Pier Jacopo Martello

 

Che bei pazzi

 

 

a cura di Marzia Pieri

 

Biblioteca Pregoldoniana

 

lineadacqua edizioni

 

2017

 

 

 

Pier Jacopo Martello

Che bei pazzi

a cura di Marzia Pieri

 

 

Ó 2017 Marzia Pieri

Ó 2017 lineadacqua edizioni

 

Biblioteca Pregoldoniana, nº 20

Collana diretta da Javier Gutiérrez Carou

www.usc.es/goldoni

javier.gutierrez.carou@usc.es

Venezia - Santiago de Compostela

 

lineadacqua edizioni

san marco 3717/d

30124 Venezia

www.lineadacqua.com

 

ISBN dell’edizione completa: 978-88-95598-76-5.

 

La presente edizione è risultato dalle attività svolte nell’ambito del progetto di ricerca Archivo del teatro pregoldoniano II: base de datos y biblioteca pregoldoniana (ARPREGO II: FFI2014-53872-P), finanziato dal Ministerio de Economía y Competitividad spagnolo. Lettura, stampa e citazione (indicando nome del curatore e del prefatore, titolo e sito web) con finalità scientifiche sono permesse gratuitamente. È vietata qualsiasi utilizzo o riproduzione del testo a scopo commerciale (o con qualsiasi altra finalità differente dalla ricerca e dalla diffusione culturale) senza l’esplicita autorizzazione della curatrice e del direttore della collana.

 

 

 

Biblioteca Pregoldoniana, nº 20

 

 

 

Nota al testo

L’unica edizione settecentesca di questa commedia è uscita nel Seguito del / TEATRO ITALIANO / di / PIER JACOPO / MARTELLO / Parte Prima / In BOLOGNA / Nella Stamperia di Lelio Dalla Volpe / MDCCXXIII / Con Licenza de’ Superiori alle pp. 143-267.

            Si tratta del quarto volume delle Opere di Pier Jacopo Martello, Bologna Lelio Dalla Volpe, 7  volumi, 1723-1735, contenente un’Apologia dell’autore a chi legge, L’Arianna, Il Catone tratto dall’inglese dell’Adisson, Che bei pazzi, Il Davide in corte, L’Elena casta e L’Edipo tiranno. In quell’anno uscì anche il quinto volume (con La morte, Il Perseo in Samotracia, Il piato dell’H, A re malvagio consiglier peggiore, La rima vendicata, Lo starnuto di Ercole, Il vero Parigino italiano e Del volo). Questo Seguito del Teatro Italiano, che raccoglieva i componimenti drammatici non tragici, fu la sola parte della serie bolognese delle Opere curata dall’autore; seguirono, postumi, nel 1729 il sesto e il settimo volume, che, per volontà del figlio Carlo, aggiornavano i Versi e prose e il Comentario e Canzoniere, già usciti a Roma nel 1710 (per i tipi di Francesco Gonzaga in via Lata) con l’aggiunta del dramma L’Euripide lacerato e del Fior d’Agatone; nel 1735, infine, lo stampatore raccolse nei primi tre volumi dell’edizione il resto della produzione drammatica e due testi in prosa. Si trattava della Vita di Pier Jacopo Martello scritta da lui stesso sino all’anno 1718 (già comparsa nella Raccolta di opuscoli scientifici e filologici, a cura di Angelo Calogerà, Venezia, C. Zane, 1729, II, pp. 275 e sgg) e del dialogo Della tragedia antica e moderna, rielaborato dal Martello rispetto alla stampa parigina curata dall’abate Antonio Conti con il titolo L’impostore. Dialogo di Pier Jacopo Martello sopra la Tragedia Antica e Moderna, Al Serenissimo Delfino, A Paris, de l’Imprimerie de Simon Langlois, rue S. Etienne des grès. MDCCXIV, avec Approbation & Privilege du Roy, accolti nel primo volume; il secondo e il terzo riproducevano fedelmente i due tomi dell’edizione romana del Teatro Italiano, per Francesco Gonzaga, in via Lata (comprendenti L’Alceste, Il Gesù perduto, La morte di Nerone, Il M. Tullio Cicerone, L’Edipo coloneo, Il Sisara, Il Q. Fabio, I Taimingi, L’Adria).[1]

            Questo corpus bolognese delle Opere allestito a più mani fra il 1723 e il 1735 riunisce dunque l’omnia di Martello quasi completa (con l’eccezione delle Satire e dell’ultima parte del trattato Del volo); bisogna aspettare due secoli perché la sua opera torni in luce, grazie alle fatiche di Hannibal Noce, benemerito ma un po’ frettoloso editore, per i tipi di Laterza, di una raccolta di Scritti critici e satirici (1963) e di tre volumi di Teatro (1980-1982).

Il Teatro raggruppa le opere distinte per generi e ospita la commedia Che bei pazzi alle pp. 227-332 del primo volume, in una veste abbastanza scorretta.[2] Per la presente edizione ci siamo dunque serviti della princeps bolognese del 1723 (da un esemplare conservato presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze con segnatura Magl. 215.175/4), curata dall’autore e assai più linda sul piano prosodico e formale, che abbiamo restaurato seguendo le «Norme filologiche generali» previste dall’Edizione Nazionale di Carlo Gozzi. In materia di ortografia e punteggiatura il Martello, come in tutto il resto, esibiva pragmatismo e un distaccato buon senso, che così riassumeva, nel 1710, in un brano già premesso da Noce alla sua Nota sul testo del 1963:

Quanto all’Ortografia, qui sì, che son’ito a tentone. Tanta è la diversità dagli antichi a moderni Autori, ch’io leggo così nello allogarsi de’ Punti, delle Virgole, e degli Accenti, come nel raddoppiarsi delle Consonanti fra le Vocali, che le autorità mi confondono; le ragioni non mi convincono; e par che ogn’uno sia in libertà di contenersi a suo senno [...] O in questo non ho voluto martirizzarmi: perché, o i miei Scritti meriteran qualche fama, e dalla carità de’ Toscani saran corretti; o non la meriteranno, e potran irsene con Punti, ed Accenti mal collocati, con Virgole e Consonanti manche, o soverchie al Tabacco. In ogni caso io so di non scrivere così lontano dall’Ortografia de’ Moderni, come originalmente hanno scritto l’Alighieri, il Boccacci, ed il Petrarca, che in oggi scrivono con l’Ortografia della Crusca.[3]

           

Siamo dunque intervenuti, con parsimonia e in un’ottica prevalentemente conservativa, soprattutto sulla punteggiatura, facendo attenzione a preservare il complesso impianto metrico del testo, dove ai martelliani si alternano madrigali, e componimenti lirici d’altro genere - segnalati di volta in volta nelle note (e distinti nel testo fra virgolette); abbiamo indicato in corsivo (come già nell’ originale) le parti cantate di Lofa. Abbiamo ricondotto le maiuscole all’uso moderno (riassorbendo anche quelle a inizio di verso), regolato gli accenti e gli apostrofi, ma conservato in gran parte l’impianto ortografico e morfologico originario per quanto riguarda in particolare gli oscillanti scempiamenti, ma risolto all’uso moderno le forme disgiunte di preposizioni articolate, locuzioni pronominali, congiunzioni e avverbi; abbiamo risolto in i la J intervocalica e in desinenza di dittonghi plurali, e segnalato di volta in volta nel commento gli emendamenti di evidenti refusi tipografici. Il più significativo (e clamoroso) è quello di micca per micia, in II.1.89 e II.6.42.

Il linguaggio della commedia è intenzionalmente artificioso e affollato di metafore e di riferimenti eruditi, talvolta di ardua decifrazione; abbiamo scelto di snellire il più possibile le note di commento per non appesantire troppo la lettura, fornendo di volta in volta agili parafrasi dei passi più tortuosi, e indispensabili dati interpretativi di supporto, e di rimandare all’introduzione una riflessione più generale sulle tematiche letterarie ed estetiche e le allusioni metateatrali che la sostanziano.

