoni,
Francesco Fulvio, Del
cane di Diogene opera massima del p. Francesco Fulvio Frugoni minimo, i Settimi
latrati, cioè la lucerna del cinico, Venezia, per Antonio Bosio, 1688.
Frugoni,
Francesco Fulvio, Il Tribunal della Critica, a cura di Sergio Bozzola e Alberto Sana, Parma, Fondazione Pietro
Bembo/Guanda, 2001.
Frugoni,
Francesco Fulvio, L’epulone. Opera melodramatica esposta con le prose morali-critiche, Venezia, presso
Combi e La Noù, 1675.
Frugoni,
Francesco Fulvio, L’heroina intrepida, ovvero la Duchessa di Valentinese. Historia
curiosissima del nostro secolo,
Venezia, per Combi e La Noù, 1673.
Frugoni,
Francesco Fulvio, L’innocenza riconosciuta,
drama musicale del Padre Francesco Fulvio Frugoni
Minimo, in Genova, per Giovan Maria Farroni, 1653.
Frugoni,
Francesco Fulvio, La vergine parigina,
Venezia, per Combi e La Noù, 1676.
Frugoni,
Francesco Fulvio, Ritratti critici, in
Venezia, presso Combi e La Noù, 1669.
Altre opere
Abati, Antonio, Poesie postume di Antonio
Abati, Bologna, Giovanni Recaldini, 1671.
Aretino, Pietro, in Id.,
Sei giornate, a cura di Giovanni
Aquilecchia, Bari, Laterza, 1969.
Benzoni, Gino - Zanato, Tiziano (a cura di), Storici e politici veneti del Cinquecento e del Seicento, Milano-Napoli,
Ricciardi, 1982.
Bozzola,
Sergio, Contributo alla storia dell’ortografia. F.F. Frugoni e il secondo
Seicento, «Studi di
grammatica italiana», XVI, 1996, pp. 75-118.
Bozzola,
Sergio, Glossario frugoniano, «Studi
di lessicografia italiana», XIV, 1997, pp. 153-282.
Canova,
Matteo, Francesco Fulvio Frugoni librettista: commento a Innocenza riconosciuta
(1653), Le vittorie di Minerva (1655), Epulone (1675), in Teatro e teatralità a Genova e in Liguria:
drammaturghi, registi, attori, scenografi, impresari e organizzatori, a cura
di Federica Natta, Bari, Edizioni di Pagina, 2014, vol. III, pp. 47-73.
Caussin, Nicolas, La sapienza evangelica per trattenimento
spirituale nel tempo della Quaresima, Bologna, per Carlo Zenero,
1649.
Conrieri, Davide, Poetica
e critica di Francesco Fulvio Frugoni, in Id., Scritture e riscritture
secentesche, Lucca, Maria Pacini Fazzi, 2005, pp. 53-74.
Conrieri, Davide, Quattro lettere di Francesco Fulvio
Frugoni, in Id., Scritture e riscritture secentesche, Lucca, Maria Pacini Fazzi, 2005, pp. 100-123,
Corradini, Marco, L’Aminta dei moralisti e l’Aminta
dei libertini, «Lettere Italiane», LXVIII, 2, 2002, pp. 266-305.
Crasso, Lorenzo, Elogi d'uomini letterati, in Venezia, per Combi e La Noù, 1656.
Delcorno, Pietro, Lazzaro e il ricco epulone. Metamorfosi
di una parabola fra Quattro e Cinquecento, Bologna, il Mulino, 2014.
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Gigliucci, Roberto, Tragicomico e melodramma.
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Nani, Battista, Dell’istoria della repubblica veneta, in Degl’istorici delle cose veneziane, vol. VIII, in Venezia,
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Studies on Stobaeus, edited
by Gretchen Reydam-Schils, Turnhout, Brepols, 2011, pp. 339-386.
Rodda,
Giordano, Pria di sguinzagliar’il
cane». Aspetti dell’intertestualità nel Cane di Diogene di Francesco Fulvio
Frugoni, in I diversi fuochi della letteratura barocca. Ricerche in corso,
a cura di Luca Beltrami, Emanuela Chicchiriccò e Simona
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[1] «L’epulone con le prose
morali-critiche, in quarto: stampato in Venezia, e ristampato in Ginevra» (Francesco Fulvio Frugoni, Del cane di
Diogene opera massima del p. Francesco Fulvio Frugoni minimo, i Settimi
latrati, cioè la lucerna del cinico, Venezia, Antonio Bosio, 1688, p. 852).
[2] Sui Combi-La Noù si veda Alfonso
Mirto, Librai veneziani del Seicento: i Combi-La Noù
ed il commercio librario con Firenze, «La Bibliofilia», XCIV, 1, 1992, pp.
61-88.
[3] Luca Trevisan - Giulio
Zavatta, Incisori itineranti nell’area veneta nel Seicento. Dizionario
bio-bibliografico, Verona, Università degli studi
di Verona, 2013, p. 79.
[4] Sulla figura del
diplomatico veneziano Battista Felice Gaspari Nani (1616-1678), ambasciatore in
Francia e commissario per i confini della Dalmazia, si veda Dorit Raines, Nani, Battista Felice Gaspare, in Dizionario
Biografico degli Italiani, vol. LXXVII, Roma, 2021, pp. 692-698, e Storici e politici veneti del Cinquecento e
del Seicento, a cura di Gino Benzoni e Tiziano Zanato,
Milano-Napoli, Ricciardi, 1982, vol. II, pp. 443-459. I rapporti con Frugoni
sono invece puntualmente illustrati da Davide
Conrieri, Quattro lettere di Francesco
Fulvio Frugoni, in Id., Scritture
e riscritture secentesche, cit.,
pp. 100-123: 117-123.
[5] “Si ricopriva di porpora
e bisso” (Lc 16, 19).
[6] La porpora, prodotta
tradizionalmente dai Fenici e in particolare dalle città di Tiro e Sidone.
[7] È Pausania, nel secondo volume della Periegesi della Grecia, a
citare il bisso dell’Elide e quello (più rossastro) della Giudea.
[8] Si legge nel primo voume degli Elogi del Crasso: «La Nani si nomina tra
le [famiglie] romane a tempo degli imperadori, e hassi per un ramo della famiglia Mezia,
che vien da’ Sabini» (Lorenzo
Crasso, Elogi d'uomini letterati, in Venezia, per Combi e La Noù, 1656, p. 101. Il ratto delle Sabine – che sancì la
fusione tra i due popoli – avvenne al compimento del primo lustro dalla
fondazione di Roma, nel 749 a.C.
[9] «Et facere et pati fortia Romanum
est», “è da romano fare e patire cose forti” (Liv. 2, 12, 9).
[10] Battista Nani era figlio
di Giovanni dei Nani e Marina Lando.
[11] «La famiglia poi de’
Landi è rampollo de’ Duchi di Vittembergh diramato da
Adelberto nel tempo del re Pipino» (Lorenzo
Crasso, Elogi d'uomini letterati, cit., p. 102).
[12] Nel senso di
‘ricordare’.
[13] Battista Nani seguì il
padre a Roma all’inizio del 1639 e vi rimase fino a maggio dell’anno
successivo.
[14] “È bello essere
additati, e che si dica ‘è lui’”: Pers.
1, 28.
[15] Il Tevere, spesso
utilizzato per antonomasia per indicare la curia romana.
[16] Giovanni Nani morì il 23
aprile 1647.
[17] Ercole si caricò la
volta celeste sulle spalle, sostituendo Atlante mentre questi raccoglieva i
pomi del giardino delle Esperidi. Intuì poi il trucco del titano che intendeva
assegnarli il gravoso compito per sempre e riuscì a fuggire.
[18] Nelle Storie, IV,
186 3.
[19] “Attraverso la metatesi
e l’inversione, si può dire ‘Atlante’ di qualsiasi uomo particolarmente
operoso: come un Atlante delle fatiche letterarie, degli affari militari e e degli affari politici” (Jan Fongers (Johannes Fungerus), Etymologicum
trilingue, Lugduni, sumptibus
Antonii De Harsy, 1607, p.
97). Il repertorio del Fongers è molto utilizzato da
Frugoni anche nel Cane di Diogene.
[20] Nani, eletto
ambasciatore ordinario in Francia, fu a Parigi dal 1644 al 1648, durante la
reggenza di Anna d’Austria e Mazzarino dovuta alla giovane età di Luigi XIV.
[21] Il cigno d’argento in
campo verde era lo stemma della famiglia Nani.
