Pier Jacopo Martello
Che bei pazzi
a cura di Marzia Pieri
Biblioteca Pregoldoniana
lineadacqua edizioni
2017
Pier Jacopo Martello
Che bei pazzi
a cura di
Marzia Pieri
Ó 2017
Marzia Pieri
Ó 2017 lineadacqua edizioni
Biblioteca Pregoldoniana,
nº 20
Collana diretta da Javier Gutiérrez Carou
www.usc.es/goldoni
javier.gutierrez.carou@usc.es
Venezia - Santiago de Compostela
lineadacqua edizioni
san
marco 3717/d
30124
Venezia
www.lineadacqua.com
ISBN
dell’edizione completa: 978-88-95598-76-5.
La presente
edizione è risultato dalle attività svolte nell’ambito del progetto di ricerca Archivo del teatro pregoldoniano
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dalla diffusione culturale) senza l’esplicita autorizzazione della curatrice e
del direttore della collana.
Biblioteca Pregoldoniana,
nº 20
Nota
al testo
L’unica
edizione settecentesca di questa commedia è uscita nel Seguito del / TEATRO ITALIANO / di / PIER JACOPO / MARTELLO / Parte
Prima / In BOLOGNA / Nella Stamperia di Lelio Dalla Volpe / MDCCXXIII / Con
Licenza de’ Superiori alle pp. 143-267.
Si tratta del quarto volume delle Opere di Pier Jacopo Martello, Bologna
Lelio Dalla Volpe, 7
volumi, 1723-1735, contenente un’Apologia dell’autore a chi legge, L’Arianna, Il Catone tratto
dall’inglese dell’Adisson, Che bei pazzi, Il Davide in
corte, L’Elena casta e L’Edipo tiranno. In quell’anno uscì
anche il quinto volume (con La morte,
Il Perseo in Samotracia, Il piato dell’H, A re malvagio consiglier peggiore, La rima vendicata, Lo starnuto di Ercole, Il
vero Parigino italiano e Del volo).
Questo Seguito del Teatro Italiano,
che raccoglieva i componimenti drammatici non tragici, fu la sola parte della
serie bolognese delle Opere curata
dall’autore; seguirono, postumi, nel 1729 il sesto e il settimo volume, che,
per volontà del figlio Carlo, aggiornavano i Versi e prose e il Comentario e
Canzoniere, già usciti a Roma nel 1710 (per i tipi di Francesco Gonzaga in
via Lata) con l’aggiunta del dramma L’Euripide
lacerato e del Fior d’Agatone;
nel 1735, infine, lo stampatore raccolse nei primi tre volumi dell’edizione il
resto della produzione drammatica e due testi in prosa. Si trattava della Vita di Pier Jacopo Martello scritta da lui stesso
sino all’anno 1718 (già comparsa nella Raccolta
di opuscoli scientifici e filologici, a cura di Angelo Calogerà,
Venezia, C. Zane, 1729, II, pp. 275 e sgg) e del
dialogo Della tragedia antica e moderna,
rielaborato dal Martello rispetto alla stampa parigina curata dall’abate
Antonio Conti con il titolo L’impostore.
Dialogo di Pier Jacopo Martello sopra la Tragedia Antica e Moderna, Al
Serenissimo Delfino, A Paris, de l’Imprimerie de
Simon Langlois, rue S. Etienne des
grès. MDCCXIV, avec Approbation
& Privilege du Roy, accolti nel primo volume; il secondo e il terzo
riproducevano fedelmente i due tomi dell’edizione romana del Teatro Italiano, per Francesco Gonzaga,
in via Lata (comprendenti L’Alceste, Il Gesù perduto, La morte di Nerone, Il M.
Tullio Cicerone, L’Edipo coloneo, Il Sisara, Il Q.
Fabio, I Taimingi,
L’Adria).[1]
Questo corpus bolognese delle Opere allestito
a più mani fra il 1723 e il 1735 riunisce dunque l’omnia di Martello quasi completa (con l’eccezione delle Satire e dell’ultima parte del trattato Del volo); bisogna aspettare due secoli
perché la sua opera torni in luce, grazie alle fatiche di Hannibal Noce, benemerito
ma un po’ frettoloso editore, per i tipi di Laterza, di una raccolta di Scritti critici e satirici (1963) e di
tre volumi di Teatro (1980-1982).
Il Teatro
raggruppa le opere distinte per generi e ospita la commedia Che bei pazzi alle pp. 227-332 del primo
volume, in una veste abbastanza scorretta.[2]
Per la presente edizione ci siamo dunque serviti della princeps bolognese del 1723 (da un esemplare conservato presso la
Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze con segnatura Magl.
215.175/4), curata dall’autore e assai più linda sul piano prosodico e formale, che abbiamo restaurato seguendo le
«Norme filologiche generali» previste dall’Edizione Nazionale di Carlo Gozzi. In
materia di ortografia e punteggiatura il Martello, come in tutto il resto,
esibiva pragmatismo e un distaccato buon senso, che così riassumeva, nel 1710,
in un brano già premesso da Noce alla sua Nota
sul testo del 1963:
Quanto
all’Ortografia, qui sì, che son’ito a tentone. Tanta
è la diversità dagli antichi a moderni Autori, ch’io leggo così nello allogarsi
de’ Punti, delle Virgole, e degli Accenti, come nel raddoppiarsi delle
Consonanti fra le Vocali, che le autorità mi confondono; le ragioni non mi
convincono; e par che ogn’uno sia in libertà di
contenersi a suo senno [...] O in questo non ho voluto martirizzarmi: perché, o
i miei Scritti meriteran qualche fama, e dalla carità
de’ Toscani saran corretti; o non la meriteranno, e potran irsene con Punti, ed
Accenti mal collocati, con Virgole e Consonanti manche, o soverchie al Tabacco.
In ogni caso io so di non scrivere così lontano dall’Ortografia de’ Moderni,
come originalmente hanno scritto l’Alighieri, il Boccacci, ed il Petrarca, che
in oggi scrivono con l’Ortografia della Crusca.[3]
Siamo
dunque intervenuti, con parsimonia e in un’ottica prevalentemente conservativa,
soprattutto sulla punteggiatura, facendo attenzione a preservare il complesso
impianto metrico del testo, dove ai martelliani si alternano madrigali, e
componimenti lirici d’altro genere - segnalati di volta in volta nelle note (e
distinti nel testo fra virgolette); abbiamo indicato in corsivo (come già nell’
originale) le parti cantate di Lofa. Abbiamo ricondotto
le maiuscole all’uso moderno (riassorbendo anche quelle a inizio di verso), regolato
gli accenti e gli apostrofi, ma conservato in gran parte l’impianto ortografico
e morfologico originario per quanto riguarda in particolare gli oscillanti
scempiamenti, ma risolto all’uso moderno le forme disgiunte di preposizioni
articolate, locuzioni pronominali, congiunzioni e avverbi; abbiamo risolto in i
la J intervocalica e in desinenza di dittonghi plurali, e segnalato di volta in
volta nel commento gli emendamenti di evidenti refusi tipografici. Il più
significativo (e clamoroso) è quello di micca
per micia, in II.1.89 e II.6.42.
Il
linguaggio della commedia è intenzionalmente artificioso e affollato di
metafore e di riferimenti eruditi, talvolta di ardua decifrazione; abbiamo
scelto di snellire il più possibile le note di commento per non appesantire
troppo la lettura, fornendo di volta in volta agili parafrasi dei passi più
tortuosi, e indispensabili dati interpretativi di supporto, e di rimandare
all’introduzione una riflessione più generale sulle tematiche letterarie ed
estetiche e le allusioni metateatrali che la
sostanziano.
Pier
Jacopo Martello
Che bei pazzi
ALL’ECCELLENZA DI GIOVANBATISTA
RECANATI, NOBILE VENETO FRA GLI ARCADI TELESTE CIPARISSIANO L’AUTORE
1 Appena
voi, o eccellentissimo Teleste, quasi respirando dal
peso dell’opere critiche, istoriche e liriche colle
quali a voi e alla patria tanto onore avete, scrivendo in più d’una lingua, acquistato;
e quasi levando alquanto la mano dal rintuzzare le offese fatte alla letteratura
italiana dai due francesi, e dal compiere la Demodice, tragedia per voi impresa e per noi disiosamente
aspettata, l’illustre raccolta delle poetesse del nostro secolo pubblicaste,
ch’io vedo germogliare in tutte le donne giovani una frondosa ambizione che in esse
le umane lettere non men dei volti fioriscano.[4]
2 La
qual femminil vanità loderei se, contente del recitare
colle dilicate lor voci i componimenti degli uomini, nel
giudicarne troppo saputamente non s’ingerissero: e siccome quelle che molti
adulatori e seguaci hanno dietro i giudici loro, quelli ancora de’ parlatori e presuntuosi
zerbini non strascinassero. Ma chi può a quelle corteggiate da questi
resistere? Cuffie, perucche
di merletti e di ricci di Francia e di Fiandra su teste vane e leggere son da temersi
per qualunque modesto e gran letterato; laonde è
forza il far argine colla derisione a questa corrente, che non le sole
infeconde arene, ma i lavorati e fertili campi minaccia; perché ho deliberato
da quelle, che saviezza e dottrina posseggono, da quelle, insomma, l’opere delle quali voi raccoglieste, quelle distinguere
che, né l’una né l’altra avendo, l’ostentano; sì che vera e maggior loda le
prime, ma biasimo le seconde ed emenda ne conseguiscano.
3 Ed ecco il fine, mercé del quale la seguente
commedia ho intrecciata, inserendoci parte di quel racconto che Petronio
Arbitro della vedova d’Efeso ne ha lasciato. Ma, posto in un canto questo argomento,
che da se stesso nel prologo e per la favola si palesa, vi confesso non giugnermi nuovo che malagevole cosa e (quello che più mi
punge) non necessaria si è questa che ho impreso, soprabbondando il nostro
teatro italiano di tante antiche e, sì nel verso come nella prosa, rinomate
commedie, di modo che la fatica del comporne una io ben potea
perdonarmi, o, per capriccio
compostala, almen per prudenza dal pubblicarla
astenermi.[5]
4 E per vero dire poco meno che non la
sopprimessi, quando mi giunse una vostra lettera, che mi avvisava come la Scolastica dell’Ariosto in cotesta
vostra città di Vinegia per Lelio e Flaminia, egregi
comici, rappresentata, anzi che essere stata accetta, fra gli sbadigli, i susurri ed i motteggi del popolo di scena in scena passando,
così svergognata venisse meno, che fu mestieri calare pria della fine la tenda.
E voi, quegli che delle fatture d’ingegno
giudice incorrotto, e per senno, oltre l’età, venerabile siete, il verso suo ne
incolpaste, che a cotesto popolo (il quale peraltro ha potuto qualcuna delle
mie tragedie e la marittima non sol tollerare, ma generosamente encomiare, comeché in verso, e in un verso agli orecchi loro nuovo,
legate) non piacque.[6]
5. A questa infelice novella io, che
quel divino poeta nel verso sdrucciolo aveva per avventura imitato, diedi
impetuosamente di piglio ai quinterni di mia commedia, e alzai la mano sul foco per ivi perderli e consumarli. Ma le vegliate notti e
i giorni spesi nell’ordirla e nel tesserla, e l’amor finalmente che, come il
padre ai propri figliuoli, quantunque difettuosi, ha
poi l’ingegno a’ suoi parti, sospesero questa severa
risoluzione, tanto che mi diedi a cercar ragioni da pore
in salvo la mia fatica, e ne incontrai certe che a salvarla mi rincorarono.[7]
6 Mi venne avanti, fra l’altre cose, me avere diversamente dal nostro comico
italiano nell’idea della favola adoperato, imperciocché
egli più tosto Plauto e Terenzio che Aristofane, ed io questo più tosto che
quelli abbiam seguitato; e là dove i primi hanno ferito gli errori delle volontadi, lasciando in pace quelli degl’intelletti, ha il
secondo sì nelle Nubi che nelle Rane prenduti
in mira ancora gl’ingegni perseguitando i quali la maldicenza, che è lo spirito
della commedia, riesce più temperata e innocente, perché, e come da poeta l’error si corregge e come da cattolico la carità verso del
prossimo si preserva, tali difetti non deridendosi che infamino chi n’è tinto;
conciossiacosaché l’essere malvagio poeta possa andar congiunto coll’essere costumato
ed ottimo cittadino; e coteste deformità d’ingegno sien
senza dolore, e di nera colpa non macchino chi le schernisce.[8]
7 Avendo io però, tanto nelle cose
quanto nelle parole, secondo il mio pensamento cercato veracemente il ridicolo,
ho voluto, dopo aver terminato il mio dramma, coll’opinione di gravi autori la
mia riscontrare, per venir in chiaro se, colla scorta della ragione che suol esser una, mi fossi mai abbattuto a camminar per
quella via ch’essi, da gravissime autorità ammaestrati, additavano; perché
apersi Antonio Riccobuoni e Tarquinio Galuzzi, che mi caddero a sorte per mano, e che della
commedia e del ridicolo han saviamente trattato. Il primo adunque nella
particella XX dell’Arte Comica ne
deriva la difinizion da Aristotele in somiglianti
parole, ciò è: che sia peccato e turpezza
senza dolore, che non abbia forza di uccidere. Il secondo nel cap. 8 del
suo Commentario della Commedia
conviene: che la cosa, o il detto
ch’eccita il riso, null’altro sia se non vizio e turpezza senza dolore; le
quali due aristoteliche difinizioni sarebbero in
tutto uniformi, se la prima del Riccobuoni la
spiegazione del senza dolore non aggiugnesse, cioè, che
non abbia forza di uccidere. Simile condizione avrà la pazzia de’ miei
attori non furiosi, a ciascheduno de’ quali in una sola cosa s’è guasta la
fantasia, vizio da cui non può a verun d’essi grave
periglio di vita accadere, come sarebbe se io li rappresentassi capaci o di
lanciarsi da una fenestra, o di urtare del capo in
una muraglia, o di addentare il vicino.[9]
8 Le
maschere ancora de’ miei tre vecchi (imperciocché con
maschere di due pezzi, onde il libero escir della
voce non impediscasi, intendo in parte la mia
commedia rappresentare) saranno anch’elleno turpi. E cominciando dai vecchi,
che tre saranno, cioè il Cavalier Marino, che io vorrei di una maschera
laureata, simile a quel ritratto del vero Marino che gira inciso dal rinomato
Fiamingo, che in verità, quant’è diligente e pittoresco altrettanto è spiritato
e ridevole, questa sarà una figura assai strana non meno per la sparuta fattezza
che per l’abito antico napoletano. Messer Cecco, con quella cocolla usata sin del Trecento, e con una maschera che contrafaccia il Petrarca, aggiuntovi pendente da una collana
sul petto il ritrattino di Laura, non lascerà di far ridere chi lo mira. Il
Pedagogo poi, e per la gran barba nera e per la gran toga non so se magica o
maestrale, sarà uno spauraccio da passeri, che avrà
ancor esso la sua mal veneranda deformità.[10]
9 Due altre maschere meno attempate sarannovi: Mirtilo e Lofa. Mirtilo, che è l’autore,
con una maschera composta del naso aquilino e dell’aguzzo suo mento, con faccia
ridevolmente ridente, e in ogni parte sua caricata più alquanto del proprio originale,
rallegrerà coll’idea che ha avuto il poeta di mordere sé medesimo, come quegli che,
dove meno o nulla conviene, vuol essere ad ogni modo quel tal pastore che dalla
moderna Arcadia vien finto; in guisa che poche sono l’opere
sue dov’egli non si faccia seguitare dagli armenti, dalle capanne, e dai boschi,
come d’Orfeo, con misteriosa ragione, fu per la Grecia favoleggiato. Ma chi potrà
frenare le risa, ammesso a vedere la mascheraccia di Lofa, disbarbata ma pallida, pingue ma grima
da eunuco? Che, con un abito raffazzonato al dintorno della persona, e con
cerchi sopra del corpo che lo rilevino in una pancia enormissima,
la schiacci con un piccolo gravecembalo sostenuto da una
coreggia che il petto e le reni ad armacollo traversi.[11]
10 Il
Soldato, giovine, senza maschera, pennacchiato tutto e nastrato, con arme lucide,
antiche, e forse usate nel tempo che in Francia i Mori passarono per vendicar
la morte di Troiano sopra re Carlo imperator romano, sarà pur deforme senza dolore.
Le sole Sostrata e Carnia non compariranno deformi della
persona, di modo che, se noi gli attori numereremo per le maschere e per gli atteggiamenti
loro deformi, dell’antica commedia ritroveremo assai più abbondarne la mia; e
per l’adornamento teatrale avremo tal guardaroba di fogge negli abiti
che, colla varietà bizzarra e alle moderne costumanze deforme, chiamerà a sé
con diletto le curiose occhiate de’ riguardanti. Ma assai delle figure
corporali.
11 Passiamo ora ai caratteri, e nei
fonti topici insegnatici dagli autori, peschisi per
noi il ridicolo. Scrive dunque il nominato Galuzzi
nel cap. X della Commedia eccitarsi
il riso da due cose. L’una si è: quando
ciò che da lungo tempo desiderammo accade giocondissimamente all’animo nostro.
Ma che di più grato può mai avvenirci che il sentire coloro, i quali una virtù che
non avevano affettano, fuor dell’aspettazione scornati? Lo
che da quasi tutti i miei attori, e principalmente da Sostrata,
per la nostra rappresentazione si ottiene. Costei fa la poetessa, e non la è. Fa la bocca stretta, e non la
è. Fa la costante, e non la è. E ciò non può, se mal
non giudico, dispiacere a chi, possedendo tutte queste perfezioni, modestamente
dal milantarle si astiene, onde dell’altrui vanità,
presunzione, e baldanza si riderà. Così Penulo è un
leone, se credesi alle sue sfacciate iattanze; è un
coniglio, se al testimonio dell’opere sue si avrà fede. Sarà poeta, sarà accademico,
se ci fermiamo nell’apparenza. Sarà un ignorante, non saprà né pur leggere, se
lo porremo al cimento.[12]
12 L’altra cosa addotta dal nostro
Galluzzi si è: quando alcuni errori,
sbagli, ed inezie degli altri incontriamo; e, secondo il parere
dell’autore, in cinque parti dividesi. La prima è che
taluno constituito
in età avanzata ignori quello che san per fino i ragazzi, e ci reca in
esempio Margite, che, già fatt’uomo,
era in dubbio se il padre o se la madre avesselo
partorito. Tale inaspettata sciocchezza in Penulo
nostro si osserva, che intende volere spacciarsi per valoroso quando una fronda
mossa dal vento gli fa paura; e si dà ad intendere d’essersi trovato alle
maggiori imprese di guerra che più e più secoli avanti del nascer suo erano nel
mondo accadute. Né pure è da sprezzarsi colui che si crede, e vuol farsi
credere, un morto resuscitato; né colui che, parlando seco medesimo, dà a sé, e
vorrebbe ad altrui dare ad intendere, aver compagno uno spirito a lui visibile
e famigliare, interrompendo i suoi soliloqui alla maniera dei dialoghi.[13]
13 Il
secondo ridicolo nasce, o dall’ebrietà, o dalla frenesia, o da qualche sogno.
Io credo che di frenetici abbondi più di qual altra la favola mia, e i sogni
raccontati da Penulo e da Sostrata
non produrran certamente malenconia
nelle teste degli uditori. Il terzo
deriva dall’ignoranza di certe arti, o dall’estimazione imprudente ed insana delle
proprie forze, lo che opera che alcuno confidi di potere,
o sapere, o far cose, le quali affatto ignora e fare non puote.
E di qual altra natura è la mia Sostrata, che
intende già di spacciarsi per poetessa, quando né pure il primo latte ha di quest’arte
assaggiato? E di qual altra natura è il mio Penulo,
che presume di comparire verseggiatore e poeta quando gli è noto non saper
leggere? Cangia egli forse carattere quando, poltrone com’è, si vanta di tal braura che si mette del pari coi primi capitani
dell’universo? In questa categoria appunto comprende
il nostro autore coloro, che si dicono
soldati gloriosi, predicando di aver espugnati eserciti, alloggiamenti, e
città, allorché sono vilissimi, com’è la tracotanza trasoniana
appresso Terenzio. Credonsi pure eccellenti il
falso Marino e l’arcade Mirtilo
nella lor passione di gusto lirico stravagante, come anche Messer Cecco
impazzito per petrarchista; laonde per questa ragione
dovrebbero fare smascellar dalle risa i veri e dotti poeti.[14]
14 Il
quinto s’aggira circa le trappole, nelle quali talun s’induce
a cadere senza suo gran detrimento; come accade alla buona Sostrata, che, nelle insidie da Cornia tendutele
per rimoverla dal suo sì sciocco proposito, si lascia
inavvedutamente attrappare, sposandosi gentildonna con un soldato vilissimo di cuore
e di nascimento; e farà ridere il popolo senza suo grave danno, mentre
finalmente egli è meglio l’essere riputata ignorante che falsamente saputa, e mal
maritata che pazza. È altresì minor male per Penulo il comparire sinceramente vigliacco, e salvarsi, che
il mantenersi in reputazione di bravo, col morir poscia appiccato. [15]
15 Altri
luoghi topici del ridicolo addita il Galluzzi nel cap. XI dal libro che dell’Oratore compilò Cicerone, indicati; e
questi alle maniere del ragionare appartengono. Colloca in primo luogo i traslati, e le inusitate parole. De’ primi
non ne ha già pochi il nostro finto Marino, e per ciò credere basta il sapere
ch’egli imita quanto mai può il vero suo originale. Di nuovi latinizzati
vocaboli il pedantesco Sannione non è qui scarso.
Succede il paragramma, e la paranomasia,
o sia allitterazione (per
valermi del termine suo medesimo) e di questi pure ci è liberale il nostro
Cavalier Marinista impazzito, come, per ragion d’esemplo, sarebbe «il secco Cecco» ecc..; «Del secolo eccolo»; «A illuminar la cecità
palpabile» ecc.; «Con un sol po’ di sol Prometeo l’anima/ a statua diè» ecc.; «Desto si farà talamo del tumulo».[16]
16 Il terzo fonte è l’equivoco. Di tal natura è il verso di Sannione latinizzato: «Est l’amor dell’estinto, o l’est del
Penulo?». Come pur l’altro di Sostrata:
«E si rinovi il sacrificio a Panfilo ecc.». Altri
ancora ne sono sparsi per la commedia, ma in ciò ci giova una modesta sobrietà.
Il quarto è l’etimologia. Di questa
fatta è il nome di M. Cecco nel petrarchevole, che volendo imitare il Petrarca,
dal porsi il suo stesso nome incomincia. Così pur quello di Penulo
per la uniformità che ha col soldato plautino, e per la principale prerogativa
di sua valorosa persona.[17]
17 Il quinto è la parodia, mercé di cui si abusano alcuni passi di nobili autori, o nulla
o poco mutati, per renderli affatto ridevoli. Dal qual fonte scaturisce
tutta la parte di M. Cecco, che è un continuato centone di versi e di forme del
nostro Petrarca, ma sdrucciolate e torte in tal guisa che, dove lette nel suo
originale son degne di ammirazione, nella copia che ne fa Cecco son degne di
riso. Il sesto è l’iperbole, che accresce
le cose sino all’incredibile. Tanto Lofa eunuco è appassionato per la sua musica, che dassi ad intendere essersi nel secol d’oro musicalmente
parlato; perciò non recita che cantando mentre parla e risponde a quei che non
cantano. Specie più ridicola di questa, in quante commedie ho lette o vedute,
non mi si è mai presentata. E di tal natura pur sono le esagerazioni di Penulo e di Sannione, che i
caratteri loro accompagnano.[18]
18 Altri fonti del ridicolo il Riccobuoni dimostraci, e conta fra gli altri quand’uno col detto o col fatto palesa il
vizio dell’animo suo. Così fa Sostrata, allora
che col fatto del prepuzio di Panfilo mostra di non prezzare quello che colle
parole ha sempre mostrato di venerare, e di venerar Penulo
che ha mostrato voler disprezzare. Le
cose estrinseche ancora (secondo il citato autore) muovono a riso, e qui a
caso fortunatamente m’incontro nello stesso esemplo addottoci di Cicerone dal
medesimo Riccobuoni, allora che Marco Tullio interrogò
chi avesse Lentulo alla sua spada legato; ed eccolo nel Marinista, che, nulla
temendo l’esortazione con cui Sostrata provoca Penulo a cacciargli ne’ fianchi la
spada, risponde: «E come io temone? / Se alla spadaccia sua legato è Penulo / tal ch’ei pende da quella?».[19]
19 Ma troppe più occasioni di ridere io
porgo nella commedia che fra i mentovati cancelli non si restringono, non
potendosi veracemente del ridicolo dar positivo ed intero precetto; laonde Cesare appresso
di Cicerone stima che precisamente dalla natura e dall’ingegno proceda
l’urbanità, che si confonde colla facezia, di modo che non se ne possa dare
dottrina. E mi pare che Platone nel suo Sofista
abbia colto assai bene il punto, difinendo il
ridicolo certo allontanamento da ciò ch’è
congruo alla natura.[20]
20 Con questo piacevole e per me felice
confronto io tanto più m’invogliai di conservare la mia commedia. Ma come
quegli che ben sapeva i fonti tutti del vero ridicolo aver l’Ariosto
assaggiati, e, nondimeno, essere costì rimasa
sibilata e muta la sua Scolastica,
senza né pure potersi suo fratello, che le diè il
compimento, incolparne, mentre ne’ primi atti, opera tutta di Lodovico,
sventuratamente arenò, mi diedi sgridare dal mio tavolino l’ingiustizia e la
sciocchezza del popolo, ed a rileggere con maggiore attenzione la lettera nella
quale, oltre l’accusare il verso, incolpate della sentenza pronunziata contro
quell’innocente favola il vulgo de’ barcaiuoli che
v’intervennero, il quale attuffò fra i suoi sibili i savi applausi di ben
sessanta patrizi che con voi sedevano ad ascoltarla, perché fra voi proponete
di non voler più dar opera a fare, che commedia di qualsiasi vostro amico, la
quale sia di versi tessuta, si rappresenti.[21]
21 Nel che unendomi al sentimento
vostro, che male s’arrischi al giudicio del
popolaccio una favola comica in verso, non però mi sono disanimato dal
pubblicare la mia, comeché in versi legata,
bastandomi la sicurezza che da nessuno istrione sia eletta, ed al pubblico
esperimento de’ palchi venali esibita. Imperciocché
conosco io, quant’essi conoscono, che quando cotesti artigianelli o barcaiuoli vanno al teatro per ridere, più tosto il
Dottore, il Pantalone, ed Arlechino, e Finocchio, che
la Lena, il Negromante, I suppositi,
la Cassaria,
e la Scolastica vorrebbero
ritrovarvi: conciossiacosaché nessuna commedia ridevole, per savia, piccante,
vivace e costumata che siesi, può alla commedia
istrionica italiana resistere; né vi ha lingua al mondo, o nazione, appresso di
cui si ritrovi un’invenzione di turpezza senza dolore che con questa osi
paragonarsi.[22]
22 E qual malenconico
potrà star serio all’apparir del Dottore, che spunta dopo esser già in scena la
metà del suo voluminoso e grondante cappello arrivata, che in tutto o in parte,
mercé delle inquiete manacce, o rotolato o raccolto sconcia la nera e mal tonacata figura? La quale nel dialetto suo bolognese, ad
altri orecchi italiani per sua sventura ridevole, fa spiccare quella sua gesteggiata loquacità, diffusa fuor di proposito, e
graziosamente per ostentate e mal applicate dottrine stucchevole. Il vostro
Pantalone è pure anch’egli una maschera di civetta che muove a riso,
massimamente quando vedete quel grifo montato già in pretension
di Ganimede, di damerino, perché indelicatendosi,
vecchio quant’è, ingarzonisce; avaro per natura,
prodigo per lascivia, accorto e restio d’intenzione, sciocco e corrivo
d’esecuzione. Il dialetto pur veneziano, co’ suoi
leggiadri proverbi, avrà le fiche dai fiorentini, e da tutti quanti i toscani
che allo spettacolo si trovassero.[23]
23 Finocchio è un rigiratore,
prontissimo ad attaccarsi ancora alle paglie, per non sommergersi, ed intanto
comparisce egli malizioso ed astuto, in quanto creduli troppo color si
dipingono a’ quali ardisce di vendere le sue
frottole; e il suo dialetto da montagnaro di Bergamo
non è dei più belli d’Italia; arroge poi che l’abito bianco e verde, e la
schiacciata beretta, e la maschera sua da marmotta, cose tutte che aiutano a
riderne. Ma che diremo di quel cotal bergamasco, che
venir mostra dalle parti vallive di quella stessa provincia? Quella sua
maschera mora ritonda, e intorno al mento pelosa a guisa di simia,
quell’abitello a più colori che lo dintorna; quella
sua statura più tosto piccola, sempre in dubbio o di starsene torta ed
immobile, o di precipitosamente travolversi; quel suo
gesteggiare, quando da furioso e quando da attonito;
quelle graziose paure, e quelle istantanee e corrucciose braure;
quelle sciocchezze innocenti, che guastano tutto quello che per acconciare son
adoprate; quel suo dialetto zannesco, quegli strilli, quelle meraviglie, quelle
cadute furono e sempre saranno la delizia più favorita dai popolani.[24]
24 Né dee tacersi la frizzante, furba,
proterva, e discoluccia Servetta; né il Coviello, il Giangurgolo, il Puccinella,
attori tutti per ogni parte ridevolissimi. Le stesse sfacciate inverisimilitudini nelle azioni provocano a riso, siccome soglion coloro che la paralisia o
altro male non doloroso fa a lor dispetto ridenti, tremuli e scilinguati. Gli stessi
innamorati nell’affettazione dei lor ragionari non
mancano del ridicolo; così che confesso ch’io lascerei l’Edipo di Sofocle, e l’Anfitruone di
Plauto per una di queste favole da valenti istrioni rappresentata.[25]
25 Quindi non è maraviglia
che la commedia dell’Ariosto condotta per mano dal genio antico e latino non siasi nel genio moderno italiano abbattuta, mentre anche il
popolo spagnuolo, che pur va superbo de’ suoi
spettacoli teatrali, e il popolo francese, comeché
innamorato del suo Moliere, lasciano vuote per la commedia italiana le panche
dei teatri lor nazionali in faccia alle lor gran corti, in faccia ai loro medesemi autori viventi, che tuttavia in quelle province,
come la gramigna ne’ prati, germogliano.
26 Lontane
dunque dal popolo le nostre commedie. Né la mia potrà certamente rappresentarsi
che da un seminario, o da un’accademia ad un’udienza scelta e raccolta, la
maggior parte di letterati; e delle rise di questi ardirei io lusingarmi, men
perseguitando la moda del vivere che quella del verseggiare; lo che facendo, allo scoglio a cui ruppe l’infelice
commedia di Lodovico non urteremo, alla quale, se voi coi soli vostri sessanta
patrizi aveste seduto, non calavasi senz’alcun dubbio
la tenda. Di simile udienza non avrà che temere lo stesso verso, il quale,
secondo il giudicio vostro, alle orecchie popolane,
così com’è sdrucciolevole, non è accetto, comeché io
creda, anzi che no, questa sorta di verso attissima ad imitare la prosa,
dimodoché, così diretto dai sentimenti, non danzi ma guisa di sciolta orazione agiatamente
cammini; e però non dover dispiacere, quando vediamo per quanta è l’Italia le
commedie in prosa non solamente sofferte, ma rinomate.[26]
27 E
per me credo non ingannarmi pensando che il verso, corredato di frase più tosto
prosaica, nella commedia fosse introdotto acciocché la legge del metro gli
astratti e baldi, o di lor memoria diffidenti, istrioni in luogo d’una parola
altra dal capriccio di essi inventata e sostituita a non collocarvi
astringesse, la quale, o di grazia spogliata fosse, o colla dovuta proprietà il
sentimento del drammatico autore non esprimesse. Ed ecco, o eccellentissimo Teleste, la sola parte in cui dal vostro giudicio vi prego a permettere che il mio si diparta,
soscrivendo per altro qualunque sentenza che in causa di lettere voi
pronunziate.
28 Né
già desidero da questa rappresentazione escluse le donne, benché l’inimicizia
loro sie da temersi, e della donnesca ambizione qui
malamente si parli. Imperciocché, avend’io
molta venerazione a quel sesso, e a certe letteratissime che alle mie tragedie
han fatto grazia dell’approvazion loro, essendo io
infinitamente obbligato, pretendo di corrispondere a tal gentilezza col
separarle, come sopra ho detto, dalle altre che presumono, e voglion dare ad intendere al mondo, di essere quali le
poche da me conosciute, e le opere di cui nella vostra raccolta si leggono. E
perciò vorrei che a questa rappresentazione le nominate da me nella scena terza
dell’atto quarto intervenissero per loro gloria e trionfo.[27]
29 Le
altre poi tutte sono in due classi divise, la maggior delle quali cede di buona
voglia a noi uomini lo studio della filosofia e della poesia; laonde dovrà godere di sentire lo scherno di quelle sapute
ignoranti, che l’altra assai minor classe compongono; ed odan
pur con dispetto quest’ultime dipinti al naturale i loro vizi, e corucciate contro il poeta sen vadano, purché, in
ascoltando il dramma, si emendino; e per mia fé che
ancor queste mie inviperite dottorine terran chiusa in petto la rabbia, e rideranno sardonicamente
di se medesime, acciocché non traspaia il rimorso dal riconoscersi nel ritratto
ch’io su la scena dipingo e dileggio.
30 Monsignor de Moliere ha pure l’approvazion delle dame nelle sue Fames Scavantes liberalmente ottenuta; e non
solamente ho io veduto il bel sesso affollarsi al teatro di San Germano, e
ridervi ben di cuore delle rappresentate sapute, ma nel castello di Sceau mi sono trovato a questa commedia recitata magnificamente
dalla serenissima duchessa d’Humene con altre
gentildonne sue famigliari alla più conspicua nobiltà
della gran corte di Francia.[28]
31 Farei
altresì sigurtà che il rimasuglio di quelli che
imitano l’abbandonato Marino, né tampoco la moltitudine di coloro sparuti che contrafanno il Petrarca, avrà baldanza di lamentarsi che in
questa commedia io li carichi, nella quale a me stesso, cognominato fra gli arcadi Mirtilo, non perdono, come quello che alle volte troppo
affettatamente, dove abbisogna e dove non abbisogna, mi fo pastore, onde, se io
dico generosamente mia colpa, non dovranno essi garrirmi perch’io
non taccia i loro falli poetici per utilità delle umane lettere, che anche in
questo corretto secolo, per allontanarsi da un vizio, con troppa violenza
all’altro si accostano secondo il detto di Orazio «In vitium ducit culpae fuga, si caret arte».[29]
32 Ma mi direte voi, o dottissimo compastore: «Perché limitar la tua udienza alla piccola,
benché miglior parte del popolo? E tu, quegli che di tutti gli spettacoli
antichi e moderni hai voluto dar qualche saggio nel tuo teatro, perché
lasciarlo mancante di una commedia istrionica, la quale a tutta un’intera città
sia solazzo?» A questo io rispondo essere impossibile
lo scrivere una commedia di tal natura, che, quanto si può rappresentar con
piacere di chi l’ascolta, altrettanto sarebbe scritta con nausea di chi la
leggesse. Imperciocché le grazie dei dialetti
(termine di cui sono in necessità di valermi) s’intendono da quei soli che quel
parlare o per nascimento o per lunga abitazione posseggono: perché il Dottore
ai bolognesi non riuscirebbe per avventura spiacevole, ma a tutte le altre
nazioni insulso e freddo comparirebbe.[30]
33 Aggiugno
ancora che chi compone, essendo bolognese, non può mai maneggiare con sicurezza
gli esterni idiomi di Vinegia, di Bergamo, di Napoli,
o di Sicilia. Ché, se piacciono queste commedie persino di là da’ monti, dove la stessa lingua cortigianesca italiana
appena e da pochi s’intende, ciò avviene per cagion
della mimica, che da tutti coloro che han occhi, egualmente assaporasi,
in guisa che, per chi volesse una di queste commedie stampare, gli atti, e il gesteggiar curioso, faceto, fallico e sconcio imprimerci
converrebbe; cosa ch’essendo impossibile, né colla modestia poi, né colla
religione si accorda. E perciò costoro che tali rappresentazioni espongono al
popolaccio van giustamente fulminati da’ sacri canoni
colle implacabili e più severe censure.
34 E, se dai governi, ancorché
cattolici, si van tollerando, egli è per lasciar uno sfogo, il men nocivo che
dar si possa, al cattivo genio dei popolani, che, almen
per quel tanto che seggono e ridono alla commedia, non rubano le botteghe, non
fan violenza alle vergini, non fanno ingiuria agli altari.[31]
35 Date dunque licenza al verso
ariostesco di comparire sotto i vostri occhi per me imitato, ed accogliete
questa commedia, che a voi ricovera, come un’arra di quell’alta stima in cui
serbo voi e tutte l’opere vostre istoriche,
poetiche, e critiche, e di quella ossequiosa gratitudine, che alla generosità
vostra ed al padrocinio, di cui ne onorate, mi lega:
e fra i grandi affari, ne’ quali i patrizi di cotesta dal suo nascimento
incontaminata repubblica sono agitati, respirate ridendo su queste scene; o di
me almeno, che ho presumito di poter muovervi a riso,
ridete. State sano.
Che bei pazzi
Interlocutori[32]
sostrata, vedova nobile cosmopolitana
cornia, sua serva
penulo, soldato
messer cecco, pazzo petrarchista
cavalier marino, pazzo marinista
sannione, pazzo pedante
lofa, pazzo musico
mirtilo, arcade
mimi
guardiani dell’Ospitale de’ Pazzi
La scena è a Cosmopoli nell’Ospitale de’ Pazzarelli[33]
Prologo
In Cosmopoli
fu matrona nobile,
che del
marito suo si pianse vedova,
mentr’ella era anche e giovinetta, e tenera;
lo qual per
testamento aveasi il tumulo
5 lasciato all’Ospital de’ Pazzi, ed erasi
alla maniera
dell’antico Mausolo,
preparato un
sepolcro alto e magnifico,
in cui la
vedovella, d’Artemisia[34]
imitando i
sospiri, il duol, le lagrime,
10 sedea custode dell’amato Panfilo,
che
imbalsamato, e non converso in cenere,[35]
agli occhi
suoi di sé facea spettacolo,
su la bara
dormendo un sonno ferreo.
Varie
avventure alla piagnente avvennero,
15 che qui udirete,
e certi bei fanatici,
cui nella
fantasia sola un’immagine[36]
altamente è
scolpita, ond’è d’insania
tocco
ciascuno in quello sol che spaziasi
per la
contaminata sua memoria.
20 Nel resto è
savio, se non è dell’animo
follia
maggior che lo riempia ed agiti,
un crin biondo, un bel viso, un occhio lucido:
sì tutti
intorno alla dolente impazzano,
che ai lor sospir stassi qual rupe immobile
contro il soffiar
di Borea e di Favonio.[37]
25 Solo un soldato,
uomo il più vil degli uomini,
espugnò sua
bellezza inespugnabile.
Voi preparate
ai casi suoi silenzio,
e serbate gli
evviva al fin dell’opera;
né fuor che
il riso altro rumore ascoltisi;
30 che di risa
suonar vuol la commedia
privilegiate
da Talia scherzevole.
ATTO PRIMO
SCENA
PRIMA
Sostrata,
Cornia.
cornia Padrona, io non so mai che donna
vedova
sì lungamente di sua doglia pascasi,
che per volger di tempo, alfin
non sazisi.