 

 

 

 

Pier Jacopo Martello

Che bei pazzi

 

        ALL’ECCELLENZA DI GIOVANBATISTA RECANATI, NOBILE VENETO FRA GLI ARCADI TELESTE CIPARISSIANO L’AUTORE

 

1          Appena voi, o eccellentissimo Teleste, quasi respirando dal peso dell’opere critiche, istoriche e liriche colle quali a voi e alla patria tanto onore avete, scrivendo in più d’una lingua, acquistato; e quasi levando alquanto la mano dal rintuzzare le offese fatte alla letteratura italiana dai due francesi, e dal compiere la Demodice, tragedia per voi impresa e per noi disiosamente aspettata, l’illustre raccolta delle poetesse del nostro secolo pubblicaste, ch’io vedo germogliare in tutte le donne giovani una frondosa ambizione che in esse le umane lettere non men dei volti fioriscano.[4]

2                      La qual femminil vanità loderei se, contente del recitare colle dilicate lor voci i componimenti degli uomini, nel giudicarne troppo saputamente non s’ingerissero: e siccome quelle che molti adulatori e seguaci hanno dietro i giudici loro, quelli ancora de’ parlatori e presuntuosi zerbini non strascinassero. Ma chi può a quelle corteggiate da questi resistere? Cuffie, perucche di merletti e di ricci di Francia e di Fiandra su teste vane e leggere son da temersi per qualunque modesto e gran letterato; laonde è forza il far argine colla derisione a questa corrente, che non le sole infeconde arene, ma i lavorati e fertili campi minaccia; perché ho deliberato da quelle, che saviezza e dottrina posseggono, da quelle, insomma, l’opere delle quali voi raccoglieste, quelle distinguere che, né l’una né l’altra avendo, l’ostentano; sì che vera e maggior loda le prime, ma biasimo le seconde ed emenda ne conseguiscano.

3                      Ed ecco il fine, mercé del quale la seguente commedia ho intrecciata, inserendoci parte di quel racconto che Petronio Arbitro della vedova d’Efeso ne ha lasciato. Ma, posto in un canto questo argomento, che da se stesso nel prologo e per la favola si palesa, vi confesso non giugnermi nuovo che malagevole cosa e (quello che più mi punge) non necessaria si è questa che ho impreso, soprabbondando il nostro teatro italiano di tante antiche e, sì nel verso come nella prosa, rinomate commedie, di modo che la fatica del comporne una io ben potea perdonarmi, o, per capriccio compostala, almen per prudenza dal pubblicarla astenermi.[5]

4                      E per vero dire poco meno che non la sopprimessi, quando mi giunse una vostra lettera, che mi avvisava come la Scolastica dell’Ariosto in cotesta vostra città di Vinegia per Lelio e Flaminia, egregi comici, rappresentata, anzi che essere stata accetta, fra gli sbadigli, i susurri ed i motteggi del popolo di scena in scena passando, così svergognata venisse meno, che fu mestieri calare pria della fine la tenda. E voi, quegli che delle fatture d’ingegno giudice incorrotto, e per senno, oltre l’età, venerabile siete, il verso suo ne incolpaste, che a cotesto popolo (il quale peraltro ha potuto qualcuna delle mie tragedie e la marittima non sol tollerare, ma generosamente encomiare, comeché in verso, e in un verso agli orecchi loro nuovo, legate) non piacque.[6]

5.                     A questa infelice novella io, che quel divino poeta nel verso sdrucciolo aveva per avventura imitato, diedi impetuosamente di piglio ai quinterni di mia commedia, e alzai la mano sul foco per ivi perderli e consumarli. Ma le vegliate notti e i giorni spesi nell’ordirla e nel tesserla, e l’amor finalmente che, come il padre ai propri figliuoli, quantunque difettuosi, ha poi l’ingegno a’ suoi parti, sospesero questa severa risoluzione, tanto che mi diedi a cercar ragioni da pore in salvo la mia fatica, e ne incontrai certe che a salvarla mi rincorarono.[7]

6                      Mi venne avanti, fra l’altre cose, me avere diversamente dal nostro comico italiano nell’idea della favola adoperato, imperciocché egli più tosto Plauto e Terenzio che Aristofane, ed io questo più tosto che quelli abbiam seguitato; e là dove i primi hanno ferito gli errori delle volontadi, lasciando in pace quelli degl’intelletti, ha il secondo sì nelle Nubi che nelle Rane prenduti in mira ancora gl’ingegni perseguitando i quali la maldicenza, che è lo spirito della commedia, riesce più temperata e innocente, perché, e come da poeta l’error si corregge e come da cattolico la carità verso del prossimo si preserva, tali difetti non deridendosi che infamino chi n’è tinto; conciossiacosaché l’essere malvagio poeta possa andar congiunto coll’essere costumato ed ottimo cittadino; e coteste deformità d’ingegno sien senza dolore, e di nera colpa non macchino chi le schernisce.[8]

7                      Avendo io però, tanto nelle cose quanto nelle parole, secondo il mio pensamento cercato veracemente il ridicolo, ho voluto, dopo aver terminato il mio dramma, coll’opinione di gravi autori la mia riscontrare, per venir in chiaro se, colla scorta della ragione che suol esser una, mi fossi mai abbattuto a camminar per quella via ch’essi, da gravissime autorità ammaestrati, additavano; perché apersi Antonio Riccobuoni e Tarquinio Galuzzi, che mi caddero a sorte per mano, e che della commedia e del ridicolo han saviamente trattato. Il primo adunque nella particella XX dell’Arte Comica ne deriva la difinizion da Aristotele in somiglianti parole, ciò è: che sia peccato e turpezza senza dolore, che non abbia forza di uccidere. Il secondo nel cap. 8 del suo Commentario della Commedia conviene: che la cosa, o il detto ch’eccita il riso, null’altro sia se non vizio e turpezza senza dolore; le quali due aristoteliche difinizioni sarebbero in tutto uniformi, se la prima del Riccobuoni la spiegazione del senza dolore non aggiugnesse, cioè, che non abbia forza di uccidere. Simile condizione avrà la pazzia de’ miei attori non furiosi, a ciascheduno de’ quali in una sola cosa s’è guasta la fantasia, vizio da cui non può a verun d’essi grave periglio di vita accadere, come sarebbe se io li rappresentassi capaci o di lanciarsi da una fenestra, o di urtare del capo in una muraglia, o di addentare il vicino.[9]

8                      Le maschere ancora de’ miei tre vecchi (imperciocché con maschere di due pezzi, onde il libero escir della voce non impediscasi, intendo in parte la mia commedia rappresentare) saranno anch’elleno turpi. E cominciando dai vecchi, che tre saranno, cioè il Cavalier Marino, che io vorrei di una maschera laureata, simile a quel ritratto del vero Marino che gira inciso dal rinomato Fiamingo, che in verità, quant’è diligente e pittoresco altrettanto è spiritato e ridevole, questa sarà una figura assai strana non meno per la sparuta fattezza che per l’abito antico napoletano. Messer Cecco, con quella cocolla usata sin del Trecento, e con una maschera che contrafaccia il Petrarca, aggiuntovi pendente da una collana sul petto il ritrattino di Laura, non lascerà di far ridere chi lo mira. Il Pedagogo poi, e per la gran barba nera e per la gran toga non so se magica o maestrale, sarà uno spauraccio da passeri, che avrà ancor esso la sua mal veneranda deformità.[10]

9                      Due altre maschere meno attempate sarannovi: Mirtilo e Lofa. Mirtilo, che è l’autore, con una maschera composta del naso aquilino e dell’aguzzo suo mento, con faccia ridevolmente ridente, e in ogni parte sua caricata più alquanto del proprio originale, rallegrerà coll’idea che ha avuto il poeta di mordere sé medesimo, come quegli che, dove meno o nulla conviene, vuol essere ad ogni modo quel tal pastore che dalla moderna Arcadia vien finto; in guisa che poche sono l’opere sue dov’egli non si faccia seguitare dagli armenti, dalle capanne, e dai boschi, come d’Orfeo, con misteriosa ragione, fu per la Grecia favoleggiato. Ma chi potrà frenare le risa, ammesso a vedere la mascheraccia di Lofa, disbarbata ma pallida, pingue ma grima da eunuco? Che, con un abito raffazzonato al dintorno della persona, e con cerchi sopra del corpo che lo rilevino in una pancia enormissima, la schiacci con un piccolo gravecembalo sostenuto da una coreggia che il petto e le reni ad armacollo traversi.[11]

10                    Il Soldato, giovine, senza maschera, pennacchiato tutto e nastrato, con arme lucide, antiche, e forse usate nel tempo che in Francia i Mori passarono per vendicar la morte di Troiano sopra re Carlo imperator romano, sarà pur deforme senza dolore. Le sole Sostrata e Carnia non compariranno deformi della persona, di modo che, se noi gli attori numereremo per le maschere e per gli atteggiamenti loro deformi, dell’antica commedia ritroveremo assai più abbondarne la mia; e per l’adornamento teatrale avremo tal guardaroba di fogge negli abiti che, colla varietà bizzarra e alle moderne costumanze deforme, chiamerà a sé con diletto le curiose occhiate de’ riguardanti. Ma assai delle figure corporali.