[22] I Sicambri
erano un’antica popolazione germanica stanziata sulla riva destra del Reno,
sconfitta prima da Cesare e poi da Tiberio, e infine trasferita in Gallia.
[23] La guerra di Candia
venne combattuta dal 1645 al 1669 tra la Repubblica di Venezia e l’impero
ottomano per il possesso dell’isola di Creta.
[24] Nani fu ambasciatore
ordinario presso Ferdinando III d’Asburgo dal 1653 (pur partendo solo l’anno
successivo) e fino alla incoronazione di Leopoldo I, nel settembre del 1657.
[25] L’azione reciproca di
due forze contrarie che si rafforzano a vicenda (qui il freddo delle nevi di
Germania che aumenta l’ardore dell’animo del Nani).
[26] Il vento d’aquilone era
il vento settentrionale per eccellenza.
[27] Il successore di
Ferdinando III, Leopoldo I d’Asburgo, re d’Ungheria e di Boemia dal 1655.
[28] Carlo X Gustavo di
Svezia, che dichiarò guerra alla Polonia del 1655 e alla Danimarca nel 1657
durante la guerra di successione svedese.
[29] La pace di Vestfalia del
1648, che pose fine alla guerra dei Trent’anni. «Divisando tutto giorno col
cardinal Mazzarini, operò molto per la pace universale in Munster» (Lorenzo Crasso, Elogi d'uomini
letterati, cit., pp. 102-103).
[30] Creta non faceva parte
delle vicine Cicladi.
[31] «Nella creazione
d’Alessandro Settimo al papato ebbe l’occhio la Republica
di crear Battista ambasciadore a quel nuovo
pontefice. Ma ad altri fu poi commessa tal funzione, perché egli ritornò in
Germania a congratularsi con l’imperador Leopoldo» (Lorenzo Crasso, Elogi d'uomini
letterati, cit., p. 103).
[32] Allusione al celebre
episodio di Alessandro Magno e del nodo di Gordio.
[33] Il Collegio dei Savi
(Nani divenne savio grande nel 1654).
[34] Il Maggior Consiglio,
del quale Nani entrò a far parte a soli 18 anni, il 4 dicembre 1637, per
sorteggio.
[35] Nani venne eletto il 2
gennaio 1654 all’ufficio dei riformatori dello Studio di Padova.
[36] Dal commento di san
Tommaso d’Aquino al Liber sententiarum di
Pietro Lombardo: «Angelus definitive in loco est per operationem
suam» (Scriptum super Sententiis,
Ia 37.3.1).
[37] Nani tornò a Vienna in
qualità di ambasciatore straordinario per l’incoronazione imperiale.
[38] Lo stemma degli Asburgo
è l’aquila bicipite.
[39] Nel luglio 1659 Nani
venne eletto ambasciatore straordinario presso Luigi XIV, con il compiuto di
chiedere sussidi per la guerra di Candia. Il matrimonio nel 1660 tra Luigi XIV
e Maria Teresa d’Asburgo, infanta di Spagna, aveva il compito di rendere più salda
la pace tra Francia e Spagna dopo la guerra franco-spagnola, e venne decisa con
il Trattato dei Pirenei sottoscritto da Mazzarino e Don Luis Méndez de Haro. «Accedat iam lectissima Hispaniarum heroina Maria Teresa publicae arbitra pacis, communisque gaudii complementum, convolet ad nos quamprimum ex Ibericis oris casta illa columba dulcis olivae ramum praeferens» (Petrus Rosellus,
De Antiqua Gallias inter, atque
hispanias in divinis, et humanis
rebus coomunione, Lugduni,
ex typographia Ioannis Gregoire,
1660, p. 71).
[40] Allusione alla luna
crescente, simbolo dell’impero ottomano.
[41] Il 3 febbraio 1662 Nani
divenne procuratore di S. Marco.
[42] Balsamo profumato.
[43] L’elezione alla
prestigiosa carica di capitano generale da Mar, il 15 settembre 1663, nell’ultima
fase della guerra di Candia, comportava numerosi rischi: «La carriera politica
di numerosi patrizi, già dal Quattrocento, era stata annichilita
dall’insuccesso (spesso dovuto a fattori estranei alla loro capacità di leadership)
nello svolgimento della loro funzione; altri erano stati innalzati al grado di
eroi nazionali. Nani, che conosceva bene quelle storie, non si sentiva
preparato per l’incarico e lo rifiutò, consapevole che gli fosse stato giocato
un brutto scherzo come reazione alla sua crescente popolarità. La fase militare
della guerra di Candia continuò senza di lui, ma il rifiuto ipotecò la sua
carriera, che conobbe una brusca frenata» (Dorit Raines, Nani, Battista Felice Gaspare, cit., p. 696).
[44] Maometto.
[45] Si veda la Vita di
Battista Nani, cavaliere e procuratore, scritta da Piercaterino
Zeno, fratello di Apostolo, e premessa nell’edizione 1720 dell’Historia
della Republica Veneta: «Erasi fin l’anno
1669 a’ 6 di settembre tra Veneziani e Turchi
stipulata la pace; per la quale dovendosi nella Dalmazia stabilir nuovi
confini, a cagion delle nuove conquiste dall’armi
della Repubblica fatte in quella provincia, fu di mestieri che dall’una e
l’altra parte si deputassero commissari, i quali andassero sopra luogo, e,
tolta via ogni differenza, stabilisser que’ termini pe’ quali lo stato veneziano dal turchesco
colà si distinguesse. E questo importantissimo quant’onorevole impiego fu da’ Padri addossato al Nani a dì 16 aprile dell’anno 1671»
(Battista Nani, Dell’istoria
della repubblica veneta, in Degl’istorici
delle cose veneziane, vol. VIII, in Venezia, appresso il Lovisa, 1720, p.
XII).
[46] Pascià (bassà) e caimacan (caimecan) erano titoli onorifici attribuiti a governatori
di province e altri ufficiali dell’impero ottomano.
[47] Il governo ottomano (la
Sacra Porta, traduzione del termine turco osmanli Baib-i
‛ali).
[48] Il poeta Terpandro, uno dei padri della poesia lirica, era nato ad Antissa, sull’isola di Lesbo.
[49] Dal murice, com’è noto,
si ricava la porpora; qui sta per “rendere ancora più onorevole”.
[50] Proverbiale era la brevitas
tacitiana, che peraltro offriva – come qui – l’occasione per bisticci e
paronomasie.
[51] L’Historia della
Republica Veneta, impressa a Venezia nel 1663 e
poi nel 1680 a Bologna in seconda edizione.
[52] Nel 50 a. C. Sallustio
era stato espulso dal Senato probri causa
(tra le accuse, quella di aver accumulato ricchezze nel governo dell’Africa e
di aver commesso adulterio con Fausta, figlia di Silla e moglie di Milone).
[53] Mart. 6, 3: “Ella in persona ti filerà la lana dorata con le sue
nivee dita”.
[54] Allusione al seno di
Abramo dove Lazaro troverà la ricompensa oltremondana nell’opera.
[55] La citazione corretta
dall’Octavius di Minucio Felice (cap. XXXVII) è “Fascibus et purpuris
gloriaris? Vanus error hominis et inanis cultus dignitatis,
fulgere purpura, mente sordescere”
(“Ti vanti di fasci e porpore? È un vano errore dell’uomo, e un futile culto
del prestigio, risplendere nella porpora e avere la mente sporca”).
[56] “In grado di intendere
finemente” e non “legato solo al dato quantitativo”. Nei Ritratti critici
Frugoni scrive: «Si suol dir usualmente di uno che
non abbia giudicio, ch’egli abbia il cervello di
carta pesta. Sono figure quelle delle carte, e perciò non hanno sostanza benché
la tolgano, poiché parlando filosoficamente la figura non è passione della
sostanza, ma della quantità. Quella del giuocatore
che non ha sostanza, ma cerca di truffar l’altrui, è quantità numerica, ma non
discreta, perché se ben consiste ne’ numeri, non è continuata dalla ragione» (Francesco Fulvio Frugoni, Ritratti
critici, in Venezia, presso Combi e La Noù, 1669,
p. 563).
[57] «Ho alla mano spedito il
mio Epulone, opera melo-dramatica, passato
(prima d’andare all’Inferno) per lo Purgatorio della più rigorosa censura» (Francesco Fulvio Frugoni, L’heroina intrepida, ovvero la Duchessa di Valentinese.
Historia curiosissima del nostro secolo, in Venezia, presso Combi e La Noù, 1673, vol. I, n.n.).