Suggerisce ragion che mai per lagrime[38]
5 dall’urna sua non s’eccitò cadavere;
onde pia madre in su lo spento ed unico
diletto
figlio alfin prudente asciugale;
e la sì cara sposa il mesto e vedovo
marito
in casa unque non soffre, e scacciala
10 fin dalle piume del goduto talamo,
e inviane il corpo all’onorate esequie;
ma poi che all’ombra ha soddisfatto, requie
pregando all’ossa, ed all’ignudo spirito
nel comprato dolor
di cento prèfiche,[39]
15 e finalmente la bara funerea
ne accompagnò, sicome saggio acquetasi.
Poi, da che
morte ha già strappato il vincolo
della fé coniugale, e che fra l’anime
nude e vestite amor non vuol comercio,
20 gli occhi asciugati a qual balcone incontrisi
alza, e delle gramaglie il lungo strasico,[40]
che spazzando le vie, sveglia alta polvere,
sua libertate ostenta, e a
grazia giovagli
con qual fanciulla alla fenestra
affacisi.
25 Quinci gli sguardi in pria furtivi, e il volgersi
più volte in dietro a rimirar la vergine,
sinché proni a vicenda i capi inchinansi.[41]
Cercasi allor di una sagace e cupida
vecchierella, che asconda in sen reciproche
30 le letterucce, onde il contratto
accordasi:
e spesso avvien, che nel letto medesimo
in cui giacque l’estinta, e che ancor tepido
quasi è di lei, la nuova sposa abbraccisi.
E noi, che il cielo e la natura instabili[42]
35 creò, che il sesso incontro amor più fragili
rende, vorremo per non so qual boria
costanza e fé non imparar dagli
uomini?
sostrata Tu parli al vento. A posta lor
volubili
sien gli uomin pur; sia maggior
gloria, o Cornia,
40 al nostro sesso per virtù risplendere,
che dal sesso viril bandita
esageri.[43]
Non pensò già se fido o no il suo Mausolo
stato le fora, se fosse agli Elisii
gita primiera la bella Artemisia:[44]
45 pensò ad esser vèr lui qual ei
pur essere
dovea verso di lei, che tanto amavalo.
E se alla vecchia uniam la
nuova istoria,
non ti sovvien di quel famoso Davalo,[45]
che dalla Colonnese sua
Vittoria
50 fu pianto sì che dureran le
lagrime
ne’ pudici suoi versi eterne e celebri?
Deh, perché a me non inspirasti, Apolline,
parte della tua fiamma, ond’io
di candidi
inni potessi ornar la spoglia, e il tumulo
55 onorato
del mio diletto Panfilo,
a cui le membra han qui serbate i balsami[46]
orientali, ma non già lo spirito
sciolto, che dal suo fral
lontano aggirasi,
se pur non empie intorno a me quest’aere,
60 che respiro soave, ed entra ed escemi
per queste fauci a sospirare, a gemere
aperte sempre. Io vo’ provar se giovami
la vista del mio freddo e bel cadavere
a spirar sovra lui svenata in cantici
65 armoniosi. Oh se lo fo, già supero
Artemisia e Vittoria, insieme unendosi
in me l’onor che l’una fece a Mausolo,
e quel che fe’ la poetessa al Davalo.
cornia La poesia colla pazzia confondesi
70 sovente, se fé merta il comun credito
di quanti furo e in avvenir sarannovi
poeti, e pazzi. E questo tuo poetico
genio tem’io che nel simil
degeneri,
massimamente in questo luogo, ov’errano
75 tanti capi di scemi: in conversandoli
frequentemente, il somigliarli è facile.
Sembri farneticar già coi farnetici
in questo albergo, anzi ospital
de’ miseri
egri intelletti, i qual, se ben
van liberi
80 dalle catene, perché altrui non nuocciono
con morsi ed ugne, son perciò
nocevoli,
ché rider fan dei lor error
ridicoli;
ma
chi ne ride, a poco a poco un abito
contrae, che d’imitarli alfin
dilettasi,
85 e l’imitazion sì poi confermasi[47]
che, confermata, a voglia sua non cacciasi.
Altro esempio non vo’ che te, mia Sostrata,
la qual, sinché per un desio di
piagnere
gli occhi stropicci a proccurar
le lagrime
90 stentate e fredde, e sinché all’arte incognita
del poetar, quando non mai di lettere
tuoi
verd’anni imbevesti, il genio or applichi,
pazza
sarai, ma di pazzia soffribile.
Insoffribil sia ben, ché tanto avanzisi
95 l’affettata tua fé, che voglia
a Panfilo
che, o non t’ascolta,
o, se t’ascolta, ridene,
sacrificar la
stessa vita, e toglierle
il nudrimento, e d’erbe empier lo stommaco,
intisichir
per frenesia di gloria
100 aerea e folle.
sostrata E
sin a quando, o Cornia,[48]
fia che il mio onor la tua viltà contamini?
Esci pur tu, se il vuoi, da queste tenebre
del marmoreo sepolcro: io, come tortora
mi starò sola a lagrimar l’amabile
105 perduto sposo, in compagnia dell’orride
mie cure, e di quest’una amica fiacola,
ch’anche ricuserei, se non che il tacito
busto del mio signor per essa onorasi.
Ma qual strepito, ohimè?
SCENA SECONDA
Penulo,
e dette.
cornia Chi
bussa?[49]
penulo Apritemi.
cornia Oh che bell’uom, signora mia!
Rallegrati.
Che gaie piume ha su l’elmetto! E
lucido[50]
per qual orrido usbergo a noi riverbera!
5 sostrata Ohimè! Un soldato in questa tomba,
o Cornia?
penulo Non ti prenda stupor, donna
magnanima,
che
un eroe generoso al piè tuo prostrisi
coll’armi sue, che son della giustizia
onore e scudo.
sostrata E che da un’Artemisia,
10 che piagne il suo signor, per
te pretendesi?
penulo Pretendo sol che, se ti ha fatta
ingiuria
l’empia morte, l’offesa in te non
vendichi
col
negar di nudrir tue membra tenere.
Cerchiam chi spense il tuo consorte, e vedova
15 ti
creò lagrimosa. Io sento i medici
dir che i polastri e le galline uccidono
col nudrir troppo, e tu su quei volatili
sfoga
la giusta innesorabil collera:
né
a schivo aver che da un soldato insegnisi[51]
20 qual
sie nella vendetta eroica gloria.
Ecco i polli;
un alesso, un odorifero
stuffato, ed un, che fra il butiro
e il zucchero
e
il pane e il cinnamomo, arosto inghiottesi[52]
pria
colle nari che col labbro: assaggiali.
25 sostrata Altro pasco non vo’ che vil cicoria,
che abborre
il sal, l’alio, l’aceto e l’olio,
ma il condimento suo son le mie lagrime.
cornia Io mi sento morir se non divorovi,[53]
odorate
vivande: oh Dio, che l’anima
30 mi
torna in sen dal sol vederle!
penulo Assaggiane.
cornia E dovrem ricusar
da man sì candida
doni
sì preziosi in tanta angustia
tu
di dolore, ed io di fame? Ah Sostrata!
Se
vogliam forza aver per meglio piagnere
35 su
questo miserabile mortorio,
mangiam, mangiamo.
sostrata Oh petulante, ed avida,
e
sconoscente di che sia rammarico,
a
voglia tua t’ungi la gorgia, e saziati.
Ma,
o cortese guerrier, se mai d’istoria,
40 o
di poema hai tu (siccome l’aria
tua
generosa agli occhi miei pur indica)
commessa
impresa, avvi, o scrittor che cantila,
o
suggesti tu ancor delle pierie[54]
suore
le poppe, che latte distillano
45 ai
cari lor, benché durette e vergini.
penulo
Altro latte, che sappia, io mai
non bebbimi
che
quel della mia madre illustre e nobile,
qualor venia dal governar le pecore.
sostrata Nobile, e pecoraia?
penulo All’aureo secolo
50 si conformava: ambizion di mugnere[55]
avea le pecorelle, allorché al patrio
frascoso
ovil le riducea dal
pascere.
sostrata Ma
nell’età dell’oro in dolci e musiche
note
cantava ognun, se il ver raccontasi,
55 e dalle bocche scorreano spontanei
sdruciolando in canzoni i bei vocaboli;
ond’è fama che Adam fu
petrarchevole.
penulo Son io forse da men? Son pertichevole[56]
poeta anch’io:
l’asta maneggio, e spertico
60 quanti
nei quarti di quel miserabile,
le
cui membra pendenti esposte all’aria
io custodisco, a rimirar si appressano;
perché
ci va la testa mia, se spiccansi.
sostrata Lassa! te a custodir le membra lacere
65 di un reo sospeso osi avvilir? La
bellica
gloria ove andò?
penulo Chi assassinò la patria,
della
mia fé creduto è alla custodia.
Ve’
il campion del Senato, e ve’ del Popolo[57]
il difensor.
cornia Ma
le vivande fumano;
70 e
se tardiam, padrona mia, congelansi
del buon stuffato i preziosi intingoli.
sostrata Manca a te, buon guerrier,
l’arte poetica;
per
altro hai quel che legar puote un animo
riconoscente
a non sdegnarti, a vivere
75 con
esso te, sì liberal, sì ingenuo
mi
comparisci; e, tranne il solo Panfilo,
uomo non vidi
mai, che tanto al genio
mio
si confaccia; ma ho fisso il proposito
di
gareggiar con quella tal Vittoria
80 che
suo sposo cantò converso in cenere;
quinci a
poeta, onde a me l’estro infondasi,
ho
destinato il confidar mie lagrime:
per
compagnia cotal di questa misera
dolente
vita in bel sollievo, io spasimo.
85 penulo Vuoi che ignota a un guerrier sia la vittoria?[58]
Son pur
poeta, e ti farò discepola
de’ canti
miei, per onorar quel Panfilo,
che
qui sen giace imbalsamato e gelido.
Ma,
se t’amin le Muse, ora in memoria
90 del
cadavero suo gusta i cadaveri
de’ polli
miei, che la tua bocca aspettano.
Mangiali
intanto ch’io qui fuori all’aere
mediterò
qualche prosetta in tenere
rime
composta, e penserò qual regola[59]
95 possa
a un bel verseggiar te pronta ed abile
rendere in
questo dì.
sostrata Se
il fai, da vedova
onorata ti
giuro amor perpetuo,
e
sovra il fral del mio diletto io giurolo.
cornia Or ch’è fermato il giuramento, o Sostrata,
100 sedianci a mensa, e confortiam le
viscere,
che brontolar
fa l’astinenza; e chiudasi
dell’avello
la porta, e intanto spazisi,
nel
suo capo ad unir le idee poetiche,
il
buon maestro.
sostrata Io mi ti rendo, o Cornia.[60]
105 penulo Acciocché siate a ben cenar più
libere,
a me tiro la
porta, e fuori io serromi.[61]
SCENA TERZA
Penulo.
penulo Or sì son nella pania. E chi mo sbrigami
dal
doppio visco in che m’intrico e smanio?
Me
la fortuna ad altri sì volubile[62]
esaltò
dal carreggio alla milizia
5 senza che il
mio né il sangue altrui spargessesi.
Ma
di bell’armi e di bei fregi adornomi,
e
pria di uscir dal mio quartiero io specchiomi
ben
cento volte in fianco, in faccia, e volgomi
addietro
ancor, per vagheggiar l’erculee
10 spalle mie, che dispari
avea quel piccolo[63]
magno
Alessandro ch’espugnò Cartagine;
né
fu bel capitan, com’io, quel Scipio
che
balzò dal suo carro in faccia a Persia
da’ suoi traffitto il venerabil Dario.
15 Onde, qual maraviglia se disperansi,
il
mio bello, il mio garbo, e la mia nobile
corporatura
in vagheggiar, le femmine?
Che,
quante son, dai drudi lor si spiccano
per
appicarsi, o correr dietro al Penulo.
20 Addocchiata mi avea questa
dolentesi
vedovella,
ch’è ricca, ed anche sembrami
non
indegna di me; ma già abbandonami
la
mia cagna fortuna allor ch’io piacciole,
e
che, me appena visto, ella innamorasi,
25 e le vivande mie
gustar non sdegnasi:
vuol
mo ch’io sia poeta, e vuol ch’io dettile
precetti
ohimè da far canzoni a Panfilo.
Sapessi
almen non verseggiar, ma leggere
i
versi altrui, che come audacia simulo,
30 quando in mia coscienza
io son sì timido
che una zanzara
a spaventarmi è biscia,
fingerei
anco esser poeta, e fingere
lo
saprei sì, che poi col volto amabile
conquistarmi
il suo cuor sarebbe agevole.
35 Qual mai fu
donna a questi rai difficile?
E
questa, anzi che no, per essi è facile.
Or che farò?
Ma non v’ha qui di stolidi
un ospital dove alzar fanno i sibili
tre poeti
impazziti? Ad un ricorrasi,
40 che mi presti un
sonetto pertichevole:
prestato
poscia, io venderollo a Sostrata,
con mercede
non mia che sì ch’io comprola?
SCENA
QUARTA
Sannione,
e detto
penulo Ma qual barbon con toga venerabile[64]
e con nera
beretta? È forse magica
quella
sua verga ond’ei gestisce e rotala?[65]
Egli
un pazzo sarà.
sannione T’arresta, o milite,
5 e non turbar
con indiscreti eloqui[66]
spirito
famigliar, ch’è mio pedisequo:
alias
farò che proverai del baculo
onnipotente
mio non solo i verberi,
ma
la magica forza.
penulo Il
diavol salviti,
10 non già lo ciel,
poiché sei mago, e bazzichi
con uno spirto. Or, s’egli è vero,
io pregoti
in
carità di far meco amicizia,
che
uno scudo otterrai, se dal tuo spirito
mi
otterrai tu che in un baleno io facciami
15 un valente
poeta.
sannione Oh per pecunia
neu spera ai voti interessato auxilio.
Per
la mia voluptà pria voglio il demone[67]
obsecrar,
te presente, e poi precatone
levame
a te belligerante, expectane
20 quidquid aneli. Or qui ti pianta, el
circolo
che
su la polve intorno a te delineo,
non
trasgredir. Mehercle un uom sì pavido
nunqua mirai. Te avvezzo al taratantara
della
tuba, come or concutte il sonito
25 di umana voce?
penulo Il
mio coraggio or stringesi[68]
quanto
è, tutto al mio core, e lascia ir tremule
le
non curate membra.
sannione Aspice il Socrate[69]
visso, secoli fa, che dal platonico
anno
ricorso reduce all’eterie
30 aure ricuperato alfin resuscita,
associato
da quell’incorporeo
spirito
suo, che famigliar vocavasi,
eo quod dialogizzar seco l’udivano,
senza
auscultar quelle parole eximie,
35 delle quai l’auri altrui non fere il crepito.
penulo Signor Socrate mio...
sannione Di’
piano: accedemi
il
bel demone mio.
penulo Di tema io palpito.
sannione O tenella animuccia, offro un munusculo
a
te d’incenso, unde s’innebri
l’aere;
40 e flagreranno a
te legni odoriferi,[70]
se
a due mie preci tu sarai presidio
…………………………………..
(Queste pause si mettono come se lo spirito da Sannione
solo ascoltato parlasse)
Che
vogl’io, tu mi peti? In primis queroti
che
la sannionicida amabil Sostrata
le
tumidule gene, ed i nigerrimi
45 occhi, il petto peralbo e venustissimo
conceda
a Sannion, ch’è sostratifilo.
Ora
so che amor sia: lui le marpesie[71]
cauti
educaro; a lui le mamme admossero
le
maculose, odore, indiche tigridi.
…………………………………..
…………………………………..
50 Tu ridi, e dici
che ha l’alma caucasea,
e
s’ha il viso elegante, ha il cuor detterrimo.
penulo (A
parte) Egli è solo a parlare, e
pur dibattesi,
e
gesteggiando e rispondendo al demone,
che
(buon per me) non odesi e non vedesi,
55 ond’è che meno i membri miei vacillano;
ma
cercando un maestro, io della vedova
trovo
un amante, ed un rival ridevole.
sannione No, la mia dignità per duriuscula
beltà
non scema; ma tu facilitala,
60 e i suoi
precordi umanità riscaldimi.
…………………………………..
…………………………………..
Ita,
bene est, pulcherrimo mio spirito,
d’ingentissima
grazia appresso anche oroti,
ed
è che quest’onor del Bello Punico[72]
poeta
erumpa in un balen: comparigli,
65 o demoniaco mio cubiculario,
uti a me comparisci, e le sassifrage
vocule tue, per le tue corna, auscultinsi.
penulo (A
parte) Oh no; ch’io gelo di
paura.
sannione Ah crudulo,
tu
da me fuggi, e dal bellante Punico,
70 che Libia al par
d’Annibale condecora?[73]
Evanuì; per inseguirlo io volito.[74]
SCENA
QUINTA
Penulo.
penulo Respiro,
or ch’ei fuggì. Non vo’ con spiriti,
siasi incanto, o pazzia, mai più commercio;
ma
che dicea colui di guerra punica,
quando
Libia per me mai non conobbesi?
5 Forse ancor
Libia si nomò Cosmopoli?
Interrogar
ne vo’ qualche filosofo
a
cui non sono i prischi nomi incogniti.
Altra
città per me giammai non videsi
che
Cosmopoli prima, e poi Cosmopoli;
10 ma s’altra mo visto ne avessi, e fossevi
stato
guerrier, com’ei crede, invincibile,
dove
qua i capitani e là gli eserciti
sconfitto
avessi, e che le mie vittorie,
ed
i fiumi di sangue ostile tumidi,
15 per nemico destin scordato io fossimi?
Son
io da men, perché altri a me ricordilo?[75]
Presuntuoso
io non sarò, se fidomi
più
della mia che dell’altrui memoria?
Così
sarà: sarò stato un uom celebre,
20 e, quant’or
pauroso, allor magnanimo,
poiché
tutto il valor consunto immagino
nell’alte
imprese, onde sì l’alma ho timida,
ché
al sol udirle in petto il cuor recalcitra.
E
pur parea che sin dagli anni teneri
25 rammentassi i
miei studi. Io vita rustica
condussi
pur ch’era fanciullo; e giovine,
fatto
cuor mio di forosetta amabile,
fui
da un rival con un baston
sì ruvido
percosso,
ch’anche al tergo i segni portone.
30 Poi venni
adulto, e conduttor di buffale
trassi
a carreggiar fieni entro Cosmopoli,
e
del guadagno mio comprai (ché vendere[76]
soleala il capitan) la piazza bellica
di
soldato, ed allor di messer Penulo
35 con mio stupor
divenni il signor Penulo.
Ma
non ricorderommi il vero. Io nobile
nato
sarò, sarò qual colui dissemi
che
stato io sono. O mia memoria labile!
Fine dell’atto primo
ATTO
SECONDO
SCENA
PRIMA
Il
Cavalier Marino.
c. marino O
tu, che appresso ai laureati ceneri[77]
del buon
Sincero e del cantor di Mantova
accogliesti
il mio fral, bella Partenope,
perché
a canora e nova vita or m’ecciti[78]
5 in questo sconoscente
e ferreo secolo,
‘ve
in quanti mira il sol, con me resuscita
moltiplicato
e lo Stigliani e il Murtola?
Dove,
o baldo Achillini, e Preti candido,[79]
dove,
o Bruni, o Capponi, e dove o Ciampoli,
10 ombre sedete
alle bell’ombre elisie?
Dai
silenzi letei deh a por silenzio
qua
su venite alla latrante invidia,
che
addenta i nomi, e che di noi fa strazio,[80]
stupor
già degl’ingegni, or riso e favola.
15 Col Cavalier
Marin vanno i discepoli
mostrati
a dito dall’ingrata Italia,
quando
i volumi nostri insin per l’orride[81]
schiene
lassù dell’Appennin rotaronsi,
ed
in Francia, e in Olanda alfin discesero;
20 poi da batavo torchio
impressi uscirono,[82]
raro
ornamento a librerie, delizia
delle
donzelle, e degli eroi bell’ozio.
Io,
cui credono estinto, errai non cognito
per
quante intorno ha librerie Cosmopoli,
25 e dell’opre mie chiesi. Ed ecco un ridere,
e
inviarmi al presciutto, al cacio, ai bigoli,[83]
cui
lacerati i sacri fogli incartano.
Ecco
un altro librar piatir nel fondaco,[84]
dond’esce lordo, a me lordar di polvere,
30 che dai tarlati
miei volumi esaltasi.
Chieggone il prezzo; ed ei su la bilancia
poi
pon Lira, Sampogna, Epitalami,[85]
e Galeria del Babba di Venezia,
ché
a me un grosso per libra intende ei venderli.
35 Io, che già a
peso d’or comprarsi, e correre
di
provincia in provincia un tempo scorsili,
«E
chi or si pregia?» l’addimando; e ostentami[86]
e
Petrarchi, e Petrarchi in
grande e in piccolo,
col
comento novel stampato in Modona
40 d’insigne
Murator ben degna fabbrica,[87]
e
bel sudor di quell’ingegno ingenuo:
deh
perché sopra ai versi miei non sparsesi
per iscoprir de’ veli lor le grazie,
che
vereconde entro que’ carmi ascondonsi?
45 Mostrami poi vecchie
raccolte, ed avido[88]
con
cento autor del Cinquecento assaltami.
Io
li vidi color, ma qual Virgilio[89]
da
lo sterco un po’ d’or cogliea per Ennio,
scelsi
quanto in lor spine avea di florido;
50 e a pietà mosso
della lor miseria,
poiché
polverulenti allor giaceano,
generoso
ch’io fui, per sin lodaili[90]
nella
Fonte d’Apollo, ed in mio biasimo
dal
secol reo la data lode or torcesi?
55 Mi soggiungono
poi di certa Arcadia,[91]
ch’osa
a fronte di me sul rio che mormora
seder
per gradi a risuonar le fistole,
ch’io
secondo, a’ tuoi labbri, o dio degli arcadi,
applicai
giovinetto, intento a correre
60 sull’orme prime
del non coetaneo
Sincero
mio; ma poi, correndo agevole,
lo
superai sì, che a tergo rimasomi,
sui
canti suoi là negli Elisi arrossasi.
Già
nel Bosco Parrasio all’ombra ir gli arcadi:[92]
65 già nel Peloponeso a sé fan patria,
et
ad onta de’ Traci, e poi de’ Veneti,
campi
non suoi distribuirsi ardiscono,
e
addattarne superbi ai nomi i titoli.
Io,
se me lodar vo’, costor non biasimo.
70 Anch’io Filen mi nominai; per Fillide[93]
arsi
ancor io finto pastor, né spiacemi
che
il buon Sincero or dall’Arcadia esaltisi,
e
al lor tenero stil m’è forza applaudere:
così
fosse fiorito, e dolce, e fertile[94]
75 delle a me care
e sé cozzanti antitesi,
e
di spicche figure, e di metafore,
e
di parole, in cui come è disimile
il
senso lor, sì la pronuncia è simile.
Cotai bellezze a piena mano io semino,
80 onde improvvisi
i concettin germogliano,
che
gli eviva sonori a me riscossero
da
quanti Italia, e Spagna, e Francia ha popoli.
Pur
me, che avriasi a venerar, deridono,
onde
mi scelsi ad abitar questi eremi,
85 ‘ve dal secol presente
appello al postero.[95]
Ma
qui ne meno assicurata io veggiomi
dagl’insulti
febei la solitudine.[96]
Ecco
là un petrarchista; ed ecco un arcade,
entrambi
pazzi. Ad una micia abbracciasi,[97]
90 perché fu il
bruto al brutto mastro in grazia
il
secco Cecco; e per le corna un succido
sacro
irco a Pane il pastorel strascinasi.
SCENA SECONDA
Mirtilo, M. Cecco, e detto.
mirtilo Misero me, che invan
son Dianidio,[98]
se non mi
frutta or di Diana il tempio
colle vittime
sue nell’alma Arcadia,
né
pure un capro, onde comprar la grazia
5 della mia pastorella:
io per Cosmopoli
più
bel di questo non trovai, che involvesi
di
quattro intorte armi la fronte, e sfidavi,
irci rivali, a cozzar seco. O nobile
capro
guerrier, deh mansueto ed umile
piega
il capo, e le corna in sé volubili
10 al bel piè di
colei che fa la polvere
sol
tantin, che la tocchi, amena e florida,
e
né pur orma (ei va sì lieve) imprimevi.
La
ninfa mia dalla sua crespa ed aurea
fronte
al calcagno ritondetto ed agile
15 tutta è
bellezza, e dispostezza, e grazia.
L’api non sazia mai timo odorifero,
né
le cicale la rugiada sazia,
né
mai Mirtilo sazia il bel di Sostrata.
Ohimè
qual nome! Ei non è nome arcadico:
20 non vi è per
entro il pastorale: imparino[99]
i
boschi a risuonar meglio Artemisia.
Ma
per ninfa ancor troppo ha dell’eroico.
Artemia
diciamla, e non diciamola,
anagrammatizzando il nome, ed ordine
25 di men nobile
suon diasi alle sillabe,
e
d’Artemisia alfin n’esca Amirtesia.
Amirtesia, bel nome, in te pronunciasi
parte dell’arboscel che suona in
‘Mirtilo’.
Sacro
è a Venere il mirto, o come accordasi
30 anche al genio
de’ boschi il tuo piacevole
congiungimento
delle amene sillabe!
Or
sì compio il piacer di amante e di arcade.
m. cecco Amor mi tese una leggiadra insidia
celatamente.
Ma tal voce «insidia»
35 perdonimi qual è poeta, o tienesi,
non
sarà cosa mai da petrarchevole,
che
dal Petrarca mio mai non pronunciasi.[100]
Seguo
madonna anch’io: le luci tremule,[101]
che
fanno intorno a sé l’aria e il suol ridere,
40 armar quell’arco,
che a lei pur non mostrasi.
Però
ad Amor non fu onore, al mio credere,[102]
ferir
me di saetta allor ch’io fidomi,
e
lei lasciar dalle sue frezze ir
libera.
Ahi, che un pregio le manca, ed è che Sostrata
45 e non Laura, o
Lauretta, ella si nomini.
c. marino Ecco
un altro rivale, un’altra insania.
Io
giammai non amai di donna il nome:
chiamisi questa od Artemisia o Sostrata,
sinché
ha il volto di rose, e finché brillanle
50 due stelle in
fronte, e i due rubin sorridonci
delle
sue labbra, e che due filze iscopronci
di
perle orientali, e che il crin aureo
in
preziosa pioggia il capo inondale,
io
l’amerò, se fosse Lena o Taide.[103]
55 m. cecco
Cercato ho sempre vita solitaria
piena
di quella dolcezza ineffabile,
cui
non saggian la gola, il sonno, e l’ozio.[104]
Ma
dalla vista serena ed angelica
or
son condotto in quella parte a volgermi,[105]
60 che disgiunta è
da me per piccol aria,
dove
madonna si disface in lagrime.
S’
io credessi per morte alfin scarco
essere[106]
dell’aspro
giogo, a cui con te m’accoppio,
sì
il filo a cui s’attien mia vita è debile,
65 che darei volentier l’ultimo scoppio;
ma
del caldo desir che il cuor distruggemi,
il
mezzo e il fine al principio rispondono,
e
vivo sì, che fuor di speme io vivomi.
A
te, dolce animal, che dai lo stroppio[107]
70 ultimo a tai che sovra i tetti stridono,
e
quanto opponsi ai denti lor si rodono...
mirtilo Io mo
«gatta» direi. (fra sé)
c. marino Gli è basso: arridemi
«bella
tigre pigmea». (fra sé)
m. cecco Per me ricorrasi.[108]
Placami tu
(no, non si può dir «placami»).
75 Vincimi tu la
mia nemica. Io mandoti
in
dono al mio bel sol: m’abbracci, e sgnavoli?
Sgnavoli? E tu, che sì al Petrarca amabile
un
tempo fosti, or mi farai dir «sgnavoli»,
abborrita
da lui parola orribile?
80 c. marino Deh
con qual core, o petrarchista ed arcade,
redivivo
il Marin per voi deridesi?
E
pur nel fonte, ch’io cantai, d’Apolline
ebbe da me fama la fiamma eterea[109]
di
chi amò un lauro in sulla Sorga, e fecesi
85 rival d’un dio, che sul Peneo già strinselo;
onde
il verde arboscel, che fassi
in cenere
lunge ai rami cader di Giove i fulmini,
le
saette d’Amor ferir poterono.
E
tu, pastor, d’onde imparar le fistole
90 meglio che dalla
mia Sampogna
i sibili?
E
tu, ingrato, mi beffi, ed opra e studio
metti
a rapirmi la pudica vedova;
e
addocchiata, che l’hai, corri con impeto
per
seco disfogar l’accesa furia.
95 Io l’arrivai sul
margine odorifero[110]
della
fonte vicina, ov’ella i fulgidi
soli
dell’alma mia dentro il bel nuvolo
della
palpebra nascondea, giacendosi:
e
sì leggero io mi accostai, sì timido,
100 che sotto il piè l’erbe né men si torsero;
ma,
lasso, ahi se n’accorse, e, come un aspido
veduto
avesse velenoso e squallido,
del
volto bel discolorò le porpore,
e
per timor qual violetta mamola
105 divenne esangue a maraviglia e pallida.
Non
però stette ad aspettarmi; e subito,
in
quella guisa che smarrita tortora
suole
involarsi, o ver colomba semplice
a
fero artiglio di falcone o d’aquila,
110 accelerando il piè
spedito e libero
diessi ratta a fuggir tra i più folti alberi.
Di’
mo il tuo caso, e giocherò, sia giudice[111]
lo
stesso Febo, che sì vivo e facile
tu
nol saprai ne’ carmi tuoi dipingere.
115 Otto sdruccioli
sol te a compor provoco
della
grazia de’ miei su lei che posasi.
Ti
sfido, eccoti i miei: se puoi tu vincili.
«Il
gorgheggiar degli augeletti garruli,
a cui dal cavo speco eco tu
replichi;
120 il mormorar de’
ruscelletti placidi,
che
dolce van l’onde nel margo a rompere;
il
ventilar degli arboscelli tremoli
ammaestrati
a sibilar dai zeffiri,
allettar
lei, che sulle sponde tenere
125 in un tranquillo
obblio gli occhi composesi».
mirtilo Ma versi, o sensi odo non tuoi.
c. marino Gli Elisii,[112]
dov’ei sedea fra Mosco e fra Teocrito,
abbandonò
il Marin: del secolo eccolo
a
illuminar la cecità palpabile.
130 m. cecco Tu il Cavalier Marin?
mirtilo Tu
dagli Elisii?
c. marino Ben
desso son, ben desso son: guardatemi.
m. cecco Ah ah ah.
c. marino Sì pur, ridetevi:
de’ pazzi in
bocca ognor le risa abbondano.
SCENA TERZA
Penulo,
e detti.
penulo Eccoci i tre che per li versi impazzano:
se il loro
aiuto a colei vincer giovami,
con tal mercé
sin la stoltezza piacemi.
Qual
di voi, gran poeti (e non senz’utile
5 la grazia sia)
vuol compor versi e venderli
a
me, che miei si potran dir s’io comproli?
I
quai vedova bella agli astri esaltino,
che
imitando Artemisia, e in un Vittoria,
il
defonto suo sposo invita a piagnere
10 i versi altrui, mentr’ella in sul cadavero[113]
gli
occhi, oimè di tal sorte immeritevoli,
e
notte e giorno a lagrimar si stuzzica.
m. cecco
La bella donna, e l’importuna
nebbia
dei
martir che del suo bel cuor fan strazio,
15 ange me ancor,
sì ch’empio i boschi e l’aere
di
quei caldi sospir che a lei sen volano;
e
la cruda né pur gli accoglie, e cacciali,
ma
ritornar onde partir non degnano.
Ed io, poiché
tornare a me non degnano,[114]
20 lascioli errar per questa folta nebbia,
che,
sospinta qual è dal vento, cacciali,
e
qual essi di me, di lor fa strazio;
onde
qua e là que’ miseri sen volano,
e innevitabilmente assordan l’aere.[115]
25 Io vo’ più tosto
farmi un liquid’aere
che a quelle
luci, che il mio mal non degnano,
cantar gli
altrui sospir che a lei sen volano,
e a’ suoi mesti pensier accrescon nebbia,
che
del suo, del mio cuor fan doppio strazio;
30 onde ha ragion
se li spaventa e cacciali.
SCENA QUARTA
Mirtilo, cavalier Marino, e Penulo.
mirtilo Va’ per versi d’amore a chi non sentelo.[116]
Arde me pur
la bella ninfa e candida,
a
cui, più che a Diana, offrir le vittime[117]
nel
tempio suo si doveria da Mirtilo;
5 e per questa,
cui Pan dispari fistola[118]
consegnò
ai labbri miei, farò discorrere
nel
nome suo le melodie degli aliti;
a’ quai le driadi ed i silvani e i satiri
solleveran le acute orecchie, e i sibili
10 sospenderan fra i ramuscelli i zeffiri.
Io
cantar per altrui? Così faticasi,[119]
api,
da voi, ma non per voi; tal arasi,
bovi,
da voi, ma non per voi; tal portasi
da
voi, ma non per voi, la lana, o pecore.
15 Va’ per versi d’amore
a chi non sentelo.
SCENA QUINTA
Cavalier
Marino, e Penulo.
c. marino Quand’io
Lete varcai nud’ombra aerea,[120]
per
privilegio delle dee castalie,
meco
pur navigò l’aurea mia cetera,
perch’eterna laggiù vivea memoria[121]
5 come passò con
essa il cantor tracio;
onde
il sasso a Ision, la rota a Sisifo,
quello
il peso sospese, e questa il turbine,
e un sorso almen non fu conteso a Tantalo.
Ma al mio
ritorno in questa spoglia fragile
10 l’alma, che riguadò soletta e misera,[122]
lasciò la cetra
abbandonata ed orfana;
tal che
povero d’or, merce promessami
io non ricuso,
e canterò di Sostrata,
o il crin sottile che disciolto sventola,
15 o gli occhi atti
a ferire a par d’un folgore;
e tacerò come
da serpe libica
nudrida parmi, o pur del latte
barbaro
delle fere
odorifere d’Armenia;
poiché qual
scoglio all’onde in sordo oceano
20 costei fu sempre
a’ pianti miei durissima.
penulo Un zecchin
ti darò, se un pertichevole
sonetto
a me tu comporrai, che Sostrata,
la
novella Artemisia, innalzi all’etera.
c. marino Petrarchevol vuoi dir, non pertichevole.
25 Prendi questo
volume, ed i pierii
sudor ne assaggia, e gli occhi tuoi ne abbevera.
penulo Questo è il Petrarca?[123]
c. marino È
la mia Lira; ed eccoti
le Boschereccie, Amorose, Maritime,
Sacre, Morali, Lugubri ed Eroiche,
30 e l’altre miste d’argomento vario.
Ma
che? Tu capo volti il frontespicio?
penulo Il precettor sì m’insegnò di leggere
sempre
al rovescio le segnate lettere,
perché
in leggerle ritte ogni altro è pratico.
35 c. marino Ve’
di pedante anzi inudita astuzia![124]
La
leggiadra canzon dunque al rovescio
leggi
sovra la rosa, e che incomincia:
«Or
che d’Europa il toro»: ella ha d’insolito,
ché
dell’egloghe all’uso è fatta a dialogo;
40 e qui Tirsi e là
Mopso i carmi alternano.
Alto
leggi.
penulo
Sogl’io tacito scorrere[125]
gli
scritti sensi: così meglio imprimoli
nell’intelletto.
c. marino Io ti farò quatordici
versi vivi
così, frizzanti e fluidi,
45 che lascieran l’alme e l’orecchie attonite;
e
sugellati io drizzerolli a Penulo,[126]
che
leggendoli solo e rileggendoli
gli
scolpirà dentro la sua memoria,
sì
che potrà quai suoi spacciarli e spargere.
50 penulo
Leggerli? Io no. Non li mandar,
ma recali,
ché
dal tuo recitarli io bramo apprenderli.
(Fra sé) Ma non vorrei già confessar che il leggerli
arte
non fu, né sarà mai da Penulo.
Esciam di qui, che non ci colga Sostrata,
55 e del concerto
insospettita accorgasi;
né
mi rivegga più che petrarchevole;
e
tu giura a un guerrier par mio silenzio,
o
il tuo capo, e il zecchin, ne andran
per aria.
c. marino Per
gli strali d’Amor, per le pegasee
60 fonti il Marin
fede e silenzio or giurati.
SCENA SESTA
Sostrata, Cornia.
sostrata E pur vuoi ch’io riveda il severissimo
ciel, che
alle braccia mie nella più giovine
e
più amorosa età rapì il mio Panfilo?
Panfilo
mio, quando potrò mai sciogliere
5 tutta in
pianto fedel la vita misera,
e
te fra’ morti a mio piacer raggiugnere?
cornia E quando mai la finirem
di piagnere?
D’asse chiodo
con chiodo alfin discacciasi,[127]
e perduto
piacer con quel che acquistasi.
10 Il volto tuo,
che la natura feceti
così gaio e
avvenente, altro che lagrime
mostra voler:
vuol lusinghiere e tenere
occhiate,
inchini, e novo laccio, o Sostrata.
Tu il vedi:
or siam fra pazzi; e pur ve’ savio
15 quanto ognuno è
in amarti: hai già una pecora
ed una gatta
in dono; e qual da poveri
stolti
attender si può più vivo indizio
di vero amor
che lo spogliarsi e il porgere?
sostrata Pria mi s’apra il terren,
ch’io rompa e violi
20 la fé giurata al caro mio cadavero;
non
la violerà giammai quest’anima;
non
se l’arcade stesso e il petrarchevole[128]
la
vena lor, ch’io bramerei, poetica,
altro
ben, che due bestie, in don recassermi.
25 Non, se il guerrier mi desse lena e spirito
da
superar la Davala Vittoria.
Ma
è poi ver che sien pazzi i tre, ch’io veggiomi
girar
d’intorno sospirosi e pallidi,
ciascun de’ quai m’alza alle stelle, e cantami?
30 cornia Dai guardian
di questo infausto ospizio
sento
esser folli in quello sol che aggirasi
per
le lor teste, ove tutt’altro è serio.[129]
sostrata E che vuol dir quel ritrattino in
tavola[130]
che
usa qui messer Cecco al petto appendere?
35 cornia E che vuol dir sul capo suo la
laurea,[131]
la cocolcata zimarra purpurea?
Voglion dir ch’egli è pazzo in ciò: ch’estimasi
un
Petrarca novello, e trar non osasi
per
lui parola, non dirò, ma sillaba
40 che nell’amato Canzonier non
leggasi.
Quel
ritratto è di Laura, e perché narrasi
che il
maestro amò una micia, a gloria
anche in
questo imitarlo il folle arrecasi.
Spasma
d’amor nei dì sacrati a Venere,[132]
45 onde cantar,
sempre ch’ei canti, ascoltasi
«Era il giorno che al sol si scolorarono»
ecc.
sostrata E quell’altr’uom, che di pellosa e ruvida[133]
spoglia
s’avvolge, e sul bastone appoggiasi,
benché d’età lontana
alla decrepita,
50 cui di pino e
d’allor cinte verdeggiano
le
bionde tempie, ed una tasca allacciasi,
e
col soffiar nella sampogna assordaci?
cornia Odo quest’altro esser bel pazzo. Egli
arcade[134]
pastor
si vanta, e cittadin di patria
55 illustre nacque:
ei le gran scole e i portici
natii
sdegnando, alle foreste, ai liquidi
fonti,
alle rupi cavernose ed orride,
ed
all’eco insensata i carmi or recita.
Arrossisce
a portar la lunga e serica[135]
60 toga al suo
grado e al suo natal dicevole;
e
fassi onor
d’impellicciarsi, e rustico
gode
apparir, dolce insegnando all’aere
della
sua pastorella il nome accogliere,
ch’altre
volte fu Nine, e fu Amarillide,
65 ed or sei tu
ch’ei nominò Amirtesia.