11                    Passiamo ora ai caratteri, e nei fonti topici insegnatici dagli autori, peschisi per noi il ridicolo. Scrive dunque il nominato Galuzzi nel cap. X della Commedia eccitarsi il riso da due cose. L’una si è: quando ciò che da lungo tempo desiderammo accade giocondissimamente all’animo nostro. Ma che di più grato può mai avvenirci che il sentire coloro, i quali una virtù che non avevano affettano, fuor dell’aspettazione scornati? Lo che da quasi tutti i miei attori, e principalmente da Sostrata, per la nostra rappresentazione si ottiene. Costei fa la poetessa, e non la è. Fa la bocca stretta, e non la è. Fa la costante, e non la è. E ciò non può, se mal non giudico, dispiacere a chi, possedendo tutte queste perfezioni, modestamente dal milantarle si astiene, onde dell’altrui vanità, presunzione, e baldanza si riderà. Così Penulo è un leone, se credesi alle sue sfacciate iattanze; è un coniglio, se al testimonio dell’opere sue si avrà fede. Sarà poeta, sarà accademico, se ci fermiamo nell’apparenza. Sarà un ignorante, non saprà né pur leggere, se lo porremo al cimento.[12]

12                    L’altra cosa addotta dal nostro Galluzzi si è: quando alcuni errori, sbagli, ed inezie degli altri incontriamo; e, secondo il parere dell’autore, in cinque parti dividesi. La prima è che taluno constituito in età avanzata ignori quello che san per fino i ragazzi, e ci reca in esempio Margite, che, già fatt’uomo, era in dubbio se il padre o se la madre avesselo partorito. Tale inaspettata sciocchezza in Penulo nostro si osserva, che intende volere spacciarsi per valoroso quando una fronda mossa dal vento gli fa paura; e si dà ad intendere d’essersi trovato alle maggiori imprese di guerra che più e più secoli avanti del nascer suo erano nel mondo accadute. Né pure è da sprezzarsi colui che si crede, e vuol farsi credere, un morto resuscitato; né colui che, parlando seco medesimo, dà a sé, e vorrebbe ad altrui dare ad intendere, aver compagno uno spirito a lui visibile e famigliare, interrompendo i suoi soliloqui alla maniera dei dialoghi.[13]

13                    Il secondo ridicolo nasce, o dall’ebrietà, o dalla frenesia, o da qualche sogno. Io credo che di frenetici abbondi più di qual altra la favola mia, e i sogni raccontati da Penulo e da Sostrata non produrran certamente malenconia nelle teste degli uditori. Il terzo deriva dall’ignoranza di certe arti, o dall’estimazione imprudente ed insana delle proprie forze, lo che opera che alcuno confidi di potere, o sapere, o far cose, le quali affatto ignora e fare non puote. E di qual altra natura è la mia Sostrata, che intende già di spacciarsi per poetessa, quando né pure il primo latte ha di quest’arte assaggiato? E di qual altra natura è il mio Penulo, che presume di comparire verseggiatore e poeta quando gli è noto non saper leggere? Cangia egli forse carattere quando, poltrone com’è, si vanta di tal braura che si mette del pari coi primi capitani dell’universo? In questa categoria appunto comprende il nostro autore coloro, che si dicono soldati gloriosi, predicando di aver espugnati eserciti, alloggiamenti, e città, allorché sono vilissimi, com’è la tracotanza trasoniana appresso Terenzio. Credonsi pure eccellenti il falso Marino e l’arcade Mirtilo nella lor passione di gusto lirico stravagante, come anche Messer Cecco impazzito per petrarchista; laonde per questa ragione dovrebbero fare smascellar dalle risa i veri e dotti poeti.[14]

14                    Il quinto s’aggira circa le trappole, nelle quali talun s’induce a cadere senza suo gran detrimento; come accade alla buona Sostrata, che, nelle insidie da Cornia tendutele per rimoverla dal suo sì sciocco proposito, si lascia inavvedutamente attrappare, sposandosi gentildonna con un soldato vilissimo di cuore e di nascimento; e farà ridere il popolo senza suo grave danno, mentre finalmente egli è meglio l’essere riputata ignorante che falsamente saputa, e mal maritata che pazza. È altresì minor male per Penulo il comparire sinceramente vigliacco, e salvarsi, che il mantenersi in reputazione di bravo, col morir poscia appiccato. [15]

15                    Altri luoghi topici del ridicolo addita il Galluzzi nel cap. XI dal libro che dell’Oratore compilò Cicerone, indicati; e questi alle maniere del ragionare appartengono. Colloca in primo luogo i traslati, e le inusitate parole. De’ primi non ne ha già pochi il nostro finto Marino, e per ciò credere basta il sapere ch’egli imita quanto mai può il vero suo originale. Di nuovi latinizzati vocaboli il pedantesco Sannione non è qui scarso. Succede il paragramma, e la paranomasia, o sia allitterazione (per valermi del termine suo medesimo) e di questi pure ci è liberale il nostro Cavalier Marinista impazzito, come, per ragion d’esemplo, sarebbe «il secco Cecco» ecc..; «Del secolo eccolo»; «A illuminar la cecità palpabile» ecc.; «Con un sol po’ di sol Prometeo l’anima/ a statua diè» ecc.; «Desto si farà talamo del tumulo».[16]

16                    Il terzo fonte è l’equivoco. Di tal natura è il verso di Sannione latinizzato: «Est l’amor dell’estinto, o l’est del Penulo?». Come pur l’altro di Sostrata: «E si rinovi il sacrificio a Panfilo ecc.». Altri ancora ne sono sparsi per la commedia, ma in ciò ci giova una modesta sobrietà. Il quarto è l’etimologia. Di questa fatta è il nome di M. Cecco nel petrarchevole, che volendo imitare il Petrarca, dal porsi il suo stesso nome incomincia. Così pur quello di Penulo per la uniformità che ha col soldato plautino, e per la principale prerogativa di sua valorosa persona.[17]

17                    Il quinto è la parodia, mercé di cui si abusano alcuni passi di nobili autori, o nulla o poco mutati, per renderli affatto ridevoli. Dal qual fonte scaturisce tutta la parte di M. Cecco, che è un continuato centone di versi e di forme del nostro Petrarca, ma sdrucciolate e torte in tal guisa che, dove lette nel suo originale son degne di ammirazione, nella copia che ne fa Cecco son degne di riso. Il sesto è l’iperbole, che accresce le cose sino all’incredibile. Tanto Lofa eunuco è appassionato per la sua musica, che dassi ad intendere essersi nel secol d’oro musicalmente parlato; perciò non recita che cantando mentre parla e risponde a quei che non cantano. Specie più ridicola di questa, in quante commedie ho lette o vedute, non mi si è mai presentata. E di tal natura pur sono le esagerazioni di Penulo e di Sannione, che i caratteri loro accompagnano.[18]

18                    Altri fonti del ridicolo il Riccobuoni dimostraci, e conta fra gli altri quand’uno col detto o col fatto palesa il vizio dell’animo suo. Così fa Sostrata, allora che col fatto del prepuzio di Panfilo mostra di non prezzare quello che colle parole ha sempre mostrato di venerare, e di venerar Penulo che ha mostrato voler disprezzare. Le cose estrinseche ancora (secondo il citato autore) muovono a riso, e qui a caso fortunatamente m’incontro nello stesso esemplo addottoci di Cicerone dal medesimo Riccobuoni, allora che Marco Tullio interrogò chi avesse Lentulo alla sua spada legato; ed eccolo nel Marinista, che, nulla temendo l’esortazione con cui Sostrata provoca Penulo a cacciargli ne’ fianchi la spada, risponde: «E come io temone? / Se alla spadaccia sua legato è Penulo / tal ch’ei pende da quella?».[19]

19                    Ma troppe più occasioni di ridere io porgo nella commedia che fra i mentovati cancelli non si restringono, non potendosi veracemente del ridicolo dar positivo ed intero precetto; laonde Cesare appresso di Cicerone stima che precisamente dalla natura e dall’ingegno proceda l’urbanità, che si confonde colla facezia, di modo che non se ne possa dare dottrina. E mi pare che Platone nel suo Sofista abbia colto assai bene il punto, difinendo il ridicolo certo allontanamento da ciò ch’è congruo alla natura.[20]