[58] Sugli avari saturnini si veda il ritratto nel Cane di Diogene:
«Certi vecchi ha il mondo che son per l’avarizia non mai satolli, e stanno
sempre con la falce testa per mietere» (Francesco
Fulvio Frugoni, Il cane di Diogene, vol. I, cit., p. 348).
[59] Assorbire, nel senso di
“prosciugare”.
[60] Genericamente, gli
abitanti delle terre intorno al Mar Rosso.
[61] Il Gange era rinomato
per la pesca delle perle.
[62] Il fiume Pattolo in Asia Minore, celebre per le sue sabbie aurifere,
così come il Rio della Plata per l’argento.
[63] “Destinati alla
dannazione eterna”. «È Cristo morto verissimamente per tutti gli uomini, o
giusti, o peccatori, o eletti, o presciti ch’eglino sieno»
(Paolo Segneri, Quaresimale,
in Firenze, per Iacopo Sabatini, 1679, p. 559).
[64] Racconta Luciano nell’Adversus indoctum
che un ricco acquistò per tremila dracme la lanterna di Epitteto, pensando che
potesse illuminare anche lui della stessa sapienza. La diligenza di Cleante era
proverbiale, perciò lavorare alla sua lucerna significava farlo col massimo
impegno.
[65] «Intus
enim apparens prohibet extraneum et obstruit» (“l’intrusione di qualcosa di estraneo [nell’intelletto]
lo ostacola ed interferisce con lui”), celebre massima aristotelica del De
anima, III, 4, 429a.
[66] La gotta.
[67] Aurelia Spinola,
duchessa del Valentinois e protettrice di Frugoni,
morì ad Aix il 29 settembre 1670.
[68] Pubblicata a Venezia nel
1673 e biografia romanzata della Spinola.
[69] “(quando) il padrone è
prodigo, il servo è avaro”. «Ma le Muse dier la paga
ad Elindo qual meritava, peroch’ei fe’sempre non solo il fiscale agli uomini letterati, ma fe’ lor anche confiscar quelle ricompense che ’l suo
principe destinava a quei ch’avean immortalato il di
lui nome, perché si verificasse l’asioma: dominus prodigus, servus avarus» (Francesco
Fulvio Frugoni, Il Tribunal della
Critica, cit., p. 72).
[70] Corrompere.
[71] L’orlo della veste.
[72] «Come l’eroina sta
intrepida durante le varie disavventure, così Minerva nella tua bocca tra gli Aristarchi» (cfr. Distichorum
Io. Benedicti Perazzo Veneti Centuriae
XV, editio secunda locupletior, Venetiis, ex typographia Andreae Poleti, 1684,
p. 97).
[73] Frugoni non vedrà
stampato il cane di Diogene, pubblicato tra il 1687 e il 1689.
[74] Sollecitato.
[75] La Vergine parigina
venne ripubblicata a Venezia nel 1676, sempre per i Combi-La Noù.
[76] L’opera rimarrà tra
quelle solo progettate e puntualmente annunciate nelle appendici dei volumi
frugoniani.
[77] “Le labbra vogliono
lattughe a loro simili” (dagli Adagia di Erasmo da Rotterdam, 971).
[78] Cioè facendo economie.
[79] Secondo Plinio il
Vecchio (Nat. 9 119-121) Cleopatra
bevve una perla sciolta nell’aceto dopo aver scommesso con Marco Antonio che sarebbe
stata in grado di digerire diecimila talenti.
[80] Nel cap. XXXVIII della Periegesi,
Pausania racconta che furono gli asini, mangiando il germoglio della vite, a
mostrare come questa in futuro sarebbe diventata in questo modo più fertile, e
all’animale a Nauplia venne eretta una statua.
[81] «Non sono lunghi gli scritti nei quali non potresti togliere nulla, ma
tu, Cosconio, componi distici lunghi» (Mart. 2, 77).
[82] L’erudito romano per
eccellenza, autore di circa 720 libri per 74 opere.
[83] «Era Profusio
un signore di Girilva, che per la sua cieca
liberalità si trovava arenato nella sabbia sterile del bisogno. [...] Tra le
altre che l’avevano ridotto al verde può annoverarsi Spelunchia:
una dama delle più sagaci e delle più belle che mai fioreggiassero
e fruttificassero sopra il danaro. [...] Egli, ch’era un magnanimo regaladore profuse a mille, a mille quelle monete che ’l zio aveva al cento, a cento aggregate, per conciliarsi
l’inclinazione di quella bellissima arpia che gli saccheggiava tutto giorno la
mensa lauta; perocé i piatti più studiati, tantosto
che comparsi, a Spelunchia si destinavano» (Francesco Fulvio Frugoni, L’heroina intrepida, cit., vol. III, pp. 321-322). Non ho
trovato nell’Heroina il riferimento al
porcello di Spelunchia; Frugoni stesso ammette la
possibilità di essersi confuso con i Ritratti critici (si veda la nota
successiva). Si parla comunque del «porcello di Profusio»
nel posteriore Cane di Diogene, dicendo che «seben
nutrito con truogolo non di broda commune, ma col
sugo dai montoni arrostiti in bella corte; ancorché liscio il pelo, con gli
orecchini di smeraldo, la gorgiera di perle, col filo della schiena guarnito di
guarnito [sic] d’una filza di nastri anglicani, sempr’era
di razza di porco» (Francesco Fulvio
Frugoni, Il cane di Diogene, cit., vol. VII, pp. 784-785). Nella
glossa Frugoni annota «Vedi l’autore nel Ritratto Critico del Lascivo».
[84] Nel Ritratto dedicato
al Lascivo: «I più squisiti piatti della mensa eran
primizia destinate a quell’animale, per cui si spremeano
gli interi montoni arrostiti, per cavarne i succhi più sostanziosi a nodrirlo. I canditi ed i zuccheri erano un’insalata al
maiale, che già con la cotica rilucente e col grifo odoroso avea
scordata la sua natura, ed era divenuto civile per la forza del trattamento» (Francesco Fulvio Frugoni, Ritratti
critici, cit., pp. 227-228).
[85] Riferimento a Is 55 1: «O voi tutti assetati venite all'acqua, chi
non ha denaro venga ugualmente; comprate e mangiate senza denaro e, senza
spesa, vino e latte» (nella Vulgata, «venite, emite absque
argento et absque ulla commutatione vinum et lac»).
[86] Medicamenti.
[87] “Vergognosa povertà”,
cit. da Verg. Aen. 6, 273
(«malesuada Fames ac turpis Egestas»).
[88] Una lettera del bolognese Gianfrancesco Isolani, letterato ed erudito,
senatore nel 1646, compare anche nel Cane di Diogene.
[89] Il verso corretto è «luxuriamque lucris emimus luxuque rapinas» (“e acquistiamo la lussuria col lucro e col lusso
la rapacità”), in realtà all’inizio del quarto libro degli Astronomica
di Manilio.
[90] forte mio braccio: «Il braccio della Ricchezza è forte, perché ha i denari
per nervi. Se dai nervi ha origine il movimento dei corpi, dai denari han la mossa
gli affetti» (MC, p. 305).
[91] omei: “ohimè” («Rizzava alla finestra, ove l’omei
/ prima di Palemone udito avia»; Boccaccio,
Teseide, III, 26 4-5).
«I respiri della Povertà sono sospiri: sospiri che alimentano il dolore nel riflesso
di non tenere con che alimentare la vita: respiri ch’estinguono la vita nella considerazione
di non avere con che soffocare il dolore» (MC 323).
[92] a la
guerra che fa il dente: «Tamburi sono
i ventri de’ crapuloni, a’ quali servono le budella tese
di corda stirate; con questi si suona la marchia alla mensa, campo spianato all’ingordigia
della Golosità, la quale con quelli raduna i suoi commilitoni alla guerra del dente»
(MC 344).
[93] in tuono: mangiare e bere egualmente.
[94] stivale: sta per “ignorante”.
«Insorge qui curiosissimo quisito, di cui potrebbe armarsi
una problematica questione [...], perché gl’ignoranti soglian
chiamarsi stivali? Per quanto m’abbia voltati gli vocabolari più classici del Pergameni,
e del Politi, non v’ho rinvenuta questa parola stivali; forse perché gl’ignoranti
non si trovano mai sui libri» (MC 348).
[95] scorporata: in Frugoni, “smodata”.
[96] congemino: latinismo per “raddoppio”.
[97] Son l’Innocenza, mal conosciuta: Frugoni fa riferimento qui al suo dramma musicale L’innocenza riconosciuta, che peraltro presenta diversi personaggi riportati,
con poche modifiche, nell’Epulone, come Malisarda/Pellandra e Tagliavento/Cospettone.