Ma,
se un altro bel nome, e più bucolico,[136]
io
fingerò, che sì, che a te rapiscolo?
Già
col dardo d’un Clori, il qual dall’egloghe
meglio
s’abbracci, io lo conquido, e sfegato,
70 e per quei fior
che dal mio bel piè nascono,
dietro
al balen di questi rai strascinolo,
del
pastor, della greggia incanto e fascino.
D’armi, ei canti, o d’eroi; coll’allegorico
vel della selva e della pastorizia
75 vita, o pur
dell’armento, il tutto ei maschera.
Chiedi
il suo nome? Ei ti dirà: «Son Mirtilo,
che
pasco greggi entro l’Arcadia a un tempio
sacro a Diana, ond’io son Dianidio,
con
mille altri pastor, che lungo il rapido
80 d’Aretusa
seguace Alfeo diportansi,
e
al suon d’avene e di sampogne querule
d’amebei
cantilene a gara alternano».[137]
sostrata O se tu fai la poetessa! i termini
possiedi
già, non sol di petrarchevole,
85 ma d’amebei, d’eglòghe, e di bicolico,
nomi
a me prima ignoti, e ch’ora invidioti.
Potessi
io pur, non da costor sì succidi,[138]
ma
dal garbato e generoso Penulo
apprender
l’arte de’ soavi cantici,
90 per
cui Laura eternò disciolta in spirito
d’Arno
il canoro insuperabil genio,
che
spanderei dolce vena a piangere
lui,
che all’ombra immortal de’ mirti elisii
con
Artemisia alla sua destra e Mausolo,
95 e con Vittoria
alla sinistra e il Davalo,
me,
che in fede le vinsi, attende e chiamami.
cornia Io non fo la saputa; ma gli eroici
tuoi
sensi m’han da villanella, e Cornia,
cangiata
quasi in gentildonna, e in Sostrata;
100 ché il lungo
conversar tai cose genera.
Arroge
poi che com’io tresco e spazio[139]
per l’ospital, questi poeti attornianmi,
tal ch’io
divento o poetessa o stolida,
non so qual
delle due maggiore insania;
105 e sol d’esser qual
sono allor ricordomi,
ché soffro
mal lo sbadigliar famelica,
e che un
pazzo amerei trovar, che prodigo
gittasse il suo; ma per disgrazia io trovone
di quelli sol
che avari sono, o poveri;
110 ché il cibo e
l’oro a me sariano un Panfilo.[140]
sostrata Rider mi farestù,
se non che piagnere
irrevocabilmente
ho fisso in animo.
Ma
che dirai di quel cotal, che lacero[141]
in
mantel bruno ed in farsetto avvolgesi,
115 e sgominato, e
raro, e riccio, e grigio
ha
un crin, ch’oltre non va della collottola,
e
su la fronte in un ciuffetto pullula,
su
la fronte sparuta, ove incavernansi
l’accigliate
pupille, a cui le prossime
120 rilevat’ossa al par delle mandibole
la
smorta guancia e macilenta incavano?
O
figura d’amante, a cui s’inspinano
le
due labbra di baffi intorti ed ispidi,
e
il mento in quadra aspra barbetta termina!
125 La conostù?
cornia Quegli odia
il petrarchevole,
vecchio
antico rivale, e il giovin arcade.
E
s’immagina un uom, che ha più d’un secolo[142]
che
diè l’ultimo scoppio, ond’ora
è cenere.
E
fu quel Cavalier Marin, cui Napoli
130 stette estatica
intorno e il bel Posilipo.
Or
s’è distorta in capo suo l’immagine
d’esser
quel desso che da’ Campi Elisii
richiamato
a quest’aure a noi resusciti,
perché
con lui le glorie sue risorgano,
135 e inver n’ha da natura insin
l’effigie.[143]
Quinci
in ira gli son quei due, che incolpansi
di
aver tolto l’onor coi carmi ingenui[144]
delle
lor scole alla fiorita e prodiga
vena
sua lusinghiera ed arrendevole,
140 con cui lieve
all’orecchie il nuovo Apolline
(che
tal parve il Marin) dall’accademie
riscuoteva
a sue ciance applauso e gloria;
dove
or caduto in povertà d’encomii,
che
intorno a lui, come solean, non suonano,
145 anzi a color, che
l’applaudean, ridevole,
volle
perseverar nel suo proposito.
Perché,
siccome suol la moda libera
nell’inventar
fissù, randiglie, e cuffie,[145]
oprar che sempre girino e rigirino
150 alternamente con
perpetuo circolo,
così
sper’ei che, sua mercé, ritornino
le
dimesse sue rime in pregio, e sfiatasi,
intestato
egli sol d’ir contro all’empito
dei
più savi poeti, e di confonderli;
155 ma, abbattuto e
confuso, ed in chiamandoli
pazzi
tutti, in pazzia però li supera,
e
deplora del mondo miserabile
la
cecitade, ei ch’è più cieco. Or eccone
un
altro.
sostrata Ove
ne aspetta il bel cadavere
160 andiamo a
consolarci.
cornia Io
più consolomi[146]
nell’ascoltar
costui, che, come all’aurea
età
suppon che, cantando, parlassesi,
musico,
qual si sia, favella in musica.
Ve’,
qual tasteggia un picciol gravecembalo
165 che gli pende
davanti.
sostrata Egual stoltizia
chi vide mai?
Gir me ne vo’.
cornia Trattieniti
per
quell’amor che porti alla buon’anima.
SCENA SETTIMA
Lofa, e dette.
lofa (Canta sempre, accompagnandosi con uno spinettino)
Farfalletto ingannato[147]
intorno
aggirasi
agli ardenti tuoi rai,
che
dolci accendono.
5 M’agito
sventurato,
e
meco adiromi
che a incenerirmi assai
cura
non prendono.
Farfalletto
ecc..
10 Navicello
in quel mar vago e ceruleo
già m’abbandono, e le
tempeste insorgono,
ma più mi è caro il
naufragar che il vivere.
Ape tu sei, che col
pungente aculeo
fai scontar da tue
labbra il mel che porgono;
15 ma
la ferita mia, che val descrivere,
se la tua crudeltà mai
non si sazia,
e l’impetrar da te la
morte è grazia?
Sostrata
bella e ria
vienmi ad uccidere.
20 Ma
della morte mia
deh,
almen non ridere.
Sostrata ecc.
sostrata O che faccia, a mirarla, e vecchia e
giovine,[148]
sì
è crespa e imberbe, ond’è che in lei si accoppino
25 apparenze di
maschio e in un di femmina;
ma
di femmina più; ché quella lubrica
voce
sottil non ben coll’uomo accordasi.
lofa Ma
a’ miei soavi ed amorosi numeri,
Sostrata, non rispondi?
sostrata E chi rispondere
30 vuol, non
cantando, a chi le parla in musica?
lofa Non altrimenti l’usignuolo querulo
sfoga
gli affetti, e il cardelin purpureo
così
sue pene all’augelletta esagera.
E
l’uom, pria che il fallir suo corrompessegli[149]
35 la sua favella
originaria, udivasi
per
natura cantare: or l’arte giovici
a
tornar la favella al suo prim’essere;
e
da men degli augei non sia più gli uomini.
sostrata Parla dunque agli augelli; e quei
rispondano
40 colle musice note ad uom che imitali,
non
io, che sul sol fa mi re non regolo
quest’ingrata
mia voce. Il ciel mi fulmini
pria
che con altro amor l’amor contamini
giurato
a lui, che nel medesmo tumulo
45 m’aspetta, e da
me chiede illustre esempio
di
fede intatta alle future vedove
per
meraviglia all’avvenir dei secoli.
SCENA
OTTAVA
Lofa, e Cornia.
lofa Come in sua pania[150]
l’augellin smania,
né scioglie l’ala, o il
piè;
tal io dibattomi.
5 Ma
già mi svincolo
dal
primo vincolo.
Da chi schiavo mi fé
Cornia,
riscattomi.
Come in sua pania ecc.
10 cornia Orrido l’amor sempre è ad una vergine
senza
l’onesto fin del matrimonio.
lofa
Ponno
insieme sposarsi i cori e l’anime.
cornia Mi dicea
mamma mia che ciò non bastaci
per
esser spose.
lofa Altro non è possibile.
15 cornia Ma perché no?
lofa Perché la bella e musica[151]
voce
a me mancheria, se non mancassemi
condizion che all’imeneo richiedesi.
cornia Io non penetro i tuoi nebbiosi
oracoli.
lofa Questa eunucheità
mia liscia opponesi
20 in me al tuo
vivo e vano desiderio.
cornia O parolaccia, che mi pute e nausea
produce
in me tal che, se resto, io vomito.
O
per ciò che non mancati, e che mancati,
egualmente
alle donne ingrato e succido,
25 ché di caprone
olezzi, e ché l’infamia
sei di due sessi, non uomo, non
femmina,
mezzo
l’un mezzo l’altra, e tutto bestia.[152]
SCENA NONA
Lofa.
lofa Fra cotanta fierezza e tante
ingiurie
io non vo’
per lo men partir senz’aria.
Atta
sarà questa a placar le furie
della
sorte ribalda a me contraria.
5 Mi consolino
Zeffiro e Favonio
dell’impossibilità
del matrimonio.
O venticelli che intorno scherzatemi,
consolatemi:
il cuor per voi ristorasi,
per
voi, sempre a seguir chi sempre fuggemi
10 m’odia
e struggemi, l’alma ognor rincorasi.
O
venticelli ecc.
Fine dell’atto secondo
ATTO
TERZO
SCENA
PRIMA
Penulo.
penulo Or Marte, Ercole, Achille, Aiace ed
Ettore[153]
venite tutti
al paragon di Penulo,
e partitene vinti. E qual
vittoria,
sia
di Patroclo o dell’ars’Ilio, o siasi
5 di
leon, di chimera e di stinfalidi
(nomi
incogniti a me, nomi a me barbari,
che
Sannione proferire insegnami)
emular
può le penuliache glorie?
Domo
si rese al mio saper l’orribile[154]
10 mostro dell’ignoranza,
e son, s’io credolo
(e
chi nol crederebbe?), all’uom di Napoli,
un
letterato, un gran poeta, e facciomi,
come
Sostrata brama, un petrarchevole,
che
de’ versi non miei fecondo ammiromi,
15 siccome suol rozzo inserito un albero
che
le novelle frondi e le non proprie
poma
spuntar dal tronco suo rimirisi,
senza
il come saperne, e sente stupido
intorno
a sé l’ortolanelle a coglierle
20 e farne dono ai villanei, che bramano
altro
che poma dall’amate vergini;
bella
del Cavalier similitudine!
Io
son dunque un poeta, e mel rammemoro,
come
rammemorai l’antiche e celebri
25 vittorie mie che
Sannion descrissemi.
Forse
ch’altre ne tacque; a lui ricorrasi
per
ben tutte saperle, e s’io vi numero
anni miei
dall’imprese, ho trenta secoli
quando aver
sette lustri io sol credeami.
30 E questo è mo quel che talor raccontasi
dei
gloriosi eroi ch’eterni vivono;
onde
avvien che in etade altrui decrepita[155]
ancor
mi sento vigoroso e giovine,
talché
la bella eternità promettomi,
35 e canterò,
poiché poeta io dicomi,
le
mie battaglie a me da prima incognite
sinché
alla saporita amabil vedova
per
meraviglia ambe le ciglia inarchinsi.
Eccola.
Il mio sonetto a lei fo leggere?
40 O qual io dal
Marin l’appresi il recito?
Ma
se poi erro in recitarlo? Accorrere
già
non posso alla carta: io petrarchevole
son, che non
so né scrivere né leggere,
e
guai a me se di ciò scaltra avvedesi.
SCENA SECONDA
Sostrata, Cornia, e detto.
penulo Il domator de’ più tremendi eserciti
alla tua
vedovanza, o donna, inchinasi.
sostrata Non so che far d’uom prode e sanguinario.
Tre
poeti ho d’intorno, e vuol disgrazia
5 che il più
secco di lor sia il petrarchevole,
ma
il suo Petrarca alfin farà ch’io ‘l tolleri
per
imparar l’arte canora e nobile,
che
in me sol manca ad eternarti, o Panfilo.
penulo S’altro non chiedi tu che un
petrarchevole,
10 onde impari a
cantar, perché ricusimi
or
che del gran Petrarca un guerrier emulo
hai,
se lo vuoi, nova mia Laura, in Penulo?
sostrata O, se tanta gli dèi mi fesser grazia!
penulo Fole non ti vend’io:
non hai che a leggere
15 questo sonetto
ove imitai le serie
rime
del buon poeta; e sai se celere
io
lo composi?
sostrata O lieta me! Leggiamolo.
Gnaffe, s’ha dell’antico il tuo carattere!
penulo So il Petrarca imitar sin nello
scrivere.
20 sostrata Stammi tu sopra, e se intoppassi,
aiutami.
penulo Le note mie vo’ che t’avvezzi a intendere
da per te sola, onde, idol mio,
figurati
ch’io
non possa aitarti.
sostrata Io pria vo’ scorrerle
Per
provar se le intendo.
penulo O così: studia.[156]
25 sostrata Difficiletta è la scrittura: or pratica
già
ne
divenni in un baleno. Ascoltami.
«Diva
immortal, ch’entro - un mortal
ricovero
marmoree
- tombe indegnamente accolsero,
io
quei gelidi sassi - inver rimprovero,
30 che a così
ardenti - rai non si disciolsero».
O
gran Petrarca! «Rai non si disciolsero».
Te benedetto,
e chi sì bene imitati!
Quel
disciogliersi i raggi, oh Dio, trafiggemi
di
tenerezza! Inver sei petrarchevole.
35 «Neso», che vuol
dir «neso»?[157]
penulo E non ricordati
della
promessa mia, ch’è di non leggerti
quel
che per te non intendessi? I nobili
guerrier di sua parola unqua non mancano.
Studia
su quelle note: il ciel propizio
40 vuol che su lor
tue belle luci impieghinsi.
Addio.
sostrata Studio
prometto, e gratitudine.
SCENA TERZA
Sostrata, Cornia, cavalier Marino
sostrata Ma che impaccio è costui!
c. marino Mio
sol, che illumini.
sostrata Via da me marinista. Io, così vedova
come mi vedi,
sono un’Artemisia,
e di più, ad
onta tua, son petrarchevole.
5 Come Artemisia,
non vi sia in Cosmopoli
chi
di novello amor tentare ardiscami:
e come petrarchevole, chi vomita
le
frasacce dismesse di Posilipo
lunge si stia dal panfiliaco Mausolo,[158]
10 e col suo dir
non ne profani il tumulo.
c. marino Or
sta a veder che l’ignoranza insegnami.
sostrata Se apprender vuoi come un sonetto intreccisi,
ascolta me,
che i versi miei ti recito
cui
composi a sfogar del cuor la smania.
15 c. marino Tu
poetessa in un baleno?
sostrata Apolline
mi favorì.
c. marino Fa questo dio miracoli,
mentre a’ miei dì, come i fonghi prorompono,[159]
nasconmi in man le poetesse, e crescono.
Ma
sopra che tu poetasti?
sostrata In
dubbio
20 lo rechi tu?
L’alto argomento è Panfilo.
c. marino Leggi
mo, ch’io t’ascolti.
sostrata Or odi, e invidiami:
«Diva immortal,
ch’ entro - un mortal ricovero
marmoree
- tombe indegnamente accolsero,
io
quei gelidi sassi - inver rimprovero,
25 che a così
ardenti - rai non si disciolsero.
Neso...»
c. marino (A parte) Il sonetto è ch’ ho venduto a Penulo.
sostrata E che vuol dir quel borbottar? Commisero
la
tua pazzia.
c. marino Sostrata
mia, mal tollero
che tu scambi
le pause, e che confondasi
30 il punteggiar
delle quartine: ascoltale!
«Diva immortal,
ch’entro un mortal ricovero
marmoree
tombe indegnamente accolsero,
io
quei gelidi sassi inver rimprovero,
che
a così ardenti rai non si disciolsero.
35 Né so come a que’ membri, a cui si
volsero[160]
i
lumi tuoi, che quai due soli annovero,
poiché
i lampi vitali in sen ne accolsero,
il
cor resti di vita ignudo e povero.
Con un sol
po’ di sol Prometeo l’anima[161]
40 a statua diè: ma cinto di papavero
lo
fa Morfeo giacer; né invan presumolo;
però
che il guardo tuo lo scalda e anima,
ond’ei dormendo, ei, che si par cadavero,
desto,
ti farà talamo del tumolo».
45 sostrata Come? Tu i versi miei serbi a memoria?
c. marino Quanto
sgorga da te, ben tosto inondami.
sostrata Ma tanto avanti io già nol lessi, e il reciti.
c. marino Il
precorsi coll’occhio acuto e linceo,
e il caratter m’è noto.
sostrata Il mio?[162]
c. marino Carattere
50 tuo quell’è. (a parte) Questa è tronfa:
io ‘l feci e scrissilo;
o
dèi persecutori! Almen si reciti
punteggiato
a dovere!
sostrata A un’Artemisia,
a
una Vittoria, ad una petrarchevole
vuoi
tu pazzo insegnar come si reciti?
55 c. marino Ma
quel sonetto è sovra a te, no a Panfilo.[163]
sostrata Ancor vuoi provocar la mia pazienzia?
Restati o vil, fra tue stoltezze, io vadolo
a
recitar sul caro mio cadavero.
O
qual piacer per la bell’ombra!
c. marino O tacciasi,
60 o il zecchino e la testa andran per
aria.
SCENA QUARTA
Cavalier
Marino, Cornia in disparte.
c. marino Imparate,
o poeti: oimè che giovaci
di molto Febo
aver calde le viscere[164]
se
siam costretti a tollerar da femmina,
che,
come suoi, nostri poemi or vantinsi,
5 e in faccia
nostra i piedi lor si stroppino,
noi
sofferenti, e che stil petrarchevole
nomisi quel del cavalier di Napoli.
O
Marino, a qual pena, a quale ingiuria
dai
pacifici Elisi il ciel richiamati!
10 O dell’ingegno
mio parti ingratissimi,[165]
che,
ribellanti al genitor, la gloria
sua
stessa in onta ed in martir torcetegli,
vi
diseredo io già come degeneri
dal
chiarissimo onor di vostra origine;
15 e
qual buon fiume, che i suoi figli rivoli
non
riconosce più da che l’oceano
riconobbero
in padre, e le melliflue
acque
lor corrompendo in amarissime
lo
stesso fiume ad insalsir congiurano,
20 tal, se ad
amareggiarsi in bocca a vedova
per
voi passò la dolce scaturigine,
che
spiccò dal mio ingegno intatta e vergine,
già
vi rifiuto, e come suoi vi abbomino.
SCENA QUINTA
Cornia.
cornia Non lo diss’io
che a star fra pazzi impazzasi?[166]
La mia
padrona omai troppo invaghitasi
di questa sua
fama di fede aerea,
non
contenta di starsi intorno ai balsami
5 del giacente
marito, e della boria
che
poche sieno ai nostri dì le vedove
da
gir per fede al paragon di Sostrata,
vuol
mo dirsi Artemisia e ancor Vittoria,
e
il suo Panfilo già non è Panfilo,
10 ma egli è (se il
chiedi a lei) Mausolo o Davalo;
e
vuol già far la poetessa, e in prestito
scrocca
i versi non suoi, quai suoi spacciandoli,
a
costo ancor di quel deriso e povero
napolitan, ch’essere un morto or sognasi,
15 il qual certo
gli avrà donati a Penulo,
che
come suoi li ha poi ceduti a Sostrata.
Ma
l’autor loro il rivelar non giovami,
poiché,
sebbene è vantator ridevole
il
soldato, egli è tal che sol regalami
20 fra questa
turba, onde il serbarlo in grazia
della
padrona è a me diletto ed utile.
Diletto egli
è perché, se non tradiscemi
la mia a me
sino ad or fedele astuzia,
già di mal
occhio Sostrata non miralo,
25 e, se ci fosse
un fenestrin che l’animo[167]
suo vedere al
di fuor lasciasse, io dubito
che in quel
suo cuor la prima sede egli occupi,
e che Panfilo
sia ridotto ad esserle
non più che
in bocca. Non vorrei le lagrime
30 attribuir, più
che all’antica smania,
al furor novo. Io sento già che il celebra
come avvenente
e liberal: gli encomi
son di genio
nascente in donna indizio.
La femminil prudenza ha i propri limiti,
35 oltre a’ quai, se trapassa, oimè, che sdrucciola
nella
lubricità di un’imprudenzia,
la qual scivola ognor nel suo
capriccio.
Mi son
provata a consigliarla, ed odomi
rimproverar:
dunque il suo peggio adulisi,
40 poiché le piace,
e con costor spassiamoci
or che n’è
forza abbandonarci e scorrere
là dove il
genio e la follia strascinaci.
Io più Cornia
non sono, o, se son Cornia,
vo’ provar,
sia con Cecco o sia con Mirtilo,
45 novi nomi. Io
sia Cornia e Laura e Cloride.
Già donne so
ch’han più nomanze e titoli[168]
che buchi
entro i merletti della cuffia.
SCENA SESTA
M.
Cecco, e detta.
m. cecco Io riedo, Cornia, a te qual Progne
riedesi[169]
colla sorella
al dolce suo negozio.
Il
mio negozio è addirizzato a Sostrata,
di
cui, tua mercé, far vorreimi uom ligio,
5 ond’ella fosse all’amor mio mancipio;[170]
non
all’amor, lo qual signore ed idolo
fatto
è da gente vana, ma il principio
ha
su tra i numi, e, ov’ha il principio, termina,
di
pensier santi nudrito, non
d’ozio.
10 cornia Per mercede ricorri indarno a Cornia;
ché
l’Artemisia mia tutti al suo Mausolo
consecrati ha gli affetti, e il busto esamine
adorar
vuol sinch’ella pur sia cenere;
ma
perché me coi nomi miei non nomini,
15 s’io Laureta mi chiamo, e Clori e Cornia?
m. cecco Laureta tu?[171]
cornia Sì ben.
m. cecco Già i sospir
movonsi
vèr quel nome che Amor dentro il cuor scrissemi;
e
il primo suon dei dolci suoi caratteri
di
fuor laudando a sentire incominciasi.
20 Vostro stato real che
poscia incontrasi,
all’alta
impresa il mio valor raddoppia;
ma
taci, grida il fin, che darle gloria
soma
è da altri ben che da’ tuoi omeri.
Già
a te seguire il mio desir traviasi,
25 nome de’ rami sì
cari ad Apolline;
nome
del vincitor trionfal albero[172]
di
cui poeti e imperadori onoransi.
cornia Non mi avrai, Cecco, ai voti tuoi
difficile,[173]
purché poi
l’amor tuo sia petrarchevole,
30 ch’ama sol per
amar.
m. cecco Dal cielo empireo[174]
scese il mio foco e al ciel per te ritornasi,
che
sei scala al Fattor chi bene estimati.
Ma,
o sotto verde lauro donna giovine,
interromper
convien quegli anni floridi,
35 perché col ben morir
più onore acquistasi
e
avrai virtù da far un sasso piangere,
né
al dir soave mai porrò silenzio,
ma
canterò per ventun’anni amandoti:
«Oimè
il parlar, che d’aspro un cuor fece umile,
40 ed oimè il dolce
riso onde il dardo escemi.
Alma
reale d’impero degnissima,
se
non fossi tra noi scesa tardissima».
cornia Cotesto amar da petrarchista, a
dirtela,
che
morte brama all’idol suo per piangerlo,
45 troppo per una
donna ha dell’eroico.
Sentiamo un po’ se come Clori all’arcade
piacer
potessi in miglior sorte, e vivere;
poiché
a fin di morir per me non amasi,
ma
pria per conservar la vita propria,
50 e poi per darla
a chi non dianzi aveala.
Amor
è un certo mal, per quel che dicesi,[175]
che
fa le genti, non morir, ma nascere.
m. cecco Se nella testa Amor pensier
non creati
di
aver pietà del mio lungo martirio,
55 dolci i tuoi
sdegni, e l’ire tue dolcissime!
M’invidieresti
se per te sentissesi
della
mia gioia la parte millesima.
SCENA SETTIMA
Mirtilo, Cornia.
mirtilo O Cornia bella, a che nega Amirtesia
saper da me
quel che i ruscelli e i zeffiri,
a’ quai parlo di lei, saper non negano?[176]
Ella
ha pur ne’ begli occhi amore, e spiralo
5 nell’alme
altrui, ma nella sua non sentelo.
Langue
col suo pastor la greggia misera,
che spaziando
per l’amene pratora
sospende
il muso dagli amati pascoli,
perché
colei dell’amor suo non pascemi.
10 Dalla capanna
mia bandito il tacito
sonno,
ricusa in questi lumi assidersi,
che
notte e giorno a lagrimar sol vegliano:
già
la sampogna mia copre alta polvere,
e
dentro a lei la bigia aragna annidasi
15 a far reti alle
mosche invan dolentisi;
mentre
sospesa ad un amaro salice
chiama
indarno i miei labri a darle il solito
onor del suono a cui s’affolla Arcadia,
ed
applaudon le ninfe, e Mopso
invidia.
20 cornia E come mai dal pastoral
tugurio[177]
tant’alto
forse il rustical tuo genio,
che
a cittadina, a gentildonna innalzisi?
Io,
che pur nata son fra selve e pecore,
umile
pastorella a nobil giovine
25 non ardirei di
offrir quest’alma ignobile;
e
se l’offrissi, io m’udirei rispondere:
«Va’,
Clori, va’ le pecorelle a pascere».
mirtilo Tu pastorella? e come Cornia e Cloride?
cornia Laura son,
per servirti, e Cornia e Cloride.
30 L’ultimo nome i genitor m’imposero,
Sostrata fu che mi appiccò il penultimo,
e
ficcommi il primiero il suo buon Panfilo;
ma
Clori ho dalle fasce, e tal mi nomino,[178]
come
nata alle selve, ai fonti, ai pascoli,
35 e so qual dalle
capre il latte spremasi,[179]
e
in giro accolto poscia insieme stringasi.
mirtilo Il bel nome, il natale, e
l’esercizio
tuo
pastoral di te, mia Clori, invogliami;
e
come ninfa, che per l’erma e florida
40 collinetta in
cercar la menta, incontrasi
in
famigliuola di fonghi
odoriferi,
scorda
l’erba cercata, e al frutto appigliasi
avidamente,
e tutta gola e giubilo
con
delicata man dal suol distaccali,
45 e, a imbandirne
la mensa, il sen riempiene;
così,
avvenuto in pastorella e vergine,[180]
la
traccia oblio di gentildonna e vedova;
e,
se tu non ricusi il puro e semplice
amor
d’un pastorello, il mio cuor eccoti.
50 Mirtilo e Clori, o come ben s’accoppiano!
E
quanto gioiran le selve arcadiche
ombra
facendo al nostro insieme assiderci,
e
al cantar, alternando a suon di fistola
le
delizie io di Clori e tu di Mirtilo!
55 cornia Mirtilo
mio, come dal lupo temono
sin
nell’ovil le pecorelle insidia,
onde
ai cani e al pastor si raccomandano
col
parlar, come fanno, allor che belano;
così
da Lofa, che per tutto attorniami,
60 per Pane tuo,
per Pale tua deh salvami;
ché
all’udirlo vicino il cuor già tremami.
SCENA OTTAVA
Lofa, e detti.
lofa In bocca mia, recitativo, or vientene[181]
sotto
le note musicali e lisce,
poiché
a te sono i bei passeggi in odio,
più
di quel ch’io mi pianga in odio a Cornia
5 dura al par di
qual marmo alberghi in Caria;
ma
cedi i labbri, egli è già tempo, all’aria.
cornia Ah ah ah ah ah.
mirtilo M’è
forza il ridere.
lofa Ride nel prato il fior
ride
su l’etera,
10 mentr’io qui piango il sol. Ride su l’etera,
ma quel crudel d’amor
vuol
che mia cetera
non suoni altro che duol.
Ride
su l’etera
15 mentr’io
qui piango il sol.
Che vuoi far,
Cornia,
d’un
pastorel, che cantar dice, e parlati
con
voce ognor sì roca e lamentevole[182]
che
a fronte sua parer soave e musico
può
in gonfio mar lo strepitar di borea,
20 tanto ingrato
all’orecchio, e ronza e fischiati?
mirtilo Che sì, che sì, che col vincastro
io rompoti
pria
lo strumento e poi le corna, e caccioti
la
pazzia musicale in un col celabro![183]
lofa Così vostra mercé, donzelle
tracie[184]
25 cadde il musico
Orfeo coi membri laceri,
e della morta
man la cetra vedova
raccogliendo
le muse, estinto il piansero.
mirtilo Tu, vivo e morto, ognor sarai ridevole.
lofa Ma ridevole è più chi male
adopravi[185]
30 aure, augei, venticei, farfalle e luciole,
pecorelle,
selvette, ed acque limpide,
tutte
parole a cui le note adattansi
di
noi cantor così leggiadre e facili,
ché
senza una di lor languisce ogni aria.
35 Voi costor sì, che per follia fansi arcadi,
colle
ruvide voci ognor profanano,
e
su voi sempre i carmi lor raggirano,
cui
dicon canti, e grida son dell’aride
cicale,
allorché sotto i lunghi e fervidi
40 soli, assetate
dagli arbusti, stridono.
mirtilo Scendami i fiori a stritolar la grandine,
vengami i paschi ad infamar la vipera,
se
te non strozzo...
lofa Ahi, ahi, pietà!
cornia Fermatevi,
e la sentenza
mia vi rappacifichi.
45 Or
che si è data a poetar la vedova
signora
mia, farassi al suo già Mausolo
da
cotesta Artemisia un’accademia.
Or
io vo’ preferir nella turba emola[186]
de’
vaghi miei qualunque del lor numero
50 il cui cantar sarà
più grato a Sostrata.
Sannion, Cecco, Marino, Lofa e Mirtilo
nell’opra dunque a gareggiar concorrano,
e
del mio affetto al vincitor fo grazia.
lofa Io l’introduzion
farò per musica.
55 mirtilo Vo, corro, volo ad intrecciarvi
un’egloga.
cornia E l’apparato a concertar va Cornia
SCENA NONA
Lofa.
lofa Deh inspiratemi,
voi note dolcissime,
belle
arïette
passeggiate,
e tenere.
5 Deh prestatemi,
mie gorghe acutissime,
voce
che allette
la mia bella
Venere.
Deh
inspiratemi,
10 voi
note dolcissime,
belle
arïette
passeggiate,
e tenere.
Fine dell’atto terzo
ATTO
QUARTO
SCENA
PRIMA
Penulo, Cavalier Marino.
penulo Eccolo, che sfavilla il don
promessoti,[187]
mettilo in
tasca, e te ne serbo un simile,
se
fia lodato il madrigal da Sostrata,
che,
come suo, vuol che il sonetto io reciti,
5 mercé di cui
ne spero amore in premio.
c. marino Propalar,
come sua, la lode propria?[188]
penulo Lascia tu a lei che di sé cura prendala;
ma
già in tuo petto un tal segreto ascondasi,
ché
altrui del ver mai non traspaia indizio,
10 altrimenti di te
farò un cadavero.
Ma
dov’è il madrigal?
c. marino L’ho presso, ed eccolo.
Sudori
miei, chi vien le bacche a cogliersi
di
quegli allor che il vostro fronte innaffiami?
penulo Petrarchevole il voglio.
c. marino E l’hai qual bramilo.
15 penulo Te’, e me
lo leggi.
c. marino Io già non vergo
arabiche[189]
note sui fogli, e chi ti vieta il
leggerle?
penulo Meglio il metro si gusta allor che ascoltasi.
Su
leggi.
c. marino Eh leggi tu.
penulo Le ceremonie
sempre
nemiche fur della milizia.
20 c. marino Io
non vorrei, verificarsi un dubbio.
penulo Che dubbio? Che?
c. marino Sento vergogna a
dirtelo.
penulo Dillo, o qui mori.
c. marino Che l’A B t’è incognito.
A dirlo alfin la tua minaccia astrinsemi.
penulo
Vinca il proprio rossor chi vinse eserciti.
25 Buon cavaliere,
ecco a’ tuoi piè già supplice
colui
che le fatiche ascritte ad Ercole
consumò
tutte: a Sannion richiedine,[190]
che
testé le ridusse a mia memoria.
c. marino Tu,
le fauci nemee? tu il fier setigero[191]
30 turbator d’Erimanto, e tu le vergini,
donne
sino alla cinta, il resto nottole?
Tu
il gigante che, più steso, più ergeasi?
penulo Ma Sannion
n’è un vivo testimonio.
c. marino Ma
Sannione e tu ducento
Nestori[192]
35 numerate negli annni?
penulo E non eternano
i
fortunati eroi l’opre lodevoli?
Noi
siam dunque immortali. Ei parla a un demone,[193]
che
ne sa più di noi. Con lui diportasi,
e
spirital cubiculario il nomina.
40 c. marino (A parte) Odi pazzia!
penulo Ma due zecchin, che or escono
dal
torchio, onde non son schiacciati o logori,
prendi
in prima mercé del tuo silenzio,
e
qui m’insegna in un momento a leggere.
c. marino Sta
quel che chiedi tu fra gl’impossibili.
45 Possibil è che a non tener rovescio[194]
t’insegni
allorché ostenterai di leggere
lo
scritto, come s’usa in accademie.
penulo E questo anche mi basta.
c. marino Ecco
incomincia.
«Donna, è ver che piangete?» Or ve’:
la cifera
50 ch’arco in piè rassomiglia
è un D maiuscolo.
penulo Buono: or vien meco, e ficcami e
rificcami
il
madrigal ben dentro alla memoria,
in
cui le cose presenti si stampano,
ma
da cui le passate, oimè, svaniscono,
55 come le imprese
dell’antico Penulo.
c. marino Ma
il tuo valetto a ciò non è bastevole?[195]
penulo Gli è vero; e so ch’egli è fedel nel leggermi
qualche
biglietto a me scritto da Sostrata.
Tu
rimanti; e ben ratto a lui ricorrasi.
SCENA SECONDA
M.
Cecco, Cavalier Marino.
m. cecco Se a noi rivolgi lo stil molle e debile,[196]
quantunque
in bocca di madonna ei siasi,
siccome
angue tra fiori alfin palesasi:
e
chi pon mente all’ardir temerario
5 di sue saette
velenose ed empie,
che
intorno a sé la mal nat’erba scuotono,
ben
s’avvisa qual peste ivi entro avvolgasi.
c. marino Ve’
come l’arenosa ed arsa Libia,[197]
che
fil d’erba non nudre al latte irriguo
10 de’ rii sì che,
arrossito il capo, ascondesi
il
suo barbaro Nil fangoso ed unico,
temeraria
a schernir l’Europa affacciasi,
che
fiori e frutti a mille fiumi abbevera.
Io
tal mi son che, ovunque passo o posomi,
15 fo meraviglie in
un balen prorompere,
che
le pupille alle gran menti abbagliano,
e
di tropi gl’ingegni altrui fecondano,
e
all’acutezze inaspettate aguzzano.
Il
tuo Petrarca, intisichente e timido,
20 de’ suoi seguaci
invidiosi e miseri
fassi intorno languir la turba attonita,
la qual, se vede un risoluto aereo[198]
volo
di penna ascrea, con cui disperasi
poggiar del
paro, in un ghigno sardonico
25 bieca scompon le strette labbra a riderne,
e con gli archi
dei torvi sopracilii
di malediche
punte invan saettami,
che perdon lena alla metà dell’aria.
Ma che che sia de’ pregi nostri, io pregoti,
30 per quel genio
comun che Apollo ispiraci,
o almen per quel che al cocollato e
chierico[199]
tuo maestro
ti lega, od a qualsiasi
madonna tua,
che da te mai non escano
voci marinicide, e tai sariano
35 quelle di me che
propalar si udissero,
ché de miei
carmi io fo tesoro a Sostrata.
m. cecco A un pio tacere caritade
spronami
di
non farti por giù la spoglia fragile
insino
al cener del rogo funereo;
40 e sospirando e
insieme andrò ridendomi,
che
a sciocca per natura e mobil femmina
quegli
onorati rami non disdicansi
de’
quai chi scrive, poetando, adornasi.
c. marino Sacra
fame dell’oro a me feo vendere[200]
45 i bei favor
della cortina Delia.
Penulo, comprator delle pierie
delizie
mie, fu che donolle a Sostrata.
m. cecco L’ira di Giove fa che nuda e povera[201]
poesia
vada, e i carmi a prezzo vendere
50 (che dell’esilio
nostro ancor non sazia
così
nascosti ci ritrova Invidia)
o
i famose fronti il lauro è gloria,[202]
o
l’insegna si pon di color gemino,
dove
si loca tal da cui sostienesi
55 l’alta onorata
verga della patria;
o
sia che mai da una vestal pia vergine,
o
per sole o per ombra il vel non lascisi,
vedi
come Atalanta i versi correre[203]
per
palle d’oro; ed anche a soffrir aggiolo,
60 se a ciò
vilmente si abbandona il secolo.
Ma, che
menzogne e parolette vendersi
io vegga per gli effetti che in
un’anima
fan due lumi soavi e un viso angelico,
avanti a cui
men spesso a noi vorriasi
65 degli occhi
nostri innamorati il battere,
non fia chi mai di sofferire insegnimi.[204]
Ma più oltre
mi spinge ancor l’ingiuria
che del
Petrarca il dir sì dolce innasprisi,
e gli alti
nomi suoi la vena arroghisi
70 del vil Marino, e la mal tocca cetera.
c. marino Quasi
che il tuo Petrarca anch’ei non imiti[205]
me,
che sono il Marino, e le mie formole.
m. cecco Tu il cavalier cui tutta onorò Italia,
e
che dal buon Petrarca in bando tennela
75 coi dolci versi
e lusinghieri e liberi,
ne’
quai l’ultima prova feo lussuria?[206]
Tu
quel nuovo inventor d’un’arte magica
che in sue
note incantar potea sin gli aspidi,
non
che l’orecchie, ch’alto udir non seppero?
80 c. marino Ecco
in me la sirena di Partenope,
ecco
quel cavalier che novo Apolline
in
Parnaso più bel cangiò Posilipo.[207]
m. cecco O Marino, disnor
del tuo Vesuvio!
E
v’è chi al più perfetto or paragoniti?
85 c. marino Il
punto sta che nel parraggio il supero;[208]
e
proverò che il tuo Petrarca applaudemi.
Pensi
tu che il poeta entro gli Elisii
campi
sia quel che in Avignone e ai rivoli
fu
già di Sorga? Egli era, in corpo e in anima,
90 secco, restio, pien di durezze e taccoli;[209]
e
in quell’età, dove la lingua, sterile
di
vocaboli al par che di metafore,
mista
qual fu di francïoso e d’italo,
stentate
forme ed insoavi numeri
95 suggeriagli all’orecchio, oprò
miracoli:
e
dietro a sé pur strascinò due secoli
di
sacri ingegni, i quai, bench’altro intesero,
pur
lasciaron neglette errar le grazie
ch’altre
volte fur care a Mosco e a Nomio;
100 e i toscani
epigrammi, oimè, languivano
colle
code dimesse e senza aculeo,
che
dolce punge i delicati, e gli eccita
a
stupir, da soggetto ignudo ed arido,
improvvise
spuntar vezzose arguzie,
105 quai nell’antica
antologia s’ammirano,
o
in Marziale, o nel pungente Ovenio.
E
non è ver che in erma rupe aeria,[210]
da
cui sol tufi e precipizi aspettansi,
se mai smarrita e sgominata e
pallida
110 per la futura sua
caduta, avvienesi
improvvisa
in un fior leggiadra vergine,
tutta
si riconforta e ricolorasi?