20                    Con questo piacevole e per me felice confronto io tanto più m’invogliai di conservare la mia commedia. Ma come quegli che ben sapeva i fonti tutti del vero ridicolo aver l’Ariosto assaggiati, e, nondimeno, essere costì rimasa sibilata e muta la sua Scolastica, senza né pure potersi suo fratello, che le diè il compimento, incolparne, mentre ne’ primi atti, opera tutta di Lodovico, sventuratamente arenò, mi diedi sgridare dal mio tavolino l’ingiustizia e la sciocchezza del popolo, ed a rileggere con maggiore attenzione la lettera nella quale, oltre l’accusare il verso, incolpate della sentenza pronunziata contro quell’innocente favola il vulgo de’ barcaiuoli che v’intervennero, il quale attuffò fra i suoi sibili i savi applausi di ben sessanta patrizi che con voi sedevano ad ascoltarla, perché fra voi proponete di non voler più dar opera a fare, che commedia di qualsiasi vostro amico, la quale sia di versi tessuta, si rappresenti.[21]

21                    Nel che unendomi al sentimento vostro, che male s’arrischi al giudicio del popolaccio una favola comica in verso, non però mi sono disanimato dal pubblicare la mia, comeché in versi legata, bastandomi la sicurezza che da nessuno istrione sia eletta, ed al pubblico esperimento de’ palchi venali esibita. Imperciocché conosco io, quant’essi conoscono, che quando cotesti artigianelli o barcaiuoli vanno al teatro per ridere, più tosto il Dottore, il Pantalone, ed Arlechino, e Finocchio, che la Lena, il Negromante, I suppositi, la Cassaria, e la Scolastica vorrebbero ritrovarvi: conciossiacosaché nessuna commedia ridevole, per savia, piccante, vivace e costumata che siesi, può alla commedia istrionica italiana resistere; né vi ha lingua al mondo, o nazione, appresso di cui si ritrovi un’invenzione di turpezza senza dolore che con questa osi paragonarsi.[22]

22                    E qual malenconico potrà star serio all’apparir del Dottore, che spunta dopo esser già in scena la metà del suo voluminoso e grondante cappello arrivata, che in tutto o in parte, mercé delle inquiete manacce, o rotolato o raccolto sconcia la nera e mal tonacata figura? La quale nel dialetto suo bolognese, ad altri orecchi italiani per sua sventura ridevole, fa spiccare quella sua gesteggiata loquacità, diffusa fuor di proposito, e graziosamente per ostentate e mal applicate dottrine stucchevole. Il vostro Pantalone è pure anch’egli una maschera di civetta che muove a riso, massimamente quando vedete quel grifo montato già in pretension di Ganimede, di damerino, perché indelicatendosi, vecchio quant’è, ingarzonisce; avaro per natura, prodigo per lascivia, accorto e restio d’intenzione, sciocco e corrivo d’esecuzione. Il dialetto pur veneziano, co’ suoi leggiadri proverbi, avrà le fiche dai fiorentini, e da tutti quanti i toscani che allo spettacolo si trovassero.[23]

23                    Finocchio è un rigiratore, prontissimo ad attaccarsi ancora alle paglie, per non sommergersi, ed intanto comparisce egli malizioso ed astuto, in quanto creduli troppo color si dipingono a’ quali ardisce di vendere le sue frottole; e il suo dialetto da montagnaro di Bergamo non è dei più belli d’Italia; arroge poi che l’abito bianco e verde, e la schiacciata beretta, e la maschera sua da marmotta, cose tutte che aiutano a riderne. Ma che diremo di quel cotal bergamasco, che venir mostra dalle parti vallive di quella stessa provincia? Quella sua maschera mora ritonda, e intorno al mento pelosa a guisa di simia, quell’abitello a più colori che lo dintorna; quella sua statura più tosto piccola, sempre in dubbio o di starsene torta ed immobile, o di precipitosamente travolversi; quel suo gesteggiare, quando da furioso e quando da attonito; quelle graziose paure, e quelle istantanee e corrucciose braure; quelle sciocchezze innocenti, che guastano tutto quello che per acconciare son adoprate; quel suo dialetto zannesco, quegli strilli, quelle meraviglie, quelle cadute furono e sempre saranno la delizia più favorita dai popolani.[24]

24                    Né dee tacersi la frizzante, furba, proterva, e discoluccia Servetta; né il Coviello, il Giangurgolo, il Puccinella, attori tutti per ogni parte ridevolissimi. Le stesse sfacciate inverisimilitudini nelle azioni provocano a riso, siccome soglion coloro che la paralisia o altro male non doloroso fa a lor dispetto ridenti, tremuli e scilinguati. Gli stessi innamorati nell’affettazione dei lor ragionari non mancano del ridicolo; così che confesso ch’io lascerei l’Edipo di Sofocle, e l’Anfitruone di Plauto per una di queste favole da valenti istrioni rappresentata.[25]

25                    Quindi non è maraviglia che la commedia dell’Ariosto condotta per mano dal genio antico e latino non siasi nel genio moderno italiano abbattuta, mentre anche il popolo spagnuolo, che pur va superbo de’ suoi spettacoli teatrali, e il popolo francese, comeché innamorato del suo Moliere, lasciano vuote per la commedia italiana le panche dei teatri lor nazionali in faccia alle lor gran corti, in faccia ai loro medesemi autori viventi, che tuttavia in quelle province, come la gramigna ne’ prati, germogliano.

26                    Lontane dunque dal popolo le nostre commedie. Né la mia potrà certamente rappresentarsi che da un seminario, o da un’accademia ad un’udienza scelta e raccolta, la maggior parte di letterati; e delle rise di questi ardirei io lusingarmi, men perseguitando la moda del vivere che quella del verseggiare; lo che facendo, allo scoglio a cui ruppe l’infelice commedia di Lodovico non urteremo, alla quale, se voi coi soli vostri sessanta patrizi aveste seduto, non calavasi senz’alcun dubbio la tenda. Di simile udienza non avrà che temere lo stesso verso, il quale, secondo il giudicio vostro, alle orecchie popolane, così com’è sdrucciolevole, non è accetto, comeché io creda, anzi che no, questa sorta di verso attissima ad imitare la prosa, dimodoché, così diretto dai sentimenti, non danzi ma guisa di sciolta orazione agiatamente cammini; e però non dover dispiacere, quando vediamo per quanta è l’Italia le commedie in prosa non solamente sofferte, ma rinomate.[26]

27                    E per me credo non ingannarmi pensando che il verso, corredato di frase più tosto prosaica, nella commedia fosse introdotto acciocché la legge del metro gli astratti e baldi, o di lor memoria diffidenti, istrioni in luogo d’una parola altra dal capriccio di essi inventata e sostituita a non collocarvi astringesse, la quale, o di grazia spogliata fosse, o colla dovuta proprietà il sentimento del drammatico autore non esprimesse. Ed ecco, o eccellentissimo Teleste, la sola parte in cui dal vostro giudicio vi prego a permettere che il mio si diparta, soscrivendo per altro qualunque sentenza che in causa di lettere voi pronunziate.

28                    Né già desidero da questa rappresentazione escluse le donne, benché l’inimicizia loro sie da temersi, e della donnesca ambizione qui malamente si parli. Imperciocché, avend’io molta venerazione a quel sesso, e a certe letteratissime che alle mie tragedie han fatto grazia dell’approvazion loro, essendo io infinitamente obbligato, pretendo di corrispondere a tal gentilezza col separarle, come sopra ho detto, dalle altre che presumono, e voglion dare ad intendere al mondo, di essere quali le poche da me conosciute, e le opere di cui nella vostra raccolta si leggono. E perciò vorrei che a questa rappresentazione le nominate da me nella scena terza dell’atto quarto intervenissero per loro gloria e trionfo.[27]

29                    Le altre poi tutte sono in due classi divise, la maggior delle quali cede di buona voglia a noi uomini lo studio della filosofia e della poesia; laonde dovrà godere di sentire lo scherno di quelle sapute ignoranti, che l’altra assai minor classe compongono; ed odan pur con dispetto quest’ultime dipinti al naturale i loro vizi, e corucciate contro il poeta sen vadano, purché, in ascoltando il dramma, si emendino; e per mia che ancor queste mie inviperite dottorine terran chiusa in petto la rabbia, e rideranno sardonicamente di se medesime, acciocché non traspaia il rimorso dal riconoscersi nel ritratto ch’io su la scena dipingo e dileggio.