[98] tolgo il timor ch’al fin si paghi ’l fio: al di là dei peccati dell’epulone tradizionalmente
biasimati nelle prediche e nei sermoni che citano l’episodio evangelico, l’avidità
e la ghiottoneria, è l’ateismo a essere il vero fulcro della vicenda (si veda l’Introduzione): come si vedrà, Nineuse e Zambra professano
in diverse scene il loro scetticismo riguardo all’esistenza di Dio e di un’aldilà. «Gira il mobil primiero
degli sferici globi: splende l’astro diurno con regolari circolazioni; alternano
con librate vicende gli vari stati le varie stagioni annuali: si uniscono, benché
discordi nella tempera, uniformi gli elementi nel corporeo concerto del misto: subalternanti
le cagioni, benché disomiglianti ne’ mezi, negli effetti uniformi a generare il composto: e non v’è
Dio?» (MC 431).
[99] appreser la politica: si salda, in questi versi,
la figura di Frugoni moralizzatore con quella del diplomatico, che sovente vedeva
nella protervia dei politici avversi il segno concreto del loro ateismo.
[100] Olà, che larva è quella?: nella
schermaglia tra Povertà e Ricchezza si prefigura la dinamica del melodramma tra
l’epulone Nineuse e Lazaro.
[101] poiché de l’oro il centro è al fin l’inferno!: si confronti con la trentacinquesima e ultima
scena del quinto atto, durante il dialogo tra Nineuse,
Lazaro e Abramo, quando il primo lamenta la sua pena « In questo centro squallido / in cui la morte
vive» (V.35.3-4).
[102] ma porto il pett’a botta: nel dramma la Crapula è ben rappresentata dal
“macaronico” Ghiotto, di cui Farfalla dice «ch’ha la cotenna
grossa, e ’l pett’a botta» (I.2.31).
[103] A noi monna zambracca!: la
paronomasia tra zambracca (prostituta) e Zambra, corrispettivo femminile dell’epulone
nel melodramma, sarà frequente soprattutto nei dialoghi tra i ‘ridicoli’.
[104] che veste bisso ed ostro: le vesti splendide dell’epulone già secondo
il Vangelo di Luca.
[105] seni opaci: contrapposti
al luminoso seno di Abramo, dove i giusti attendono la venuta di Cristo.
[106] agli aspetti sanguinee: e quindi foriere
di sventura.
[107] sia tronca a questo Sisera: Sisara, generale nell’esercito
di Iabin, sconfitto dai figli d’Israele su impulso di
Debora viene ucciso nel sonno da Giaele dopo aver trovato rifugio nella tenda di
Eber, suo marito. In II.6.63 si parla dei «Sissari ingannati».
[108] Sulle fonti citate da
Frugoni si veda Barbara Zandrino, La retorica delle illusioni e il
ribaltamento, cit., pp. 43-45.
[109] La prima sezione
dell’Argomento deriva in buona parte da uno degli autori francesi che Frugoni,
anche nel Cane di Diogene, cita di più, il gesuita Nicolas Caussin (si veda Francesco
Fulvio Frugoni, Il Tribunal della Critica, cit., p. XXXIX), che nella Sapienza
evangelica pubblicata a Bologna
nel 1649 scrive: «Eutimio, secondo una certa antica tradizione, dice ch’il suo
nome era Nineuse; perché san Ireneo, Origene, e Tertuliano tengono che questa in sostanza fu vera istoria,
quantunque vi sia qualche cosa di parabolico nella maniera di raccontarla» (Nicolas Caussin,
La sapienza evangelica per
trattenimento spirituale nel tempo della Quaresima, Bologna, per Carlo Zenero, 1649, p. 120).
[110] Andromaco: Frugoni chiosa così: «Andromaco fu un ippocrita che s’affumicava la barba con la vampa della paglia,
per comparire squalido a mendicare il credito di astinente
quando avea la cintola rilasciata sui lombi così dalla
crapula, come dalla libidine» (RA, p. 475). Andromaco
il Vecchio è considerato anche l’inventore di una celebre triaca.
[111] ch’egli
non sa colpir sol che di piatto: gioco
di parole tra le imprese culinarie di Ghiotto e il colpire con il piatto della spada,
in risposta ai paragoni cavallereschi inaugurati di Farfalla.
[112] zizzalardon: “ghiottone”, ma è probabile un’eco dalla «tragisatiricomedia» Roselmina di Lauro Settizionio (Giovan Battista Leoni), in cui Zizzalardone è «un metafisico della culinaria, che si produce
in ricette (prediletta la cacciagione e i frutti di mare) di sfinita, speziatissima, rosolata e sdilinquita butirrosità»
(Roberto Gigliucci, Tragicomico e melodramma. Studi secenteschi, Milano-Udine, Mimesis, 2011, p. 10).
[113] mentre in bianco restar ci fa il vin nero, / forma sopra
il boccal zero via zero. Due giochi di parole di Bisticcio (che, tenendo fede al suo nome, si produrrà
spesso in calembour insieme a Farfalla) per indicare la propensione alla bevuta di Ghiotto
(paragonato ai tedeschi, bevitori per antonomasia fin dalle calate dei lanzichenecchi
nel Cinquecento).
[114] mentita: la mentita è «l’atto col quale si accusa formalmente qualcuno
di mendacio, di doppiezza, di slealtà o gli si reca una grave ingiuria (e, secondo
il codice cavalleresco, ne derivava una controversia che doveva essere risolta facendo
ricorso alle armi)» (GDLI, vol. X, p. 103).
[115] chimera: si capovolge qui la
prospettiva che vede l’uomo peccatore abbassarsi alla ferinità fino a diventare
inestinguibile dall’animale e dall’ibrido (si veda l’Introduzione); qui la chimera è invece l’onore, perché a dirlo è un personaggio che
ne è privo (Ghiotto è «parasito»). Per Frugoni, «il lor
onor è certo (e non mentiscono)
una chimera perché un hirco-cervus. Tali sono
que’ goccioloni mariti che danno alle mogli tutto il freno
in collo, perché possano con tutta la libertà guadagnare il pallio, singolarmente
dove corrono le Pasifi, e dove sovrastano i tori: e quindi
nascono i minotauri [...]. Per questo il mondo è un laberinto di laberinti, non
sol perché vi sono tanti raggiri, ma anche perché vi si trovano tanti minotauri
quanti sono gli uomini disonorati, che stimano una chimera l’onore» (RA, p. 477).
[116] pett’a botta: il pettabbotta è una corazza a protezione del torace, capace di
sostenere anche i colpi di archibugio.
[117] e sogno vano è l’eternità:
nella canzonetta di quinari e doppi quinari affidata ai tre servi Frugoni intende
distillare l’essenza dell’odiato epicureismo, a cui si allude già in I.2.27 («Miserabili!
Filosofate pur epicurizzando, che poi si rivedremo alla
soluzione degli argomenti»; RA, p. 478).
[118] protomastro: «Intende capo
mastro» (RA, p. 480).
[119] gnatonica: da gnatone, “ghiottone”, “parassita”.
[120] vaccina: “mucca”, da qui in
poi l’animale associato a Zambra; il termine è spesso usato, anche nell’Epulone, come allusione oscena alla donna nel rapporto sessuale («E ciò detto,
diede le mosse a uno che, con quella ingordezza che va
il frate al brodo, si gì a pasturare della vaccina», Pietro Aretino,
Ragionamento della Nanna e dell’Antonia, in Id., Sei
giornate, a cura di Giovanni Aquilecchia, Bari, Laterza, 1969, p. 74).
[121] que’ cani: primo riferimento ai
cani di Nineuse, spesso presentati come parallelo del
loro padrone (si veda più avanti «ai padron la vaccina, ai can vitella», I.2.94)
e paradossalmente caratterizzati, grazie all’intervento
divino in risposta alle preghiere di Lazaro, da una maggiore mansuetudine.
[122] Signor,
pietà, pietade: l’ingresso di Lazaro è salutato per buona parte della scena dall’assoluta
indifferenza, con un effetto straniante che, a un livello più microscopico, ribadisce
la coesistenza delle due azioni drammatiche all’interno dell’Epulone, e della loro sostanziale estraneità per tutta la durata del melodramma
fino al finale allegorico.
[123] Vado
levrier:
ancora un accenno alla sostanziale identità tra la corte di Nineuse
e gli animali.
[124] Solima: Gerusalemme.
[125] più che non paglia a l’ambra:
l’ambra (detta anche electrum) ha la proprietà
di elettrizzarsi per strofinio, e quindi di attirare corpi di piccole dimensioni.