E,
quasi abbia un tesor che al piè le germini,
con
lieve ugna lo fende, e colto odoralo,
115 e il bacia, e al vel fra le due poma
annodalo?
Cosa
che non faria, se in giardin
fertile
di
mille fiori il ritrovasse a ridere.
Mosso
Febo a pietà di un tal delirio,[211]
cento
trentasett’anni omai
discorsero
120 da che femmi spirar quest’aura eterea,
ne’
sacri studi a riformar l’Italia,
sì
che vinsi, cantando, e Smirna e Tracia.
Cantai
d’amor con sì soavi e tenere
note,
e ne’ versi miei così saltavano
125 per tutto i vezzi
e l’inudite arguzie,
che
Partenope mia, Sicilia e il Lazio,
Toscana,
Lombardia le luci apersero,
quasi
al mio stile innamorante estatiche,
e
dietro e intorno in un balen mi stettero.
130 E col vostro
Petrarca allor fu, o miseri,
che
rimaneste abbandonati e squallidi.
Sin che tanti
scoccar sinistri augurii[212]
da voi contro
di me, che infin l’Invidia
pose
all’empia mia Parca in man le forbici.
135 Chiuse ch’ebbi le
luci, e che piangevanmi
la nativa sirena
e i cigni ingenui,[213]
voi
rigogliosi opra metteste a sorgere,[214]
ed a me vostro
depressor deprimere.
Ma che fe’ Giove ai preghi di Partenope?
140 Sforzò Plutone, e
mi ritolse a Cerbero,
che invan dietro latrommi, e qua ritrassemi
a punir voi
con un perpetuo esilio[215]
da Cirra e Pindo, e da quant’ave Apolline.
Ché lo stesso
Petrarca in oggi onorasi
145 d’imitare il mio
stil, che appar sì facile,
ma se tal
sia, chi vi si prova, ei sasselo. [216]
Perocché
quando il portator dell’anime
tragittommi laggiù, nud’ombra ed
inclita,
tutte a me l’ombre ad inchinarsi assorsero,
150 che ne’ boschi
letei fean cerchio a Pindaro.
Là Bione ed Alceo
dal crin si sciolsero
le lor
corone, e al capo mio le cinsero;
ma il
Fiorentino, a questi piè prostratosi,[217]
mi pregò
d’accettarlo in mio discepolo.
155 La man sul capo
allor, pietoso e placido,
gli sovraposi, e tutta quanta infusigli,
con stupor di
laggiù, l’arte poetica.
Surse allora il Petrarca, e alla sua cetera
insegnò i
modi miei soavi e lubrici;
160 ed io, che ingegno
poi capace e docile
lo spero, anzi
che no, profitto attendone.
E se non mi
raggiunge, almen può corrermi
dietro il
calcagno; e, di sua buona in premio
volontà
generoso, a lui do il titolo
165 di marinesco, a me
di petrarchevole,
da che i due
stili in amistà rispondonsi.
m. cecco
A questo dir non riderebbe
Eraclito?
O
vuoto uom di giudicio, e pien
d’insania!
SCENA TERZA
Mirtilo, Cornia, e detti.
mirtilo Costei, che per man guido, e che
lanciatomi[218]
lasciva un
pomo a fuggir diessi ai salici
ma
bramosa però ch’io pria vedessila,
qua
meco trassi, or che il suo volto amabile
5 già
mi ha fatto aprir gli occhi al ver nascostomi.
Io
non vedea, sì amor bendato avevami,
quella mal
nata ambizion ridevole
che
a mentir poesie non sue pon Sostrata,
10 invidiosa, dic’ella a Vittoria,
perché
Vittoria è già conversa in cenere;
ma
invidiosa è che alle stelle innalzisi
l’arcade Aglauro, Aglauro la Cidonia,[219]
che
col suo Tirsi (e gli sien pur le Grazie
15 favorevoli, e
quanti Amori e Veneri
spaziano
in Pafo) può d’onor
contendere.
Onde
(chi ‘l crederebbe?) Apollo in dubbio
sta a qual
dei due meglio corona intreccisi.
L’ha
infin Tirsi di mirto, e il dono è d’Erato;
20 ma la severa
Clio di sua man propria
ne
tesse una d’alloro e al crine adattala
di
lei, che umile stassi in tanta gloria.[220]
Daria Sostrata cento e più cadaveri
di
pria diletti imbalsamati Panfili
25 per divenir Fidalma
la Partenide,[221]
nata
in gran sangue ed inserita in Massimo,
cara
a Febo, a Diana, a Pane e a Pallade
più di qual
dotta ninfa alberghi in Lazio.
Darebbe
un occhio per aver qual Silvia[222]
30 Licaotide il vezzo anacreontico
in
canzonette che, soletta e vergine,
canta
del natio Spello entro il bell’eremo,
a cui
d’intorno i colli suoi rispondono.
Ma
che daria per posseder la gloria
35 dell’ardua Irene?
Io dico la Pamisia,[223]
che porria passeggiar d’Atene i portici
con quanti
Grecia mai vantò filosofi;
e che daria per divenir Paraside[224]
Mirtinda, amor del Po, del Reno e d’Adria
40 per le rime
leggiadre? E che, per essere
la leggiadra Larinda, che Alagonia[225]
dall’Arbia
suo s’appella? Or crede Sostrata,
che, come usan le ninfe allor che ammirano
in capo ad
una, o sia di crin piramide,[226]
45 che l’ovato a un
visin dia fatto a circolo,
o sia di fior
selvatici e domestici
mazzetto fra
l’orecchio e fra la tempia,
l’imitan tosto in sulla fonte pendule,[227]
e tutte eccole
già che veder fannosi
50 con par mazzetto
e con egual piramide;
così, poiché
nel coro suo femmineo
v’ha qualche musa,
e perché Italia applaudele,
pensa come
famosa ir per Cosmopoli,
e che Safo e Corinna ogni uom la reputi.[228]
55 Ma il poetar non
è cucir né tessere.[229]
Ecco poi che
ne avvien: quai petrarchevoli
i marineschi
e non suoi versi ostentaci;
e chiamo te,
che dell’etrusco Apolline[230]
seguace sei,
che in ciò consenta all’arcade
60 di non lodar la femminil sua boria.
Di cotai saputelle or scaturiscono[231]
per tutti i
borghi, e le contrade e i vicoli;
e già s’erige
un tribunal di cuffie
sui virili
poemi; e torma affollasi
65 di bei gerbini, intorno a lor, che inchinano
le fiocche
teste e pettinate agl’idoli,
che van
sputando in altrui sprezzo oracoli.
Misera
poesia, se da tai giudici
giammai
degna di te sentenza attendasi!
70 m. cecco Ragion farotti
del tuo desiderio.[232]
Farò
che il suono in rime sparse ascoltisi
de’
miei sospir, ma per quel lauro amabile
di cui tu
pure alla bell’ombra siediti;
non
per tal pianta, che selvaggia e sterile
75 de’ frutti
altrui non di rara excellenzia,
ma
guasti e pieni di amorosi vermini
mostrata
a dito immantinente adornasi.
cornia Marin, pon
mano ad ordinar le sedie
per
la sostraticiaca accademia.[233]
80 c. marino Fachinar tocca a un cavalier? Pazienzia!
Ercol filò (ridendo Amor) per Onfale.[234]
m. cecco Al Petrarca non fur
le «selve» in odio.[235]
Ei le ha
dieci fiate, s’io ben numero.
Cinque
ha «pastor». Ne vuoi tu i sensi intendere?
85 «Il PASTOR che a
Golia già ruppe il cranio ecc.»
«Quando
vede il PASTOR che i raggi calano ecc.»
«O
del PASTOR che ancora onora Mantova ecc.»
«Né il PASTOR
di che ancora Troia lamentasi ecc.»
«Seco
ha il PASTOR, che mal sì fiso mirala ecc.»
90 «Pastorella» una
volta egli usa, ed eccola:
«Che
a me la PASTORELLA alpestra e rigida ecc.»
Mai
«pecorelle» il Canzonier non nomina;
ma
nell’egloghe sue talor rammentale
in latino
idioma.
mirtilo Adunque un arcade
95 favorevol ti avrà, se i boschi in grazia
ebbe
già il tuo maestro.
m. cecco È
ver; ma sforzami
vostra legge
a soffrir bastardi e barbari
nomi che in
bocca sua mai non suonarono.
O
Petrarca, a’ tuoi piedi ecco inginocchiomi,[236]
100 reo d’altre frasi
e di non tuoi vocaboli,
tanto
che altr’uom da quel che fosti, intendami,
da
te pietà non che perdon io speromi;
e ciò farò
perché la sua ridevole
stoltizia
ei spogli, e rivestir poi giuroti
105 l’antica forma e
la sembianza propria.
mirtilo O superstizïon
di petrarchevole!
m. cecco Fratel, tu vedi la festuca minima
negli occhi
altrui, ma non ne’ tuoi la massima
trave,
che della luce a te fa tenebre.
110 Che vuol dir
quella tua pelliccia ruvida,
quella
sampogna pastoral, quel
zaino?
Vi
son pur tai che nel suo ruolo Arcadia[237]
descrive, e
in manto van da galantuomini,
e
di selve e di greggia ognor non parlano.
115 Ma per gli eroi
vedi sublimi e nobili
scorrere
i versi lor, né sempre a mugnere
guidar
le ninfe allor che d’amor cantano.
Il padre
vostro Alfesibeo, l’ingenuo[238]
Alessi,
il grazïoso Tirsi, il querulo
120 Ila, il facil Montano, il savio Uranio,
l’ingegnero Clidemo, e il fior de’ lirici
Aci,
e non men che gran poeta, astronomo,
Teleste il franco, e quanti in somma assidonsi
all’ombra
eterna del Bosco Parrasio
125 aman con lunghe e inanellate zazzere,
capel ritorno, e gran colar che increspasi.
Gode
altri in perucchini, a cui la cipria
polve dà in
parte e canutezza e grazia,
nel
tuo coro apparir puliti e candidi,
130 con colarini fra bianchi e cerulei
sotto
il mento attilati, uniti e sferici.
Ma
tu per tutto vuoi selvetta e rivolo,
augelletto, aura, e pecorelle e pascoli,
praticel, collinetta, antr’,
ombra e foglia,
135 cose che udite al
primo suon ricreano,
ma col sovente ricrear rincrescono.
Cotesto
latte è un cibo dolce e candido,[239]
che ne’
giunchi, qual è, rappreso e tremulo,
o
in ricottelle avidamente ingoiasi;
140 ma col troppo
ingoiarne alfin ci stommaca,
dove
saziaci il pane, e mai non tedia.
Io già
m’intendo, or chi lo puote intendami.
E quei sciroforioni? e le olimpiadi?[240]
e i dì anarchi? e chi savvi, o nomi
barbari,
145 pronuncïar, di ceto e serbatorio?
mirtilo Io, se questa è follia, folle
esser godomi.
Ma
saviezza sarà dì e notte struggersi
sul divino
Petrarca, e quel sol prenderne[241]
che,
interrogato, ei s’udiria riprendere?
150 Altro ci vuol che
i soli suoi vocaboli
articolare
e le sue frasi torcere
con
diverso dal suo concerto ed ordine;
ché il
diverso locar sue note e sgiungerle
crea
sovente all’orecchio un suon sì vario
155 che tutte inferma
al suo bel dir le grazie.
Vestir
convien della grand’alma il genio,[242]
le
figure, il pensar, la guida, e il facile
colorir delle
cose, e quel palpabile,
anche
aeree che sien, formarle e sporgerle,
160 sì che la fantasia
sensi aver credasi
con
cui gli obbietti ella maneggi e scorgali.
Così
pittor, che il buon disegno e gli agili[243]
moti delle
figure in testa imprimesi
per
esprimerli in tela, e sin degli animi
165 guida ai visi il
color, mira, non copia[244]
di
Rafael l’insegnatrici immagini;
ma
poi, col vero e coll’idea che fissesi
d’imitarlo a
dover, sì ch’atti ed arie
tutti
all’impresa espression cospirino,
170 fassi un Giulio, un Allegri, un Michelagnolo,[245]
un
Zampieri, un Albano, un Reni, e creasi
cotal maniera originale e propria,
che pare già
da Rafael dipendere,
onde
qual meraviglia a dito mostrasi.
175 cornia Finiam le
liti, ecco l’irrevocabile[246]
sentenza
mia, poiché madonna accostasi.
Chi
vuole amor, sia da Laureta o Cloride,
onor faccia a costei: nei carmi esaltila,
o
buoni o rei; qual petrarchista onorisi,
180 ed al suo recitar
sonoro applaudasi.
Altrimenti
io vi caccio, e più non sperisi
per
voi mercé; ma questo core in premio
prometto a
qual più nel lodarla affannisi.
m. cecco O dura legge! A qual giogo Amor posemi!
185 mirtilo La pastorella mia sossopra volgami,[247]
siccome
colte in sul mattin le fragole
qualor sul desco il suo panier
riversale.
SCENA QUARTA
Sostrata, e
detti
cornia Sostrata vienne. O delle muse decima!
Te impazienti
ecco i poeti attendono,
e
delle lodi tue testé stordivanmi.
Cecco
giurava (ed ei presente attestilo)
5 nulla il
Petrarca suo, se paragonisi
a
te, valer; né men di lui fea Mirtilo,
te
passar quante ninfe or vanta Arcadia,
sien Aglauro, o Fidalma o Irene,
o femmine
quante
atte ai carmi il buon Teleste adunaci.[248]
10 Non è ver egli?
A lei voi due narratelo,
né
il bel rossor, che la natia modestia
le
induce in volto, dal ridirlo affrenivi;
ma
tu per Laura, e tu per Clori or giuralo.
m. cecco Il giuro.
mirtilo
Il giuro.
sostrata O petrarchista ed arcade,
15 foss’io pur tal che meritar potessimi
i
vostri applausi! Allor sarian mie lagrime
degne
in ver di quel fido amato spirito,
che
per quest’aria intorno all’ossa esanimi,
se
ben credo al mio amor, m’ascolta e spaziasi;
20 e allor sì di Vittoria
avrei vittoria.
Voi
de’ miei versi al risuonar, che Penulo
reciterà,
ch’oltr’esser petrarchevole
più
ch’altri sia, nel recitarli ha grazia,
dove
me il mio dolor nel dir fa stupida,[249]
25 direte forse:
«Or ve’, se questa vedova
tutto
ha il Petrarca suo nella memoria»;
e
pur vi giuro, in su l’onor di Panfilo,
che, scorso appena un suo sonetto, io sentomi
certo
brio natural che Apollo inspirami,
30 mercé di cui,
senz’altro studio, i quindici
versi
fanmi un sonetto in cui ravvisasi
del
buon Petrarca il delicato e il tenero.
m. cecco Il sonetto avrà coda, o sien quatordici
i versi suoi,
madonna mia, non quindici.
35 cornia Vuoi la maestra tu d’ogni uom
correggere?
mirtilo Quel fu di lingua addolorata
equivoco.
sostrata Dice ben il pastor. Perdon,
s’io sbagliomi,
perché il labbro non sa quel che
s’articoli,
e,
se badasse al cuor, non suggeriscegli
40 che Penulo e poi Penulo e poi Penulo.
cornia Che di Penulo
dici?
sostrata O qual delirio!
Io
volli dir (ma il mio dolor traviami)
che
Panfilo e poi Panfilo e poi Panfilo.
cornia (A
parte) Dove il
dente ci duol, la lingua sdrucciola.[250]
45 (Ad alta voce) Ma il rimanente or vien
degli accademici,
Sannione, e il guerrïer.
sostrata Ve’
mai, se Penulo
se
ne vien lento, e non dovrebbe ei correre?
cornia (A
parte) Dove il dente ci duol, la lingua
sdrucciola.
SCENA QUINTA
Penulo, Sannione, e detti.
penulo M’inchino alla bellissima
Artemisia.[251]
sostrata Ben venga, ancor che tardo, il
petrarchevole
guerriero
eroe. Ma chi è colui?
penulo Quel, Sostrata,
è poeta seguace
di Fidenzio,[252]
5 cui sempre è
al fianco, un famigliar suo spirito
che
talor di poeta il fa filosofo.
cornia Luogo ognun prenda. Qua Sostrata. Penulo
siedi alla
sua sinistra, e voi spartitevi
di qua, di là
sinch’è ripieno il circolo.
10 Lofa di dietro. Il musical prefazio[253]
in
distanza si vuol dall’accademia;
e
la figura io qui farò di popolo.
mirtilo No, che m’è d’uopo a te vicino
assidermi,
perché
mi aiuti a recitar quest’egloga.
15 cornia Almen
dammela pria, sì ch’io prevedala.
mirtilo Eccoti la tua parte.
cornia Io
fo da Cloride,[254]
e
da Mirtilo tu; ma Clori è Sostrata?
mirtilo Quella sia che tu vuoi.
penulo Marino, accostati.
La
D questa non è?
c.marino Sì. Taci, e siediti.
20 sostrata Il concerto incominci. O là, silenzio!
lofa Ceda la rosa, onde le fonti infioransi,[255]
alla viola del color di
cenere;
benché a quell’altra le
foglie colorinsi
dal piè ferito della
bella Venere.
25 Ceda la rosa ecc...
Lascivi
amanti un bel roseto esaltino,
scherzando ignudi infra
le rotte aspergini;
ma tua modestia, o
violetta, esaltino,
per fregiarsene il crin, poeti e vergini.
30 Lascivi ecc.
La
violetta della rosa ridesi,
benché quella a più d’una
il viso imporpore.
Da che in volto a costei
suo pallor videsi,
più nel pregio di pria
non son le porpore.
35 Simile alla viola al suon di cetera
la novella Artemisia or
s’alzi all’etera.
sannione Ai luminari tuoi, Sostrata,
immolinsi[256]
i
distici del proximo epigrammate.
«Ond’è che, o dèi marini, inferi e superi,[257]
40 femmella voi, voi universi exuperi?
Che
a te coi leti occelli io
ben non digero
faccia
l’arme cader dio tridentigero;
che
tue medulle, o Pluto, un sol circuito
vori
del suo flammimovente intuito;
45 che a te sin,
Giove, insù i siderei culmini
tragga
di man pupula ardente i fulmini?
E
all’ardor poi resisteranne
il trunculo
di
Sannion, floccipenduto
omuncolo?»
m. cecco (A
parte) O che pedanteria!
mirtilo (A
parte) Canti a Camillulo[258]
50 quel Fidenzio novel.
cornia (A parte) Ma
quanto io ridomi[259]
che
la padrona e Penulo sen ridano![260]
c. marino Invito
a ber te, bella donna, e recito
le
stanze mie, che già famose e sdrucciole
allo
Stiglian nemico mio sin piacquero.
55 «Ond’ellera s’adornino e di pampino
i
giovani e le vergini più tenere;
e
gemina nell’anima si stampino
l’immagine
di Libero e di Venere:
tutti
ardano, s’accendano, ed avvampino
60 qual Semele, che
al folgore fu cenere;[261]
e
cantino a Cupidine ed a Bromio
con
numeri poetici un encomio.
La
cetera col crotalo e con l’organo[262]
sui
margini del pascolo odorifero,
65 il cembalo e la
fistula si scorgano
col
zuffolo, col timpano e col piffero;
e
giubilo festevole a lei porgano
ch’
or Espero si nomina, or Lucifero;
et
empiano con musica che crepiti
70 Cosmopoli di
fremiti e di strepiti.
I
satiri con cantici e con frottole[263]
tracannino
di nettare un diluvio.
Trabocchino
di lagrime le ciottole
che
stillano Posilipo e Vesuvio;
75 sien cariche di fescine le grottole,
e
versino dolcissimo profluvio.
Tra
frassini, tra platani e tra salici
esprimansi de’ grappoli ne’ calici.
Chi
cupido è di suggere l’amabile[264]
80 del balsamo
aromatico e del pevere,
non
mescoli il carbuncolo potabile
coll’Adige,
col Rodano e col Tevere;
ch’è
perfido, sacrilego e dannabile
e
gocciola non merita di bevere
85 chi tempera, chi
intorbida, chi incorpora
coi
rivoli il crisolito e la porpora.
Ma guardinsi gli spiriti che fumano[265]
non facciano del cantaro alcun
strazio,
e
l’anfore non rompano, che spumano
90 già gravide di
liquido topazio;
che
gli uomini ir in estasi costumano,
e
s’altera ogni stommaco già sazio;
e
il cerbero, che fervido lussuria,
più
d’Ercole con impeto s’infuria.»
95 mirtilo (A
parte) Tre
sdruccioli per verso? Inver che supera[266]
le
tue terzine, o Serafin dell’Aquila!
sostrata (A parte) Ohibò il Marino!)
penulo (A parte) Ohibò
il Marino!
sostrata (A parte) Or
odasi
quel cotal che il Petrarca imitar vantasi,
ma
non è già da pareggiarti, o Penulo.
100 penulo Noi due sì che da ver siam petrarchevoli.[267]
c. marino Cecco,
che fai?
m. cecco (A
parte) Se ciarlano... Capitolo.[268]
(Ad alta voce) «Properzio, Ovidio, e quei
che ben cantarono
mirino il novo sol di pudicizia,
onde
al sol vero i rai si scolorarono;[269]
105 e loderan costei nova Sulpizia,[270]
che
sa ogni cuor d’oneste voglie accendere,
non
di gente plebea, ma di patrizia;
né
a cose non da ei degna discendere.
Poco
ama sé chi a tal gioco s’arrischia,
110 e di quell’alma
poco mostra intendere.
Onde
non bollì mai Lippari ed Ischia,[271]
Stromboli
e Mongibello in tanta rabbia
dentro
confusion torbida e mischia,
quant’io
nella mia nova e stretta gabbia.»
115 mirtilo Mirtilo.[272]
cornia Clori.
sostrata (A parte) Io mo Clori sono.
mirtilo Egloga.
«Or che i lenti ozzi a noi non lupo insidia,
non
signor, non caprar, cantiamo, o Cloride,
e rompa i fianchi al rauco Mopso
Invidia.
cornia E rabbia faccia intisichir Licoride,
120 or che nell’erbe i
bei color gioiscono
delle
campagne al tuo venir più floride.
Ma,
se tu parti, oh come i fior languiscono!
e
sin l’acque sonanti ai rii che scorrono,
per
la tua lontananza inaridiscono.
125 mirtilo Arido è il campo, ed i ruscei non corrono,
e
tanto può dell’aria calda il vizio,
ché le rugiade sue più nol
soccorrono.
Ma
ritornano i fonti a precipizio;
e
il matutino umore è a cader libero,
130 sol che Clori ci
renda il ciel propizio.
cornia Come a Giove la quercia e l’edra a Libero,
così diletta è la mortella a Venere,
e
Mirtilo ama il gelsomin
celtibero.
Quercia,
edra e mirto, ir vostre
glorie in cenere
135 e sinch’egli ami il gelsomin, si
lassino
i
primi onori alle sue foglie tenere.
mirtilo Nell’orto il pino, e nella selva
il frassino
signoreggiar
per la bellezza ammiransi:
pur, se Cloride
arriva, a lei si abbassino.
140 Ma le colombe alla
lor torre aggiransi,
e
a due, a tre, perch’all’ovil si mungano,
le
pecorelle a capo chin ritiransi,
or
che dai monti in giù l’ombre s’allungano.»
sostrata (A Penulo) Può passar.
penulo (A
Sostrata) Ma però non c’è miracolo.[273]
145 (ad alta voce) Attenti.
Ecco un sonetto petrarchevole
della
bella Artemisia. Aggiungerassegli
poscia
un mio madrigal pur petrarchevole.
(Al Marino) Cavalier, su...
sostrata Signori,
compatiscano
questo componimento
estemporaneo,
150 che m’inspirò messer Francesco a tessere.
cornia Bello!
sannione Bel!
c. marino Più
che bel!
m. cecco Più che bellissimo!
mirtilo Prima s’oda il sonetto, e poscia applaudasi.
penulo «Diva immortal,
ch’entro a mortal ricovero
marmoree tombe indegnamente accolsero,
155 io quei gelidi
sassi inver rimprovero,
che a così ardenti rai non si disciolsero.»
cornia Bello!
sannione Bel!
c. marino Più che bel!
m. cecco Più che bellissimo!
penulo «Né so come
a quei membri, a cui si volsero
i
lumi tuoi, che quai due soli annovero,
160 poiché i lampi
vitali in sen ne accolsero,
il
cor resti di vita ignudo e povero».
cornia Bello!
sannione Bel!
c. marino Più
che bel!
m. cecco Più che bellissimo!
mirtilo Pria finisca il sonetto, e poscia applaudasi.
penulo «Con un sol po’ di...» (da sé) Ah,
la memoria mancami!
165 m. cecco Su, ricorri alla carta.
penulo Amico, aiutami. (al Marino)
sostrata Che cos’è? Che cos’è?
penulo Mi svengo, o Sostrata;
ahi, che
l’alma mi manca in un deliquio!
sostrata Ahi! Manteca chi n’ha? Chi muschio o
balsamo?[274]
cornia (A
parte) Ei s’abbandona; e pur, se il volto interrogo,
170 mi risponde il
color ch’è sano e vegeto.
c. marino (A parte) Il deliquio è coperchio all’ignoranza.
sostrata Cornia, dammi l’orecchio.
mirtilo (A
parte) E che sussurrale?
sostrata Vanne tosto, e vien, vola! e te’ le forbici.[275]
cornia (A
parte) O questo ancora ho da sentir! Vo, e lascioti
175 nel grembo il
peso.
sostrata Io per
amor sostegnolo
de’ versi,
onde un novel Petrarca è Penulo.
sannione (A
parte) Est l’amor del poeta, o
l’est del Penulo?
sostrata Panfilo mio, deh perché sei cadavero?
Perché
a te, come a questo, il cuor non palpita?
180 Strugger mi sento
a sì crudel memoria.
mirtilo Da te fede ed amor le ninfe
imparino.
m. cecco E le madonne ad esser Laure apprendano.
sostrata Ma Cornia unqua non torna? Egli è già un
secolo
che
partì quinci; e non è già uno stadio
185 il suo viaggio. Oh
come son le giovani
pigre
oggidì!
lofa Vien come lampo, ed eccola.[276]
sostrata Odorate, o signori.
lofa Oh
dèi! Qual balsamo
mi
rincora odoroso e mi resuscita?
m. cecco Ch’egli sia del Perù?
sannione Ma qual pellicola?
190 Forse cute sarà di
que’ due gemini
che
al marin venator linque il
castoreo?[277]
sostrata Droga è più prezïosa.
cornia (A
parte) Egli è il
prepuzio
che —ve’ fede
ed amor!— recisi a Panfilo;
e
il comandò la sua pudica vedova
195 per soccorrere il
drudo.
sannione (A
parte) A reviviscere[278]
già comincia
il Tirone. Accorri, o demone!
ma
perché ridi, e obtemperarmi or renui?
penulo Qual odor
mi consola, ond’io recupero
l’alma
smarrita? E dove son? Mia Sostrata,
200 vero è che in seno
io ti svenii?
sostrata Ringrazia
l’imitato Petrarca
e il mio buon Panfilo.
In
memoria di lor fu ch’io sostenniti.
In
memoria di lor fu ch’io sovvenniti.
Dimattina sull’alba intimo a Panfilo,
205 o valenti poeti,
altra accademia,
poiché
il guerrier refocillò gli
spiriti.
penulo (Al
Marino) Cavalier, sarem pronti?[279]
c. marino Affé, ch’io viditi
in cotal labirinto, ché al pericolo
del
pubblicar che tu non sai pur leggere
210 quel sol finto
svenir potea sottraerti.
penulo Accortezza in amor non manca a Penulo.
lofa Riderà, sorgerà fuor dell’oceano
la
bella Aurora, onde gli augei che destansi,
e alla madre del dì coi
canti applaudono
215 le
pecorelle ed i pastor ricreano.
Riderà, sorgerà, fuor
dell’oceano...
Fine
dell’atto quarto
ATTO QUINTO
SCENA PRIMA
Penulo.
penulo Persuader la saporosa e tacita
notte può
luci affaticate a chiudersi
che
non sian d’un amante, o che non siano
l le
mie, ché invan per l’egre
piume aggiromi.
5 O stia in
fianco, o supino, o capovoltimi,
mai
non trovo un momento in cui non empianmi
il
capo i vezzi e la beltà di Sostrata.
Quinci
abbandono le odiose e vigili
mie materassa, e mentre a caso spaziomi,
10 o destino od amor
fa ch’io qui trovomi
presso
all’albergo, anzi al sepolcro amabile
di
lei, che, conversando coi cadaveri,
mi
avrà ben tosto a imbalsamar qual Panfilo,[280]
se
pur don mi farà di qualche lagrima,
15 dono a chi è
fuor degli uman sensi inutile.
Questo
bel petrarchino in carta pecora
stampato,
e di zegrin coperto, u’ leggesi
di
tutto quanto il Canzonier
la tavola,
se
il ver dissemi Cecco a me vendendolo,
20 vo’ presentare
alla mia bella, e sperone
mercé
da lei, che tanto almeno amassemi
quanto
il poeta suo. Coraggio! picchiisi
alla
porta funesta.
SCENA SECONDA
Sostrata, Cornia, e detto
sostrata Olà chi turbaci? (di dentro)
penulo Amici.
cornia Il nom
vuol sapersi. (di dentro)
penulo È Penulo.
cornia Signora, egli è il guerriero, il
petrarchevole.
sostrata A un poeta, a un guerrier
porta non chiudasi. (escono)
Qual pensier qua ti sprona, or che non trovasi
5 forse in terra
animal, che non sia nottola
notturna,
o vedovella inconsolabile,
che
non le cure in dolce oblio dimentichi?
penulo Gli è amor, donna crudel,
gli è amor che m’eccita
in
tempo ch’altri a respirar si corica
10 dai diurni
travagli, ed è il suo stimolo
che,
pungendomi il cuor, dì e notte cruciami,
e
mi strascina ad una inesorabile,
che
qual perde i suoi pianti in chi non senteli,
vuol
che in lei pure i pianti altrui disperdansi,
15 come insensata
al par di quel cadavero.
Sì,
per piangere un morto, un vivo uccidesi.
Me
rispettò fra le falangi armigere
la
invan cercata morte, e fuggir vidila
davanti
a questo brando, inerme e timida;
20 né potea vendicar cotante ingiurie,[281]
se
in cotesti occhi tuoi non ricovravasi,
da’ quai la vinta impunemente assaltami,
e del suo
vincitor sta per far strazio,
se in mio
soccorso un guardo tuo non armasi.
25 Vagliami almen con poetessa a grazia
questo
piccolo dono, in cui rinchiudonsi
le dolci rime
e le amorose lagrime
di lui
ch’arse per Laura ancora esamine.
sostrata Oh s’egli è bello! e come ben maneggiasi
30 così lindo e
raccolto! Il dono accettisi
più
caro a me perché da te derivami;
né
ricuso d’amarti con quel candido
e
platonico amor che pel corporeo
vel si fa strada a vagheggiar lo spirito.
35 Ma perché il
vulgo vil sovente interpreta[282]
sinistramente
le fiamme platoniche,
come
bragia si suol covrir per
cenere,
vuolsi a tutt’occhi il nostro incendio ascondere.
penulo Là in quel sepolcro asconderassi; e il talamo
40 sarà la bara ove
disteso è Panfilo.
cornia (A
parte) Vuol l’amor coniugal, non il platonico.
Gnaffe! Ei viene alle corte.
sostrata Oh sacrilegio!
E
che di’ tu del far la bara un talamo?
Come
poss’io ne’ casti orecchi accogliere
45 sì sconce cose?
Ogni mio pelo arricciasi
al
sentirmi parlar di nozze, orribili
a me più della
febbre e della scabbia,
a me, ch’emular voglio indi
Artemisia,
indi Vittoria. E farle in faccia a Panfilo?
50 Sul cadavere suo? Tu ridi, o Cornia?
Per te sento arrossirmi, e tutta avvampomi.
cornia Rido perché vuoi piangere a sproposito.
Gode
ogni donna in maritarsi, e il giubilo
nasce
dalla speranza d’esser vedova,
55 per poi
rimaritarsi, e sopravvivere,
indi
rimaritarsi, e sopravvivere,
indi rimaritarsi,
e sopravvivere,
indi
rimaritarsi, e sopravvivere,
indi
rimaritarsi, e sopravvivere,
60 sinché una
cinquantina almen di Penuli
l’un dopo
l’altro onestamente godasi.
Io
sì l’intendo; altri a sua posta intendala.[283]
sostrata E non ti caccio un occhio con
quest’indice,
putta
loquacissima, sfacciatissima?[284]
65 Ahi,
Mausolo! Oimè Davalo! Oimè,
Panfilo!
cornia L’ira torci in costui che d’amor
tentati,
non
in me, che, se ancor seppellir vogliti,
m’obbliga
a non oppormi in forma camerae.[285]
sostrata E pur tu reggi a me davanti, o Penulo?
70 Volgi quegli occhi
in altra parte, ah volgili!
altrimenti
a punirti ho i pugni in aria.
penulo Noi guerrier
siam avvezzi a quel che narrasi
dell’orso,
il qual, per quanto l’api il pungano,
purché
ne lecchi il mel, l’ira ne tollera;
75 care mi sian le tue percosse, o Sostrata,
se
per mezzo di lor giungo a conquidere
cotesta
tua non femminil ferocia;
ma
non sai tu perch’io mi vegli; or svelisi[286]
l’alto
mistero ch’ho sino ad ora ascosoti,
80 per provar, se vèr me piegava un genio,
ch’io
non credea sì sconoscente e barbaro
in beltà sì
gentile e sì dimestica.
Il
tuo sposo poc’anzi in sogno apparvemi,
quanto
diverso da quel miserabile
85 avanzo suo, che
imbalsamato ed arido,
e
notte e giorno a lagrimar mal t’occupa.
Giovinezza
sul volto ancor fioriagli,
e
un bel corpo di luce accesa e vitrea[287]
fea trasparer da’
membri suoi lo spirito,
90 che il libricciuol lasciò cadersi; e, «Recalo»
disse «a Sostrata mia perché in lui studii
come
farmi immortal, cantando, ai posteri,
poich’altra vita oggi nel mondo io nauseo,
fuor
che quella del nome; e questa eternisi,
95 e si eterni per
lei; ma deh! non serbimi
un
corpo odioso a me nud’ombra; e canginsi
in
nozze i funerali; e la memoria
mia
tu risveglia in novi figli, e nascano
tanti
poeti, a’ quai prometto infondere
100 virtù forse
maggior che petrarchevole.»
Disse;
e ne’ rai della sua luce ascosesi.
Vengo
a te baldanzoso, il ver dissimulo,
ti
presento il suo dono, e d’amor pregoti:
tu
ritrosa mi cacci; or, se vuoi, cacciami,
105 e l’ombra amata ad
irritar persevera.
sostrata Tolga lo ciel ch’io spiaccia alla buon’anima;
ma
del mio cuor dispongasi ad arbitrio
di
chi sol n’è signore; ei dielti, io dottelo.
cornia (A
parte) Ve’ se presto s’arrende, e
ratta bevesi
110 la menzogna del
sogno!
sostrata Or dunque io bacioti,
libro
adorato, e al donator fo grazia
di
cangiar, poiché il vuol, tumulo in talamo.
Ma
pria fra noi, mio novo sposo, accordisi
la
ragion delle nozze, e, mentre a Panfilo
115 piace ch’amboduo noi siam petrarchevoli,
e
che nascan da noi pur petrarchevoli
che
il nome suo novellamente esaltino,
a
prometter tu m’hai di compor subito
un
canzonier che al Canzoniero adeguisi
120 del Petrarca in
bellezza, in specie e in numero:
cioè
sonetti pria trecento tredici,[288]
canzoni
poi quarantanove, e dodici,
che
sian, delli trionfi o pur
capitoli.
penulo A quanto vuoi, con giuramento astringomi.
125 sostrata Et io la destra militare impalmoti.
cornia Ecco già stabilito il matrimonio.
penulo Ma entriam,
sposa, a gioir, diam gloria a Panfilo.[289]
sostrata Davanti a lui, sull’ossa sue, qual
vittima
strascinata
ne vegno al sacrificio.
SCENA TERZA
Cornia.
cornia Oh che vittima allegra! Or fia che sanisi
la sua pazzia
col novo elettuario,[290]
il
qual mai, per ver dir, non nocque a femmina.
Se
non era il soldato a inventar agile
5 l’accorto
sogno, l’inventava Sostrata,
tanto
un pretesto e nulla più cercavasi
per
darsi in preda sì, ma senza scandalo,
al
piacer delle nozze. E non ha Cornia,
fomentandole
in sen l’amor di Penulo,
10 mal servita
costei. Mal, so, maritasi,
ma
peggior d’ogni male è poi l’insania,
e
da pazzia col maritarsi è libera.
Saputezzza viril, prudenza eroica
così a noi
donne ingratamente adattasi,
15 come il filare
ed il cucire agli uomini,
a cui non mai
per lungo studio addestransi.
Ciascun sesso
stia dentro all’esercizio[291]
che natura e
le stelle a lui prescrissero,
o si prepari a
far che di lui ridasi.
20 Ma qual suono novel vien l’ombre a rompere?
Affé, ch’è Lofa: anch’ei d’intorno al tumulo
della carne
all’odor qual corvo or crocita.[292]
SCENA QUARTA
Lofa,
e detta.
lofa A un bel raggio di luna io solitario
già
per la selva a solfeggiar coll’aria;
e tasteggiando iva le
corde in vario
suon per crearne, in
passeggiando, un’aria.
5 Quando i quarti del reo, che funestarono
la maggior quercia, in un balen svanirono:[293]
tre, che sien benedetti, indi staccarono
le appese aride membra,
e poi sparirono.
Or lieto è il bosco, e
l’augellin destandosi
10 avrà più lena alle sue gorghe amabili.
cornia Oh, che di’ tu? Povera me! Te misero
sposo,
ch’ora gioisci, e ch’ hai da pendere[294]
fra
poco ove pendea chi dato in guardia
fu alla tua
fede dall’inesorabile
15 tribunal de’ censori. O Lofa, io pregoti
a
ritornar pria che l’aurora affaccisi,
a
spiar di quel furto un qualche indizio,
e,
se vuoi ch’io non t’odi, a me riportalo.
lofa Precipitevolmente io corro, e recoti
20 quanto fia che dall’alba a me rivelisi.[295]
SCENA QUINTA
Cornia
fuori, Sostrata e Penulo
dentro.
cornia Per mia fé,
da buttar tempo non restaci.
Picchiam pure; e i due sposi mi perdonino
se
la lor calma ad agitar vien Cornia.
penulo Chi è? (a parte) ch’io lo fo in
pezzi (ad alta voce) il temerario
5 che i sonni
altrui van frastornando!
cornia È Cornia.
sostrata O invidiosetta, or che fo onore a
Panfilo,
vuol
disturbarci il sacrificio.
penulo Ah possati
il canchero
venir, bestiola indocile;
se
vil non fosse insanguinarsi in femmina,
10 di te un vaglio faria la mia ferocia.[296]
(escono)
sostrata Troppo avanti si fa cotesta audacia,
serva
insolente. Or va’, che ti licenzio.
Trovati
una padrona un po’ più stolida,
che
le tue sfacciataggini si tolleri.
15 penulo Poter di Bacco. E perché il ciel non feceti
un
capitano con tutto un esercito,
che
vorrei tutti darvi ai corvi a pascere?
cornia Godo, o signor, di tua braura: aspettati[297]
qui
meno assai di un duce e di un esercito;
20 ma tanto almen che il tuo furor disfoghisi.