30                    Monsignor de Moliere ha pure l’approvazion delle dame nelle sue Fames Scavantes liberalmente ottenuta; e non solamente ho io veduto il bel sesso affollarsi al teatro di San Germano, e ridervi ben di cuore delle rappresentate sapute, ma nel castello di Sceau mi sono trovato a questa commedia recitata magnificamente dalla serenissima duchessa d’Humene con altre gentildonne sue famigliari alla più conspicua nobiltà della gran corte di Francia.[28]

31                    Farei altresì sigurtà che il rimasuglio di quelli che imitano l’abbandonato Marino, né tampoco la moltitudine di coloro sparuti che contrafanno il Petrarca, avrà baldanza di lamentarsi che in questa commedia io li carichi, nella quale a me stesso, cognominato fra gli arcadi Mirtilo, non perdono, come quello che alle volte troppo affettatamente, dove abbisogna e dove non abbisogna, mi fo pastore, onde, se io dico generosamente mia colpa, non dovranno essi garrirmi perch’io non taccia i loro falli poetici per utilità delle umane lettere, che anche in questo corretto secolo, per allontanarsi da un vizio, con troppa violenza all’altro si accostano secondo il detto di Orazio «In vitium ducit culpae fuga, si caret arte».[29]

32                    Ma mi direte voi, o dottissimo compastore: «Perché limitar la tua udienza alla piccola, benché miglior parte del popolo? E tu, quegli che di tutti gli spettacoli antichi e moderni hai voluto dar qualche saggio nel tuo teatro, perché lasciarlo mancante di una commedia istrionica, la quale a tutta un’intera città sia solazzo?» A questo io rispondo essere impossibile lo scrivere una commedia di tal natura, che, quanto si può rappresentar con piacere di chi l’ascolta, altrettanto sarebbe scritta con nausea di chi la leggesse. Imperciocché le grazie dei dialetti (termine di cui sono in necessità di valermi) s’intendono da quei soli che quel parlare o per nascimento o per lunga abitazione posseggono: perché il Dottore ai bolognesi non riuscirebbe per avventura spiacevole, ma a tutte le altre nazioni insulso e freddo comparirebbe.[30]

33                    Aggiugno ancora che chi compone, essendo bolognese, non può mai maneggiare con sicurezza gli esterni idiomi di Vinegia, di Bergamo, di Napoli, o di Sicilia. Ché, se piacciono queste commedie persino di là da’ monti, dove la stessa lingua cortigianesca italiana appena e da pochi s’intende, ciò avviene per cagion della mimica, che da tutti coloro che han occhi, egualmente assaporasi, in guisa che, per chi volesse una di queste commedie stampare, gli atti, e il gesteggiar curioso, faceto, fallico e sconcio imprimerci converrebbe; cosa ch’essendo impossibile, né colla modestia poi, né colla religione si accorda. E perciò costoro che tali rappresentazioni espongono al popolaccio van giustamente fulminati da’ sacri canoni colle implacabili e più severe censure.

34                    E, se dai governi, ancorché cattolici, si van tollerando, egli è per lasciar uno sfogo, il men nocivo che dar si possa, al cattivo genio dei popolani, che, almen per quel tanto che seggono e ridono alla commedia, non rubano le botteghe, non fan violenza alle vergini, non fanno ingiuria agli altari.[31]

35                    Date dunque licenza al verso ariostesco di comparire sotto i vostri occhi per me imitato, ed accogliete questa commedia, che a voi ricovera, come un’arra di quell’alta stima in cui serbo voi e tutte l’opere vostre istoriche, poetiche, e critiche, e di quella ossequiosa gratitudine, che alla generosità vostra ed al padrocinio, di cui ne onorate, mi lega: e fra i grandi affari, ne’ quali i patrizi di cotesta dal suo nascimento incontaminata repubblica sono agitati, respirate ridendo su queste scene; o di me almeno, che ho presumito di poter muovervi a riso, ridete. State sano.

 

 

 

Che bei pazzi 

 

Interlocutori[32]

 

sostrata, vedova nobile cosmopolitana

cornia, sua serva

penulo, soldato

messer cecco, pazzo petrarchista

cavalier marino, pazzo marinista

sannione, pazzo pedante

lofa, pazzo musico

mirtilo, arcade

 

mimi

 

guardiani dell’Ospitale de’ Pazzi

 

La scena è a Cosmopoli nell’Ospitale de’ Pazzarelli[33]

 

 

 

                  Prologo

 

 

                                   In Cosmopoli fu matrona nobile,

                                   che del marito suo si pianse vedova,

                                   mentr’ella era anche e giovinetta, e tenera;

                                   lo qual per testamento aveasi il tumulo

5                                  lasciato all’Ospital de’ Pazzi, ed erasi

                                   alla maniera dell’antico Mausolo,

                                   preparato un sepolcro alto e magnifico,

                                   in cui la vedovella, d’Artemisia[34]

                                   imitando i sospiri, il duol, le lagrime,

10                                sedea custode dell’amato Panfilo,

                                   che imbalsamato, e non converso in cenere,[35]

                                   agli occhi suoi di sé facea spettacolo,

                                   su la bara dormendo un sonno ferreo.

                                   Varie avventure alla piagnente avvennero,

15                                che qui udirete, e certi bei fanatici,

                                   cui nella fantasia sola un’immagine[36]

                                   altamente è scolpita, ond’è d’insania

                                   tocco ciascuno in quello sol che spaziasi

                                   per la contaminata sua memoria.

20                                Nel resto è savio, se non è dell’animo

                                   follia maggior che lo riempia ed agiti,

                                   un crin biondo, un bel viso, un occhio lucido:

                                   sì tutti intorno alla dolente impazzano,

                                   che ai lor sospir stassi qual rupe immobile

                                   contro il soffiar di Borea e di Favonio.[37]

25                                Solo un soldato, uomo il più vil degli uomini,

                                   espugnò sua bellezza inespugnabile.

                                   Voi preparate ai casi suoi silenzio,

                                   e serbate gli evviva al fin dell’opera;

                                   né fuor che il riso altro rumore ascoltisi;

30                                che di risa suonar vuol la commedia

                                   privilegiate da Talia scherzevole.

 

 

 

                  ATTO PRIMO

 

 

                                   SCENA PRIMA

 

                                   Sostrata, Cornia.

 

            cornia           Padrona, io non so mai che donna vedova

                                    sì lungamente di sua doglia pascasi,

                                    che per volger di tempo, alfin non sazisi.

                                    Suggerisce ragion che mai per lagrime[38]

5                                  dall’urna sua non s’eccitò cadavere;

                                    onde pia madre in su lo spento ed unico

                                    diletto figlio alfin prudente asciugale;

                                    e la sì cara sposa il mesto e vedovo

                                    marito in casa unque non soffre, e scacciala

10                                fin dalle piume del goduto talamo,

                                    e inviane il corpo all’onorate esequie;

                                    ma poi che all’ombra ha soddisfatto, requie

                                    pregando all’ossa, ed all’ignudo spirito

                                    nel comprato dolor di cento prèfiche,[39]

15                                e finalmente la bara funerea

                                    ne accompagnò, sicome saggio acquetasi.

                                   Poi, da che morte ha già strappato il vincolo

                                    della coniugale, e che fra l’anime

                                    nude e vestite amor non vuol comercio,

20                                gli occhi asciugati a qual balcone incontrisi

                                    alza, e delle gramaglie il lungo strasico,[40]

                                    che spazzando le vie, sveglia alta polvere,

                                    sua libertate ostenta, e a grazia giovagli

                                    con qual fanciulla alla fenestra affacisi.

25                                Quinci gli sguardi in pria furtivi, e il volgersi

                                    più volte in dietro a rimirar la vergine,

                                    sinché proni a vicenda i capi inchinansi.[41]

                                    Cercasi allor di una sagace e cupida

                                    vecchierella, che asconda in sen reciproche

30                                le letterucce, onde il contratto accordasi:

                                    e spesso avvien, che nel letto medesimo

                                    in cui giacque l’estinta, e che ancor tepido

                                    quasi è di lei, la nuova sposa abbraccisi.

                                    E noi, che il cielo e la natura instabili[42]

35                                creò, che il sesso incontro amor più fragili

                                    rende, vorremo per non so qual boria

                                    costanza e non imparar dagli uomini?

 

            sostrata       Tu parli al vento. A posta lor volubili

                                    sien gli uomin pur; sia maggior gloria, o Cornia,

40                                al nostro sesso per virtù risplendere,

                                    che dal sesso viril bandita esageri.[43]

                                    Non pensò già se fido o no il suo Mausolo

                                    stato le fora, se fosse agli Elisii

                                    gita primiera la bella Artemisia:[44]

45                                pensò ad esser vèr lui qual ei pur essere

                                    dovea verso di lei, che tanto amavalo.