Ne parla già Plinio (fonte di Frugoni anche per le diverse supposte origini della
resina fossile) nella Storia naturale: «quando lo sfregamento delle dita introduce
in essa [l’ambra] un soffio di calore, l’ambra attrae a sé paglie, foglie secche
e fili di tiglio, come la pietra magnetica il ferro» (Plinio il Vecchio, Storia naturale, vol. V, Torino,
Einaudi, 1988, p. 775).
[126] Roberto: Frugoni utilizza spesso
anche nel Cane di Diogene l’espressione “essere il Roberto” per “essere
esperto”, la cui origine è poco chiara; non è da escludere che sia un riferimento
al cardinal Bellarmino, sapiente poliedrico per antonomasia della Chiesa cattolica
moderna.
[127] A tutti ella è cometa: prima
ancora di comparire sulla scena, Zambra è già stata soggetta forse più di qualsiasi
altro personaggio alla regressione bestiale del vizio, incarnato dalla vacca per
la lussuria e dalla sanguisuga per l’avarizia (laddove il messo Graffio è, come
si è visto, «corbo», «unicanto
avoltore», «grifo de la cornacchia ambasciadore»). Qui invece,
in beffarda risposta all’augurio di Nineuse che Zambra
possa essergli «stella fedel» attorno a un unico polo,
il paragone è con la cometa, efficace sia per le proprietà fisiche secondo le nozioni
astronomiche dell’epoca, che alludono al parassitismo («questa è un’esalazione calda,
e secca, pingue, e vischiosa dalla virtù degli astri attraenti sollevata, ed accesa»,
RA
485), sia per la tradizionale nomea di portatrice di sventura.
[128] Taci sozzo, poltrone!: si esaurisce
in una sola battuta la prima delle rarissime interazioni tra Nineuse e Lazaro.
[129] come pillole ha i risetti:
«I risetti delle meretrici son come le pillole de’ medici. Queste sogliono essere
lusinghieramente dorate, per adescar l’egro, cui travaglia la svogliatezza, a prenderle
senza ribrezzo, benché poi, quando le ha sullo stomaco, ne risenta la nausea: tali
sono i vezzi delle cortigiane, le quali, non meno de’ medici, vanno in traccia degli
ammalati» (RA 488).
[130] tu sei un cialtrone!: si noti
la partitura metrica seguita da Bisticcio, le cui battute in questa scena sono prima
in ottonari, poi in settenari più un endecasillabo e infine in senari.
[131] se la gloria è stella, è porto il flutto: anche nella conclusiva Lettera
ad Innocenzio Peregrino che chiude
l’Epulone viene ripreso questo verso sentenzioso, «essendo
vero che i fiotti dell’onde, quanto più sono veementi, spingono tanto più presto
alla riva».
[132] io, che sono d’amor la Farinella: riferimento a una commedia di grande successo di Giulio Cesare Croce,
La Farinella (1695), dove Lelio cerca di conquistare Ardelia, che vorrebbe sposare e presso la quale è stato assunto
in abiti femminili sotto il nome di “Farinella”; ma la citazione serve anche a introdurre
il tema dello scambio dei generi, che riguarderà l’Epulone con la doppia
inversione Elidoro/Dorilla e
Zelfa/Silvino nel quinto atto.
[133] fementita: “spergiura”, frequente in Frugoni.
[134] aver più penna e meno artiglio: “essere meno aggressivo”.
[135] già linea sembrate, ancorché curva: allusione alla prolissità di Pellandra, che
dà origine a una schermaglia dialettica con giochi di parole sulla vecchiaia della
donna e l’arco di Amore.
[136] cangia spesso il pensier, come la gonna: Zelfa dimostrerà
invece un’incrollabile fedeltà verso il marito, malgrado questi la condanni a morte
e amoreggi continuamente con Zambra (e con Elidoro nei
panni di Dorilla). Anche dopo la morte di Nineuse non vorrà cedere alla corte di Elidoro
fino a quando l’autorità morale dell’eremita Elcana non
la spronerà a rivelare i propri sentimenti.
[137] ogni
mese fa le corna: nuovo gioco di parole
sulle corna della Luna e quelle simbolo d’infedeltà, alle quali si allude anche
con il precedente richiamo all’episodio di Diana e Atteone e con i frequenti accostamenti
di Nineuse al cervo.
[138] formi la frode: la colpa esiziale
che accomuna Nineuse e Zambra è quella dell’ateismo, rappresentato
per Frugoni soprattutto dall’hic et
nunc epicureizzante (e non, si ricordi, epicureo). «Il tempo fugge:
verissimo. Per questo bisogna redimerlo con la pietà delle opere giuste, con la
giustizia delle opere pie: non scialaqquarlo con la disonestà
degli empi diletti, con la prodigalità delle colpe esecrabili» (RA 494).
[139] la grammatica d’Amore: un altro
dei bisticci di Bisticcio, ricco di doppi sensi osceni e probabilmente ispirato
a un autore che Frugoni conosceva bene, l’Antonio Abati delle Frascherie (che compare anche nel Tribunal della critica del Cane), autore di una cantata
burlesca per musica su questi toni, «Grammatica d’amore», pubblicata pochi anni
prima dell’Epulone (Poesie
postume di Antonio Abati, Bologna,
per Giovanni Recaldini, 1671, pp. 246-247; ma anche le
stesse Frascherie abbondano di giochi di parole sui casi latini).
[140] Clizia fedel: naturalmente antifrastica l’insistenza della volubile Zambra sulla propria
costanza, tanto da paragonarsi alla ninfa Clizia trasformata in girasole (Ov. met. 4, 206-270).
[141] ma che fa il verme: in RA 482 Frugoni aveva ricordato che «le mogli onorate son fenici, le disonorate
son farfalle»; prosegue quindi il tono antifrastico, sottolineato da Graffio che
parla ironicamente di una fenice che non risorge (privata cioè della sua più celebrata
caratteristica).
[142] scorticatrice: «Arguta è l’allusione,
perché si trovano certi tutori che son beccai; chi è stato pupillo, (com’io pur
fui per mia mala sorte) dirà che non ischerzo» (RA
495).
[143] merlotti: le ormai consuete metafore
animali vengono riviste in questa scena in chiave ornitologica.
[144] la torre di Nembrotte: la torre di Babele; in quanto amanti, Eliabbe e Zambra passano di notte abbastanza tempo insieme da
poter partorire, secondo Graffio, imprese roboanti come quella del re Nembrot, ed è perciò incomprensibile che si parlino ora sottovoce,
se non fosse per la loquacità per Frugoni insita nella donna, sempre «cicalona»
(più sopra lo si è visto con Pellandra).
[145] Rahabbe: Raab, prostituta o locandiera
di Gerico che nel libro di Giosuè aiutò due spie israelite.
[146] il resto è vanità: Zambra espone
nel soliloquio la sua filosofia edonista epicureizzante,
basata sulla negazione del trascendente e sulla negazione di un giudizio nell’oltretomba;
«tolgo il timor ch’al fin si paghi ’l fio», aveva ricordato
l’Ateismo nel prologo.
[147] Frine: la celebre etera greca
del IV secolo a.C., che venne processata per empietà ma assolta dopo aver mostrato
i seni ai giudici, di sua iniziativa o spinta da Iperide nelle vesti di suo difensore
(«Quando costei era sul punto di essere condannata, [Iperide] la condusse nel mezzo
del tribunale e, strappatale la veste, mostrò i seni della donna: al che i
giudici, vista la sua bellezza, la assolsero»; Plutarco,
Vitae decem oratorum,
in Id., Tutti i Moralia, Milano,
Bompiani, 2017, p. 1623). «Incantò i suoi giudici, e fe’
vedere che i Paridi sempre danno la preferenza a Venere, in onta di Minvera, quando sian di Venere, più
che di Minerva giurati» (RA 498).
[148] No,
ch’egli è servo!: così Frugoni sui
servi: «Son venali, e vendono chi gli compra: son i cani di Ateone,
che sbranano chi gli nutrisce: sono serpi velenose, che trafiggono chi gli fomenta:
sono spie famigliari, arpie casalinghe: traditori usuali, e pesti necessarie, quando
sien perfidi, come fur molti
di quelli, che per esser viziosi non sanno servire alla virtù; essendo quasi ordinario,
che quando il signor è buono i servi sien tristi» (RA
499).
[149] epulone: per la prima volta
nel testo drammatico Nineuse viene indicato come epulone,
ovvero membro del collegio sacerdotale istituito per la celebrazione del banchetto
di Giove, sacrificio in onore di Giove, Giunone e Minerva.