Verran birri fra poco, e te fra i vincoli
por
tenteranno, e trarti alla giustizia,
per
appiccarti là dove già stettero[298]
dell’appeso
assassin le membra lacere,
25 le quai, già date alla tua fede in guardia,
fur testé distaccate; e Lofa sasselo,
ché
di furto spiccar le vide, e nuncio
a
me ne fu. Ma ad un guerrier qual Penulo
ciò
nulla importi. Ei, che di duci e popoli
30 fu già
conquistatore, a scherno recasi[299]
e
bargello e canaglia.
sostrata Io vedo in polvere[300]
stritolarsi i
ribaldi a un guardo, a un alito
del
mio prode guerrier, però ridiamone.
Ma
non ridi, o ben mio? Tu tremi? Il tremito
35 forse vien da furor, per cui ribolleti
dentro
le vene il sangue fier? Deh! tempralo
sin
tanto almen che il militar pericolo
t’infochi
alla vendetta.
cornia Et
io, licenzia[301]
poiché
ottenni da te, l’eremitorio
40 lascio tapina, e
me ne vo in Cosmopoli,
un
salario a cercar per elemosina.
sostrata Vanne pur sciocca, e una padrona
acquistati
che,
qual io, possa dirsi un’Artemisia.
Te
villanella io volea far partecipe
45 d’una sinora inimitabil gloria;
ma
la gloria è una gioia che mal donasi
a
chi non la conosce.
penulo O sposa, a Cornia
si
perdoni un error che ha poscia origine
da
un zel di fedeltà.
sostrata Ma che inginocchiisi,
50 e
pianga, e preghi.
penulo Io la dimando in grazia.
sostrata A tanto intercessor
nulla dineghisi.
cornia Io l’una e l’altro umilmente
ringrazio,
ma
più ringrazio il ciel che mi fa libera.
Addio
signori.
penulo Ah, Cornïella amabile,
55 non esser mo sì stizzosetta. Io giuroti
che
in te sola è il mio scampo: ecco il tuo Penulo
tutto
nelle tue braccia.
sostrata Eh taci, e lasciala
frigger nel
grasso suo. Coi pugni io caccioti,
se
non vai tosto.
penulo Hai tu
bel tempo, o Sostrata:
60 tu in costei mi
distruggi il mio refugio.
Cornia
te’ questa borsa, e i zecchin
goditi
ch’ivi
dentro vi son, per amor mio; ma placati,
e
va in traccia di Lofa, e pon
silenzio
alla
sua lingua solfeggiante e garrula.
65 Spia se i quarti
pur sien rubati, e contagli[302]
ch’io
son fuggito, e che di là dall’Indie
fama
è ch’io voli; e non fiatare all’aria
me
qui celarmi. Anche a te stessa ascondimi,
o
ch’io son morto.
cornia Ed io farotti
ingiuria,
70 or che vèr me sì liberal, sì prodigo
col
donato tesor ti mostri? Ed invida
impedirti
io dovrò che l’invincibile
braccio
tuo nelle stragi ora disetisi,
e
che in lenta languisca ignobil ozio?
75 sostrata E in ver chi provocarti ardisca, o Penulo?[303]
penulo Ma, se nella sbiraglia
alfin m’insanguino,
qual
core avrò per adorarti, o Sostrata?
Gloria
e vendetta, ahi che innamorerannomi,[304]
e,
vivo me, ritornerai qual vedova.
80 sostrata
Ah tolga il ciel cotesti infausti
auguri.
Cornia, su
vieni, e facciam pace, io stringoti
a
questo sen, ma, tua mercé, non partane
il
mio sposo guerriero e petrarchevole.
cornia A tanti intercessor
nulla dineghisi.
85 Vo a trovar Lofa; a visitar vo l’albero,
e
voci vo della tua fuga a spargere.
Voglian gli dèi che ciò a salute vagliati.
SCENA SESTA
Sostrata, Penulo.
sostrata L’aria fredda notturna omai consigliaci,
poiché tu
tremi, a ricovrarci al talamo
per rinovare il sacrificio a Panfilo.[305]
penulo Lasciami qui, ché inevitabil
smania
5 mi distrae dal
piacer, di cui già sparvemi
tutto
il desio, da che paura entratami
nelle
viscere tutte, oimè congelami
il
sangue, e il core in agonia mi palpita.
sostrata Ma, come mai nome a te dianzi incognito
10 d’infingarda
paura in bocca or suonati?
penulo Io sempre vil
mi riconobbi, o Sostrata,[306]
se
non che Sannion dicea ch’io
supero
in
valor quanti eroi son, siano e furono,
e
imprese mi narrò famose e celebri
15 fatte da me, sì
ch’io già a lui credeale.
Ma
conosco esser falso il sermon magico,
e
che, come le vende a lui suo demone,
così
sfacciate e me vendea le frottole.
A
buon conto, per quel ch’io sol ricordomi,
20 fui poltron, son poltron, poltron mantegnomi.
sostrata O villana parola in lingua nobile
quanto
mal suona. Io nerboruto e valido
so
pur che sei.
penulo Nato villano, e avvezzomi[307]
marre
in campo trattar, di nerbo, o Sostrata,
25 non manco, è
ver; manco di cuor, né tollero
pure
il sangue veder: pensa mo a spargerlo
qual
cuor sia il mio.
sostrata Ma il
tuo natal, deh tacciasi,[308]
per
lo comune onor del
matrimonio.
Villan
si dica il successor di Panfilo?
30 Ma se il sangue
è villano, il volto e l’indole
l’ignobiltà
del tuo natal compensino,
e
leggendo il Petrarca ingentilisciti,
richiamandoti
in mente il don che fecene
alla
mia per tua man la man di Panfilo,
35 quand’ei spirto
ti apparve allegro e diafano;
e
comandò quell’imeneo che intuami.[309]
Ma
s’egli oprò, per farmi tua, miracoli,
certo non
lascerà ch’io da te sciolgami
per lui legata
in un perpetuo vincolo;
40 però leggi il
suo dono, e in lui rincorati.[310]
penulo O te l’amore o la follia fa credula
ad
un sogno del tutto immaginario,
che
la tua ritrosia sforzommi a fingerti.
Quel Petrarca
comprai sol per rivenderlo
45 a tal che in
prezzo se stessa donassemi,
e
in ciò fortuna ebbi al desir propizia;
ma
non sperar già ch’io lo legga, o siasi
perché
dolor, perché paura or m’occupa,
o
siasi perché né pur so leggere.[311]
50 sostrata Misera me! Ma quel sonetto?
penulo Ei costami
due bei
zecchini, e il cavalier di Napoli
fu
che il compose.
sostrata Un marinista? Oh diavolo!
Perché allor
m’ingannasti, o non ingannimi
tuttor, crudele? E questo fu ch’ei risesi
55 del mio a lui
recitarlo, e che corressemi
in
guisa, oimè, ch’io gli sarò ridicola.
Io
l’Artemisia un tempo, io la Vittoria,
or
io la sciocca, io la soldata, io misera
metà
d’un uom che, qual leon già intrepido,
60 or ch’è mio,
qual coniglio o lepre è timido?
Ma
vaglian tante mie sofferte ingiurie[312]
quel
tuo volto sanguigno, e quelle tergora,
quel
torso svelto, e rilevato in muscoli
tutti
ripieni di succo nettareo:
65 in lor grazia il
commesso error perdonisi,
e
dal compormi il canzoniero assolvoti;[313]
ma
non lasciarmi abbandonata e vedova!
penulo E pur vedova, oimè, sospese a un
albero
mirerai
queste membra.
sostrata Oh dèi! Risparmiami
70 sì funesto discorso.
E qual rimedio
a
tanto orrido mal trovar può femmina?
penulo E pur egli è in tua mano: io raccapricciomi,
Sostrata mia, non che a sperarlo, a dirtelo;
però
senza parlar ti lascio, e muoiomi.
75 sostrata Ma, ben mio, che fia
mai? Vuoi tu che l’anima
sparga
per te? La spargerò.
penulo Non
l’anima:
qualche
cosa di più si chiede, o Sostrata.
sostrata Ma di far disperarmi a gioco prenditi.
Parla,
o ben tosto, in faccia tua svenandomi,
80 unirò questo
frale al fral di Panfilo.[314]
penulo Ahi, che Panfilo appunto è il mio
rimedio.
sostrata Come sarebbe a dir?
penulo Ma a un’Artemisia
come ardirò
propor che del suo Mausolo
faccia in
brani le membra, e a un tronco appendale?
85 Ché la giustizia
in ritrovar che pendono[315]
dalla
pianta esecrata i quarti laceri
li crederà dell’assassino; e Penulo
allor
fia salvo a compensar di Sostrata[316]
la
vera fé con tanti vezzi e premi,
90 che più contenta
non avrà Cosmopoli.
sostrata T’intendo, o cuore mio: vuoi dir ch’io squarciti
là
quell’imbalsamato e vil cadavero?
E
per dirlo ci vuol sì gran proemio?
Qua
la spada: spacchiamlo; ed ambo in maschera
95 (che per Cornia e
per me là son due maschere
con
cui fuggimmo), insin che favorisconci
l’ombre notturne, il faremo in un attimo,
sì
che paia quel reo, dal tronco pendere.
SCENA SETTIMA
Cornia.
cornia Al vicin
bosco all’ospitale aggiromi,[317]
e non ritrovo
(ahi me tapina) il musico;
e
visto ho il tronco a cui di già pendeano
i
quarti in guardia consegnati a Penulo.
5 Ah infelice
padrona, io t’avrò misera
tradita
oimè per risanarti? E l’animo
smosso
t’avrò dal tuo primier proposito
per
unirti ad un uom, che, vil di nascita,
vil d’esercizio, andrà sovra un patibolo
10 a recarti,
morendo, eterna infamia?
Egli
là nel sepolcro, è ver, che ascondesi
colla
moneta, cui le scelleraggini[318]
entro
l’arche d’or gravi accumularono;
ma,
se il fisco sagace alfin lo penetra
15 vago di preda,
avrà rispetto a un tumulo,
per
sé sacro, onorando e venerabile?
Sì,
glielo avrà; ché sempre fur le ceneri
dei sepolti
defunti altrui refugio.
Se
fia Lofa loquace, e qual giudicio
20 uom scemo unqua
accettò per testimonio?
Io
negherollo, e il negherà pur Sostrata;
E,
poi che lui sottratto avremo all’impeto
delle
prime ricerche, allor poi fuggasi;
ma
non che s’abbia a riveder Cosmopoli,
25 ch’ogni paese al
valentuomo è patria;
e
gioie ed oro, ond’aspettar, non mancano,
che
la tempesta alfin s’allenti e plachisi.
Allor,
tornando a rigoder di Panfilo
i
lasciati poderi, andrà qual vedova
30 la padrona a
incensarne il pio cadavere
nei
dì solenni; e si dirà che Penulo
è
suo mastro di casa, e fra le tenebre
sole
sarà quel ch’è dover lui essere.
Già
di molte si sa matrone e nobili,[319]
35 che in nozze
occulte ai servi lor si sposano,
mariti
entro la notte amica e tacita,
valetti in giorno esercitati in camera
al
vestirle, al lavarle; o sia che seguanle
alla
portiera d’aurei cocchi ond’usano
40 inchinate da tutti ir per
Cosmopoli.
Ma
lo sposo lacchè, che i gerbin creduli
mira
far di cappello, in sé già ridene;
e
sotto la livrea broccato avvolgesi
e
finissimo bisso; e in borsa cantagli
45 l’oro della
padrona, e n’è sì tumido
che
l’osteria paga ai compagni, u’ bevesi
alla
salute della miserabile,
ch’irsene occulta a tutto il mondo credesi.
Ma,
rivelata poi dal marito ebrio,
50 va per bocca ai
lacchè scornata, e prendesi
di
mira alfin dall’implacabil
satira.
Ma
ciò, per Dio, non avverrà di Sostrata,
o
che un coltel sommergerassi
in Penulo
da
questa man, di vera fede esempio.
55 Tutta Cornia
oggimai richiamo in Cornia.
Ma
qual rumor? S’apre o non s’apre il tumulo?
Sì,
s’apre pur. Due mascherati? È Penulo
ed
è Sostrata, affé. Veggo le
maschere,
che
colà dentro a nostro uso serbavansi.
60 E qual peso
hanno in spalla? E gambe, e braccia?
Egli
è un corpo squarciato: è quel di Panfilo.
Ora
intendo il rigiro. E qual non supera
passione
un amor? Ve’ l’Artemisia,
che
fatto in brani ad appiccar va il Mausolo!
65 Ve’ che Vittoria
ad appiccar va il Davalo!
O
non pensata, o non sperata astuzia!
Visitar
vo’ la tomba, e là chiarirmene.
SCENA OTTAVA
Sannione.
sannione O fida mia cubicularia
animula,[320]
che qual
Libero vai lunato il vertice[321]
di
due tenere corna, e a cartilagini
l’ali
hai formate, come un vespertilio,
5 perché i denti
mi ostendi, e leto, arridimi,
e
pur la fronte, in cachinnando, hai torvula?
Or
che chiedo in mercé del mio servizio,
che
a un tocco sol del magistral mio baculo[322]
Panfilo
informi un novo spirto, e tornisi
10 colla sua
vedovella in lieta copula,
tal
che n’escluda il nebulon di Penulo,
che
colla gelosia mi scalpe e crucia.
..............................................................
Odo
le voci tue qual tintinnabulo[323]
l’orecchio
mio pulchre ed argentee allicere.
15 Ma tu ti scusi,
e a me volgendo il podice,
mi
posterghi, mi sperni, e floccipendimi:
o
spiritel, se tu non mi commiseri,
perché
ognor vieni entro del mio cubiculo,
e
alla sinistra ognor mi parli e voliti?
20 Deh, come è più
soave dell’ambrosia,
più
del nettare dolce il tuo colloquio,
fra
cui degno mi fai di qualche suavio,
così
mi sia in oprar men duriusculo.
..............................................................
..............................................................
O
maladetta torma, che interrompemi
25 i tuoi sermoni,
e veggio ben che mettiti,
nel
venir de’ profani, al labbro il digito.
Si
trasferisca il suaviloquio in crastino.[324]
SCENA NONA
Cavalier
Marino, Mirtilo, e detto.
c. marino Ma
non hai tu per la Rachele
e l’Adria,[325]
l’una una tua
pastoral, l’altra maritima,
ne’
teatri natii lombardi veneti
rappresentate
da Flaminia e Lelio,
5 fama qual più
bramar potea dramatico?
Ma chi mai
t’inspirò l’idee bucoliche
e
le aquatiche al par di me, che tessone
nella
mia Lira una sì lunga istoria?
Sienmi gli arcadi ingrati, e dovrallo essere
10 Mirtilo ancora? Onde me nieghi accogliere
in
suo compagno ad aguzzar le satire
contro
la a noi non esorabil Sostrata,
ma
non già tale a quel villan di Penulo,
che
fa mezzani i versi miei per vincere
15 il cuor di
questa sua folle Artemisia;
e
me di morte anche minaccia, e giurami
che
mia testa, se parlo, andrà per aria.
Per
mercede o timor sinora io tacquimi,
ma
poiché Lofa in solfeggiando or pubblica
20 gli amori suoi,
la sua viltà, la timida
natura
sua, non lo pavento, e gridolo.
mirtilo Pria ch’io risponda, o cavaliero, all’ultimo
de’
tuoi discorsi, uopo è che al primo io replichi,
e
ch’onde incominciasti anch’io cominci.
25 Gli argumenti bucolici e maritimi
trattasti,
è ver, né ti fu pur incognita
la
maestà delle grandezze eroiche,
scrittore
immenso e rimator mellifluo;[326]
né
de’ tuoi pregi è sconoscente Arcadia;
30 ma conosce
altresì che insaziabile
di
vagar, sia per dritto o per rovescio,
dove l’ingegno a la follia
trasportati,
e
fiori e spine e gemme e fango mescoli;
qual
torrente che ruoti e chiare e torbide
35 acque di piogge
e di ruscelli, e incorpore
diroccate
capanne, e tronchi inutili,
pastori
e greggi, e ciò che in esso incontrasi.
Tu
sai parlar, ma in ogni tempo; e mancati[327]
l’anche a tempo tacer; ché l’eloquenzia
40 in fiacca alfin loquacità degenera
qualor non è sol liberal, ma prodiga.
Già
non lodo nel dir certa avarizia
che tai cotai
del Cinquecento affettano
mal
chiragrosi, estenuati e maceri;[328]
45 ma lodo ben
l’economia che agli arcadi
convien,
come a pastor puliti e poveri,
che
tanto dan quanto bisogna, e serbano
quel
che, senz’ uopo, è follia lo spargere.
Fior
più vaghi de’ tuoi non Cinto o Menalo[329]
50 nudron nelle pendici alme odorifere,
ma
tanto sterpo e tanta spina imprunali,
che
a rischio uom va di punzicarsi in coglierne,
e
non pratica man per tema astiensene.
Gemme
più fine delle tue non splendono
55 dove i raggi del
dì nascono e muoiono,
ma
tal fango le involve, che pericola
di
lordo uscir chi si avventura a sceglierle.
Per
altro io teco or non ricuso in satire
tutto
cangiarmi; e saettar qual istrice
60 costei che gia delle nostr’alme a caccia,
e
cade essa alla rete indegna e tesale
da
un vil soldato. In faccia sua me Cloride[330]
accoglierà,
me sorridente, e l’arcade
selve
del non suo nome incise crescano.
SCENA DECIMA
M.
Cecco, e detti.
m. cecco Non canterò più qual per me soleasi,[331]
poiché ognor sospirar nulla rilevami.
S’appressa
il giorno, ond’io già son destatomi:
senza
la spada amor regga suo imperio;
5 chi smarrita
ha la strada, indietro tornisi:
chi
non ha albergo, sovra il verde posisi.
I’
diè in guardia al soldato, e più non pentomi;[332]
grave
soma è un mal fio per chi mantienselo;
quanto
posso mi spetro, e solo io restomi:
10 di là dal rio
passato è il merlo: invitovi
a
rimirarlo, o Cavaliero, o Mirtilo.
Ama
chi t’ama, è antico omai proverbio.
Brama
un’altera donna un amico umile;
e
male il fico al mio parer conoscesi.
15 Forse ogni uom
che m’ascolta non intendemi.
c. marino Cecco,
io t’intendo, e sin dentro alle tenebre[333]
dei
profondi apoftegmi acuto io penetro.
Feriam tutti uno scopo, e instabile femmina[334]
debil sarà, cred’io, ritegno ed
argine
20 al gran torrente
delle nostre ingiurie.
SCENA
UNDECIMA
Lofa, Cornia e detti.
lofa Cedono il canto, or che l’Aurora affacciasi,[335]
i
rauchi grilli agli augelletti amantisi
sul margine odorifero: Lucifero
versa rugiade, e vuol
che il giorno cantisi.
5 Cedono il canto ecc.
cornia Cent’anni è ch’io ti cerco, e mai non
trovoti.
lofa Cosa dirò, ché di sognar pur
sembrami.
Due
vidi, uom, donna, ir mascherati, e all’albero
aridi
quarti immantinente appendere;
10 poi fuggir
ratti, e me guatar fuggendosi,
e
me con atti minacciar, s’io timido
non
mi astenea dal seguitarli, e volgere
mi
fer sin l’occhio ad altra parte, o Cornia,
perché
la man m’instupidì sul cembalo,
15 e diè pace alle corde, e privò l’etera
del
dolce suon che i venticelli inebria
della
bell’armonia, con ch’essi imparano
a
susurrar fra i ramoscei che
piegano,
e
le cime dei fior legano e slegano.
20 cornia Or siamo in porto.[336]
mirtilo Or siamo
in porto, o Cloride,
salvo è il
buon mastro della petrarchevole.
c. marino Sì,
se noi tacerem quel che fòra
empio
tacer
d’un’empia. E qual altro cadavere
sostituito
aver potrà che il misero
25 corpo di lui
ch’ella piangea con lagrime
di
cocodrillo in quella tomba?
m. cecco Or eccoli.
cornia (A
parte) Misera me, costor già l’indovinano.
m. cecco Io lodo il gran disdetto, e lo
ringrazio,[337]
e
de’ scorsi miei danni or piango e ridomi.
30 cornia Scifra a Laureta tua gli oscuri oracoli.[338]
m. cecco Io già m’intesi: or chi lo puote, intendami.
SCENA
DUODECIMA
Sostrata, Penulo, e detti.
sostrata Cornia, ché non si appresta all’accademia
il dovuto
apparato? A me perdonisi
il
recitar, ché questa notte in lagrime
tutta
ho consunta a deplorar la perdita
5 dell’amato mio
sposo, il qual, fra nebbia
caliginosa
di cordoglio, apparvemi
a
far più triste agli occhi miei le tenebre;
onde
il sonno cacciò col sogno orribile.
Ma
il placherà la lode sua, che vittima[339]
10 grata gli fia più che se a lui svenassersi
cento ecatombe d’animai cornigeri.
penulo Il madrigale io spaccerò, cui tolsemi[340]
pronunciar
quel mio mortal deliquio
che
mi lasciò fra le tue braccia esanime.
15 Cavalier, siedi
a me vicino.
c. marino O
Penulo,
già so quanto
sei vil: già più non temoti;
so
le fortune tue, so le tue macchine,
che
testé da un capestro hanti a far pendere.[341]
Sono
le imprese tue sedur le vedove,
20 vïolare i sepolcri, e gli onorevoli
busti
de’ morti in bel trofeo d’infamia
lacerati
e sospesi esporre all’aria.
Me
più tosto richiami all’ombre elisie
la
cruda parca, ch’io soffra o disimuli
25 il disonor che per te fassi a Sostrata,
la
spasimata, e la sì fida a Panfilo,
ch’or
di sacrificarlo a tue lascivie
dovria lassa arrossire, e sen fa gloria.
Poco
è rubar l’altrui fatiche...
sostrata Eh cacciale[342]
30 quella spada nel
fianco.
c. marino E
come io temone,
se
alla spadaccia sua legato è Penulo,
ond’ei pende da quella?
penulo Io compatiscolo
sì come un
pazzo; e vuol virtute eroica
che
il superbo si domi al vil perdonisi.
35 mirtilo Il tuo timor colla pietà si
pallia.[343]
Tu
vedi ben che, se giammai venisseti
talento
in cuor di un sol capello torcergli,
minaccia
te la verga mia, che al cranio[344]
già ti
sovrasta a stritolarlo in polvere.
40 Ne ho prova già
su più d’un lupo, e sparsine[345]
di
un colpo solo in sull’erbetta il celabro
che,
rotto e sparso, agli avoltoi fa pascolo,
applaudendomi
i cani, e, saltellandomi,
di
gioia in segno, intorno intorno i teneri
45 agnelletti, che
pria si ascoser pavidi
sotto
le poppe delle madri timide.
Felice
me, che ti conobbi, o Sostrata,
e
ti lasciai per vaga ninfa e facile,
che
seguirammi in queste selve, e sorgere
50 farà qua un
fiore e là un ruscello al volgere
d’un
sol suo sguardo, e può, quand’ella voglialo,
veder
suo nome in queste scorze incidersi,
e
in un con esse e coll’amor mio crescere.
Tal
mercede un pastor ti serba, o Cloride.
55 m. cecco Io avrò sempre la fenestra
in odio[346]
onde
amor co’ suoi strali il sen trafissemi;
e
dal ciel fiamma in sulle trecce piovati,
malvagia
donna, poiché tanto giovati
il
male oprar, serva di gola e d’ ozio,
60 in cui l’ultima
prova fe’ lussuria.
Colmo
hai già il sacco, o avara Babilonia:[347]
or
vivi sì che il lezzo anche al ciel giungane;
e
qui, ‘ve Laura mia da me dividemi
amor,
stiamo a veder la nostra gloria.
65 sannione
Di qual ira intumesconmi
i precordi?
E
di qual sangue a me l’epate inflammasi?
Già
scoppiar mi sent’io la cistifellea
contro
costei, che, spreti noi, mio demone,[348]
sol
magnipende un sicofanta, un
Penulo.
70 sostrata
Perché sotto il mio piè terra non
apriti,[349]
quanto
meglio per me fòra in Cosmopoli
non
affettar virtù più che femminea,
e
quella posseder che a donna ingenua,
e
non saputa, e non viril convienesi.
75 penulo
Sei sì tosto pentita, o
petrarchevole?
sostrata Maladetta sia
pur di petrarchevole
tanta
albagia che a tal viltà strascinaci!
penulo Miseri noi, ci abbandonò fin Cornia,
or
che costor ci fan le fiche e ridono.
SCENA ULTIMA
Cornia
(coi custodi dell’ospitale), e detti.
cornia Io, di cui si favella, a voi presentomi,[350]
a vostro pro
non infedel, non timida.
Ecco
i custodi dell’infausto ospizio,
ch’io
condussi a punir l’altrui stoltizia.
5 Venite avanti,
o guardïani. Aggiransi
costor liberi troppo intorno al tumulo;
e, senza aver per gentildonna e
vedova
il
dovuto rispetto, audaci insultano
la
mia padrona, e me zitella insidiano.
10 Già mille fole
ad infamarci inventano,
e,
benché pazzi sien quei che le narrano,
e
perciò sien da giudicarsi aeree,
non
è però che da punir non sieno.
Or
che a’ servigi suoi prescelto ha Penulo,
15 osan dir che l’adori, e ch’ei posseggane
(orribil cosa a raccontarsi!) il talamo;
che
più tosto, più tosto il ciel la fulmini
ch’ella,
o pudor, le leggi tue mai violi.
Chieggo però che flagellati or danzino
20 ad onta loro, e
capriole trincino,
la
mercé vostra, in lor emenda, e chiudali,
come
a pazzi convien, perpetuo carcere.
Cecco
accuso, il Marin, il mago, e l’arcade,
ma
Lofa no, ché almen si
tacque, e astennesi
25 dal secondar le
altrui ribalde ingiurie.
Ma
stiasi ei pure a solfeggiar nell’aere,
e
sol tocchi e ritocchi il clavicembalo
de’
suoi consorti al saltellar ridevole,
ma
che per lor fia pizzicante. All’opera.
30 m. cecco Ahi le spalle![351]
c. marino Ahi le braccia!
sannione Heu me! Le
natiche!
mirtilo Ahi, che appello, ma indarno, al
mio collegio!
Termina colla sferzatura,
e col ballo ecc.
Il fine
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[1] Per maggiori dettagli si rimanda
alla Nota biobibliografica di
Hannibal S. Noce nella sua edizione di Martello,
Scritti critici e satirici, cit., pp.
497-509.
[2] Lo aveva già rilevato con puntualità
la pur benevola, ampia recensione di Fido,
Il “ritorno” del Martello e una recente
edizione del suo teatro, cit.
[3] Dal proemio a Gli occhi di Gesù, in Scritti critici e satirici, cit., p.
510.
[4] eccellentissimo Teleste: è lo pseudonimo
pastorale di Giovan Battista Recanati (1687-1734 o 1735), «patrizio veneziano e
accademico fiorentino», presente con 19 sonetti nel secondo tomo delle Rime degli Arcadi curate a Roma dal
Crescimbeni nel 1716; egli fu anche autore di un’edizione di Bracciolini, Poggii historia florentina nunc primum in lucem edita. Notisque, et auctoris vita illustrata ab Jo.
Baptista Recanato Patritio
Veneto, Academico Florentino, Venetiis, anno
MDCCXV, apud Jo. Gabrielem Hertz, criticata da un teologo ugonotto francese
alle cui osservazioni polemiche rispose con le Osservazioni critiche ed apologetiche sopra il libro del Sig. Jacopo Lenfant intitolato «Poggiana», fatte da Giovambatista
Recanati patrizio veneto, e della Società Reale di Londra, in Venezia, per
Giovambattista Albrizzi, 1721. In quello stesso 1716 aveva inoltre curato
l’antologia di Poesie italiane di rimatrici
viventi (già ricordata nell’Introduzione),
a cui si fa riferimento nel quarto atto della commedia. Appassionato di teatro
e legato all’entourage di Apostolo
Zeno e di Scipione Maffei, a cui dedicò la sua tragedia Demodice (uscita a Venezia sempre
presso il Coleti nel 1720, e ristampata l’anno
successivo a Firenze presso il Manni), aveva patrocinato con fervore la rappresentazione
dell’Adria di Martello al teatro San
Luca di Venezia il 30 gennaio 1715 recitata dalla compagnia di Luigi Riccoboni
(su cui cfr. la nota al testo di Noce
in Teatro, II, pp. 765-768 con i
carteggi relativi fra Riccoboni, Martello e Recanati). La decisione del
Martello di pubblicare la commedia Che
bei pazzi si intreccia a questo problematico ‘fiasco’, all’interno di una
precisa strategia drammaturgica, di cui il patrizio veneziano, appassionato di
teatro e di donne savantes,
è interlocutore privilegiato. Su di lui si rimanda al già citato saggio di Pizzamiglio, Poetesse italiane nel solco di Petrarca.
[5] di quel racconto che Petronio Arbitro: la storia della Matrona di
Efeso è un celebre inserto novellistico (legato al genere licenzioso della fabula milesia) interno al Satyricon di Lucio Petronio Arbitro, prosimetro latino del primo secolo dopo Cristo che parodizza il romanzo greco d’amore e d’avventura; la
commedia di Martello ne ricalca fedelmente l’impianto, con accentuate
sottolineature nere e grottesche. Ricordiamo il precedente di Eustachio
Manfredi, amico e co-autore con Pier Jacopo di vari libretti per musica, che
aveva a sua volta volgarizzato la Novella
della vedova efesina (in Prose e rime
pastorali degli Accademici Difettuosi, composte in
occasione dello sposalizio fra i signori conte Guid-Ascanio
Orsi e signora contessa Caterina Orsi, Bologna, Tipografia alla Rosa, 1709,
pp. 60-64; poi ristampata in Prose degli
Arcadi, vol. II, Roma, A. De’ Rossi, 1718 e in Rime, Bologna, 1760). ♦ o,
per capriccio compostala: una prima ideazione della commedia, magari in
forma di recita accademica, potrebbe risalire al 1706, come fa pensare il preciso
riferimento cronologico contenuto al verso IV.2.119, dove Marino dichiara che
sono passati 137 anni dalla sua nascita (avvenuta nel 1569).
[6] la Scolastica dell’Ariosto:
l’esperimento tentato da Luigi Riccoboni, nella stagione di carnevale del 1716, di recitare al pubblico
veneziano una commedia regolare in versi sdruccioli fu, come è noto,
disastroso: il pubblico del San Luca collegava al nome di Ariosto materia e
personaggi cavallereschi e rimase disorientato; Flaminia, la primadonna che era
sempre un punto di forza per la compagnia, non vi aveva parte e la recita si
dovette interrompere. L’episodio è collegato, nella tradizione critica, alla
decisione degli attori di partire per la Francia, arrendendosi
all’impossibilità di ‘riformare’ le scene italiane. Ma la partenza era già
stata fissata da tempo, e forse le cose sono più complicate e gli eventuali
‘committenti’ di questa rischiosa proposta scenica restano ancora da mettere a
fuoco. Lelio, a distanza di anni, sembra assumersene la piena responsabilità: «Scielsi fra le comedie in verso
de l’Ariosto la Scolastica, come la
meno libertina, e con qualche alterazione, cioè levandoci un frate, e
sostituendo altro decente personaggio in sua vece, moderando lo scioglimento
col sfugire uno stupro, e cambiando in circa cento e
cinquanta versi, la posi su la scena nella città di Venezia dove mi trovavo; ma
fu con tale sfortunato successo, che doppo una
smoderata inquietudine de’ miei spettatori fu necessario di finirne la
rappresentazione al principio de l’atto quinto. I più sciocchi del mio numeroso
uditorio si credevano che la Scolastica
fosse l’Orlando furioso travestito in
comedia, e la gioventù ancora più studiosa e colta
non sapeva che l’Ariosto avesse mai fatto comedie. Al’ora fu che giudicai disperato il rimedio» (Luigi Riccoboni, Discorso della commedia all’improvviso e scenari inediti, a cura di
Irene. Mamczarz, Milano, Il Polifilo,
1973, pp. 8-9). Fu una cocente delusione che, su vari fronti, smorzò parecchi
entusiasmi in materia di riforme teatrali. Rivolgendosi idealmente allo stesso
Ariosto, Mirtilo/Martello rievoca in termini simili
la serata disastrosa ne La rima vendicata
(II, 2, 361 e sgg): «[....]Non
ben da te si mastica / ch’Adria, quant’è, sdegnasse soffrir la tua Scolastica, e pur lei sui teatri spiegar
Lelio e Flaminia, / di quai sì ben gli affetti l’un pinge
e l’altra minia. / Presente era Vinegia; pendeano attenti i visi/di ben cento ottimati tutti a dar
plauso assisi: / recitavasi a tali, che udian sì volentieri / l’Orlando
tuo sui remi cantar da’ gondolieri: recitavasi a tali, cui trar solean
que’ carmi / per Po suso a Ferrara per baciarvi i
tuoi marmi, / venerandovi quasi prostrati il simolacro / dell’italico Omero,
che assiste al cener sacro; / e pur sull’infelice
metà della commedia, / chi sbadiglia, chi s’alza, chi parte, e chi s’attedia: /
si sussurra, e si grida (cosa a narrarsi orrenda) / che si cali, e si cala devuta alfin la tenda» (Teatro, I, p. 567). ♦ Lelio e Flaminia, egregi comici: sono i
nomi d’arte di primi amorosi della celebre coppia composta da Luigi Riccoboni
(1676-1753) ed Elena Balletti (1686-1771), attori di prestigio che in quegli
anni dialogavano intellettualmente con i circoli letterari veneti, in
particolare intorno a Scipione Maffei, e recitavano sulle scene dei teatri
veneziani San Luca e San Samuele al soldo di Alvise Vendramin. ♦ ha potuto qualcuna delle mie tragedie e la
marittima non sol tollerare, ma generosamente encomiare: lo stesso Lelio,
d’intesa con Maffei e Orsi, aveva portato il teatro di Martello al pubblico
pagante: l ‘Ifigenia in Tauris, dopo un fortunato debutto al teatrino
dell’Arena di Verona (tradizionale spazio per ‘testare’ in anteprima le novità
da proporre a Venezia) il 27 agosto 1711, era stato
riproposta al teatro san Luca nella stagione d’autunno, e poi anche a Vicenza,
Modena e Bologna negli anni seguenti; nel 1712, durante la Quaresima, era
andata in scena, sempre al San Luca, la biblica Rachele, e il 30 gennaio 1715 l’Adria.
Tutti successi (ricordati anche in Che
bei pazzi V, 9, 474) di cui il Martello, sempre così esitante e spaventato
dal confronto scenico, era molto orgoglioso, e che ricorda con compiacimento
anche ne La rima vendicata II, 2, 377
e sgg.
[7] nel verso sdrucciolo aveva per avventura imitato: Martello aveva aggiornato
gli endecasillabi sdruccioli di Ariosto, elaborando un verso, che da lui si
dirà martelliano, composto da una coppia di settenari a imitazione
dell’alessandrino francese; pur consapevole dell’ostinato «pregiudicio
in cui sono le teste italiane di voler per tutto ornamenti da lirico, e forme
di dire o petrarchevoli o chiabreristiche», egli
contrappone all’imperante e superficiale musicalità in voga sui palcoscenici
italiani un linguaggio volutamente artificioso ma anche colloquiale: adatto a
«come debba parlare un attore», «che paia prosa legata; ma se poi la slegarete alla prova vedrete non esser prosa, et avere
anche questa sorta di locuzione il suo poetico, quantunque assai naturale e
modesto» (Lettere, rispettivamente
pp. 48 e 49).
[8] ed io questo più tosto che quelli abbiam seguitato: nella sua
ideale enciclopedia delle forme drammatiche Martello associa la commedia
letteraria, piuttosto che al modello latino attestatosi dal Cinquecento in poi,
a quello aristofanesco, di cui apprezza la carica satirica e l’artificiosità
teatrale (in nome di quel verosimile «finto» che secondo lui pertiene alla
scena); le sue riflessioni su Aristofane sono affidate alla prefazione all’ Euripide lacerato, composto a ridosso di
Che bei pazzi probabilmente nel 1716,
e ad essa accomunato da una marcata ed esclusiva destinazione letteraria (cfr. Teatro, I, pp. 423-429); al comico
verosimile e pedagogico di marca plautina e terenziana
(a cui si rifà Ariosto) pensa dunque di poter sostituire con miglior profitto
un riso mordace e satirico di natura intellettuale. ♦ prenduti in mira ancora gl’ingegni: «Parmi che
Aristofane abbia calcato una strada da umano piè non prima battuta,
introducendo in teatro le critiche non solamente de’ costumi, ma de’ poemi e
degli stili: satira, che a’ dì nostri per me si è
promossa, siccome quella che, tendendo unicamente ad emendar gl’ingegni, lascia
in un canto e nella lor pace i costumi» (Esamina
dell’Euripide lacerato, Teatro,
I, p. 427). Nella lettera di dedica premessa a Il segretario Cliternate al Baron di Corvara
di satire libro del 1717, ritorna questa esplicita distinzione fra satira
di costume (sostituita egregiamente nei tempi moderni dalle prediche religiose,
più efficaci nel dissuadere dai vizi) e satira di idee: «Noi però, dai costumi
alienandola [la satira], abbiam voluto
accostarla ai soli errori degl’intelletti nelle materie letterarie. mettendo
coloro in ridicolo che per via di negozi e di traffichi affettano fama, che è
il vizio moderno della falsa e, purtropppo, ancora
della vera letteratura» (Scritti critici
e satirici, p. 73).
[9] tanto nelle cose quanto nelle parole, secondo il mio pensamento cercato
veracemente il ridicolo: nell’impianto rigorosamente aristotelico del suo
ragionamento, in commedia la favola, i personaggi, i costumi e l’apparato
devono essere in tutto «ridicoli», ed esigono il corrispettivo di un linguaggio
verbale intrinsecamente altrettanto comico dal punto di vista ritmico,
stilistico e retorico, di cui passa in rassegna tutte le componenti e le fonti
in questa lettera di dedica. Scommessa, evidentemente, ardua da onorare. ♦
Antonio Riccobuoni:
il riferimento è all’opera di Antonio Riccoboni (1541-1599), professore dello
studio padovano: Aristotelis Ars Rhetorica ab
Antonio Riccobono Rhodigino I. C. Humanitatem
in Patavino Gymnasio profitente latine conversa... Aristotelis Ars Poetica ab eodem
in latinam linguam versa. Cum eiusdem de re comica disputatione,
Cum Privilegio, Venetiis, apud Paulum Meiettum,
Bibliopolam Patavinum,
1579. La Disputatio de re comica (alle pagine 431-457) è
stata edita modernamente a cura di Bernard
Weinberg nei Trattati di poetica e
retorica del Cinquecento, vol. III, Bari, Laterza 1972, pp. 255-276.
Martello utilizza questo testo, citandolo più volte a memoria con qualche
inesattezza, mentre traduce alla lettera i passi del Galluzzi. ♦ Tarquinio Galuzzi:
il gesuita reatino Tarquinio Galluzzi (1573-1649), professore di retorica,
celebre oratore e severo rettore di collegi e seminari romani, fu allievo di
Bernardino Stefonio il più autorevole autore di «tragedie
cristiane» per i collegi della Compagnia di Gesù e fissò la poetica ufficiale
dell’ordine nelle sue Tarquinii Gallutii Sabini e
Societate Jesu De Antiquorum Comoedia Commentarius, compreso nelle Virgilianae vindicationes et Commentarii
tres de tragoedia, de comoedia et elegia, Romae, Ex
Typographia Alexandri
Zannetti, 1621. ♦ che la cosa, o il
detto ch’eccita il riso, null’altro sia se non vizio e turpezza senza dolore:
«ridiculum hoc est: rem dictumque
concitans risum, nihil aliud esse, nisi vitium et turpitudinem sine dolore» (ivi, p. 340 nel capitolo VIII Quae sint causae ridiculi, quibusque sit e fontibus petendus risus).