                                    E se alla vecchia uniam la nuova istoria,

                                    non ti sovvien di quel famoso Davalo,[45]

                                    che dalla Colonnese sua Vittoria

50                                fu pianto sì che dureran le lagrime

                                    ne’ pudici suoi versi eterne e celebri?

                                    Deh, perché a me non inspirasti, Apolline,

                                    parte della tua fiamma, ond’io di candidi

                                    inni potessi ornar la spoglia, e il tumulo

55                                onorato del mio diletto Panfilo,

                                    a cui le membra han qui serbate i balsami[46]

                                    orientali, ma non già lo spirito

                                    sciolto, che dal suo fral lontano aggirasi,

                                    se pur non empie intorno a me quest’aere,

60                                che respiro soave, ed entra ed escemi

                                    per queste fauci a sospirare, a gemere

                                    aperte sempre. Io vo’ provar se giovami

                                    la vista del mio freddo e bel cadavere

                                    a spirar sovra lui svenata in cantici

65                                armoniosi. Oh se lo fo, già supero

                                    Artemisia e Vittoria, insieme unendosi

                                    in me l’onor che l’una fece a Mausolo,

                                    e quel che fe’ la poetessa al Davalo.

 

            cornia           La poesia colla pazzia confondesi

70                                sovente, se merta il comun credito

                                    di quanti furo e in avvenir sarannovi

                                    poeti, e pazzi. E questo tuo poetico

                                    genio tem’io che nel simil degeneri,

                                    massimamente in questo luogo, ov’errano

75                                tanti capi di scemi: in conversandoli

                                    frequentemente, il somigliarli è facile.

                                    Sembri farneticar già coi farnetici

                                    in questo albergo, anzi ospital de’ miseri

                                    egri intelletti, i qual, se ben van liberi

80                                dalle catene, perché altrui non nuocciono

                                    con morsi ed ugne, son perciò nocevoli,

                                    ché rider fan dei lor error ridicoli;

                                    ma chi ne ride, a poco a poco un abito

                                    contrae, che d’imitarli alfin dilettasi,

85                                e l’imitazion sì poi confermasi[47]

                                    che, confermata, a voglia sua non cacciasi.

                                    Altro esempio non vo’ che te, mia Sostrata,

                                    la qual, sinché per un desio di piagnere

                                    gli occhi stropicci a proccurar le lagrime

90                                stentate e fredde, e sinché all’arte incognita

                                    del poetar, quando non mai di lettere

                                    tuoi verd’anni imbevesti, il genio or applichi,

                                    pazza sarai, ma di pazzia soffribile.

                                    Insoffribil sia ben, ché tanto avanzisi

95                                l’affettata tua , che voglia a Panfilo

                                   che, o non t’ascolta, o, se t’ascolta, ridene,

                                   sacrificar la stessa vita, e toglierle

                                   il nudrimento, e d’erbe empier lo stommaco,

                                   intisichir per frenesia di gloria

100                              aerea e folle.

 

            sostrata                               E sin a quando, o Cornia,[48]

                                    fia che il mio onor la tua viltà contamini?

                                    Esci pur tu, se il vuoi, da queste tenebre

                                    del marmoreo sepolcro: io, come tortora

                                    mi starò sola a lagrimar l’amabile

105                              perduto sposo, in compagnia dell’orride

                                    mie cure, e di quest’una amica fiacola,

                                    ch’anche ricuserei, se non che il tacito

                                    busto del mio signor per essa onorasi.

                                    Ma qual strepito, ohimè?

 

 

SCENA SECONDA

 

                                   Penulo, e dette.

 

            cornia                                                           Chi bussa?[49]

 

            penulo                                                                                  Apritemi.

 

            cornia           Oh che bell’uom, signora mia! Rallegrati.

                                    Che gaie piume ha su l’elmetto! E lucido[50]

                                    per qual orrido usbergo a noi riverbera!

 

5          sostrata       Ohimè! Un soldato in questa tomba, o Cornia?

 

            penulo           Non ti prenda stupor, donna magnanima,

                                    che un eroe generoso al piè tuo prostrisi

                                    coll’armi sue, che son della giustizia

                                    onore e scudo.

 

            sostrata                               E che da un’Artemisia,

10                                che piagne il suo signor, per te pretendesi?

 

            penulo           Pretendo sol che, se ti ha fatta ingiuria           

                                   l’empia morte, l’offesa in te non vendichi

                                    col negar di nudrir tue membra tenere.

                                    Cerchiam chi spense il tuo consorte, e vedova

15                                ti creò lagrimosa. Io sento i medici

                                   dir che i polastri e le galline uccidono

                                   col nudrir troppo, e tu su quei volatili

                                    sfoga la giusta innesorabil collera:

                                    né a schivo aver che da un soldato insegnisi[51]

20                                qual sie nella vendetta eroica gloria.

                                   Ecco i polli; un alesso, un odorifero

                                    stuffato, ed un, che fra il butiro e il zucchero

                                    e il pane e il cinnamomo, arosto inghiottesi[52]

                                    pria colle nari che col labbro: assaggiali.

 

25        sostrata       Altro pasco non vo’ che vil cicoria,

                                   che abborre il sal, l’alio, l’aceto e l’olio,

                                    ma il condimento suo son le mie lagrime.

 

            cornia           Io mi sento morir se non divorovi,[53]

                                    odorate vivande: oh Dio, che l’anima

30                                mi torna in sen dal sol vederle!

 

            penulo                                                           Assaggiane.

 

            cornia           E dovrem ricusar da man sì candida

                                    doni sì preziosi in tanta angustia

                                    tu di dolore, ed io di fame? Ah Sostrata!

                                    Se vogliam forza aver per meglio piagnere

35                                su questo miserabile mortorio,

                                    mangiam, mangiamo.

 

            sostrata                                           Oh petulante, ed avida,

                                    e sconoscente di che sia rammarico,

                                    a voglia tua t’ungi la gorgia, e saziati.

                                    Ma, o cortese guerrier, se mai d’istoria,

40                                o di poema hai tu (siccome l’aria

                                    tua generosa agli occhi miei pur indica)

                                    commessa impresa, avvi, o scrittor che cantila,

                                    o suggesti tu ancor delle pierie[54]

                                    suore le poppe, che latte distillano

45                                ai cari lor, benché durette e vergini.

 

            penulo           Altro latte, che sappia, io mai non bebbimi

                                    che quel della mia madre illustre e nobile,

                                    qualor venia dal governar le pecore.

 

            sostrata       Nobile, e pecoraia?

 

            penulo                                              All’aureo secolo

50                                si conformava: ambizion di mugnere[55]

                                    avea le pecorelle, allorché al patrio

                                    frascoso ovil le riducea dal pascere.

 

sostrata       Ma nell’età dell’oro in dolci e musiche

                                    note cantava ognun, se il ver raccontasi,

55                                e dalle bocche scorreano spontanei

                                   sdruciolando in canzoni i bei vocaboli;

                                    ond’è fama che Adam fu petrarchevole.

 

            penulo           Son io forse da men? Son pertichevole[56]

                                   poeta anch’io: l’asta maneggio, e spertico

60                                quanti nei quarti di quel miserabile,

                                    le cui membra pendenti esposte all’aria

                                    io custodisco, a rimirar si appressano;

                                    perché ci va la testa mia, se spiccansi.

 

            sostrata       Lassa! te a custodir le membra lacere

65                                di un reo sospeso osi avvilir? La bellica

                                    gloria ove andò?

 

            penulo                                   Chi assassinò la patria,

                                    della mia creduto è alla custodia.

                                    Ve’ il campion del Senato, e ve’ del Popolo[57]

                                   il difensor.

 

            cornia                                   Ma le vivande fumano;

70                                e se tardiam, padrona mia, congelansi

                                   del buon stuffato i preziosi intingoli.

 

            sostrata       Manca a te, buon guerrier, l’arte poetica;

                                    per altro hai quel che legar puote un animo

                                    riconoscente a non sdegnarti, a vivere

75                                con esso te, sì liberal, sì ingenuo

                                   mi comparisci; e, tranne il solo Panfilo,

                                   uomo non vidi mai, che tanto al genio

                                    mio si confaccia; ma ho fisso il proposito

                                    di gareggiar con quella tal Vittoria

80                                che suo sposo cantò converso in cenere;

                                   quinci a poeta, onde a me l’estro infondasi,

                                    ho destinato il confidar mie lagrime:

                                    per compagnia cotal di questa misera

                                    dolente vita in bel sollievo, io spasimo.