[150] Poiché ’l vero è così amaro:
nei Riflessi arguti Frugoni rivela la sua fonte, l’ottava delle
letrillas satíricas di Quevedo, Pues amarga la verdad. Con il
personaggio del santo romito Elcana e il suo soliloquio
fittissimo di riferimenti biblici, subito dopo la nascita del progetto di Zambra
e Graffio per avvelenare Nineuse e far editare il suo
patrimonio al fratello Eliabbe, si dà luogo al primo forte stacco antitetico dell’atto,
con Frugoni che così chiosa: «grande stravaganza che un corbo
sia generato da una colomba: un aspido da una fenice:
un lupo da un’agna: un fulmine da una stella» (RA 500).
[151] Zara a chi tocca: così il GDLI
(vol. XXI, p. 1058): «Zara a chi tocca,
zara all’avanzo: a chi tocca, si tiene
il danno», dall’antico gioco di dadi della zara.
[152] Pitoni: divinatori, come per
la pitonessa più avanti, da “Pytho”, l’antico nome di
Delfi.
[153] ogni giovane amoreo: gli abitanti
di Gabaon erano minacciati dagli Amorrei e con l’inganno
riuscirono a ottenere un patto di alleanza da Giosuè, che durante la battaglia fermò
il corso del sole (Gs 10, 12-13).
[154] trappoli: “trappolare” sta
per “prendere in trappola”.
[155] Pentapoli: la zona della Palestina
in cui sorgevano le città di Sodoma, Gomorra, Adama, Zeboim
e Zoar.
[156] gli
Amaleciti: popolazione del Negev che
attaccò gli Israeliti durante l’esodo dall’Egitto.
[157] l’esser Gioabbe: Acab e Ioab sono epitomi
di crudeltà nella Bibbia: il primo, re d’Israele e marito di Gezabele, introdusse il culto di Baal a Samaria e perseguitò
il profeta Elia; il secondo, generale di Davide, uccise Abner,
Amasa e Assalonne, e cospirò per Adonia
contro Salomone, che lo mise a morte.
[158] Oh quante
Bersabee, quanti Assalonni!: Davide con la bellissima Betsabea, moglie di
Uria, commise adulterio; il ribelle Assalonne, terzo figlio di Davide, fu noto per
la sua crudeltà e tentò di togliere il trono al padre, prima di essere ucciso da
Ioab durante la fuga da Gerusalemme.
[159] Quante Tamarri osservo, e quanti Ammoni!: Tamar, figlia di Davide, venne violentata dal fratello Amnon, poi ucciso
da Assalonne durante un banchetto.
[160] Ma v’ha più d’un Aron, più d’un Mosè: Aronne e Mosè non sono
qui ricordati per il loro ruolo di guide degli Ebrei, ma per l’episodio del vello
d’oro, che Aronne acconsentì a fabbricare su insistenza del popolo, che voleva un
dio da adorare non sapendo cosa fosse accaduto a Mosè, asceso al Sinai.
[161] Nabotti: Nabot si rifiutò di cedere la sua vigna al re Acab, e per questo Gezabele ordì un
processo fraudolento ai suoi danni, facendolo lapidare a morte.
[162] i Sissari ingannati: Giaele uccise il generale Sisara dei Cananei piantandogli un picchetto nel cranio, dopo
che questi aveva trovato ospitalità nella tenda di Eber,
marito di Giaele.
[163] che fan lasciarvi ’l pelo:
Dalila tradì l’amante Sansone tagliandogli nel sonno la chioma e consegnandolo,
senza più forze in quanto non più nella condizione di nazireato, ai Filistei.
[164] Nabucco: il re babilonese Nabucodonosor
II causò la prima deportazione del popolo ebraico e distrusse il tempio di Salomone.
[165] Uria: per poter spostare Betsabea, il re Davide ordinò
che il marito Uria, suo soldato, fosse messo in prima linea, dove i nemici avrebbero
potuto ucciderlo, e così avvenne.
[166] Putifarre: antonomasia
dell’ignaro tradito, Putifarre scacciò Giuseppe dalla
sua casa, ove serviva, perché questi aveva resistito alle profferte amorose della
moglie del padrone, ed era stato quindi da lei calunniato.
[167] Agarre: la schiava Agar
ebbe da Abramo Ismaele, dopo che Sara, sterile, la offrì al marito.
[168] L’un superbo e l’altro umile:
Elcana sottolinea ancora la natura antitetica di Lazaro
e Nineuse con questa serie d’opposti (si veda l’Introduzione).
[169] La tomba
è nido in cui l’alma rinasce: è Frugoni
stesso a sottolineare il collegamento tra questo verso e il miracolo della fenice,
allegoria della Risurrezione cristiana e tra i rarissimi animali accostati agli
uomini in senso positivo nel melodramma: «Prudentemente suol
morir la fenice, quando, e dove sa che ha da risorgere più vivace» (RA 517).
[170] Stolta: Il dialogo comico tra
Farfalla e Pellandra riprende l’usato (e abusato) stilema
dell’eco che risponde in rima con le ultime lettere pronunciate da un personaggio
(e perciò molto apprezzato nei drammi per musica), che Guarini aveva usato nel soliloquio
di Silvio nell’ottava scena del quarto atto del Pastor fido, così come lo stesso
Frugoni già nell’Innocenza riconosciuta.
[171] pelarella: la perdita di capelli e peli, sovente (come in questo caso) conseguenza
della sifilide o di altre malattie veneree.
[172] lecco: “avido”.
[173] più
Troia, che Cassandra: evidente anche
qui il doppio senso osceno.
[174] ben
è folle chi crede: nuova professione
di ateismo da parte di Nineuse.
[175] e per ultimo lascia indietro il foco: «Bel tratto per dire che Nineuse sia un vinolento, ed un dannato» (RA
526).
[176] la gran palma maccheronica:
Frugoni è attento lettore di Folengo; più avanti (RA 577) cita la Moscheide a proposito delle gozzoviglie sardanapalesche,
e nel Cane di Diogene (vol. IV, p. 416) Frugoni parla di uno spettacolo
«ridicolo, da registrar nella Maccaronea di Merlino»;
anche l’opulento banchetto che si prepara per l’epulone ricorda da vicino le gozzoviglie
di cui è ricchissimo il Baldus.
[177] magico ensalmo: termine spagnolo, che si riferisce a un modo superstizioso per curare
attraverso l’applicazione di varie medicine e formule magiche; si veda Sergio Bozzola, Glossario frugoniano, «Studi di lessicografia italiana», XIV (1997),
pp. 153-282: 200.
[178] Se ’l
mal verrà, ci penseremo poi: anche
i ridicoli di Nineuse come Bisticcio e Farfalla hanno
in comune col padrone l’assoluta mancanza di una prospettiva di salvezza futura.
[179] giuro
a Baccon:
Bacco è l’unica divinità verso il quale i servi e gli sgherri di Nineuse si mostrano devoti; anche in III.6.9 Cospettone invocherà il suo nome.
[180] leccione: “maiale”.
[181] a un albero di frutta riservata: come di consueto Farfalla parla in linguaggio figurato e ricco di doppi
sensi, per indicare la supposta infedeltà di Zelfa, sorpresa
con Elidoro mentre in realtà cercava di sfuggirgli.
[182] Un giovinello: per quanto Elidoro sia uno dei personaggi positivi
del dramma, onestamente innamorato di Zelfa e pronto a
mettersi in pericolo pur di salvarla, non è immune da osservazioni critiche da parte
di Frugoni, che nei Riflessi lo definisce «un damerino modista» (RA
544): «Il diletto del senso l’ha reso stolido, e perché fa leggiadramente del Cupidotto, non si cura punto di parer dotto, ma d’esser cupido.
Ah senta egli, ed in lui senta chiunque per avere soverchio il senso, ha così scarso
il sentimento!» (RA 545). Il ritratto di Farfalla è peraltro piuttosto
preciso, se Nineuse capisce immediatamente che si sta
parlando di Elidoro.
[183] vanni: “ali”.
[184] l’ossecrerò: “la pregherò”.
[185] Renditi
a Cospettone!: letteralmente «cospettone» sta per “fanfarone”,
“smargiasso”.
[186] Qui indicata erroneamente
come «Zambra».
[187] da Corneto a Sassuolo: nuovo
gioco di parole, dalle corna dell’infedeltà ai sassi della lapidazione. «Corneto»
è l’antico nome di Tarquinia.
[188] de iure: “di diritto”.
[189] ab intestato: “da chi non ha fatto testamento”.
[190] Erroneamente indicato
come «Elidoro».
[191] di pietre un mausoleo: la lapideranno
a morte.