[10] Le maschere ancora de’ miei tre vecchi...: Martello precisa con
molta puntualità l’immagine scenica dei suoi personaggi (quattro in maschera e
quattro senza), tutti, sia pure in gradi diversi, fisicamente deformati in
chiave «turpe», cioè grottesca, esagerandone espressionisticamente le anomalie
fisiche e psicologiche. I quattro poeti pazzi presi di mira —i tre «vecchi» e
il non vecchio Mirtilo/Martello, messo alla berlina
con qualche riguardo in più— adottano maschere flessibili che coprono tutto il
volto, ma sono articolate in due pezzi separati per agevolare la dizione.
♦ inciso dal rinomato Fiamingo:
il Marino irrompe in scena in II.6.113 vestito alla spagnola, stralunato,
lacero e incoronato di alloro, sulla falsariga del celebre ritratto che gli
fece nel 1621 il pittore olandese Frans Pourbours il Giovane. ♦ messer Cecco con quella cocolla: un’altra grottesca e idolatrica
incarnazione, affidata a minuti e feticistici dettagli: cfr. il testo in IV.2.31
(che allude all’icona vulgata del Petrarca «cocollato
e chierico»), e in II.6.33 (sul «ritrattino in tavola» di Laura che messer Cecco si porta attaccato al collo). ♦ il Pedagogo poi...: il personaggio fonde
qui quelli del Dottore e del Mago e si esprime in una lingua maccheronica e
oracolare; un altro Pedagogo, che parla latino, e che si contrappone al
Rimatore Mirtilo, compare ne La rima vendicata.
[11] Mirtilo, che è l’autore: l’autoritratto metateatrale
pecca di una certa indulgenza: la maschera arcadica richiama le fattezze
dell’autore Mirtilo Dianidius
raffigurato nell’incisione che decora l’antiporta del primo volume delle Opere, Bologna, 1723-1735. e così
descritto in un affettuoso sonetto-ritratto composto dall’amico Eustachio
Manfredi: «Agil gamba, agil
fianco, agile imbusto, / buon color, fronte aperta, occhio amoroso, / sottile
il labbro, un sotto l’altro ascoso, / naso lungo aquilin
fra il grande e il giusto. // Venerabile il tergo, il passo onusto, / alta la
testa, il portamento arioso, / parlar soave ed atteggiar vezzoso, / francese
l’aria e spagnoletto il fusto. // Un conversar
giocondo, un naturale / affaccendato disinvoltamente, / di grand’impegno e di
ripiego uguale, // il carattere in volto di una mente / piena d’alti pensieri,
fra quai prevale / la gran tranquillità del non far niente.» (Eustachio Manfredi, Rime scelte, a cura di Francesco Foffano,
Reggio Emilia, tip. Ariosto, 1888, p. 75). ♦ poche sono l’opere
sue dov’egli non si faccia seguitare dagli armenti...: «la rivendicazione
più esplicita per il pastorale cantore di una dignità che è forse più umana che
letteraria verrà pronunciata da Pier Jacopo Martello nel Ragionamento intorno allo stato presente degli Arcadi del luglio
1710 in Bosco Parrasio (cfr. Prose degli
Arcadi, II, Roma, A. de Rossi, 1718, pp. 164-174)» (Maria Grazia Accorsi, Pastori
a teatro: dal melodramma al dramma ebraico, ne La Colonia Renia, II, p. 279). ♦ la mascheraccia di
Lofa...: l’eunuco musicante, grassissimo e
grinzoso, che reca a tracolla uno spinettino a
tastiera, è infatti descritto da Sostrata in
II.7.23-27 con un «faccia, a mirarla, e vecchia e giovine, / sì è crespa e
imberbe, ond’è che in lei si accoppino / apparenze di
maschio e in un di femmina». Mentre il Soldato, come tutti gli amorosi, recita
senza maschera addobbato in un vistoso costume guerresco, alla maniera dei
Capitani della Commedia dell’Arte.
[12] quando ciò che da lungo tempo desiderammo accade giocondissimamente
all’animo nostro: « risum
excitantia duo sunt: ea, quae longo iam
tempore desideravimus, quaeque
animo nostro accidunt iucundissime»
(T. Galluzzi, Commentarii, cit., p. 348 nel
capitolo X De rebus ipsis
quae dicuntur agunturque ridiculis). La
lista di questi topoi
comici stesa dal Galluzzi amplia, ma ricalcandola quasi alla lettera, quella
del Riccoboni (cfr. De re comica,
cit. p. 275).
[13] quando alcuni errori, sbagli ed innezie degli
altri incontriamo: «et ea quae quosdam habentes errores, ineptias, et deceptiones aliorum» (Galluzzi, Commentarii, cit., p. 348 nel
capitolo X De rebus ipsis
quae dicuntur agunturque ridiculis).
♦ taluno constituito
in età avanzata ignori quello che san perfino i ragazzi: «neque enim facere possumus, quin rideamus, cum aliquos
intuemur ea nescientes quae vulgo sciutur ab omnibus. Cuiusmodi erat Homeri Margites: qui adultus, et iam virilem provectus aetatem, ambigebat a quo nam ipse fuisset ex utero in lucem editus: a patre ne, an a matre» (ivi).
[14] Il secondo ridicolo nasce o dall’ebrietà, o dalla frenesia, o da
qualche sogno: «Secum nascitur
ex ebrietate, aut a phrenesi
aut ab aliquo somnio» (Galluzzi, Commentarii, cit., p.
348). ♦ Il terzo deriva
dall’ignoranza di certe arti o dall’estimazione imprudente ed insana delle
proprie forze, lo che opera che alcun confidi di
potere, o sapere far cose, le quali affatto ignora e fare non puote: «Tertium ex ignoratione oritur aliquarum artium, aut virium aestimatione suarum imprudenti, et insana: qua fit
ut ea scire, ac facere se posse confidat
aliquis, quae prorsus ignorat, ac facere nequit» (ivi). ♦ che si dicono soldati gloriosi, predicando
di aver espugnati eserciti, alloggiamenti e città, allorché sono vilissimi,
com’è la tracotanza trasoniana presso Terenzio:
«ex hoc item genere sunt milites
gloriosi, qui praedicant urbes,
exercitus, castra, genus humanum uno se spiritu difflasse, evertisse montes, pugno elephantos comminuisse. Quo facile revoces Griphum illum piscatorem
in Plauti Rudente» (ivi). Questa volta la citazione è
imprecisa, sostituendo l’esempio del Gripo plautino
del Rudens
con quello terenziano di Trasone
dell’Eunuchus
(che è per l’appunto un soldato).
[15] Il quinto s’aggira circa le trappole
nelle quali talun s’induce a cadere senza suo gran
detrimento: «Quintum
contra habet insidias quasdam minime vitatas, ac declinatas, sed eas tamen
quae non ita magnum afferant
homini decepto detrimentum» (Galluzzi,
Commentarii,
cit., p. 349).
[16] Altri luoghi topici del ridicolo addita il Galluzzi nel cap. XI...: intitolato «De aliis quibusdam locis. Unde peti
dicta et ridiculum queant» (Commentarii, cit.,
pp. 349-353). Il
riferimento ciceroniano è all’excursus
«de ridiculis»
nel secondo libro del De oratore (235
e sgg.), in cui si discute dell’origine del riso, dell’opportunità e dei limiti
con cui servirsene da parte dell’oratore, e dei tipi convenienti di ridicolo da
adottare. ♦ Succede il paragramma, e la paranomasia, o
sia allitterazione: «Secundus est paragrammata, sive paranomasia. Latine dici potest allitteratio» (Galluzzi,
Commentarii,
cit., p. 350). Si tratta di una figura retorica che consiste nell’accostare
parole simili nel suono ma di significato diverso. ♦ come per ragion d’esemplo sarebbe: il riferimento è,
rispettivamente, a II.1.91; II.2.128; III.3.129; III.3.39; III.3.44.
[17] Il terzo fonte è l’equivoco: «Tertius
ambiguo continetur, et amphibolia»
(Galluzzi, Commentarii, cit., p. 350) Si
tratta di un discorso o di un’espressione sintatticamente ambigui, che
consentono interpretazioni diverse. ♦ il
verso di Sannione latinizzato: la citazione si
riferisce a IV.4.177, che però recita «est l’amor del poeta, o l’est del Penulo?». ♦ Come
pur l’altro di Sostrata...: anche qui la
citazione di V.6.3 è imprecisa: «per rinovare il
sacrificio a Panfilo». ♦ per la
uniformità che ha col soldato plautino: in verità il soldato plautino per
antonomasia è Pirgopolinice, protagonista del Miles gloriosus,
mentre il nome di Penulo ricalca il titolo del Poenulus,(cioè il giovane
cartaginese). L’onomastica classicheggiante è ben poco filologica, come di
consueto, del resto, nella librettistica e nella drammaturgia dell’epoca.
[18] Il quinto è la parodia. mercé di cui si abusano alcuni passi di nobili
autori, o nulla o poco mutati, per renderli affatto ridevoli..:
«Quintus habet parodiam, quae versus aliquos poetarum nobilium perparum immutatos, aut ne immutatos quidem in alicuius hominis irrisionem convertit» (Galluzzi,
Commentarii,
cit., p. 350). ♦ essersi nel secol
d’ oro musicalmente parlato: cfr. la scena sesta del secondo atto.
[19] quand’uno col detto e col fatto palesa il vizio dell’animo suo: «Ac
ridiculi quidem definitio ex Aristotele colligitur
ut sit, quod movet risum, ex turpitudine aliqua aut corporis aut animi aut
rerum extrinsecus positarum,
quae turpitudo placeat» (Riccoboni,
De re comica, cit., p. 272). ♦ col fatto del prepuzio di Panfilo: il
dettaglio dell’evirazione è una nerissima aggiunta del Martello alla
crocifissione del cadavere di cui si parla nella novella petroniana. ♦ le cose estrinseche ancora....: «Alia est turpitudo
rerum extrinsecus positarum,
ut generis, rei familiaris, consuetudinis
impudicae» (Riccoboni,
De re comica, cit., p. 273). ♦ «E come io temone...:
in V.12.32 c’è «ond’ei pende da quella».
[20] laonde Cesare appresso di Cicerone...: si riferisce a Giulio Cesare
Strabone, il più adatto, per indole, fra gli interlocutori del De oratore, a illustrare il già
ricordato excursus de ridiculis.
♦ E mi pare che Platone nel suo
Sofista...: «Definitur autem
turpitudo a Platone in Sophista, ut sit
recessus quidam ab eo quod naturae congruit»
(Riccoboni, De re comica, cit. p. 273).
[21] m’invogliai di conservare la mia commedia: cioè di non darla alle
fiamme come era stato inizialmente tentato di fare. Ricordiamo in quanti lo
hanno fatto (o hanno raccontato di averlo fatto) con i propri componimenti
teatrali: da Goldoni a Pirandello. ♦ suo
fratello che le diè il compimento: la commedia,
lasciata incompiuta da Ariosto con il titolo I Studenti, fu, come è noto, completata in due diverse versioni dal
figlio Virginio e dal fratello Gabriele, che la intitolò appunto Scolastica. ♦ i savi applausi di ben sessanta patrizi. è difficile valutare se in
questa sottolineatura numerica ci sia, o no, traccia di ironia.
[22] al pubblico esperimento de’ palchi venali esibita: su questa ferma
posizione del Martello di volersi tenere lontano dai palcoscenici pubblici si
rimanda all’introduzione. Ma osserviamo che il «popolaccio» implacabile e
feroce che sovrasta i «savi applausi» degli spettatori aristocratici si rivela,
subito dopo, composto di più innocui «artigianelli» che a buon diritto vanno a
teatro per divertirsi con le maschere dell’Arte, e non certo con le commedie di
Ariosto.
[23] all’apparir del Dottore...: questo Dottore grasso e logorroico che
gesticola in dialetto bolognese, e questo smanioso Pantalone cicisbeo con
sembianze di civetta fissano con perspicua e affettuosa icasticità delle
istantanee sceniche cariche di verità, esulando dal tono dei tanti testimoni
settecenteschi, che ci descrivono le maschere dell’Arte —guardate ma non
‘viste’— in forme appiattite e banalizzate.
[24] Finocchio è un rigiratore...: questo zanni bergamasco «sciocco e
astuto nello stesso tempo, dai modi leziosi e effeminati» (Enciclopedia dello Spettacolo) nasce nel ‘500 come una variante di
Brighella e riscuote un particolare successo in area emiliana, nella Compagnia
del Duca di Modena, grazie al primo zanni Andrea Cimadori,
sostituito nel 1686 da G. B. Paruti e nel 1689 da
Carlo Zagnoli. «Attaccarsi alle paglie per non sommergersi» vuol dire ricorrere
a qualsiasi trucco per cavarsela. ♦ quella
sua maschera mora ritonda...: anche la descrizione di questo Arlecchino,
tecnicamente accuratissima, rivela lo sguardo di uno spettatore appassionato e
competente.
[25] il Coviello, il Giangurgolo o il Puccinella: tutte maschere meridionali (Giangurgolo è calabrese ed è parte di vecchio)
tradizionalmente presenti negli organici delle compagnie attive in area
bolognese e presso il Duca di Modena (cfr. Monaldini, Il teatro dei comici dell’Arte a Bologna, cit.).
[26] men perseguitando la moda del vivere che quella del verseggiare:
l’autore si ritaglia dunque una fetta minoritaria di pubblico, accontentandosi
di condividere con esso il piacere di un teatro che indaga più la letteratura
che la vita reale. ♦ non danzi, ma
a guisa di sciolta orazione agiatamente cammini: di questa specifica natura
ritmica ma ‘prosastica’ della dizione recitativa, che vincola gli attori al
testo evitando loro di incorrere in «astrattezze» e «baldanze» nefaste, il
Martello è un convinto assertore, come si argomenta nell’introduzione, a cui si
rimanda.
[27] Né già desidero da questa rappresentazione escluse le donne: il
Martello, in una lettera al Muratori del 9 agosto 1710, riferisce di avere
«avuta somma soddisfazione di avere donne per giudici, poiché le donne non son
in ciò prevenute d’alcun pregiudicio poetico» (Lettere, cit. p. 51); in quel caso egli
si riferisce ad una rappresentazione conventuale del Gesù perduto nel convento del Corpus Domini di Bologna e non ad un
pubblico mondano. Al di là della larvata misoginia di questa commedia, la
questione era spinosa e apertissima, in un contesto in cui personaggi come
Muratori o Maffei aspiravano ad una drammaturgia interamente al maschile. Dopo
una prima fase di attiva partecipazione dei due sessi alle recite carnevalesche
private nella cerchia dell’Orsi, a partire dal 1690 nell’entourage accademico bolognese le dame intervenivano soltanto come
spettatrici, e i ruoli femminili erano ricoperti da attori maschi giovani o da
attrici professioniste (cfr. Guccini,
Per una storia del teatro dei dilettanti,
cit. p. 281).
[28] Monsignor de Molière...:
il precedente delle Femmes savantes faceva scuola in materia di galanterie
letterarie; nel suo soggiorno parigino dal marzo 1713 al dicembre 1714, al
seguito della legazione pontificia del cardinale Pompeo Aldovrandi,
Martello era stato introdotto dall’abate Conti in teatri e salotti, e ricorda
due recite di questa commedia alla fiera di Saint-Germain e al castello di Sceaux, dove la duchessa del Maine Luisa Benedetta di
Borbone-Condé presiedeva un prestigioso circolo letterario e teatrale.
[29] In vitium ducit culpae fuga, si caret arte: Ars poetica, V, 31.
[30] perché lasciarlo mancante di una commedia istrionica: cioè di una
commedia con le maschere tradizionali dell’Arte. Ancora una volta per Martello
è centrale la questione del linguaggio, con una forte (e rassegnata)
consapevolezza dell’abisso che separa il testo dallo spettacolo; per cui
giudica senz’altro impossibile —oltre che inopportuno per ragioni morali—
tentare di restituire in forma scritta il dialetto e la recitazione dei comici
dell’Arte.
[31] uno sfogo, il men nocivo che dar si possa: tollerare le improprietà
licenziose della scena istrionesca come indispensabile valvola di scarico per
evitare mali peggiori è argomento topico di molta trattativa controriformistica
in materia, a cui il Martello si allinea totalmente. Un’ampia e appassionata
difesa del valore civile e morale del teatro è affidata alla «Dedicazione» All’Illustrissimo ed Eccelso Senato di
Bologna premessa nel 1723 ai due volumi del Seguito del teatro italiano (Teatro,
I, cit.,pp.
653-665).
[32] In genere il Martello definisce
«personaggi» o «attori» i protagonisti di tragedie, tragicommedie e drammi
sacri, mentre —come in questo caso— li chiama «interlocutori» nei componimenti
per musica o nella variegata serie di prove ‘estravaganti’ (satire lucianesche
come Il piato dell’H, “farse di
bestie” come A re malvagio consiglier peggiore, bambocciate come Lo starnuto di Ercole, ditirambi come Arianna ecc..), a cui forse si addicono
stili recitativi poco naturalistici. La loro onomastica classicheggiante è
genericamente derivata da Plauto, Terenzio e Menandro. Il personaggio di Mirtilo/alias l’autore ricompare anche ne La rima vendicata, «rappresentazione
satirica» antipedantesca, di analogo impianto
letterario, uscita a stampa nel volume quinto delle Opere del 1723.
[33] I guardiani sono detti «mimi»
perché arrivano in scena, alla fine del quinto atto, in una sequenza muta e
danzata. ♦ Della Cosmopoli fantastica in cui è ambientata l’azione
Martello si ricorderà nella princeps
de Il secretario
Cliternate al Baron di Corvara di satire libro,
pubblicata anonima con l’indicazione «Cosmopoli al Grifo l’anno 1717», dove
riemerge la vena sarcastica della commedia e l’autore nascosto si rende
altrettanto riconoscibile per indizi anagrammatici.
[34] in cui la vedovella, d’Artemisia: Artemisia, regina di Caria e
vedova inconsolabile di Mausolo, gli fece erigere ad
Alicarnasso un sontuoso sepolcro annoverato fra le sette meraviglie del mondo
antico e chiamò i più celebri retori dell’epoca a pronunciarne, in gara, le
lodi, come farà Sostrata nella commedia.
[35] che imbalsamato e non converso in cenere: il prologo richiama molti
dettagli della petroniana novella sulla Matrona di Efeso.
[36] cui nella fantasia sola un’immagine ecc.: la pazzia consiste
dunque, per ciascuno di loro, nella fissazione monomaniacale per la poesia, a
cui si somma la follia amorosa.
[37] contro il soffiar di Borea e di Favonio: Borea è il vento che
soffia da nord, e Favonio, o Zefiro, da ponente.
[38] Suggerisce ragion che mai per lagrime: la serva Cornia —motore
decisivo dell’intreccio come già la sua omologa del Satyricon— esibisce una ferrea logica ragionativa di notevole
effetto comico, e si rivelerà spesso, nel procedere dell’azione, dotata di un’impeccabile
e competente dialettica letteraria e persino forense. Nell’ottica
intenzionalmente letteraria della commedia, Martelli prova a trasformare in mimetismo
linguistico caricaturale il metamorfismo scenico della parte, rifacendosi a
tradizioni compositive di cui si ricorderà, per fare un esempio famoso, il
Goldoni de La donna di garbo.
[39] nel comprato dolor di cento prèfiche: «grazie al compianto funebre di numerose
lamentatrici prezzolate» Il vedovo evocato dalla cameriera eloquente, elaborato
rapidamente il lutto, non perde tempo a guardarsi intorno in cerca di nuove
nozze.
[40] alza, e delle gramaglie il lungo strasico:
comica e icastica l’immagine che coglie in simultanea il gesto di sollevare lo
strascico nero dell’abito vedovile e di sbirciare i balconi circostanti in
cerca di qualche occasione propizia.
[41] sin che proni a vicenda i capi inchinansi:
«finché, agganciati reciprocamente gli sguardi, i due arrivano a scambiarsi un
discreto cenno di saluto».
[42] e noi, che il Cielo e la natura instabili: «e noi donne, più
fragili degli uomini, e per natura più vulnerabili nei confronti dell’amore».
[43] che dal sesso viril bandita esageri: cioè
faccia tanto più onore al nostro sesso testimoniare una virtù a cui gli uomini
hanno rinunciato, giudicandola eccessiva e impraticabile.
[44] gita primiera la bella Artemisia: «la bella Artemisia non pensò se Mausolo le sarebbe stato o no fedele se lei fosse morta
prima di lui».
[45] non ti sovvien di quel famoso Davalo: Sostrata allude a Ferdinando Francesco D’Avalos, marchese
di Pescara, morto nel 1525 e lungamente compianto in rime e sonetti amorosi
dalla
moglie Vittoria Colonna (1490-1547), il cui esempio essa intende emulare
insieme a quello di Artemisia.
[46] a cui le membra han qui serbate i balsami: «di cui gli unguenti
profumati hanno preservato il corpo, mentre il suo spirito aleggia libero qui
intorno, mescolandosi all’aria che respiro piangendo».
[47] e l’imitazion sì poi confermasi:
«e l’imitazione si radica fino al punto da risultare inestirpabile». Il furor poetico
degli innnocui malati che si aggirano nei dintorni è
dunque contagioso e incurabile; l’ammiccamento, quasi metateatrale,
è rivolto ad una platea di letterati a loro volta a rischio di follia.
[48] E sin a quando, o Cornia: alle pratiche argomentazioni della serva,
preoccupata di intisichire e morire di fame, Sostrata
risponde con alti accenti di sdegno, che riecheggiano le ciceroniane Catilinarie.
[49] Chi bussa?:
il testo allude, sempre con una certa precisione, all’apparato scenico fisso,
ripartito in due zone visibili in simultanea agli spettatori: l’interno del
sepolcro di Panfilo (in cui si svolgono varie sequenze dell’azione) e un
esterno genericamente silvestre che reca sullo sfondo la forca con l’impiccato
a cui Penulo deve fare la guardia. Le due parti della
scena sono divise da una parete con una porta praticabile, a cui si allude al
verso I.2.106.
[50] Che gaie piume ha su l’elmetto!: anche la notazione costumistica è precisa (e del resto confermata dalla
dedicatoria): Penulo, poeta ridicolo ma amoroso seducente,
indossa l’elmo piumato e la corazza tipica di un Capitano dell’Arte
«pennacchiato tutto e nastrato, con arme lucide, antiche» da paladino
medievale.
[51] né a schivo aver che da un soldato insegnisi:
«e compiaciti di imparare da un soldato come vendicarti nobilmente della morte
che ti ha portato via Panfilo». Penulo si adegua
comicamente all’alterigia di Sostrata con un
linguaggio involuto piuttosto goffo, invitandola a sfogare sui polli la sua
rabbia repressa.
[52] e il pane e il cinnamomo, arosto inghiottesi: anche questi dettagli culinari sono
topiche stilizzazioni comiche di ascendenza ridicolosa, replicate, tra l’altro,
in una vasta iconografia: i pollastri succulenti con cui Penulo
inizia il suo assedio amoroso sono dunque lessi, arrostiti e cucinati in umido
con burro e cannella.
[53] Io mi sento morir se non divorovi:
altrettanto topica è la controscena della serva affamata, che pure sfoggia un
linguaggio alto e retorico per convincere la padrona a mangiare.
[54] o suggesti tu ancor delle Pierie: il
pomposo discorso di Sostrata, che da subito scambia Penulo per un intellettuale e un poeta, resta troncato
dalla candida ignoranza di lui in materia di latte delle Pieridi, le nove
figlie di Pierio e di Pella che sfidarono le Muse in una gara di canto sul
monte Elicona.
[55] All’aureo secolo si conformava: Penulo è
pronto a rimediare alla gaffe, immediatamente rilevata da Cornia, trasformando
la madre pecoraia in una pastorella arcadica da età dell’oro.
[56] Son io forse da men? Son pertichevole:
gli equivoci e i clamorosi svarioni in cui inciampano gli indotti
confrontandosi con la lingua colta costituiscono un altro meccanismo-cardine
del comico: Penulo, scambiando «petrarchevole» con «pertichevole», si vanta di saper tenere a distanza, con la
sua asta minacciosa, i curiosi che si avvicinano troppo al patibolo di cui è
custode.
[57] Ve’ il campion del senato: «vedi in me il campione del Senato e del
Popolo». Questa professione di civismo eroico da parte di Penulo,
custode di cadaveri, risuona comica (e forse amaramente critica da parte dell’autore).
[58] Vuoi che ignota a un guerrier sia la vittoria:
il soldato continua beatamente a non capire il linguaggio di Sostrata.
[59] mediterò qualche prosetta in tenere rime:
la crassa ignoranza di Penulo, che ignora persino la
differenza di base fra poesia e prosa, è altrettanto ridicola della pretesa
fedeltà maritale di Sostrata, pronta a giurargli
amore eterno «da vedova onorata».
[60] Io mi ti rendo, o Cornia: «io mi arrendo a te, o Cornia».
[61] a me tiro la porta, e fuori io serromi:
con comica inversione di senso.
[62] Me la fortuna ad altri sì volubile: Penulo,
dunque, nella sua carriera di carrettiere e poi di militare (ricostruita ai
versi I.5.30-35), è sempre riuscito, finora, ad evitare di misurarsi
fisicamente con gli avversari e di rischiare la pelle.
[63] spalle mie, che dispari avea quel piccolo:
il soldato, vanitoso della propria prestanza fisica, si paragona con Alessandro
Magno —che, secondo la tradizione, era basso, tozzo, sgraziato e con una spalla
più bassa dell’altra— e con Scipione l’Africano, ma confonde i dati storici,
assegnando al primo la conquista di Cartagine e al secondo la vittoria su Dario
di Persia
[64] Ma qual barbon con toga venerabile: Sannione
è uno dei tre vecchi in maschera, abbigliato in un costume da Dottore dell’Arte
con «barba nera, e […] gran toga, […] magica o maestrale», come uno «spauraccio da passeri», che ricopre il ruolo comico del
pedagogo e del mago e si esprime in lingua maccheronica (come anche farà un
altro pedagogo, suo collega, ne La rima
vendicata del 1721).
[65] quella sua verga ond’ei gestisce e rotala:
la vistosa agitazione di Sannione, che descrive in
aria circoli misteriosi con la sua bacchetta di mago, suggestiona e inquieta Penulo, immediatamente più che disponibile a prestar fede
ai suoi incanti.
[66] e non turbar con indiscreti eloqui: «e non disturbare con le tue
chiacchiere importune lo spirito che mi accompagna e mi serve, altrimenti ti
farà assaggiare le sferzate e la potenza magica della mia verga».
[67] Per la mia voluptà pria voglio il demone:
«prima voglio supplicare lo spirito in tua presenza, quindi chiedergli quello
che desideri». Sannione parla una lingua pedantesca e
latineggiante e si accinge ad un rito magico, terrorizzando il pavido soldato —che
pure dovrebbe essere avvezzo al fragore (taratantara) delle battaglie—
paralizzato e muto entro il cerchio magico tracciato per terra.
[68] Il mio coraggio or stringesi: Penulo sta tremando come una foglia e raccoglie all’interno
del suo cuore il poco coraggio che possiede.
[69] Aspice il Socrate: «Guarda l’antico Socrate reduce dall’adilà insieme al suo demone con cui era solito dialogare
interiormente senza che gli altri potessero udirli». I rapporti fra Socrate e
il suo spirito-guida sono attestati da Platone nell’Apologia di Socrate e nel Simposio.
[70] e flagreranno a te legni odoriferi: «e bruceranno in tuo onore
legni profumati se esaudirai due mie richieste». Sannione
dialoga (o finge di dialogare?) con uno spirito invisibile, chiedendogli l’amore
della bella Sostrata dagli occhi neri e dal petto
candido, che lo ha annientato (sannionicida) e fatto innamorare (sostratifilo).
[71] Ora so che amor sia: «ora conosco la ferocia di Amore, educato da
Marpesia, regina delle Amazzoni, e allattato dalle feroci tigri indiane». Lo
spirito, ridendo, gli conferma che Amore ha anima caucasica (cioè aspra e
feroce, come gli abitanti di quella remota regione), bell’aspetto e pessimo
carattere (detterrimo,
da deterior).
[72] ed è che quest’onor del Bello Punico: «ti
prego anche che questo soldato glorioso possa diventare magicamente un poeta:
mostrati a lui, come a me, o spirito servitore, in modo che oda la tua voce,
che è in grado di spaccare le pietre». Un’evenienza che, peraltro, terrorizza Penulo.
[73] che Libia al par d’Annibale condecora?: «che onora la Libia come
Annibale?»
[74] Evanuì; per inseguirlo io volito: «Svanì; scappo ad inseguirlo». Così Sannione si trae brillantemente d’impaccio.
[75] Son io da men, perché altri a me ricordilo?: il monologo
stralunato di Penulo —che si è appena rivelato a se
stesso come valoroso ed eroico— ha alle spalle una lunga tradizione comica di
personaggi incerti circa la propria identità e la propria storia (da Calandrino
e dal Grasso legnaiuolo in poi).
[76] e del guadagno mio comprai: «e con i soldi guadagnati mi comprai
(da un capitano disonesto) un ingaggio nell’esercito che mi rese socialmente
rispettabile».
[77] O tu, che appresso ai laureati ceneri: il vecchio pazzo che si
crede la reincarnazione di Giovan Battista Marino irrompe in scena (mascherato,
stralunato e in «abito antico napoletano») invocando la città di Napoli, che
custodisce le sue spoglie insieme a quelle di Sannazzaro (il buon pastore
Sincero protagonista dell’Arcadia) e
del mantovano Virgilio.
[78] perché a canora e nova vita or m’ecciti: «perché mi resusciti a
poetare in questo secolo ingrato dove, insieme a me, sono resuscitati e si sono
moltiplicati i miei grandi nemici?». Marino allude ai suoi più feroci avversari
‘storici’: Gaspare Murtola (1570-1624), che dopo
averlo preso di mira nei sonetti satirici della Marineide, arrivò addirittura a
sparargli in un agguato tesogli a Roma nel 1609, e Tommaso Stigliani
(1573-1651), che stroncò ferocemente l’Adone
nel suo Dell’occhiale uscito a
Venezia nel 1627; e lamenta che l’Arcadia contemporanea rinnovi contro di lui
le antiche persecuzioni.
[79] Dove, o baldo Achillini e Preti candido:
il cavaliere si rivolge alle ombre dei suoi sodali e seguaci defunti: i
bolognesi Claudio Achillini e Girolamo Preti, il
leccese Antonio Bruni, il bolognese Giovan Battista Capponi e il fiorentino
Giovanni Ciampoli, perché intervengano dall’aldilà (dal silenzioso Lete) a tacitare
i suoi invidiosi detrattori.
[80] che addenta i nomi e che di noi fa strazio: «che, come un cane
feroce, aggredisce la nostra reputazione, un tempo oggetto di ammirato stupore
ed ora invece di dileggio e disprezzo». Il marinismo barocco declina nel gusto
contemporaneo, dominato dal classicismo arcadico.
[81] quando i volumi nostri insin per l’orride: «mentre i nostri canzonieri, dal Meridione,
travalicarono gli aspri crinali dell’Appennino fino a raggiungere la Francia e
l’Olanda».
[82] poi da batavo torchio impressi uscirono: «poi furono stampati dalle
tipografie olandesi». I Batavi erano gli antichi abitanti dell’Olanda
meridionale.
[83] e inviarmi al presciutto, al cacio, ai bigoli:
l’inchiesta ‘di mercato’ compiuta dal cavaliere
redivivo nei dintorni di Cosmopoli (alias Bologna) gli ha rivelato che le
pagine dei suoi libri (secondo un antico topos
catulliano attinto dal carme n. 95, dove si dice che i versi di Volusio serviranno a incartare gli sgombri) sono utilizzati
dai salumieri per impacchettare le loro merci (i bigoli sono un tipo di pasta).
[84] Ecco un altro librar piatir nel fondaco: «ecco un altro libraio che
si lamenta con me, uscendo dalla sua bottega e investendomi della polvere che emanano
i miei libri tarlati ed abbandonati».
[85] Lira, Sampogna, Epitalami: il libraio
intende vendergli a peso, per pochi spiccioli, le sue opere, un tempo stampate
a Venezia dal tipografo Francesco Baba e richieste dovunque a peso d’oro. L’immagine
di libri «dappoco» (in quel caso di autori cinquecenteschi eclissati dai
trionfanti poeti barocchi) venduti «a vilissimo prezzo» «per li panchi di piazza» ritornerà
nel dialogo Il Tasso o Della Vana Gloria
del 1722 (cfr. Scritti critici e satirici,
p. 394).
[86] «E chi or si pregia?»: «E quale poeta al giorno d’oggi va per la
maggiore?».
[87] d’insigne Murator ben degna fabbrica: era fresca di stampa (1711) l’edizione
modenese, per i tipi dello stampatore ducale Bartolomeo Soliani, delle Rime riscontrate co
i testi a penna della Libreria Estense, e co i fragmenti dell’originale di esso poeta, s’aggiungono le
considerazioni rivedute e ampliate d’ Alessandro Tassoni, le Annotazioni di
Girolamo Muzio, e le Osservazioni di Lodovico Antonio Muratori, un’ opera,
destinata a grande fortuna, che riporta il petrarchismo al centro della cultura
arcadica fra filologia, buon gusto e «regolata lettura» filosofico-religiosa;
il Marino vi allude con paternalistica sufficienza, rammaricandosi che tanto
sudore non sia stato invece sparso per valorizzare i pregi nascosti della sua
poesia. Il Martelli, buon amico del Muratori, ammirava molto questo lavoro, che
definisce «insigne» (cfr. Lettere, p.
58) e l’abate, di rimando, nella lettera-prefazione indirizzata al Conte
Antonio Rampaldo il 28 maggio 1711, gli riconosce il
merito di aver reso giustizia al poeta «contra le pretensioni e gli abusi della
Scuola Marinesca, la quale nel secolo prossimo passato avea
preso troppo gran piede fra gl’Italiani con danno del buon Gusto e della buona
morale» (Le Rime di Francesco Petrarca,
cit., p. XXXV). Il riferimento di Marino a quest’opera è ovviamente un
implicito omaggio metateatrale di Martello all’amico,
definito affettuosamente «ingenuo», cioè di animo schietto.
[88] Mostrami poi vecchie raccolte, ed avido: «il libraio continua a
importunarmi proponendomi di acquistare vecchi canzonieri cinquecenteschi».
[89] Io li vidi color, ma qual Virgilio: «ma, come Virgilio attinse
qualcosa di buono per la sua Eneide
dai fangosi Annales di Ennio, così io
ricavai pur qualche fiore dalle loro rime spinose». Marino si esprime
concettosamente, difendendo la propria superiorità rispetto alla tradizione
petrarchista cinquecentesca.
[90] generoso ch’io fui, per sin lodaili: «arrivai
persino a tributare loro un generoso elogio nel canto IX dell’Adone». Qui la fontana di Apollo
simboleggia la poesia stessa, e ospita una nutrita schiera di cigni sacri a
Venere, che cantano a gara per lei e adombrano, oltre che Petrarca, Dante e
Boccaccio, alcuni lirici cinquecenteschi di prestigio (Bembo, Casa, Sannazzaro,
Tansillo, Ariosto, Tasso e Guarini).
[91] Mi soggiungono poi di certa Arcadia: il discorso, rivolto
enfaticamente al dio Pan, è alquanto involuto e così risuona: «gli esponenti
dell’Arcadia, seduti sulle rive del fiume che rappresenta la poesia, osano
contrapporsi a me, che per primo seguii le orme pastorali di Sannazzaro, fino a
superarlo, lasciandolo indietro rosso di vergogna lassù nei campi Elisi».
[92] Già del Bosco Parrasio all’ombra ir gli
Arcadi: «Ormai questi Arcadi si sono impadroniti della memoria classica, come
se fossero dei Greci autentici, a dispetto di quelli veri —i Traci, e i Veneti
loro successori ( per il tramite di Antenore)— e tali
si proclamano con pomposi pseudonimi». Boschi
Parrasi (dalla Parrasia che è una regione dell’Arcadia) erano definiti i
luoghi di riunione degli accademici romani —prima agli Orti Farnesiani, sul
Palatino, e poi nel giardino Ginnasi all’Aventino— che lo stesso Martello aveva
frequentato intensamente durante il suo recente soggiorno nella capitale; solo
nel 1726, grazie ad una donazione di re Giovanni V di Portogallo, sarebbe stata
inaugurata, con questo nome, la villa alle pendici del Gianicolo che ne divenne
da quel momento in poi la sede ufficiale.
[93] Anch’io Filen mi nominai: «Nella persona
di Fileno, nome derivato dall’amore, il poeta descrive se
stesso con gran parte degli avvenimenti della sua vita»: così recita l’Allegoria premessa al canto nono dell’Adone.
[94] così fosse fiorito, e dolce e fertile: Marino apprezza dunque in
parte «il tenero stile» arcadico che piacerebbe allo stesso Sannazzaro, ma
auspica che possa innalzarsi, facendosi più concettoso, ricco di antitesi, di
immagini icastiche e di paronomasie.
[95] ‘ve dal secol presente appello al postero: «ho deciso dunque di
tornare al presente e ridurmi in questo luogo desolato, Cosmopoli, per
appellarmi ai posteri e restaurare la mia fama usurpata».
[96] dagl’insulti febei la solitudine: «ma neanche qui posso trovar pace
dalle polemiche letterarie».
[97] entrambi pazzi. Ad una micia abbracciasi:
Qui —e in II.6.42— correggiamo in micia
il micca del
testo, che è un evidente refuso. Secondo una fortunata e diffusa tradizione,
Petrarca amava molto la gatta che accompagnò l’ultima parte della sua vita
nella casa di Arquà; là se ne conserva ancora il corpicino imbalsamato, in una
nicchia sormontata da un’iscrizione recante due epigrammi latini del canonico
Antonio Quarenghi (1547-1634). Il pazzo petrarchista Cecco arriva dunque in
scena stringendosi al petto una gatta, e il pazzo arcade
Mirtilo tirandosi dietro per le corna un lercio
capretto.
[98] Misero me, che invan son Dianidio:
Mirtilo Dianidio era
appunto lo pseudonimo arcadico di Martello; Mirtilo
si lamenta che la dea Diana, di cui è seguace, non lo abbia aiutato a trovare,
in tutta Cosmopoli, un capretto più bello di quello che sta faticosamente
trasportando con sé; sfidando i capri rivali in onore della bella Sostrata, esso doveva inchinarsi leggiadramente davanti a
lei, che, camminando leggera, fa fiorire persino la polvere senza lasciarvi
traccia. L’arcadismo di Mirtilo
è leziosamente petrarcheggiante, secondo moduli che Martello parodizza nella sua canzone Apologia del comporre pastorale (cfr. G. Distaso, Fra Barocco e Arcadia: poesia ed esperienza
critica di Pier Jacopo Martello, cit., pp. 516 e sgg.)
[99] non vi è per entro il pastorale: imparino: al nome pedestre di Sostrata è meglio sostituire quello classicheggiante di
Artemisia, che tuttavia risuona troppo solenne per una ninfa, e andrà dunque
anagrammato in Amirtesia, parzialmente consonante con
quello di Mirtilo. Si prende di mira, naturalmente,
la leziosa e pedantesca onomastica accademica.
[100] ché dal Petrarca mio mai non pronunciasi:
l’aberrazione di Messer Cecco è quella di utilizzare soltanto parole presenti
nelle Rime del suo idolo, una pratica
che non piaceva decisamente a Martello, come spiega ad esempio in una lettera
del 26 gennaio 1702: «Il Secolo vuole pensieri vigorosi, e siano pure quei del
Petrarca mascherati, o ancor smascherati ciò non importa. Io venero il pensar
alla maniera del Petrarca, ma non stimo tanto il ripetere i di lui pensieri» (Lettere, p. 32), o nel sesto fra i Sermoni della poetica (vv. 364-366), dove aveva scritto: «Quind’io
te pazzo e vil poeta estimo,/che,
di pittore original, copista/vuoi farti, e gir dall’alto
seggio all’imo.» (Scritti critici, p.