 

85        penulo           Vuoi che ignota a un guerrier sia la vittoria?[58]

                                   Son pur poeta, e ti farò discepola

                                   de’ canti miei, per onorar quel Panfilo,

                                    che qui sen giace imbalsamato e gelido.

                                    Ma, se t’amin le Muse, ora in memoria

90                                del cadavero suo gusta i cadaveri

                                   de’ polli miei, che la tua bocca aspettano.

                                   Mangiali intanto ch’io qui fuori all’aere

                                    mediterò qualche prosetta in tenere

                                    rime composta, e penserò qual regola[59]

95                                possa a un bel verseggiar te pronta ed abile

                                   rendere in questo dì.

 

            sostrata                                           Se il fai, da vedova

                                   onorata ti giuro amor perpetuo,

                                    e sovra il fral del mio diletto io giurolo.

 

            cornia           Or ch’è fermato il giuramento, o Sostrata,

100                              sedianci a mensa, e confortiam le viscere,

                                   che brontolar fa l’astinenza; e chiudasi           

                                    dell’avello la porta, e intanto spazisi,

                                    nel suo capo ad unir le idee poetiche,

                                    il buon maestro.

 

            sostrata                                          Io mi ti rendo, o Cornia.[60]

 

105      penulo           Acciocché siate a ben cenar più libere,

                                   a me tiro la porta, e fuori io serromi.[61]

 

 

                                   SCENA TERZA

 

                                   Penulo.

 

            penulo           Or sì son nella pania. E chi mo sbrigami

                                    dal doppio visco in che m’intrico e smanio?

                                    Me la fortuna ad altri sì volubile[62]

                                    esaltò dal carreggio alla milizia

5                                  senza che il mio né il sangue altrui spargessesi.

                                    Ma di bell’armi e di bei fregi adornomi,

                                    e pria di uscir dal mio quartiero io specchiomi

                                    ben cento volte in fianco, in faccia, e volgomi

                                    addietro ancor, per vagheggiar l’erculee

10                                spalle mie, che dispari avea quel piccolo[63]

                                    magno Alessandro ch’espugnò Cartagine;

                                    né fu bel capitan, com’io, quel Scipio

                                    che balzò dal suo carro in faccia a Persia

                                    da’ suoi traffitto il venerabil Dario.

15                                Onde, qual maraviglia se disperansi,

                                    il mio bello, il mio garbo, e la mia nobile

                                    corporatura in vagheggiar, le femmine?

                                    Che, quante son, dai drudi lor si spiccano

                                    per appicarsi, o correr dietro al Penulo.

20                                Addocchiata mi avea questa dolentesi

                                    vedovella, ch’è ricca, ed anche sembrami

                                    non indegna di me; ma già abbandonami

                                    la mia cagna fortuna allor ch’io piacciole,

                                    e che, me appena visto, ella innamorasi,

25                                e le vivande mie gustar non sdegnasi:

                                    vuol mo ch’io sia poeta, e vuol ch’io dettile

                                    precetti ohimè da far canzoni a Panfilo.

                                    Sapessi almen non verseggiar, ma leggere

                                    i versi altrui, che come audacia simulo,

30                                quando in mia coscienza io son sì timido

                                   che una zanzara a spaventarmi è biscia,

                                    fingerei anco esser poeta, e fingere

                                    lo saprei sì, che poi col volto amabile

                                    conquistarmi il suo cuor sarebbe agevole.

35                                Qual mai fu donna a questi rai difficile?

                                    E questa, anzi che no, per essi è facile.

                                   Or che farò? Ma non v’ha qui di stolidi

                                   un ospital dove alzar fanno i sibili

                                   tre poeti impazziti? Ad un ricorrasi,

40                                che mi presti un sonetto pertichevole:

                                   prestato poscia, io venderollo a Sostrata,

                                   con mercede non mia che sì ch’io comprola?

 

 

                                    SCENA QUARTA

 

                                   Sannione, e detto

 

            penulo           Ma qual barbon con toga venerabile[64]

                                   e con nera beretta? È forse magica

                                    quella sua verga ond’ei gestisce e rotala?[65]

                                    Egli un pazzo sarà.

 

            sannione                                          T’arresta, o milite,

5                                  e non turbar con indiscreti eloqui[66]

                                    spirito famigliar, ch’è mio pedisequo:

                                    alias farò che proverai del baculo

                                    onnipotente mio non solo i verberi,

                                    ma la magica forza.

 

            penulo                                               Il diavol salviti,

10                                non già lo ciel, poiché sei mago, e bazzichi

                                    con uno spirto. Or, s’egli è vero, io pregoti

                                    in carità di far meco amicizia,

                                    che uno scudo otterrai, se dal tuo spirito

                                    mi otterrai tu che in un baleno io facciami

15                                un valente poeta.

 

            sannione                                          Oh per pecunia

                                    neu spera ai voti interessato auxilio.

                                    Per la mia voluptà pria voglio il demone[67]

                                    obsecrar, te presente, e poi precatone

                                    levame a te belligerante, expectane

20                                quidquid aneli. Or qui ti pianta, el circolo

                                    che su la polve intorno a te delineo,

                                    non trasgredir. Mehercle un uom sì pavido

                                    nunqua mirai. Te avvezzo al taratantara

                                    della tuba, come or concutte il sonito

25                                di umana voce?

 

            penulo                                   Il mio coraggio or stringesi[68]

                                    quanto è, tutto al mio core, e lascia ir tremule

                                    le non curate membra.

 

            sannione                                          Aspice il Socrate[69]

                                    visso, secoli fa, che dal platonico

                                    anno ricorso reduce all’eterie

30                                aure ricuperato alfin resuscita,

                                    associato da quell’incorporeo

                                    spirito suo, che famigliar vocavasi,

                                    eo quod dialogizzar seco l’udivano,

                                    senza auscultar quelle parole eximie,

35                                delle quai l’auri altrui non fere il crepito.

 

            penulo           Signor Socrate mio...

 

            sannione                                           Di’ piano: accedemi

                                    il bel demone mio.

 

            penulo                                               Di tema io palpito.

 

            sannione       O tenella animuccia, offro un munusculo

                                    a te d’incenso, unde s’innebri l’aere;

40                                e flagreranno a te legni odoriferi,[70]

                                    se a due mie preci tu sarai presidio

                                   …………………………………..

                                   (Queste pause si mettono come se lo spirito da Sannione solo ascoltato parlasse)

                                    Che vogl’io, tu mi peti? In primis queroti

                                    che la sannionicida amabil Sostrata

                                    le tumidule gene, ed i nigerrimi

45                                occhi, il petto peralbo e venustissimo

                                    conceda a Sannion, ch’è sostratifilo.

                                    Ora so che amor sia: lui le marpesie[71]

                                    cauti educaro; a lui le mamme admossero

                                    le maculose, odore, indiche tigridi.

                                   …………………………………..

                                   …………………………………..

50                                Tu ridi, e dici che ha l’alma caucasea,

                                    e s’ha il viso elegante, ha il cuor detterrimo.

 

            penulo           (A parte) Egli è solo a parlare, e pur dibattesi,

                                    e gesteggiando e rispondendo al demone,

                                    che (buon per me) non odesi e non vedesi,

55                                ond’è che meno i membri miei vacillano;

                                    ma cercando un maestro, io della vedova

                                    trovo un amante, ed un rival ridevole.

 

            sannione       No, la mia dignità per duriuscula

                                    beltà non scema; ma tu facilitala,

60                                e i suoi precordi umanità riscaldimi.

                                   …………………………………..

                                   …………………………………..

                                    Ita, bene est, pulcherrimo mio spirito,

                                    d’ingentissima grazia appresso anche oroti,

                                    ed è che quest’onor del Bello Punico[72]

                                    poeta erumpa in un balen: comparigli,

65                                o demoniaco mio cubiculario,

                                    uti a me comparisci, e le sassifrage

                                    vocule tue, per le tue corna, auscultinsi.

 

            penulo           (A parte) Oh no; ch’io gelo di paura.

 

            sannione                                                                  Ah crudulo,

                                    tu da me fuggi, e dal bellante Punico,

70                                che Libia al par d’Annibale condecora?[73]

                                    Evanuì; per inseguirlo io volito.[74]

 

 

                                   SCENA QUINTA

 

                                   Penulo.

 

penulo           Respiro, or ch’ei fuggì. Non vo’ con spiriti,

                                    siasi incanto, o pazzia, mai più commercio;

                                    ma che dicea colui di guerra punica,

                                    quando Libia per me mai non conobbesi?