[192] pitonessa: sacerdotessa divinatrice; è uno dei nomi con
cui viene anche chiamata la Pizia, oracolo di Apollo a Delfi.
[193] cera tetrica: “aspetto ripugnante”.
[194] Zabulone: Zabulon era il decimo figlio di Giacobbe, progenitore
dell’omonima tribù. Zabulus era un comune
nome infernale nel Medioevo (da diabolus), da qui la
probabile contaminazione con la tribù israelitica.
[195] Dan: progenitore di un’altra
delle dodici tribù d’Israele. Una popolare tradizione, forse nata da un’interpretazione
della profezia di Giacobbe in Gen 49, 16-18 («Sia
Dan un serpente sulla strada, una vipera cornuta sul sentiero») e riportata anche
da Agostino e Gregorio Magno, sosteneva che l’Anticristo sarebbe nato da una prostituta
della tribù di Dan.
[196] cornucopia: il vaso
a forma di corno, simbolo di fertilità e abbondanza, spesso utilizzato come allusione
alle infedeltà ai danni di Nineuse.
[197] prosorto:
“originato”.
[198] burchielletto:
«Questo sodissimo sentimento è tratto di peso dai Tomarii
di Aristonimo, portato dallo Stobeo: e come l’autorità
fedele, fedelmente parafraseggiata dal testo». Sui cosiddetti
Volumetti di Aristonimo – e forse di Aristone di Chio – nel Floriregium
di Stobeo, si veda Graziano Ranocchia,
Aristone di Chio in Stobeo e nella letteratura
gnomologica, in Thinking through
excerpts. Studies
on Stobaeus,
edited by Gretchen Reydam-Schils, Turnhout, Brepols, 2011, pp. 339-386: 345-346.
[199] contraposto
fatale: come spesso accade nel dramma, è Elcana a
sottolineare l’antitesi strutturale tra Nineuse e Lazaro,
come si vede anche dalle coppie di attributi dei versi seguenti.
[200] il fin d’entrambi a dir
sen viene il resto: viene confermata la funzione metadiegetica
del personaggio di Elcana.
[201] terzera: trave di sostegno del tetto.
[202] a l’oca il becco è fatto:
proverbio fiorentino, a significare un lavoro portato a termine.
[203] Ma Zelfa poverina: inizia il pentimento di Pellandra, che non le basterà però a guadagnarsi la redenzione.
[204] ch’egli è un poeta a punto
da sassate: «L’idea di questo pensiero è tolta da Petronio Arbitro, che narra
non essere stato, per poco, assai lapidato Eumolpo, recitante una poesia: ex
his qui in porticibus spatiabantur lapides in Eumolpum recitantem miserunt» (RA 567; Satyricon, 90).
[205] quatternario:
quartina, riferita all’epitaffio per Zelfa lapidata nei
versi III.13.
[206] Ma ’l verso è troppo longo: l’epitaffio, effettivamente, è in perfetti endecasillabi,
mentre «ricco preclaro» al posto di «ricco avaro» farebbe scomparire la sinalefe.
[207] strozza: la gola.
[208] Più
tosto lupa ingorda, avara e fella:
continuano le similitudini con gli animali mansueti o malvagi.
[209] scanfarda:
“prostituta”.
[210] questo argento del crin
vi lascio in pegno: Pellandra indossa una parrucca,
come si evince anche dalla tirata contro di esse nella scena successiva.
[211] se volasser le pirucche!: la critica
alle parrucche riguarda, com’è evidente, la loro capacità di trasformare «un Margite in un Paride, un’Ecuba in un’Elena» (RA 570),
e quindi di favorire quel camuffamento ipocrita che Frugoni condanna, in quanto
ribalta le decisioni divine: «deve abbominar coloro che presumono di parer diversi
da quelli che Iddio gli fe’ volendo appesi apparir sempre
giovani» (RA 571).
[212] pitonessa di Dite:
la vaticinatrice a cui si rivolgono Zambra ed Eliabbe
è sacerdotessa pagana («ne’ campi aprici / nel sotterraneo regno, ov’ho il mio cielo») e ha tutte le caratteristiche del negromante
infernale, come la verga magica.
[213] che Lestrigoni e Cafri e Traci e Sciti: popoli noti per la loro
crudeltà.
[214] eccomi qui costante:
malgrado la sua frivolezza di fondo, la costanza è la caratteristica precipua di
Elidoro, nonché di Zelfa, che
pur amandolo lo rifiuta per fedeltà a Nineuse appena scopre
che non è stato ucciso da Cospettone.
[215] di Cedronne il torrente: il torrente Cedron,
che separa il Monte del Tempio dal Monte degli Olivi a Gerusalemme.
[216] rantacose:
decrepite e affette da catarro.
[217] Zoroastro: leggendario astrologo babilonese,
rielaborazione nella classicità occidentale della figura del profeta iraniano Zarathustra.
[218] muora
pur, muora Zelfa e Zambra goda:
particolarmente violenta la glossa di Frugoni nel commentare l’egoismo di Ghiotto:
«Parole da buffone, da parasito, da ignorante, da spietato,
da empio, da infame» (RA 577).
[219] rozze: cavalli di poco valore.
[220] che ’l ben’ereditario a me sottrae: si noti che per Eliabbe – che all’ultimo momento si pentirà e invierà un biglietto
per avvertire Nineuse del veleno, poi ignorato dal destinatario
– l’odio verso l’epulone nasce da un’ingiustizia (l’eredità sottratta dal fratello)
e non dalla lussuria. A differenza di Nineuse, Eliabbe avverte l’inconsistenza del pensiero epicureizzante e soprattutto l’immoralità dell’omicidio che
sta per compiere («un non so che d’ambiguo e tetro», IV.7.21).
[221] dov’il giusto discende
e l’empio sale!: ritorna il motivo del capovolgimento tipico del «mondo stralunato»,
che potrà essere corretto soltanto tramite il giudizio divino dopo la morte.
[222] rimanti ’n guerra teco,
avaro, edace: «Guerreggia seco ogni reo, perché gli fa guerra la propria coscienza;
ma fra tutti coloro ch’hanno in petto uno steccato, l’avaro, e ’l crapulatore sono sempre in duello: il primo colla sua cassa,
il secondo con la sua cucina» (RA 584).
[223] d’Abramo al seno: la parabola di Lazzaro e dell’epulone nel Vangelo
di Luca parla esplicitamente del seno di Abramo, il luogo giudaico di riposo dei
giusti dopo la morte; nella religione cristiana, è il luogo dove questi attendevano
la resurrezione di Cristo, origine del limbo.
[224] la tua costante: particolarmente
beffarda questa dichiarazione di Zambra, che dell’incostanza, come d’altronde lo
stesso Nineuse, è più
che legittima rappresentante nel dramma (Nineuse, Eliabbe, Silvino/Zelfa). Sulla lode
della vera costanza nell’Epulone si veda il terzo paragrafo dell’Introduzione.
[225] contento non v’ha: ennesima dichiarazione
di ateismo di sapore epicureo e invito al carpe diem.
[226] calascione: o colascione, strumento
a corda simile al liuto.
[227] Erroneamente indicata
come «Zelfa».
[228] Che bella Berenice:
l’antifrasi di Farfalla accosta alla «pelata» Pellandra
Berenice, la regina cirenaica celebre per la sua chioma, che nell’elegia callimachea consacrò al ritorno vittorioso del marito Tolomeo
III Evergete.
[229] Trattiam
di divertirsi: l’interesse di Nineuse si conferma
costantemente volto alla ricerca immediata del divertimento, in questo caso una
caccia, che sarà poi seguita da una pesca.
[230] Non mancan cani
e son anche più i cervi: nuova allusione beffarda di Farfalla ai tradimenti
di Zambra. «Già che gli epuloni sentir non vogliono
dai filosofi la verità, perché non amano il correttivo, l’intendono lor mal grado,
ancorché senza emendarsi dai buffoni, che sogliono perciò sovente venire sbalzati,
perché mordacemente, a guisa di cani satolli si voltano contro a chi gli nutrisce»
(RA 593).
[231] d’una
infida ed incostante: quella di Zelfa non è incostanza, come invece accusa il deluso Elidoro; è fedeltà a Nineuse a dispetto
di un sincero sentimento per lo stesso Elidoro, che viene
subito represso.
[232] del mio porro tutto il
bianco: ho ormai trascorso la gran parte della mia vita. Nell’Heroina intrepida: «Favellando tal volta di Profusio e compatendolo, solea
dire ch’egli avea magnato il porro dal bianco,
perché si era ridotto al verde» (Francesco
Fulvio Frugoni, L’heroina intrepida, cit.,
vol. III, parte seconda, p. 370).