54).
[101] Seguo madonna anch’io : le luci tremule:
Messer Cecco abusa, naturalmente, di tropi e immagini petrarchesche: occhi
luminosi, aure vibranti, archi e faretre d’Amore...
[102] Però ad Amor non fu onore, al mio credere: «però non fu onorevole,
da parte di Amore, colpirmi mentre ero indifeso, risparmiando invece lei dalle
sue frecce».
[103] io l’amerò, se fosse Lena o Taide: «io l’amerò anche se si
chiamasse Lena, come la mezzana protagonista dell’omonima commedia di Ariosto,
o Taide, come la prostituta dell’Eunuchus di Terenzio». Un’affermazione enfaticamente
paradossale che può far ridere solo un’udienza colta in grado di decifrarla.
[104] cui non saggian la gola, il sonno e l’ozio:
«che basta a se stessa e resiste a qualsiasi altra
esigenza materiale». Anche qui è evidente il richiamo al De vita solitaria e a molti componimenti del Canzoniere che celebrano il distacco dal mondo.
[105] or son condotto in quella parte a volgermi: Cecco, cioè, si trova
vicino al sepolcro, al cui interno Sostrata si
consuma in lacrime.
[106] S’io credessi per morte alfin scarco essere: «se potessi liberarmi dal giogo amoroso
recidendo l’esile legame che ancora mi tiene in vita, esalerei volentieri l’ultimo
respiro, ma il desiderio mi mantiene vivo anche se privo di speranza». Il
lamento di Cecco cita i sonetti XXXVI e XXXVII del Canzoniere (S’io credessi per
morte e Sì è debile
il filo a cui s’attene).
[107] A te, dolce animal, che dai lo stroppio:
l’apostrofe è rivolta alla gatta che Cecco si porta dietro: essa impedisce (dà
lo stroppio) ai topi di fare i loro
danni; secondo la tradizione, infatti, la gattina di Arquà difendeva dai loro
assalti i manoscritti del poeta. Gli astanti osservano e commentano fra sé: Mirtilo la chiamerebbe semplicemente «gatta», mentre Marino
preferirebbe la definizione meno pedestre di «piccola tigre graziosa».
[108] Per me ricorrasi: riprende l’appassionata
apostrofe di Messer Cecco alla gatta, a cui chiede di perorare la sua causa
(ricorrere in giudizio) presso la ritrosa Sostrata
(petrarchescamente detta nemica), ma
la bestia non collabora e gli resta attaccata addosso miagolando disperata, e
lo fa cadere, suo malgrado, in un linguaggio eterodosso e alquanto comico.
[109] ebbe da me fama la fiamma eterea: Marino, punto sul vivo, si palesa
ai due, rivendicando, con molte involuzioni stilistiche, i propri meriti sia
petrarcheschi —per aver lui pure celebrato nell’Adone il poeta, che in Provenza, sulle rive del Sorga, emulò Apollo
nell’amore per Dafne/Laura e per la poesia— che bucolici, attestati dai versi
della sua Sampogna.
[110] Io l’arrivai sul margine odorifero: l’incontro di Marino con Sostrata, addormentata lunghe le rive profumate del
ruscello, riecheggia naturalmente la celebre rievocazione di Laura in Chiare, fresche e dolci acque.
[111] Di’ mo il tuo caso, e giocherò: «racconta
ora la tua esperienza e scommetto, chiamando a giudicare lo stesso Apollo, che
non sarai capace di celebrarla poeticamente. Ti sfido a comporre su di lei dormiente
soltanto otto versi più belli dei miei». Gli otto sdruccioli della sfida, come
osserva subito Mirtilo, sono poco barocchi e semmai
piuttosto petrarcheschi e arcadici; riconoscendo in parte le rivendicazioni
letterarie del rivale, egli si fa portavoce del moderatismo di Martello sulla
spinosa querelle che travagliava l’accademia.
[112] Gli Elisi: il Marino, sollevando le risa e l’incredulità dei suoi
interlocutori, ribadisce quanto aveva già affermato al verso II.2.81, ma senza
che i due cogliessero appieno il messaggio: egli, cioè, ha abbandonato l’aldilà,
dove sedeva accanto a Mosco e Teocrito, padri della poesia bucolica, per
risarcire la propria fama nella cieca modernità che lo ha dimenticato (e dunque
ritiene di avere tutte le referenze del caso per comporre in qualsiasi stile).
[113] il defonto suo sposo invita a piagnere: i versi
altrui è il complemento oggetto, e il senso è: «Sostrata
sollecita i versi altrui, cioè i poeti, a celebrare il suo sposo defunto».
[114] Ed io, poiché tornare a me non degnano: anche il lamento di Cecco è
alquanto concettoso: i suoi sospiri amorosi, respinti da Sostrata,
non tornano a lui, che ne è il legittimo proprietario, ma si aggirano nell’aria,
sradicati e senza padrone; il vento li tormenta come essi tormentano l’amante, trasformandoli
in entità dolenti che fanno risuonare ovunque i loro lamenti.
[115] Io vo’ più tosto farmi un liquid’aere: voglio
dissolvermi io stesso nel dolore, piuttosto che contribuire (con i versi che tu
mi richiedi) ad accrescere il suo, giacché Sostrata —così
straziata per il marito che può solo respingere e scacciare ulteriori
sofferenze amorose, come la mia— non è in grado di inabissarsi ancora di più
nella nebbia dei pensieri luttuosi. Cecco respinge dunque la richiesta,
rispettosa e molto concreta, del soldato.
[116] Va’ per versi d’amore a chi non sentelo: «vai
a chiedere versi amorosi a chi non è vittima di Amore».
[117] a cui, più che a Diana, offrir le vittime: «a cui io, Mirtilo, dovrei fare più offerte votive che alla stessa dea
Diana che onoro come pastore di Arcadia».
[118] e per questa, cui Pan dispari fistola: «e attraverso le canne (in
numero dispari) di questo flauto sacro a Pan, farò sgorgare armoniosamente il
suo nome», facendolo udire agli abitanti semidivini delle selve, e agli stessi
venti che smetteranno di stormire per ascoltarlo.
[119] Io cantar per altrui? Così faticasi:
anche Mirtilo respinge sdegnato la proposta: scrivere
versi d’amore per Penulo sarebbe come lavorare a
vantaggio di qualcun altro.
[120] Quand’io Lete varcai nud’ombra aerea:
soltanto Marino, spinto dalla fame, raccoglierà dunque l’offerta, aiutando Penulo a corteggiare Sostrata,
che pure è così dura con lui.
[121] perch’eterna laggiù vivea memoria: «perché laggiù si
ricorda in eterno il mitico ritorno dal regno dei morti di Orfeo», al cui
passaggio le pene infernali di Issione, Sisifo e
Tantalo ebbero un attimo di tregua.
[122] l’alma, che riguadò soletta e misera: ma
quando mi sono reincarnato, l’anima, guadando nuovamente l’Acheronte, non si
portò dietro la cetra poetica; cioè: in questa nuova vita ho perduto la mia
fama di un tempo e sono povero e oscuro.
[123] Questo è il Petrarca?:
Penulo —con implicita, comica incredulità— crede di
avere in mano il misterioso Petrarca, ma si tratta invero della Lira, il canzoniere di Marino,
enciclopedicamente ripartito in rime «Amorose, Marittime, Boscherecce, Heroiche, Lugubri, Morali, Sacre e Varie».
[124] Ve’ di pedante anzi inudita astuzia!: ironicamente Marino, che cerca di
istruirlo un po’ sui rudimenti della poesia, lo invita a leggere a voce alta,
cominciando dal fondo, una sua egloga in cui due pastori fanno l’elogio della
rosa(cfr. Or che d’Europa il toro, in
G. B. Marino, Poesie varie, a cura di
B. Croce, Laterza, Bari 1913, p. 30).
[125] Sogl’io tacito scorrere: l’intera sequenza delle manovre di Penulo per dissimulare il proprio analfabetismo,
affastellando scuse sempre più fantasiose, riecheggia schemi topici della
drammaturgia comica.
[126] e sugellati io drizzerolli a Penulo,: Marino intende, cioè, inviare a Penulo, in un plico chiuso, il sonetto straordinario che
comporrà per lui, ma l’altro, che non sa leggere, gli raccomanda di
portarglielo invece di persona per farglielo sentire recitato a voce alta.
[127] D’asse chiodo con chiodo al fin discacciasi:
«chiodo scaccia chiodo»; il ruvido buon senso di Cornia demistifica l’enfasi
oratoria della sua padrona.
[128] non se l’Arcade stesso e il Petrarchevole: non violerò mai il mio
giuramento «neppure se Mirtilo e Cecco mi
regalassero, invece che queste due bestie, i versi che mi farebbe piacere avere
da loro».
[129] per le lor teste, ove tutt’altro è serio: la pazzia che li ha
colpiti, secondo i guardiani del manicomio, riguarda soltanto le loro fantasie
intellettuali, mentre per il resto sono normali (e dunque verosimilmente e
ragionevolmente innamorati di te, insinua con astuzia la serva compiacente).
[130] E che vuol dir quel ritrattino in tavola: si tratta del «pendente»
di una collana con il «ritrattino di Laura», a cui si allude anche nella
dedicatoria della commedia, che, evidentemente, fa dubitare la vanitosa Sostrata della sincerità di una tale infatuazione, Cornia
continua pazientemente a rassicurarla.
[131] E che vuol dir sul capo suo la laurea: Cecco, dunque, è
letteralmente ‘travestito’ da Petrarca con una corona di alloro in testa e una
cappa rossa con cappuccio. Ciascuno di questi poeti pazzi vive una totale
simbiosi con il proprio modello, che ripugna al tollerante e relativista
Martello.
[132] Spasma d’amor nei dì sacrati a Venere: ogni venerdì lo si sente
sguaiatamente recitare il terzo sonetto del Canzoniere,
rievocando il proprio innamoramento, che scattò il venerdì santo 6 aprile 1327.
[133] E quell’altr’uom, che di pellosa e ruvida: Sostrata,
continuando la sua discreta e vanitosa inchiesta per testare la sincerità degli
spasimanti, descrive Mirtilo abbigliato con un tipico
costume pastorale: relativamente giovane, biondo, coperto di pelli e provvisto
di bastone, corona di pino e alloro, bisaccia e zampogna. Un ritratto tutto
sommato meno spietato degli altri tre e, nelle intenzioni dell’autore, intenzionalmente
riconoscibile «con una maschera composta del naso aquilino e dell’aguzzo suo mento, con faccia ridevolmente
ridente, e in ogni parte sua caricata più alquanto del proprio originale», come
spiega ancora la dedicatoria.
[134] Odo quest’altro esser bel pazzo. Egli arcade:
accogliamo la correzione proposta da Hannibal Noce all’originale Odo essere quest’altro bel pazzo. Egli arcade...
[135] Arrossisce a portar la lunga e serica: la descrizione di Sostrata si allarga quasi a inserto metateatrale.
Mirtilo/Martello preferisce di gran lunga le rustiche
vesti alla lunga toga di professore dello Studio che gli compete, come anche
preferisce agli studi la poesia amorosa in onore di ninfe, che furono già Nine
o Amarilli (pseudonimi arcadici rispettivamente di Teresa Zani e di sua moglie Caterina
Torri), e ora si chiamano Sostrata/Amirtesia. Sul personaggio di Teresa Zani, una giovane
poetessa bolognese amata in gioventù dal Martello e al centro di un affaire sentimental-poetico
che ha a che fare, probabilmente, con la genesi della commedia, cfr. B. Croce, I versi di Teresa Zani, cit. e l’introduzione.
[136] Ma, se un altro bel nome e più bucolico: Cornia finge
scherzosamente di voler rubare alla padrona questo corteggiatore,
conquistandolo con il nome (poeticamente più maneggevole) di Clori.
[137] d’ amebei cantilene a gara alternano: i pastori arcadici dialogano
cantando al suono dei loro rozzi strumenti sulle rive del mitico fiume Alfeo,
che insegue la ninfa Aretusa trasformata in fonte. Lo sfoggio di erudizione da
parte di Cornia suscita l’invidiosa ammirazione dell’ignorante Sostrata, che invece storpia bucolico in bicolico.
[138] Potessi io pur, non da costor si succidi:
Sostrata comincia ad apprezzare l’attraente Penulo (rispetto ai suoi laidi concorrenti) e vorrebbe
apprendere da lui le meraviglie della poesia toscana per celebrare il suo sposo
che l’attende nell’adilà insieme alle due coppie
esemplari Artemisia/Mausolo e Vittoria/D’Avalos.
[139] Arroge poi che com’io tresco e spazio: Aggiungi poi che non posso
fare a meno di subire la loro influenza girando continuamente per l’ospedale
attorniata da loro, per cui non mi resta scelta fra la pazzia e la poesia, e
soltanto i morsi della fame mi fanno ricordare di chi sono davvero. La poesia,
insomma, è un male contagioso.
[140] che il cibo e l’oro a me sariano un Panfilo:
Cornia sarebbe dunque ben contenta di trovare fra questi pazzi un corteggiatore
facoltoso.
[141] Ma che dirai di quel cotal, che lacero: l’aspetto
scenico di Marino è quello di un allampanato fantasma vestito di nero, con
baffetti e corta barba, ispirata al ritratto di Frans
Pourbours il Giovane del 1621 (il «rinomato Fiamingo»
ricordato nella dedicatoria) e conservato oggi al Detroit Institute of Arts.
[142] e s’immagina un uom che ha più di un secolo: «e crede di essere un
uomo ormai morto da più di un secolo e ridotto in cenere».
[143] e in ver n’ha da natura insin l’effige:
questo pazzo che si crede il Marino resuscitato in effetti gli assomiglia.
[144] di aver tolto l’onor coi carmi ingenui:
le semplici rime dei petrarchisti e degli arcadi sarebbero
colpevoli di avere messo in ombra la gloria accademica e mondana del suo stile gonfio
e fiorito, di cui egli intende ora restaurare la gloria.
[145] nell’inventar fissù, randiglie,
e cuffie: come si alternano ciclicamente le mode in materia di fazzoletti
da collo (fichu alla francese), randiglie (cioè baveri alti e increspati alla maniera delle
gorgiere spagnole) e cuffie, così egli spera che torni in auge il suo stile ora
decaduto, e se la prende con gli avversari, che giudica pazzi e ciechi, pur
essendo lui più pazzo e cieco di loro.
[146] Io più consolomi: Cornia preferisce fra
tutti Lofa, che sta arrivando e che parla cantando
sulle note di una spinetta a tastiera che porta appesa al collo.
[147] (canta sempre, accompagnandosi con uno spinettino):
si tratta di un piccolo strumento a tastiera ad uso domestico, simile per
meccanica e funzionamento al clavicembalo, accordato di solito un’ottava sopra
la normale spinetta e perciò detto spinettino o
spinetta ottavina. Dal primo Seicento questa modalità di esecuzione (la monodia
accompagnata) venne a caratterizzare anche il madrigale, genere fino a quel
momento tipicamente legato alla polifonia. ♦ Farfalletto ingannato: il canto
amoroso di Lofa evoca una serie di immagini e
similitudini topiche nel repertorio profano italiano: la farfalla che gira
intorno al lume fino a bruciarsi e morire come l’amante che soccombe
affascinato dalla donna; e poi la nave agitata dai marosi, che nei libretti d’opera
segna il momento destinato all’aria virtuosistica di furore (spesso introdotta
dal verso “son qual nave...” ecc...). I versi II.7.1-9
formano un madrigale con rime ABA ABA CC. Nel
trattato Della tragedia antica e moderna lo
pseudo-Aristotele, fornendo i precetti-base dello stile adatto ai componimenti
per musica dichiara fra l’altro: «Ti raccomando nelle arie qualche comparazione
di farfalletta, di augelletto,
o di ruscelletto: queste son tutte cose che guidano l’idea in non so che di
ridente, che la ricrea, e siccome sono venusti questi obbietti così il son le
parole che li rammentano e li dipingono alla fantasia; ed il compositor della
musica sempre vi si spazia con avvenenza di note. Ed avrai osservato anche ne’
pessimi melodrammi che il musico riporta distinto applauso, cantandone una di
queste nell e quali i diminutivi [...] aggiungono
leggiadria» (in Scritti critici, p.
290).
[148] O che faccia, a mirarla, e vecchia e giovine,: l’eunuco ha l’aspetto inquietante
di una creatura ibrida: glabro, rugoso e dalla voce acuta.
[149] E l’uom, pria che il fallir suo corrompessegli:
prima che le conseguenze del peccato originale determinassero la corruzione
babelica delle lingue, l’uomo primigenio si esprimeva in musica. Lofa vorrebbe ripristinare, grazie all’arte, l’antica
eccellenza che rendeva gli uomini canterini come gli uccelli, ma Sostrata respinge duramente anche lui.
[150] Come in sua pania.: senza lasciarsi troppo smontare, il cantore
riprende i suoi stornelli, volgendo ora le proprie attenzioni a Cornia.
[151] Perché la bella e musica: nello scambio con la ragazza (non si sa
quanto ingenua o maliziosa) Lofa vanta la bellezza
canora della propria voce, ammettendo a malincuore di non essere idoneo al
matrimonio.
[152] mezzo l’un mezzo l’altra, e tutto bestia: la sprezzante reazione di
Cornia riecheggia l’invettiva di Corisca contro il
satiro «mezz’uomo e mezzo capra, e tutto bestia» nel Pastor fido (II.6.98). Il povero Lofa si
consola in musica.
[153] Or Marte, Ercole, Achille, Aiace ed Ettore: il «vanto» di Penulo ricalca i generici dei capitani dell’Arte —a partire
dalle Bravure di Francesco Andreini—
con i nonsense che li caratterizzano.
Dopo aver scoperto, grazie a Sannione, di essere un
grande guerriero, egli è ora persuaso, grazie a Marino, di possedere anche
virtù poetiche, e ne è compiaciutissimo ma anche sottilmente inquietato.
[154] Domo si rese al mio saper: «l’orribile mostro dell’ignoranza si
arrese, domato, al mio sapere e io sono diventato un grande poeta, se devo
credere al Marino». Il ragionamento del soldato, stupito e orgoglioso della
propria metamorfosi «petrarchevole», si dipana in un’ardua similitudine venata
di ironica lubricità: i versi altrui hanno fecondato mirabilmente la sua vena
poetica, come l’innesto di un albero da frutta su un arbusto sterile fa
crescere mirabilmente sui suoi rami dei frutti, dono amoroso delle villanelle
ai loro giovani spasimanti, che peraltro vorrebbero ricevere da loro qualcosa d’
altro.
[155] onde avvien che in etade altrui decrepita:
le amplificazioni barocche di Marino confondono un po’ le idee a Penulo, incredulo di potersi sentire così giovane e
energico con ben trenta secoli (e non più trent’anni) di eroismi sulle spalle,
e ansioso di farsi ammirare dalla «saporita amabil» Sostrata.
[156] O così: studia: l’intera sequenza è comicamente giocata sul filo
del rasoio delle reciproche dissimulazioni.
[157] Neso, che vuol dir neso?
: l’incerta lettura di Sostrata si arresta,
dopo la prima quartina, di fronte alla locuzione per lei oscura “né so”; Penulo, naturalmente, non è in grado di illuminarla e se la
batte precipitosamente. Sarà lo stesso Marino a declamare correttamente l’intero
sonetto ai versi III.2.31 e seguenti.
[158] lunge si stia dal panfiliaco Mausolo:
e, in quanto seguace di Petrarca, scaccio dalla tomba di Mausolo
chi si esprime nel gergo napoletano e barocco. Il povero Marino non ha dunque
alcuna chance, né amorosa, né
poetica. Correggiamo in panfiliaco
l’incomprensibile pansiliaco
del testo, pensando alla Panfilia, una regione limitrofa alla Caria governata
da Mausolo.
[159] mentre a’ miei dì, come i fonghi
prorompono: la polemica contro l’infestante proliferare delle potesse
accademiche, di molieriana memoria, percorre tutta la commedia. Marino subisce
come una tortura la zoppicante dizione di Sostrata e
si precipiterà a raddrizzare i suoi poveri versi storpiati.
[160] Né so come a quei membri, a cui si volsero: e non so come sia
possibile che, sotto il tuo sguardo che ha la stessa forza vivificatrice dei
raggi del sole, il corpo di Mausolo continui a
restare inanimato.
[161] Con un sol po’ di sol Prometeo l’anima: a Prometeo bastò solo un po’
di fuoco per animare la statua, eppure Panfilo continua a dormire, anche se
forse, rianimato dal tuo sguardo ardente, si sveglierà per amarti nella tomba.
Il doppio riferimento mitologico è ad una versione del mito di Prometeo, che
dette vita con una fiaccola accesa ad una statua di argilla dalle sembianze
umane, e al potere di Morfeo di indurre il sonno sfiorando le palpebre degli
uomini con petali di papavero.
[162] Il mio?:
il genuino sbalordimento di Sostrata al cospetto di
tanto, misterioso sapere squarcia comicamente, ma per poco, il velo della sua
alterigia. Il suo personaggio alterna continuamente una pomposa supponenza a
improvvise cadute di stile.
[163] Ma quel sonetto è sovra a te, no a Panfilo: il povero autore si
ostina a difendere la propria creazione, non solo straziata nella forma ma
totalmente equivocata nel significato. La totale sordità e incomprensione della
poesia da parte di Sostrata (e di Penulo)
costituisce il rovescio complementare della devozione maniacale dei tre pazzi
poeti ai loro rispettivi modelli letterari.
[164] di molto Febo aver calde le viscere: «essere ardentemente ispirati
da Apollo».
[165] O dell’ingegno mio parti ingratissimi: Marino rinnega i propri
stessi componimenti, che in mano altrui, scambiati addirittura per
petrarchevoli, gli fanno vergogna e gli appaiono irriconoscibili, così come
accade quando le acque dolci di un fiume si mescolano a quelle salate del mare.
All’ambigua matrice barocca di molta poesia arcadica che si professa anti-marinista
Martello allude spesso in modo sornione in questa commedia e in vari altri suoi
scritti.
[166] Non lo diss’io che a star fra pazzi impazzasi?: il lungo monologo di Cornia —raisonneur in
gonnella che anche tira le fila dell’intreccio— riassume i fatti agli
spettatori con una certa ridondanza gnomica.
[167] e, se ci fosse un fenestrin che l’animo: «se
fosse possibile dare un’occhiata ai segreti della sua anima, penso che Penulo abbia occupato il posto di Panfilo». L’immagine di
uno sportellino che si possa aprire e chiudere per leggere l’interno dei cuori
risale a Luciano, ed era già stata utilizzata da Martello, nel 1714, nel
dialogo L’impostore, prima versione
parigina del trattato Della tragedia
antica e moderna (cfr. Scritti
critici, p. 227). Se ne ricorderà anche Alfieri, forse proprio per tramite
di Martello, nella commedia «aristofanica» intitolata
per l’appunto La Finestrina (cfr. F.
Fido, Alfieri, Martello e una possibile
fonte della “Finestrina”, in Le muse
perdute e ritrovate, cit., pp. 59-67).
[168] Già donne so c’han più nomanze e titoli:
anche la serva, dunque, può condividere facilmente le galanterie poetiche alla
moda, provvedendosi dell’immancabile pseudonimo accademico come tante dame
letterate.
[169] Io riedo, Cornia, a te qual Progne riedesi:
l’arrivo di Cecco apre il primo dei siparietti in cui Cornia si produce in
successive, versatili metamorfosi letterarie. La tragica storia di Progne e
della sorella Filomena, rispettivamente mutate in usignuolo
e in rondine, è narrata da Ovidio nelle Metamorfosi.
[170] ond’ella fosse all’amor mio mancipio: «vorrei, con il tuo aiuto, esprimere
a Sostrata la mia devozione, in modo che essa accetti
il mio amore» (mancipio è termine
giuridico che designa, fra l’altro il compratore o l’aggiudicatario di un’asta
pubblica). Un’ offerta amorosa, beninteso di natura spirituale e non mondana,
in linea con i dettami petrarcheschi.
[171] Laureta tu? :
basta il nome fatale ad attivare la passione amorosa e la vena lirica di Cecco,
in una vertiginosa catena di associazioni irresistibili.
[172] nome del vincitor trionfal albero: la
castità trionfa sulla passione nella mutazione in alloro di Dafne, rendendo la
pianta un simbolo di gloria poetica e regale.
[173] Non mi avrai, Cecco, ai voti tuoi difficile: secondo Cornia (che si
fa portavoce di idee care anche a Martello) l’amor platonico si riduce ad un
(bizzarro?) «amare tanto per farlo», che delimita rigidamente i confini della
sua civettuola arrendevolezza.
[174] Dal cielo empireo.: «il mio amore deriva da Dio e a Dio per tuo
tramite ritorna», ma, o una bella morte nel fiore degli anni ti renderà oggetto
della mia poesia, oppure continuerò a consumarmi di amore e a celebrarti nei
miei versi. Cecco affastella una serie di
stilemi e immagini petrarchesche dal sonetto CCLXVII del Canzoniere (Oimè il bel viso,
oimè il soave sguardo).
[175] Amor è un certo mal, per quel che dicesi: il buon senso di Cornia smonta
comicamente i deliri di Cecco.
[176] a quai parlo di lei, saper non negano?: «perché Sostrata
finge di non conoscere il mio amore, che è ben noto persino ai venti e ai
ruscelli ai quali mi rivolgo in poesia?» Il lamento arcadico di Mopso zoomma topicamente
dal generale al particolare: dal paesaggio di Arcadia al gregge partecipe;
dalle suppellettili della capanna al sonno perduto; dal ragno invisibile fino
alla zampogna inesorabilmente impolverata. Da parte sua Cornia, con perfetto
mimetismo, passa con disinvoltura dal concettismo aulico degli scambi con Cecco
ai panni pastorali, in veste di civettuola ma modesta Clori.
[177] E come mai dal pastoral tugurio: con Mirtilo Cornia gioca dunque la carta ‘sociale’,
rimproverandogli di onorare ambiziosamente una dama altolocata, trascurando
invece un’umile pastorella come lei.
[178] ma Clori ho dalle fasce, e tal mi nomino: la nuova identità
anagrafica è dunque cosa fatta.
[179] e so qual dalle capre il latte spremasi: «e
so come mungere le capre e come ricavare il formaggio dal latte rappreso».
[180] così avvenuto in pastorella e vergine: «così, imbattutomi in una
giovane pastora», quasi quasi dimentico la più matura vedova e ti offro il mio
cuore.
[181] In bocca mia, recitativo, or vientene: Lofa ci riprova con Cornia, invocando il soccorso del
recitativo musicale, dopo che le sue modulazioni canore (i passeggi) sono state così duramente respinte. Le sue battute
seguenti sono dunque segnalate in carattere tondo.
[182] con voce ognor sì roca e lamentevole: con
una voce così rauca e lamentosa che, in paragone, persino il rombo fischiante
della tramontana sul mare in tempesta sembra soavemente musicale.
[183] la pazzia musicale in un col celabro: Mirtilo
è pronto a massacrare il rivale, spaccandogli la testa e il cervello con il suo
bastone pastorale.
[184] Così vostra mercé, donzelle tracie: Lofa si
paragona al povero Orfeo fatto a pezzi in Oriente dalle baccanti.
[185] Ma ridevole è più chi male adopravi: pur a mal partito, Lofa ribatte con toni pungenti di una certa efficacia,
denunciando la povertà dell’armamentario poetico arcadico quando non abbia il
supporto della musica, e la sua sterile, ripetitiva inflazione nelle mani di
troppi lirici improvvisati.
[186] Or io vo’ preferir nella turba emola:
Cornia interviene a sedare la rissa, promettendo il proprio favore al vincitore
dell’accademia poetica in onore di Panfilo che Sostrata
si accinge a promuovere.
[187] Eccolo che sfavilla il don promessoti: lo zecchino del pagamento
pattuito al verso II.5.21.
[188] Propalar, come sua, la lode propria?: Marino si ostina, invano, a
ribadire che il sonetto è stato scritto in lode di Sostrata,
che non può dunque vantarsene autrice.
[189] Io già non vergo arabiche: io non scrivo in caratteri arabi, e
dunque puoi leggertelo da solo. Si replica lo sketch dei pretesti fantasiosi di Penulo
per non leggere, ma questa volta Marino capisce infine come stanno le cose.
[190] consumò tutte: a Sannion richiedine: Penulo, subitamente ammansito, chiede comprensione,
ammantandosi delle imprese prodigiose che l’incantesimo di Sannione
—che tanto lo aveva spaventato e poi compiaciuto nelle scene quarta e quinta
del primo atto— ha rivelato ai suoi stessi occhi.
[191] Tu, le fauci nemee? Tu,
il fier setiger.: in un comico crescendo di
incredulità, scandito da un iterato «tu», Marino si mette ad enumerare le
fatiche di Ercole, ricordando il leone di Nemea, il cinghiale di Erimanto irto di setole, le Arpie, per metà donne e per
metà civette, e l’indomabile gigante Caco.
[192] Ma Sannione e tu ducento
Nestori: ma quanto siete vecchi tu e Sannione?
[193] Noi siam dunque immortali. Ei parla a un demone: il soldato, come
al solito, prende alla lettera le metafore dell’immortalità poetica, e conserva
una viva impressione dello spirito frequentato da Sannione.
[194] Possibil è che a non tener rovescio: comprarsi il saper leggere è un
miracolo impossibile da realizzare, ma Penulo potrà
imparare, almeno, a tenere il libro diritto per fare un po’ di scena.
[195] Ma il tuo valetto a ciò non è bastevole?: Marino
chiede, con finta ingenuità, come mai non basti a soccorrerlo lo spirito
servitore già ricordato.
[196] Se a noi rivolgi lo stil molle e debile: la
lunga scena —costruita su un’esemplare comicità allusiva e preziosa di
destinazione accademica— si risolve in una verbosa tenzone poetica fra il
marinista e il petrarchista, satura di rimandi letterari e di vertiginose
acrobazie metaforiche, in cui i due, vittime di una comune pedanteria letteraria,
si rivelano peraltro più simili fra di loro di quanto dichiarino. Non si
capisce bene quando e come Cecco abbia udito recitare da Sostrata
il sonetto, in cui ha riconosciuto la firma del rivale dallo stile subdolo e
velenoso come il morso di un serpente annidato fra l’erba.
[197] Ve’ come l’arenosa ed arsa Libia: «guarda un po’ come l’Africa
sabbiosa (Libia per metonimia) —dove la vegetazione stenta per la mancanza di
fiumi, tranne il Nilo, che vergognoso della propria inadeguatezza scorre
nascosto e fangoso— osa schernire Europa, ricca di fiori e di frutti».
[198] la qual, se vede un risoluto aereo: «la quale [macilenta turba di poeti petrarchisti], al cospetto di un guizzo
poetico che dispera di poter eguagliare, non fa che sogghignare e lanciare
strali satirici senza peraltro neanche raggiungere il bersaglio». Ascreo, da Ascra,
l’antica città della Beozia patria di Esiodo, vale per poetico in genere.
[199] o almen che quel che al cocollato
e chierico: «o almeno in virtù di quello che ti lega al tuo Petrarca, chierico
incappucciato».
[200] Sacra fame dell’oro a me feo vendere: «fu
la maledetta avidità di guadagno a farmi vendere a Penulo
la mia poesia». In un crescendo di autocommiserazione, che contagia anche
Cecco, Marino cita il celebre passo virgiliano (Eneide III, 57) già ripreso da Dante in Purgatorio XXII, 40-41. La cortina Delia è la cortina del tempio di
Delo, sacro ad Apollo, dio della poesia.
[201] L’ira di Giove fa che nuda e povera: l’altro gli risponde «per le
rime», citando il sonetto VII del Canzoniere
(La gola e ‘l sonno e l’oziose
piume), che lamenta il declino delle virtù nel mondo dominato dall’avidità
e dal materialismo.
[202] o’ di famose fronti il lauro è gloria: Cecco enumera sconsolato una
serie di casi di corruzione e pubblico disconoscimento del valore della poesia.
[203] vedi come Atalanta i
versi correre:
Atalanta, vergine imbattibile nelle imprese virili, perse la gara di corsa a
cui l’aveva sfidata Ippomene, perché si fermò a
raccogliere le mele d’oro disseminate sul suo percorso per rallentarla, secondo
un malizioso suggerimento di Afrodite. Dovunque si commette frode i versi dei
poeti sono dunque mercificati (scambiando la gloria della vittoria con le
lusinghe delle fraudolente «palle d’oro»).
[204] non fia
chi mai di sofferire insegnimi: non riuscirò mai a sopportare che si
vendano versi bugiardi per amore di due begli occhi.
[205] Quasi che il tuo
Petrarca anch’ei non imiti: l’attacco di Marino allude velenosamente al perdurante gusto barocco
interno a certe fasce di arcadi, e alle polemiche che
fiorivano in materia.
[206] ne’ quai l’ultima prova feo lusuria?: la sensualità barocca è esecrata dal
purista Cecco, come da molti arcadi intransigenti. Martello
continua a non prendere partito in modo troppo netto fra i due fronti.
[207] in Parnaso più bel
cangiò Posillipo: «rese
la sua Napoli più bella dello stesso Parnaso».
[208] Il punto sta che nel parraggio il supero: il ‘sorpasso’ di Marino su Petrarca è avvenuto nell’aldilà,
dove quest’ultimo, spogliato del suo prestigio terreno, ha dovuto cedergli il
primato. Con parlaggio, un edificio deputato ad accogliere
riunioni e orazioni, si indica dunque l’empireo in cui risiedono le anime dei
poeti.
[209] secco, restio, pien di durezze e taccoli: nella prospettiva di lunga durata, dunque, lo
stile e la lingua petrarcheschi si sono dimostrati poveri, goffi (pieni di
durezze e di dettagli oscuri e irrilevanti), anche se egli fece fare al volgare
dei suoi tempi —ancora acerbo e disameno— un miracoloso balzo in avanti, che
gli assicurò due secoli di gloria. Ma l’eccellenza petrarchista si mantenne pur
sempre inferiore alla lirica classica, sia idilliaca che epigrammatica, per cui
i poeti satirici toscani furono noiosi e privi di nerbo come insetti senza
aculei. Nomio,
abbinato a Mosco, è epiteto genericamente pastorale, Ovenio
è l’epigrammatista John Owen (1564-1622), autore di 12 libri di epigrammi
(genere che lo associa a Marziale), stampati fra il 1606 e il 1620.
[210] E non è ver che in erma rupe aeria: «e non accade forse che —aggirandosi in un luogo aspro
di precipizi rocciosi, che la spaventano per il rischio di precipitarvi— una
fanciulla, scoprendo all’improvviso un fiore inaspettato, lo raccolga e se lo
ponga in seno, rallegrandosi del ritrovamente molto
di più che se esso fosse avvenuto in un bel giardino fiorito?».
[211] Mosso Febo a pietà di un
tal delirio: per
salvare le sorti della poesia italiana, nel 1569, Apollo fece nascere il
Marino, che surclassò Bione di Smirne e Orfeo di Lebetra
(in Tracia), cioè raggiunse l’eccellenza in tutti i generi della poesia e si
conquistò un successo di proporzioni straordinarie. L’indicazione cronologica è
molto precisa, e colloca dunque una prima ideazione del componimento al 1706,
magari in forma di trattenimento accademico carnevalesco. Un testo rimasto
abbozzato e che infatti non è compreso nei due volumi romani di Teatro italiano del 1715 (con imprimatur 16 agosto); qualche mese più
tardi, tuttavia, il rumoroso fiasco veneziano della Scolastica recitata da Riccoboni nel carnevale 1716, che aveva
rimesso sul tappeto la spinosa questione della commedia letteraria, induce
Martello a rielaborare in forma distesa e a rendere finalmente pubblico questo
antico esercizio di satira letteraria drammatizzata.
[212] Sin che tanti scoccar
sinistri augurii: finché l’invidia aggressiva dei
petrarchisti in disgrazia propiziò la mia stessa morte.
[213] la nativa sirena e i
cigni ingenui: cioè
la sua città natale, Napoli, e i poeti in buona fede (simboleggiati dai cigni
che abitano la fontana di Apollo nel canto nono dell’Adone, già menzionata in II.1.53).
[214] voi rigogliosi opra metteste a sorgere: voi vi adoperaste in modo indefesso a restaurare il
vostro prestigio a scapito del mio.
[215] a punir voi con un
perpetuo esilio: il
redivivo Marino, che per volere dello stesso Giove ha sfidato le leggi degli
Inferi, è tornato per umiliare tutti i suoi nemici
[216] ma se tal sia, chi vi si
prova, ei sasselo: lo stile marinista, saccheggiato dagli stessi
petrarchisti, è solo illusoriamente facile da imitare.
[217] ma il Fiorentino, a
questi piè prostratosi:
in un crescente delirio di onnipotenza Marino racconta dunque di aver ricevuto
nei Campi Elisi gli omaggi e la corona poetica dai più grandi lirici della
storia, nonché la richiesta di essere accettato come discepolo da un Petrarca
sottomesso, a cui avrebbe infuso solennemente, per imposizione delle mani, il
proprio stile molle e soave, operando una fusione inestricabile fra le due forme
di poesia.
[218] Costei, che per man
guido, e che lanciatomi:
dopo il contrasto fra Cecco e Marino, subentra Mirtilo,
spostando l’obiettivo sull’arcadismo; egli arriva in
scena, reduce da giochi galanti, per mano a Cornia, ora oggetto delle sue attenzioni
al posto della bugiarda Sostrata. Il venir meno
anticipato della sua devozione amorosa per costei è un dettaglio dell’intreccio
che potrebbe aggiungere un altro tassello all’ipotesi crociana, a cui si è
fatto cenno nell’ introduzione, che la commedia sia da leggersi in relazione
all’affaire poetico-sentimentale di
Teresa Zani. Il monologo di Mirtilo è tutto intessuto
di allusioni a chiave ad una serie di poetesse contemporanee, di cui la vedova
bugiarda non può che essere gelosa. Quasi tutte sono comprese nell’antologia
curata dal Recanati (per cui si rimanda ancora all’introduzione).
[219] l’arcade Aglauro, Aglauro la Cidonia…: si tratta di Faustina Maratti Zappi (1680-1740), romana,
figlia del pittore Carlo Maratti e moglie dell’avvocato e poeta Giovan Battista
Felice Zappi, buoni amici del Martello e suoi accompagnatori nella visita alle
stanze raffaellesche vaticane da cui inizia il Comentario del 1710. La bella Faustina
era celebre anche per essere sfuggita rocambolescamente, ai castelli Romani, ad
un tentato rapimento da parte di un corteggiatore aristocratico che aveva
respinto (Giangiorgio Sforza Cesarini dei duchi di
Genzano), che era stato per questo condannato ed esiliato; aveva in seguito
sposato lo Zappi (il Tirsi qui
menzionato), conosciuto in Arcadia, nel 1705; la loro casa era divenuta un
vivace cenacolo culturale, frequentato da personaggi del calibro di Friedrich Handel, Domenico Scarlatti, Vincenzo Gravina, e Giovanni
Mario Crescimbeni (cfr. B. Maier, Faustina
Maratti Zappi, donna e rimatrice d’Arcadia, Roma 1954). In un’ ideale gara poetica fra i due coniugi entrambi ricevono
serti di mirto e di alloro dalle Muse in persona. Il Martello dedicherà a Faustina,
nel 1721, il Davide in corte,
dichiarando di aver modellato su di lei il personaggio di Micolle
(in Teatro, II, pp. 153-158).
[220] di lei, che umile stassi in tanta gloria.: questa volta è Mirtilo a
citare un verso di Petrarca (il quinto della quarta strofa di Chiare fresche e dolci acque).
[221] per divenir Fidalma, la Partenide: è lo pseudonimo di Petronilla Paulini (1667-1726) baronessa abruzzese,
sposa bambina a 10 anni (per speciale dispensa papale di Clemente X imparentato
con i Massimi) del quarantenne nobile romano Francesco Massimi, vice castellano
di Castel Sant’Angelo, da cui ebbe tre figli; tentò di sfuggire all’infelice ménage separandosi e ritirandosi in
convento, dove si dedicò alla poesia, senza però vedersi riconoscere dal
tribunale il diritto di vedere i figli né di riavere la propria dote.
Riconquistò la libertà e i suoi beni soltanto nel 1707, quando rimase vedova ed
ebbe in Arcadia un tardivo risarcimento poetico.
[222] darebbe un occhio per
aver, qual Silvia…: è
la monaca umbra Gaetana Passerini, nipote del canonico Giuseppe Paolucci di
Spello (l’Alessi menzionato in IV,
III, 345), segretario del cardinale Giovanbattista Spinola, che fu uno dei
membri fondatori di Arcadia.
[223] dell’ardua Irene? Io
dico la Pamisia: altra dama altolocata, Teresa Grilli, moglie del
genovese Principe Camillo Panfili.
[224] e che daria per divenir Paraside: fra tante dame aristocratiche, l’egualitarismo
arcadico ammette anche un’attrice borghese: la grande Elena Balletti (1686-1771), in arte Flaminia, moglie
di Luigi Riccoboni, acclamata interprete della Merope di Scipione Maffei nel 1713 e, in precedenza, anche di vari
testi di Martello, ricordati diffusamente in V.9.1-5.
[225] la leggiadra Larinda, che Alagonia: questa ninfa, che non è compresa
nell’antologia poetica del Recanati, è la gentildonna senese Aretafila Savini de’ Rossi, «gran dama letteratissima»
buona amica del Martello, che le dedica la tragedia L’Elena casta, composta probabilmente insieme a Che bei pazzi nel 1716 e stampata a
Firenze nel 1721 (cfr. Teatro, III,
pp. 717-718) e, nel 1723, l’orazione In
morte di Po, cane mormusse. La signora fu autrice
di un’ Apologia in favore degli studi delle donne scritta
in polemica con il misogino Giovan Antonio Volpi professore di filosofia allo
Studio di Padova, e si adoperò come mediatrice nella controversia fra il Martelli
e il Maffei a proposito del Femia.
[226] in capo ad una, o sia di crin piramide: il
senso è che non basta travestirsi da ninfe dei boschi per diventare poetesse d’Arcadia,
come fanno le dame che vogliono essere alla moda senza avere i requisiti
necessari. Come esempio il Martello cita l’usanza diffusa di acconciare i
capelli in stile Fontange (dalla duchessa che l’aveva ‘lanciato’
con successo durante una partita di caccia con Luigi XIV), appuntandoli rialzati
alla sommità del capo in una stuttura ‘a piramide’, o
di portare dei mazzetti di fiori dietro le orecchie come fanciulle di campagna.
[227] l’imitan tosto in sulla fonte pendule: le
ninfe vanitose copiano questi dettagli curvandosi a specchiarsi nelle fonti.
[228] e che Safo e Corinna ogni uom la reputi:
Saffo di Lesbo e Corinna tebana sono due grandi poetesse antiche.
[229] Ma il poetar non è cucir, né tessere.: non tutte le donne sono in
grado di farsi poetesse. Nell’attualissima querelle
il sobrio Martello si schiera ostentando un buon senso solo blandamente
misogino.
[230] e chiamo te, che dell’etrusco Apolline: Mirtilo si appella a Cecco, rivendicando il proprio diritto
di non condividere il coro di lodi indirizzate alla fraudolenta Sostrata e alle sue aberrazioni poetiche.
[231] Di cotai saputelle or scaturisticono:
l’affollata scenetta richiama l’espressionismo satirico di quelle vivaci
pitture di genere ‘alla Hogarth’ —coltivate a Bologna
da artisti come Carlo Cignani o Giuseppe Maria Crespi—
molto in sintonia con i gusti e l’indole dell’autore.
[232] Ragion farotti del tuo desiderio: Cecco
assicura petrarchescamente la propria solidarietà nel nome della comune devozione
per il lauro, che produce frutti duraturi, a differenza della sterile tamerice
virgiliana (celebrata nella IV egloga delle Bucoliche).
La polemica si appunta, al solito, contro l’arcadismo
salottiero di una facile e inflazionata poesia galante.
[233] per la sostraticiaca accademia: come al
solito Cornia si cala perfettamente nelle varie parti letterarie che si trova
ad impersonare con sorprendenti e pertinenti mimetismi verbali, senza mai
perdere né efficienza né concretezza.
[234] Ercol filò (ridendo Amor) per Onfale: schiavo
d’amore della regina Onfale, Ercole si travestì da
donna coprendosi di ridicolo per volere di Cupido. In questo, come in molti
altri passi della commedia, i riferimenti mitologici sono resi, con uno
spiccato sguardo ‘iconico’, come altrettanti frammenti figurativi.
[235] Al Petrarca non fur le selve in odio: il
pedantissimo Messer Cecco riflette sull’appello ‘unitario’ che gli ha
indirizzato Mirtilo, ma lo interpreta, letteralmente,
in funzione delle occorrenze numeriche di tipici vocaboli arcadici all’interno
del Canzoniere, arrivando persino ad
includere le egloghe latine nel corpus di
riferimento.
[236] O Petrarca, a’ tuoi piedi ecco inginocchiomi: timoroso che questa provvisoria alleanza
con l’arcade contro l’odioso marinista comprometta il
proprio purismo oltranzistico, Cecco chiede preliminarmente perdono al proprio
maestro dell’eventuale utilizzo di vocaboli non suoi, promettendo di tornare,
subito dopo, alla purezza di sempre. Un
«eccesso» a perseguire l’«unica imitazione» del modello, per cui «impazzano di
sovente i moderni poeti», che il Martello biasima con fermezza nell’avviso A chi legge del suo Comentario e Canzoniere del 1710.
[237] Vi son pur tai che nel suo ruolo Arcadia:
la differenza fra i rozzi pastori autentici e i pastori gentiluomini attillati
in eleganti mantelli, rilevata polemicamente da Cecco, adombra le discussioni
estetiche interne alle diverse fazioni arcadiche. Mirtilo/Martello,
naturalmente, si schiera dalla parte della concretezza e della semplicità, come
aveva ancora dichiarato in testa al Comentario: «Ma qual cava preziosa è mai senza terra? Vero è
che quelle dei diamanti, dei carbonchi e degli smeraldi sono più fecciose e men
copiose delle altre che contengono meri cristalli, i quali, quantunque abbondin di lume, non sono stimati per rarità. Così sono sopportabili quei componimenti
che contengono sensi pellegrini, benché mescolati di cose alle volte ordinarie»
(Scritti critici, p. 516).
[238] Il padre vostro Alfesibeo, l’ingenuo: Cecco
ricorda la serie di nobili arcadi di fede
petrarchista con parrucche inanellate e ampi collari che coltivano una poesia
rarefatta ed elegante. Loro tutore è Giovan Mario Crescimbeni, alias Alfesibeo Cario, che aveva guidato la scissione della prima
Arcadia romana dopo l’allontanamento di Gravina; gli altri sono: Giuseppe
Paolucci di Spello, Alessi; il torinese Paolo Coardi,
Tirsi Leucasio; l’abate Angelo Antonio Somai, Ila Orestasio; Giovanni
Maria Piantini, Montano; l’abate Vincenzo Leonio da
Spoleto, Uranio Tegeo; il conte Cesare Bigolotti da Reggio, Clidemo
Trivio; Eustachio Manfredi, Aci Delpusiano; e il già
più volte ricordato conte veneziano Giova Battista Recanati, Teleste Ciparissiano.
[239] Cotesto latte è un cibo dolce e candido: la scelta del partito di Mirtilo è pedestre e stucchevole, come una dieta a base di
troppi latticini, mentre il semplice pane della poesia petrarchesca è un cibo
che sazia senza mai venire a noia.
[240] E quei sciforioni? O le olimpiadi?: la polemica è rivolta verso gli
eccessi del gergo ellenizzante degli arcadi, che
danno nomi pretenziosi e lambiccati alle cose più semplici ed esagerano a
coltivare rituali all’antica. Sciforione è il nome di un mese ateniese (giugno-luglio), i dì anarchi potrebbero
essere i giorni di festa (del carnevale?); la consuetudine di celebrare in
accademia giochi “olimpici” poetici e musicali risale al 1697; non riusciamo a
decifrare invece il significato di questi «barbari» ceto e serbatoio.
[241] sul divino Petrarca, e quel sol prenderne: il petrarchismo ridotto
a infinita variazione combinatoria dei medesimi stilemi è un’aberrazione, che
distorce la qualità del modello.
[242] Vestir convien della grand’alma il genio: Mirtilo
difende un’ idea flessibile e aggiornata di
imitazione, come riferimento ad un modello suscettibile di essere riplasmato
dalla fantasia, in cui egli
identifica il massimo requisito poetico; gli «Arcadi petrarchevoli» dai «nasi adunchi»
che la mortificano con la loro pedanteria non gli piacciono affatto (cfr. la
lettera a Muratori del 25 ottobre 1710 in Lettere,
p. 57).
[243] Così pittor, che il buon disegno e gli agili: un’
imitazione poetica di qualità è analoga, in pittura, alla capacità di
ricalcare un grande modello, senza copiarlo pedestremente, ma interiorizzandolo
per rifarlo in proprio armoniosamente. Martello racconta nell’autobiografia di
avere a lungo osservato, da bambino, il pittore Carlo Cignani
al lavoro (leggendogli ad alta voce Ariosto e Tasso), e di averne riportato una
forte sensibilità visiva, insieme pittorica e poetica.
[244] guida ai visi il color, mira, non copia: l’intera sequenza ricalca
le idee esposte dall’autore nel già ricordato Comentario che introduce l’edizione
romana del suo Canzoniere nel 1710,
dove il topico sogno di un giudizio d’Apollo (a proposito, in questo caso,
della «differenza del compor marinesco dal petrarchevole») scaturisce proprio a
partire da un’animazione dell’affresco del Parnaso
nella Stanza della Segnatura visitata
di recente; lo guida nel magico viaggio lo stesso Raffaello, a cui egli
riservava, sulla scorta di Giovan Pietro Bellori, una speciale predilezione
(cfr. F. Waquet, Allégorie, autobiographie et histoire littéraire, cit.).
[245] Fassi un Giulio, un Allegri, un Michelagnolo:
la galleria dei raffaelleschi di qualità che sono stati capaci di crearsi uno
stile proprio comprende Giulio Romano, Niccolò Correggio, Michelangelo Caravaggio, Domenico Zampieri
detto il Domenichino, Francesco Albani e Guido Reni. Il passo ne riecheggia un
altro del Comentario,
dove Raffaello, che guida l’autore in Parnaso al cospetto di Apollo, mostra di
apprezzare la sapiente mescolanza di antico e di moderno che ha caratterizzato
«i quattro Carracci, il Reni, il Zampieri, l’Albani e modernamente il Cignano
con, suo giovane figlio, il Franceschini, il Quaini» (Scritti critici, p. 141).
[246] Finiam le liti, ecco l’irrevocabile: è Cornia a stoppare con fermezza la
lunga discussione, invitando i contendenti a celebrare adeguatamente i meriti
poetici di Sostrata, pena il ritiro della sua
benevolenza.
[247] La pastorella mia sossopra volgami: nell’atmosfera
fortemente iconica della scena il disastro delle fragole sparpagliate fuori dal
paniere, evocato nella lamentosa metafora di Mirtilo,
fa pensare davvero ad un quadretto rococò.
[248] quante atte ai carmi il buon Teleste adunaci:
Cornia, inflessibile e minacciosa regista dell’Accademia poetica, mente senza rimorsi,
chiamando a testimoni i malcapitati spasimanti a proposito della superiorità di
Sostrata rispetto alle poetesse arcadiche celebrate
nell’antologia di Teleste Ciparissiano/alias
Giovanbattista Recanati.
[249] dove me il mio dolor nel dir fa stupida:
sia Sostrata che Penulo, in
verità, sono bravissimi a trovare scuse articolate per non cimentarsi nella
lettura e nella recita.
[250] (Dove il dente ci duol, la lingua sdrucciola):
l’iterazione della controscena di commento proverbiale della serva è topica.
[251] M’inchino alla bellissima Artemisia: Penulo
inaugura questa sequenza iperletteraria con un saluto di sapore solenne quasi
dantesco (Inferno, IV, 80).
[252] è poeta seguace di Fidenzio: Penulo,
facendo mostra di un’ incongrua competenza letteraria,
presenta ironicamente Sannione come seguace di Pietro
Fidenzio Giunteo da Montagnana, detto Glottocrisio (Linguadoro), il
pedantissimo protagonista dei Cantici di
Fidenzio di Camillo Scroffa (1526-1565).
[253] Lofa di dietro. Il musical prefazio: Lofa si
limita a garantire un commento musicale alle declamazioni, e dunque resta fuori
dal cerchio accademico così precisamente indicato dal testo.
[254] Io fo da Cloride: Mirtilo
reciterà un’egloga dialogata di omaggio amoroso a Sostrata;
Cornia impersona Cloride nella lettura.
[255] Ceda la rosa, onde le fonti infioransi:
l’aria intonata da Lofa, questa volta, ha la
struttura di un sonetto “elisabettiano”, con quattordici versi divisi in tre
quartine a rima alternata e un distico finale a rima baciata.
[256] Ai luminari tuoi, Sostrata, immolinsi: Sannione dedica
ai begli occhi dell’amata un epigramma classicheggiante in distici a rima
baciata.
[257] Ond’è che, o Dei marini, inferi e superi: l’epigramma encomiastico di Sannione celebra il trionfo di Sostrata
su tutti gli dei dell’universo: Nettuno, disarmato del suo tridente dai suoi
occhi ridenti; Plutone folgorato dalla sua intelligenza brillante; lo stesso
Giove, derubato dei suoi fulmini, da una donna ardente. Se loro
capitoleranno così, come potrà resisterle quel poco che resta del povero,
insignificante Sannione? Trunculus è vocabolo che indica
una piccola parte recisa del corpo; flocci pendere in
latino vale «considerare di nessun valore».
[258] (Canti a Camillulo…: il riferimento è a Camillo Scroffa.
[259] (Ma quanto io ridomi…: Cornia registra soddisfatta che il
suo piano di avvicinare Sostrata a Penulo sta andando a gonfie vele…
[260] Invito a ber te, bella donna, e recito: da qui al verso 94 Marino recita le ottave 118-122 del
canto settimo dell’Adone, dove
«accenti di dolcissima armonia/ascolta Adon tra suoni e balli e feste;/s’asside
a mensa con la dea celeste/e le lodi d’amor canta Talia».
Il testo di Martello ricalca, con minime varianti, l’originale, sostituendo (al
verso 70) Cosmopoli al quest’isola del poema; l’attacco Ond’ellera costituisce probabilmente un refuso
rispetto all’0r d’ellera mariniano.
[261] qual Semele che al folgore fu cenere: i
giovani e le fanciulle celebrano canti di ebbrezza e d’ amore in onore di Bacco
(Bromio), di Venere e di Cupido, ardendo di passione (come Semele, che fu incinerita dall’amplesso con Giove).
[262] La cetera col crotalo e con l’organo: la musica festiva rimbomba in
onore di Venere (detta Lucifero come stella del mattino ed Espero come stella
della sera) da un concerto di strumenti diversi: a tastiera (organi), a corda
(cetre), a percussione (crotali, cembali e timpani) e a fiato (fistole, zufoli
e pifferi).
[263] I satiri con cantici e con frottole: si celebra l’abbondanza
festosa di vino e di cibo (le ciottole sono i vasi di coccio e le fescine le ceste).
[264] Chi cupido è di suggere l’amabile: la strofa (di cui si ricorderà
nel suo Bacco in Toscana Francesco
Redi, ammesso nel 1688 fra gli accademici Accesi di Bologna sotto la segreteria
del Martello), itera una serie di scherzose diffide ad annacquare il vino rosso
(cioè del colore del rubino e della porpora) o bianco (come il crisolito, cioè il topazio). La pevera è un recipiente di legno oblungo
che si usa per travasare il vino nelle botti.
[265] Ma guardinsi gli spiriti, che fumano: l’ultima
strofa diffida i moralisti astiosi dal rovinare la festa rompendo anfore e
cantari (le antiche coppe greche con i manici laterali) e facendo arrabbiare i
bevitori.
[266] Tre sdruccioli per verso? In ver che supera: la performance di Marino ha rivelato un
virtuosismo ritmico che abbaglia gli spettatori naif come Penulo e Sostrata,
ma il competente Mirtilo vi riconosce, con
ammirazione, una perizia superiore persino a quella del mitico Serafino
Aquilano (1466-1500), gran frottolista e intrattenitore. Il Martello spezza qui
una lancia in favore del proprio giovanile marinismo.
[267] Noi due sì che da ver siamo petrarchevoli: l’attrazione crescente
fra i due si manifesta per il momento in forma di solidarietà poetica.
[268] Se ciarlano. Capitolo: Cecco è ingelosito dai conciliaboli fra Sostrata e Penulo, e annuncia
seccamente il suo capitolo (di terzine incatenate) modellato sui Trionfi e sulla poesia amorosa
tardo-quattrocentesca.
[269] onde al sol vero i rai si scolorarono: la lode di Sostrata, nel solco dei grandi poeti d’amore latini, cita
il terzo sonetto del Canzoniere (Era il giorno ch’al sol si scoloraro).
[270] e loderan costei nova Sulpizia:
la poetessa romana del primo secolo avanti Cristo, di cui sopravvivono alcuni
carmi compresi nel Corpus Tibullianum.
[271] Onde non bollì mai Lippari ed Ischia: la
passione amorosa lo devasta dall’interno come il fuoco vulcanico di Lipari,
Ischia, Stromboli ed Etna.
[272] Mirtilo: si presentano alla
ribalta i due successivi recitanti, che si producono in un duetto amoroso di
natura pastorale.
[273] Ma però non c’è miracolo: Penulo si
precipita a ridimensionare l’apprezzamento (vanitoso) di Sostrata,
annunciando che reciterà il sonetto composto da lei e poi un proprio madrigale:
il plauso degli astanti e le ripetute rimostranze di Mirtilo
di fronte a questo entusiasmo preventivo a scatola chiusa ne punteggiano
comicamente la recita esitante, conclusa dalla simulazione di un deliquio
amoroso quando non riesce più ad andare avanti.
[274] Ahi! Manteca chi n’ ha? Chi muschio o balsamo?: Sostrata sollecita affannosamente creme profumate per
rianimarlo, ma Cornia nota che non è affatto pallido.
[275] Vanne tosto, e vien, vola! e te’ le forbici:
«vai e torna di corsa, e tieni le forbici»: le istruzioni conferite a Cornia a
bassa voce —fra i crescenti sospetti degli astanti circa il reale significato
di ciò che sta accadendo— sono di recidere la parte più facilmente asportabile
di Panfilo (che è imbalsamato e dunque profumato), e cioè il prepuzio, per far
rinvenire Penulo. La
commedia comincia a virare sul macabro grottesco in un crescendo di trovate
comiche.
[276] Vien come lampo, ed eccola.: la battuta è cantata (come segnala il
carattere corsivo della princeps),
con una pennellata di surrealtà comica.
[277] che al marin venator linque
il castoreo?:
cioè il medicamento che si ricava dai castori, cacciati sulle acque. La
preziosa ipotesi di Sannione sulla natura del farmaco
è ricavata dalle Georgiche di
Virgilio.
[278] A reviviscere: mentre Penulo
si sta riprendendo, Sannione, che lo paragona
sprezzantemente a Tirone (lo schiavo liberato di Cicerone, che divenne
scrittore), si rivolge al suo demone, ma questi si rifiuta di obbedirgli perché
sta ridendo per conto proprio….
[279] Cavalier, sarem pronti?: Penulo
l’ha appena scampata bella e si rivolge preoccupato al Marino per avere garanzie.
[280] mi avrà ben tosto a imbalsamar, qual Panfilo: insonne e smanioso, Penulo si aggira intorno alla porta del sepolcro, deciso a
tentare la sorte con Sostrata recandole in dono una
preziosa edizione di Petrarca, la stessa che Cecco teneva appesa al collo nelle
scene precedenti. L’attenzione alle suppellettili sceniche, come abbiamo visto
finora, è piuttosto minuziosa.
[281] né potea vendicar cotante ingiurie: «la morte, già vinta e
umiliata da me tutte le volte che in battaglia è dovuta scappare di fronte alla
mia spada invincibile, ora, riparata dal tuo sguardo severo che mi uccide, si
appresta alla sua vendetta, a meno che tu non mi salvi da lei guardandomi
benevolmente». Penulo ha quasi imparato il linguaggio concettoso dei
poeti.
[282] Ma perché il vulgo vil sovente interpreta:
Sostrata, pur cedendo terreno, è sempre attenta a
salvare le apparenze e pronta a scandalizzarsi vistosamente quando le profferte
di Penulo si fanno troppo esplicite.
[283] Io sì l’intendo; altri a sua posta intendala:
la derisione smaccata e l’attacco diretto di Cornia non bastano a far
capitolare la padrona.
[284] putta loquacissima, sfacciatissima?: il ritmo del verso, con accento
di quinta, è petrarchescamente anomalo, ma comune nella poesia comico-espressionistica
(per esempio del Pulci) e anche bucolica.
[285] m’ obbligo a non oppormi in forma camerae:
«arrabbiati con lui, che ti tenta ad amare, e non prendertela con me, che, se
anche vuoi seppellirti viva, non ho alcuna possibilità di contrastarti».
Cornia, dai mille linguaggi, ricorre ad una solenne e molto tecnica formula
giuridica: in base ad una bolla pontificia del 1564, l’Auditor camerae era competente a
giudicare in appello le cause relative ai contenziosi sui contratti stipulati
secondo le disposizioni contrattuali della Camera Apostolica, oppure relative a
membri della Curia Romana.
[286] ma non sai tu perch’io mi vegli: or svelisi: «ma non sai perché sono così insonne: è tempo
ora di rivelarti il segreto finora nascosto, per vedere se l’inclinazione aspra
e feroce che mi hai dimostrato finora, incompatibile con la tua dolce bellezza,
può mutare di segno nei miei confronti».
[287] e un bel corpo di luce accesa e vitrea: la trovata di Penulo della visione onirica di Panfilo, trasfigurato entro
una luce neoplatonica vivida e trasparente, è un vero e proprio deus ex machina risolutore.
[288] ciò è sonetti pria trecento tredici: come al solito Sostrata
non è molto precisa a fare i conti: il Canzoniere
comprende infatti 317 sonetti, 29 canzoni, 9 sestine, 7 ballate e 4 madrigali.
[289] Ma entriam, sposa, a gioir, diam gloria a Panfilo: la battuta, una volta tanto, ha
una notevole efficacia comica.
[290] la sua pazzia col nuovo elettuario: l’elettuario (o lattovaro) è un composto
farmaceutico ricostituente.
[291] Ciascun sesso stia dentro all’essercizio:
il Martello, per bocca di Cornia, espone la propria idea di un’
ordinata ripartizione di ruoli e di competenze fra i due sessi.
[292] della carne all’odor
qual corvo or crocita: «gracchia come un corvo che sente odore di carne».
[293] tre, che sien benedetti, in un balen svanirono: Lofa si
rallegra che il cadavere squartato sia stato trafugato, ripristinando l’idillio
naturalistico che ispira il suo canto.
[294] sposo, ch’ora gioisci, e c’ hai da pendere: Penulo,
che si sta godendo la sua prima notte di nozze, finirà presto impiccato al
posto del cadavere perduto che doveva custodire per conto dell’inflessibile
tribunale.
[295] quanto fia che dall’alba a me rivelisi: tutte le informazioni che riuscirò a
racimolare alle prime luci dell’alba.
[296] di te un vaglio faria la mia ferocia: «ti
farei a pezzettini», riducendoti come un colabrodo (il vaglio è il crivello bucherellato per setacciare le sementi).
[297] Godo, o signor, di tua braura: aspettati:
Cornia, al solito, non si lascia intimidire dalle reazioni indignate dei due e
sfida ironicamente la braveria di Penulo, annunciandogli
che lo attende un cimento meno impegnativo con le guardie che verranno ad
arrestarlo.
[298] per appiccarti là dove già stettero:
«per impiccarti alla stessa forca a cui avresti dovuto fare la guardia»; ricordiamo
che vigeva ancora, all’epoca, la pratica di lasciare esposti, a scopo
dissuasivo e intimidatorio, i corpi squartati o impiccati dei rei.
[299] fu già conquistatore, a
scherno recasi: un eroe invincibile come lui non teme né i malviventi,
né gli sbirri (altrettanto temibili).
[300] Io vedo in polvere: Sostrata
(molto su di giri in questa sua notte nuziale) ci mette un po’ a capire la situazione,
e scambia per furore represso il repentino attacco di tremito da cui Penulo è colto (come già gli era capitato, nella quarta
scena del primo atto, alle prese con le magie di Sannione).
Per tutta la scena si confrontano comicamente, senza riconoscersi a vicenda, la
tensione erotica di lei e il terrore, altrettanto fisico, di lui.
[301] Et io licenzia: la sorniona Cornia prende atto del
licenziamento.
[302] Spia se i quarti pur sien rubati, e contagli:
verifica se il cadavere è stato davvero trafugato, e racconta a Lofa che sono scappato molto lontano. Penulo
è veramente disperato, e Cornia continua a stuzzicarlo.
[303] E in ver chi provocarti ardisca, o Penulo? : «ma chi
oserebbe mai sfidarti?».
[304] Gloria e vendetta, ahi che innamorerannomi:
«se mi cimento con gli sbirri l’ardore della lotta mi distoglierà dall’amore e
tu, anche se io sono vivo, tornerai alla tua solitudine vedovile». Un argomento
decisivo per farle cambiare atteggiamento.
[305] per rinovare il sacrificio a Panfilo: in
verità il guerriero terrorizzato non è in vena di fornire prestazioni amorose e
neanche di reggere più la parte del maschio potente.
[306] Io sempre vil mi riconobbi, o Sostrata: Penulo si arrende alla
verità quasi con sollievo, e dichiara di essere stato ingannato, circa il
proprio coraggio, dagli incanti di Sannione, che gli
ha rivenduto come vere le frottole dello spirito.
[307] Nato villano, e avvezzomi: nato
contadino, e abituato a maneggiare la zappa, sono robusto ma vigliacco, e non
sopporto neanche la vista del sangue; pensa un po’, dunque, come mi sento ora
al pensiero di dover spargere il mio…
[308] Ma il tuo natal, deh tacciasi:
Sostrata continua a rifuggire in tutti i modi dalla
verità con una sorta di rimozione, ricorrendo, come ad un mantra e ad una
garanzia, all’inossidabile risorsa di Panfilo.
[309] e comandò quell’imeneo che intuami: e mi ordinò, dall’aldilà, questo matrimonio che mi fa
tua.
[310] però leggi il suo dono, e in lui rincorati: la soluzione va
cercata, dunque, nella lettura del Canzoniere.
[311] e siasi perché né pur so leggere: la brutale
e impaziente serie di rivelazioni di Penulo culmina
nella finale ammissione di non saper neanche leggere (veramente catartica per
lui dopo tanti affanni e dissimulazioni).
[312] Ma vaglian tante mie sofferte ingiurie:
il bilancio di Sostrata, alla fine, è tuttavia
positivo e si misura senza pudori sulla virilità di Penulo,
riecheggiando comicamente —ma rovesciato di segno in termini di appagamente erotico— il famoso lamento del satiro frustrato
in Aminta II, 39-44: «Questa mia
faccia di color sanguigno, / queste mie spalle larghe, e queste braccia / torose
e nerborute, e questo petto / setoso, e queste mie velate coscie
/ son di virilità, di robustezza / indicio: e, se no ‘l
credi, fanne prova».
[313] e dal compormi il canzoniero assolvoti: «e ti sollevo dagli obblighi poetici
pattuiti».
[314] unirò questo frale al fral di Panfilo: il
duetto lirico e melodrammatico degli amanti pronti a morire vira rapidamente in
direzione grottesca.
[315] Ché la giustizia in ritrovar che pendono: «Perché gli sbirri,
ritrovando appesi alla pianta i pezzi del cadavere di Panfilo, li crederanno
quelli del condannato».
[316] allor fia salvo a compensar di Sostrata: la concreta ricompensa promessa alla ««vera fé» di Sostrata (sempre ufficialmente riservata a Panfilo) risulta
grossolanamente comica, e lei, del resto, è prontissima ad accogliere la
richiesta e a passare all’azione.
[317] Al vicin bosco all’ospitale aggiromi: mentre la coppia sta provvedendo a smembrare
il cadavere, Cornia si aggira nei dintorni in ambasce. Il dispositivo scenico
ripartito in due zone praticabili (definito, come abbiamo già osservato, con
una certa precisione) è lo sfondo di questa doppia azione scenica
. Al verso V.7.57 la serva vedrà infine aprirsi la porta della tomba e
uscirne Sostrata e Penulo
mascherati con il loro macabro carico.
[318] colla moneta, cui le scelleraggini: Cornia, divisa fra speranze e
timori, elabora intanto un piano spregiudicato e molto concreto: scarta l’ipotesi
che Penulo, rintanato nell’arca funebre, possa essere
scoperto dagli avidi cacciatori dei tesori della cripta, o che qualche giudice
possa prestar fede all’eventuale testimonianza di uno stupido come Lofa; passata la bufera, dopo una fuga temporanea, Sostrata potrà dunque tornare, e recitare ufficialmente la
parte di vedova inconsolabile, godendo delle proprietà del defunto Panfilo,
mentre Penulo, in veste ufficiale di domestico,
resterà il suo amante segreto.
[319] Già di molte si sa matrone e nobili: ecco un altro cammeo nero e
misogino —ancora più feroce di quello evocato in IV.3.64 a proposito delle
poetesse infiocchettate e blateranti— che prende di mira un fenomeno scandaloso
di corruzione aristocratica: dame di ostentata rispettabilità che si portano a
letto in segreto valletti sguaiati e sensuali, pronti a svergognarle all’osteria
con i loro compagni di crapule. Un tocco di espressionismo, lo ripetiamo,
certamente debitore a certa pittura di genere bolognese interna all’Accademia Clementina.
[320] O fida mia cubicularia animula: dopo le
violenze trucide della scena precedente, l’irruzione in palcoscenico di Sannione che invoca liricamente il suo demone rialza i
toni, evocando parodisticamente i celebri versi di Adriano rivolti all’Animula vagula blandula.
[321] che qual Libero vai lunato il vertice: lo spirito sghignazza sulle
illusioni del povero incantatore e gli si palesa con le sembianze di un
pipistrello (vespertilio) cornuto
come l’antico dio agreste Libero, che gli mostra i denti con aria severa e
derisoria (cachinnando, cioè
ridendo).
[322] che a un tocco sol del magistral mio baculo:
«che per virtù della mia verga magica Panfilo resusciti e torni con la sua
vedova, scacciando quel mascalzone di Penulo che mi
fa tormentare di gelosia».
[323] Odo le voci tue qual tintinnabulo: i
puntini di sospensione segnalano un inserto musicale previsto nello spettacolo
come risposta dello spirito: «odo risuonare la tua voce come dei campanellini
che mi attirano con suono soave e argentino, ma tu mi volgi il didietro, mi
disprezzi e mi trascuri».
[324] Si trasferisca il suaviloquio in crastino:
«si rimandi a più tardi il dolce colloquio» bruscamente interrotto dall’arrivo
di estranei.
[325] Ma non hai tu per la Rachele e l’Adria: «ma
non sei contento dei tuoi successi teatrali come autore della pastorale Rachele e della piscatoria Adria, recitate da Lelio e Flaminia
sulle scene venete e lombarde? Chi, se non io con la mia Lira, ti ha ispirato questi generi di poesia?» Il Cavalier Marino
continua a rivendicare i propri diritti di primogenitura in materia bucolica e
marittima, lamentando l’ingratitudine degli Arcadi che lo disconoscono, e si appella
alla riconoscenza dovutagli da Mirtilo, perché
entrambi si uniscano a punire a colpi di satira l’implacabile Sostrata e a vendicarsi dei soprusi di Penulo,
di cui ora, grazie a Lofa, è nota la viltà. La Rachele era una tragedia di materia
biblica e di ambientazione pastorale recitata al teatro San Luca di Venezia
nella quaresima del 1712, su pressante sollecitazione di Scipione Maffei, dai
coniugi Luigi Riccoboni e Elena Balletti (in arte Lelio e Flaminia), che ne
avevano replicato il successo a Verona, Vicenza, Padova, Modena e Bologna; anche
la marittima Adria aveva avuto buon
esito al teatro San Luca, il 30 gennaio del 1715, grazie all’appassionato
interessamento del nobile Giovan Battista Recanati a cui è dedicata la commedia
(sulla materia cfr. le note al testo di H. S. Noce in P. J. Martello, Teatro, II, rispettivamente pp. 809-814
e 765-769). L’inserto metateatrale —oltre che omaggio
implicito a quest’ultimo e sommessa autocelebrazione dell’autore— è deputato ad
allargare alla poesia drammatica la cruciale questione del rapporto fra
marinismo e arcadismo, che costituisce il problema centrale
affrontato nella pièce; e infatti la
lunga replica di Mirtilo si dilunga proprio su questo
tema.
[326] scrittore immenso e rimator mellifluo: versatilità e ampiezza di
produzione, dolcezza e musicalità espressiva sono i pregi indiscutibili che Mirtilo/Martello riconosce al Marino, suo giovanile maestro
di poesia.
[327] Tu sai parlar, ma in ogni tempo; e mancati: il ripudio del
marinismo è legato alla sua indiscriminata e lutulenta verbosità, a cui gli
Arcadi contrappongono il buon gusto di un’eloquenza sobria e misurata.
[328] mal chiragrosi, estenuati e maceri: «gottosi, sfiniti e sofferenti»
sono definiti i puristi cinquecenteschi, ristretti nel loro angusto
petrarchismo.
[329] Fior più vaghi de’ tuoi non Cinto o Menalo: sul monte Cinto, nell’isola
di Delo, Latona aveva partorito Apollo e Diana; il
monte Menalo, sacro a Pan, si trovava invece in Arcadia, prediletta zona di
caccia per la dea. Il senso è che i tesori
della poesia di Marino —come fiori nascosti fra i rovi, o pietre preziose coperte
di fango— sono difficili da cogliere e da imitare.
[330] da un vil soldato. In faccia sua me Cloride: Mirtilo è disposto
ad unirsi a Marino per svergognare Sostrata che si è
lasciata abbindolare da un soldataccio e, al posto
suo, amerà e celebrerà nei boschi il nome della dolce Cloride/Cornia
(con ciò tornando l’autore ad una salutare auto-ironia).
[331] Non canterò più qual per me soleasi:
anche a Messer Cecco è passata la passione amorosa.
[332] I’ diè in guardia al soldato, e più non pentomi: Cecco si abbandona con sollievo ad una serie
di dichiarazioni sentenziose: «io ho affidato Sostrata
al soldato senza pentimenti; un peso è grave per chi se lo vuol tenere; per quanto posso mi ammorbidisco e me ne sto per
conto mio; il merlo ha saltato il fosso: Cavaliere e Mirtilo,
ammirate la mia libertà ritrovata» ecc.
[333] Cecco, io t’intendo, e sin dentro alle tenebre: Marino gli esterna
la propria comprensione di tante massime così solennemente proclamate.
[334] Feriam tutti uno scopo, e instabil femmina: «festeggiamo
tutti (da ferior
latino) l’obiettivo comune di svergognare Sostrata
come si merita».
[335] Cedono il canto, or che l’Aurora affacciasi:
il canto di Lofa segnala il sopraggiungere dell’Aurora,
quando ai grilli subentrano gli uccelli, e, con esso, il rispetto dell’unità
aristotelica di tempo osservato nel componimento.
[336] Or siamo in porto: il sollievo di Cornia per l’andata a buon fine
della sostituzione del cadavere è subito turbato dall’irrompere minaccioso dei
pretendenti infuriati.
[337] Io lodo il gran disdetto, e lo ringrazio: Cecco continua a
rimuginare per conto proprio sul ripudio di Sostrata,
che ora gli appare provvidenziale, e di cui ringrazia, naturalmente, il suo
Petrarca.
[338] Scifra a Laureta tua gli oscuri oracoli: «lascia decifrare questi
vaneggiamenti alla tua Lauretta».
[339] Ma il placherà la lode sua, che vittima: «ma le lodi poetiche lo
rallegreranno più del sacrificio di cento buoi». L’invenzione di questo Panfilo
corrucciato che le sarebbe apparso in sogno è forse il sintomo di un inconscio
disagio nella pur impudente Sostrata.
[340] Il madrigale io spaccierò, cui tolsemi: Penulo si accinge
dunque a ripetere la recita del madrigale interrotto dal suo preteso malore, e
chiede la consueta assistenza di Marino.
[341] so le fortune tue, so le tue macchine, che testé da un capestro hanti a far pendere: «conosco il tuo stato miserabile e
le tue macchinazioni, che presto ti faranno impiccare».
[342] Eh cacciale: insensibile alla sdegnata perorazione, Sostrata suggerisce di infilzarlo senza tanti complimenti,
ma la spada di Penulo (secondo una gag tipica) è solo di rappresentanza e
del tutto inservibile: la situazione inizia a precipitare rovinosamente.
[343] Il tuo timor colla pietà si pallia: la tua vigliaccheria si
traveste di condiscendenza e misericordia.
[344] minaccia te la verga mia, che al cranio: Mirtilo,
dunque, tiene minacciosamente sospesa sul capo di Penulo
il suo bastone pastorale, pronto a fracassarglielo di botte.
[345] Ne ho prova già su più di un lupo, e sparsine: «l’ho già testato su
diversi lupi, di cui ho sparso il cervello sull’erba, per la gioia degli
avvoltoi».
[346] Io avrò sempre la fenestra in odio:
Cecco, scampato ai rischi d’amore, si dichiara invece refrattario a nuove
avventure; a proposito di questa «finestra» che si apre e si chiude sui
sentimenti e i pensieri, cfr. la nota al verso III.5.25.
[347] Colmo hai già il sacco, o avara Babilonia: la sua invettiva sale di
tono in forme petrarchesche, richiamando il sonetto CXXXVII L’avara Babilonia à colmo il sacco.
[348] contro costei, che spreti noi, mio demone: Sannione
condivide con il proprio demone lo sdegno «contro colei che, avendo disprezzato
tutti loro, onora soltanto un mascalzone come Penulo»
(definito comicamente sicofante, cioè
calunniatore).
[349] Perché sotto il mio piè terra non apriti: sotto questa pioggia di
attacchi Sostrata vacilla con un principio di
pentimento, e anche il muto Penulo se la vede brutta.
[350] Io, di cui si favella, a voi presentomi:
Cornia arriva sul più bello a risolvere tutti i guai con audace improntitudine,
consegnando i malcapitati ex-pretendenti alle guardie del manicomio e
risparmiando soltanto l’inoffensivo Lofa.
[351] Ahi le spalle!:
l’azione si conclude con una ritmica bastonatura danzata nella più pura
tradizione di teatro popolare e musicale e l’ultima battuta è lasciata a Mirtilo, che invoca (invano) i suoi sodali Arcadi.