[233] imbronco: “impiglio”.
[234] le vaccine a la fin vanno
al macello: è la morale, nonché il motivo drammatico, di Pellandra, che di fronte all’ineluttabilità della sua fine matura
un tardivo pentimento. «Facciam pur col riflesso divenir
morale questo satirico testo! A voi è diretto, a voi questo documento sperimentale,
o femmine vaneggianti, ed anche a voi, o giovinotti lascivi, che a guisa di tanti
Ganimedi lasciate rapirvi da quelle aquile che sono tutte arti ed artigli per far
di voi preda, e per cibarsi, non già, come vi fanno credere, delle fibbre del vostro cuore, ma delle viscere della vostra borsa»
(RA 598).
[235] benché sia tardo:
il pentimento di Pellandra arriva quando ormai è troppo
tardi, come si vedrà, e come nota Cospettone più avanti
è soprattutto dettato dalla situazione di pericolo in cui si trova; ma non avrà
miglior fortuna anche quando sarà sfuggita alle fiere di Nineuse.
[236] quello che piace, è giusto:
è il «s’ei piace, ei lice» del primo coro dell’Aminta, e che colloca pienamente
Nineuse nell’alveo della tragicommedia considerata «epicureizzante» e «libertina» dalla critica cristiana tardosecentesca (si veda l’Introduzione). Inequivocabile
la glossa di Frugoni: «Ecco il quod libet licet degli epuloni, che non riconoscono altro Dio
che ’l ventre, né d’altra legge, che di quella del diletto, fan conto. Ma non ha
legge il diletto, e perciò non è lecito: non ha ragione il gusto, perciò non è giusto.
[...] Ammettiam ora il suffragio di Epicuro, grande patrocinator
del diletto, ma non già d’arbitrio sordido e scelerato, benché l’infami la commune opinione del vulgo, che forse pretese di far reggere
il vizio dalle spalle curvate della filosofia mal intesa: or quegli diceva che negliger
si dovessero i corporei piaceri, attesa la lor brevità, che nello spirare lascia
una serie prolissa di contaminosi malori» (RA 599-600).
[237] almen
diverrai cervo: un altro doppio senso sul destino di Atteone, tramutato in cervo
da Diana e poi sbranato dai cani, e quello di Nineuse,
destinato a essere vittima delle continue infedeltà di Zambra.
[238] tronco: persona priva di sensibilità.
[239] Efestione:
generale di Alessandro Magno e suo proverbiale confidente.
[240] galla: escrescenza
tumorale che si forma sulle piante per la puntura di un insetto.
[241] Boote: il cacciatore
celeste dell’omonima costellazione, tradizionalmente identificato con Icario o con
Arcade.
[242] in detestar ne la città le belve: ancora una volta Elcana enfatizza la vera natura bestiale e ferina dei peccatori,
che trovano nella città il loro ambiente ideale.
[243] Lapiti: popolo della Tessaglia, imparentato
con i Centauri, che uccisero nell’episodio delle nozze di Piritoo
e Ippodamia.
[244] ceraste: “vipere”.
[245] l’uom che sa, non è mai solo: Frugoni
glossa questa massima sulla scelta del ritiro dal mondo dell’eremita con l’ultimo
dei Riflessi arguti, il centesimo, indicato come Riflesso singolare,
che dal discorso morale generale («Resta dunque riflessivamente provato che il savio,
quando sia solitario, solo non sia», RA 630) vira sulla meditazione autobiografica:
«L’abbate Giacomo Ansaldi [...] mentre mi aggiro in questo riflesso, mi scrive di
Venezia, che per ristoro della mia demolita salute io dovrei allentare l’occupazione
assidua, che mi tiene sempre teso l’animo nella studiosa applicazione; sforzandosi
di persuadermi che la solitudine soverchia col malinconico umore imputridisce la
limpidezza della mente, che suol tirare dalla conversazione
il respiro; egli però, quando non ha compagnia di qualche grande, o di qualche virtuoso,
per cui suol esser anche più grande il grande, come sono
molti grandi, che l’hanno per intimo famigliare, va sempre solo, e di sé medesimo
sol si compiace: tanto più il regolare, che obbligato per l’instituto
alla ritiratezza operosa, quanto è meno visibile, tanto più rassimiglia
un angelo». I Riflessi si concludono con il sonetto Non è ’l savio mai
solo alor che solo, «parto della mia solitudine» (RA
631).
[246] Zambracca: “prostituta”, e ovvia allusione a Zambra.
[247] camozza: “camoscia”.
[248] scorzoni e anfesibene: lo scorzone
è il biacco, serpente molto diffuso; l’anfesibena è un mitico serpente a due teste,
simbolo araldico.
[249] di Zelfa il volto amato: si noti che è Elidoro,
e non il marito Nineuse, a riconoscere il volto di Zelfa sotto le spoglie di Silvino.
[250] e per tutta è natura: Farfalla
sottolinea beffardamente l’artificio dell’episodio, in cui tutti i personaggi coinvolti
stanno mentendo.
[251] Lieo: epiteto di Dioniso/Bacco, “liberatore” (dagli
affanni).
[252] l’Arabia
felice: l’Arabia felix, ossia l’Arabia del sud, l’odierno Yemen.
[253] il gran
lion massile: leone della Massilia, la parte orientale della Numidia. Cfr. Orlando Furioso, XVIII 22: «Qual per le selve nomade o massile / cacciata va la generosa
belva».
[254] Che lioni getei! Che
tigri ircani!: leoni della città di
Gat, una delle cinque città principali della Filistia; le tigri d’Ircania, regione
della Persia, erano note per la loro ferocia.
[255] facil è che svanisca a un colpo estremo: prende forma l’idea di Nineuse di avvelenare
la sua novella sposa Zambra, com’ella vuole fare con lui insieme a Eliabbe.
[256] cribra: “disperde”.
[257] mi trae dannata a l’immortal supplizio: sul supplizio di Pellandra
si vedano le parole di Frugoni nei Moralizzamenti Critici a proposito dell’ateismo: «L’ateista tien in petto
il demonio, perch’egli è un Giuda, che ha in petto il
tradire un Dio; e come Giuda, gran maestro degli ateisti, resterà sospeso da sé
medesimo all’eterno patibolo» (MC 450).
[258] che ’l pesce mi schernisce e si trastulla: la pesca infruttuosa dei due atei Nineuse e
Zambra nasconde una probabile allusione a uno dei simboli cristologici per eccellenza,
il pesce (analogo discorso può farsi per il coro dei pescatori).
[259] lecco: “appetitoso”.
[260] Non
importa: coraggio! Andiamo a cena!:
Con raggelante indifferenza, Nineuse, accecato dal suo
epicureismo, ignora del tutto il monito rappresentato dal corpo di Pellandra.
[261] che l’Edippo son io di questa sfinge: rispondendo correttamente al quesito posto
dalla Sfinge di Tebe, Edipo liberò la città e poté sposare Giocasta.
[262] che ’l tempo sen va!: tutta
la scena, dai chiari influssi macaronici, è una celebrazione
dell’invito a godersi la vita senza pensare al domani.
[263] d’Engaddi: sorgente termale nel deserto di Giuda, citata nel Cantico dei Cantici (1, 14: le «vigne d’Engaddi»).
[264] Hai ragion, tempo abbiamo!:
lo sguardo eternamente concentrato solo sul presente di Nineuse
sancisce la sua fine, decidendo di non leggere il biglietto inviato da Eliabbe dove sono rivelati i piani di Zambra e il prossimo avvelenamento.
[265] Triaca
e bolarmeno!: secondo diverse tradizioni
il bolo armeno era uno degli ingredienti principali della triaca, il farmaco universale
dell’antichità.
[266] È morto il gran Fineo, morta è l’arpia: secondo il mito degli Argonauti, l’indovino
tracio Fineo era perseguitato dalle Arpie.
[267] purgherà l’error
mio con l’astinenza: a Eliabbe con l’eremitaggio viene concessa la possibilità di redenzione
negata a Pellandra, ormai macchiatasi di peccati troppo
gravi.
[268] il mio fulgid’ostro: bisso
e ostro erano gli attributi delle vesti dell’epulone già nel Vangelo di Luca. Tutta
la scena finale riprende ed espande la seconda parte della parabola, in particolare
il dialogo tra l’epulone e Abramo.
[269] a queste bande: da questa parte.
[270] che in lor talpeggia: che
si cela in loro.
[271] napelli: specie velenosa di
aconito.
[272] orezzo: brezza refrigerante.