5                                  Forse ancor Libia si nomò Cosmopoli?

                                    Interrogar ne vo’ qualche filosofo

                                    a cui non sono i prischi nomi incogniti.

                                    Altra città per me giammai non videsi

                                    che Cosmopoli prima, e poi Cosmopoli;

10                                ma s’altra mo visto ne avessi, e fossevi

                                    stato guerrier, com’ei crede, invincibile,

                                    dove qua i capitani e là gli eserciti

                                    sconfitto avessi, e che le mie vittorie,

                                    ed i fiumi di sangue ostile tumidi,

15                                per nemico destin scordato io fossimi?

                                    Son io da men, perché altri a me ricordilo?[75]

                                    Presuntuoso io non sarò, se fidomi

                                    più della mia che dell’altrui memoria?

                                    Così sarà: sarò stato un uom celebre,

20                                e, quant’or pauroso, allor magnanimo,

                                    poiché tutto il valor consunto immagino

                                    nell’alte imprese, onde sì l’alma ho timida,

                                    ché al sol udirle in petto il cuor recalcitra.

                                    E pur parea che sin dagli anni teneri

25                                rammentassi i miei studi. Io vita rustica

                                    condussi pur ch’era fanciullo; e giovine,

                                    fatto cuor mio di forosetta amabile,

                                    fui da un rival con un baston sì ruvido

                                    percosso, ch’anche al tergo i segni portone.

30                                Poi venni adulto, e conduttor di buffale

                                    trassi a carreggiar fieni entro Cosmopoli,

                                    e del guadagno mio comprai (ché vendere[76]

                                    soleala il capitan) la piazza bellica

                                    di soldato, ed allor di messer Penulo

35                                con mio stupor divenni il signor Penulo.

                                    Ma non ricorderommi il vero. Io nobile

                                    nato sarò, sarò qual colui dissemi

                                    che stato io sono. O mia memoria labile!

 

                                   Fine dell’atto primo

 

 

 

                  ATTO SECONDO

 

 

                                    SCENA PRIMA

 

                                   Il Cavalier Marino.

 

            c. marino       O tu, che appresso ai laureati ceneri[77]

                                   del buon Sincero e del cantor di Mantova

                                   accogliesti il mio fral, bella Partenope,

                                    perché a canora e nova vita or m’ecciti[78]

5                                  in questo sconoscente e ferreo secolo,

                                    ‘ve in quanti mira il sol, con me resuscita

                                    moltiplicato e lo Stigliani e il Murtola?

                                    Dove, o baldo Achillini, e Preti candido,[79]

                                    dove, o Bruni, o Capponi, e dove o Ciampoli,

10                                ombre sedete alle bell’ombre elisie?

                                    Dai silenzi letei deh a por silenzio

                                    qua su venite alla latrante invidia,

                                    che addenta i nomi, e che di noi fa strazio,[80]

                                    stupor già degl’ingegni, or riso e favola.

15                                Col Cavalier Marin vanno i discepoli

                                    mostrati a dito dall’ingrata Italia,

                                    quando i volumi nostri insin per l’orride[81]

                                    schiene lassù dell’Appennin rotaronsi,

                                    ed in Francia, e in Olanda alfin discesero;

20                                poi da batavo torchio impressi uscirono,[82]

                                    raro ornamento a librerie, delizia

                                    delle donzelle, e degli eroi bell’ozio.

                                    Io, cui credono estinto, errai non cognito

                                    per quante intorno ha librerie Cosmopoli,

25                                e dell’opre mie chiesi. Ed ecco un ridere,

                                    e inviarmi al presciutto, al cacio, ai bigoli,[83]

                                    cui lacerati i sacri fogli incartano.

                                    Ecco un altro librar piatir nel fondaco,[84]

                                    dond’esce lordo, a me lordar di polvere,

30                                che dai tarlati miei volumi esaltasi.

                                    Chieggone il prezzo; ed ei su la bilancia

                                    poi pon Lira, Sampogna, Epitalami,[85]

                                    e Galeria del Babba di Venezia,

                                    ché a me un grosso per libra intende ei venderli.

35                                Io, che già a peso d’or comprarsi, e correre

                                    di provincia in provincia un tempo scorsili,

                                    «E chi or si pregia?» l’addimando; e ostentami[86]

                                    e Petrarchi, e Petrarchi in grande e in piccolo,

                                    col comento novel stampato in Modona

40                                d’insigne Murator ben degna fabbrica,[87]

                                    e bel sudor di quell’ingegno ingenuo:

                                    deh perché sopra ai versi miei non sparsesi

                                   per iscoprir de’ veli lor le grazie,

                                    che vereconde entro que’ carmi ascondonsi?

45                                Mostrami poi vecchie raccolte, ed avido[88]

                                    con cento autor del Cinquecento assaltami.

                                    Io li vidi color, ma qual Virgilio[89]

                                    da lo sterco un po’ d’or cogliea per Ennio,

                                    scelsi quanto in lor spine avea di florido;

50                                e a pietà mosso della lor miseria,

                                    poiché polverulenti allor giaceano,

                                    generoso ch’io fui, per sin lodaili[90]

                                    nella Fonte d’Apollo, ed in mio biasimo

                                    dal secol reo la data lode or torcesi?

55                                Mi soggiungono poi di certa Arcadia,[91]

                                    ch’osa a fronte di me sul rio che mormora

                                    seder per gradi a risuonar le fistole,

                                    ch’io secondo, a’ tuoi labbri, o dio degli arcadi,

                                    applicai giovinetto, intento a correre

60                                sull’orme prime del non coetaneo

                                    Sincero mio; ma poi, correndo agevole,

                                    lo superai sì, che a tergo rimasomi,

                                    sui canti suoi là negli Elisi arrossasi.

                                    Già nel Bosco Parrasio all’ombra ir gli arcadi:[92]

65                                già nel Peloponeso a sé fan patria,

                                    et ad onta de’ Traci, e poi de’ Veneti,

                                    campi non suoi distribuirsi ardiscono,

                                    e addattarne superbi ai nomi i titoli.

                                    Io, se me lodar vo’, costor non biasimo.

70                                Anch’io Filen mi nominai; per Fillide[93]

                                    arsi ancor io finto pastor, né spiacemi

                                    che il buon Sincero or dall’Arcadia esaltisi,

                                    e al lor tenero stil m’è forza applaudere:

                                    così fosse fiorito, e dolce, e fertile[94]

75                                delle a me care e sé cozzanti antitesi,

                                    e di spicche figure, e di metafore,

                                    e di parole, in cui come è disimile

                                    il senso lor, sì la pronuncia è simile.

                                    Cotai bellezze a piena mano io semino,

80                                onde improvvisi i concettin germogliano,

                                    che gli eviva sonori a me riscossero

                                    da quanti Italia, e Spagna, e Francia ha popoli.

                                    Pur me, che avriasi a venerar, deridono,

                                    onde mi scelsi ad abitar questi eremi,

85                                ‘ve dal secol presente appello al postero.[95]

                                    Ma qui ne meno assicurata io veggiomi

                                    dagl’insulti febei la solitudine.[96]

                                    Ecco là un petrarchista; ed ecco un arcade,

                                    entrambi pazzi. Ad una micia abbracciasi,[97]

90                                perché fu il bruto al brutto mastro in grazia

                                    il secco Cecco; e per le corna un succido

                                    sacro irco a Pane il pastorel strascinasi.

                                   SCENA SECONDA

 

                                   Mirtilo, M. Cecco, e detto.

 

            mirtilo          Misero me, che invan son Dianidio,[98]

                                   se non mi frutta or di Diana il tempio

                                   colle vittime sue nell’alma Arcadia,

                                    né pure un capro, onde comprar la grazia

5                                  della mia pastorella: io per Cosmopoli

                                    più bel di questo non trovai, che involvesi

                                    di quattro intorte armi la fronte, e sfidavi,

                                    irci rivali, a cozzar seco. O nobile

                                    capro guerrier, deh mansueto ed umile

                                    piega il capo, e le corna in sé volubili

10                                al bel piè di colei che fa la polvere

                                    sol tantin, che la tocchi, amena e florida,

                                    e né pur orma (ei va sì lieve) imprimevi.

                                    La ninfa mia dalla sua crespa ed aurea

                                    fronte al calcagno ritondetto ed agile

15                                tutta è bellezza, e dispostezza, e grazia.

                                    L’api non sazia mai timo odorifero,

                                    né le cicale la rugiada sazia,

                                    né mai Mirtilo sazia il bel di Sostrata.

                                    Ohimè qual nome! Ei non è nome arcadico:

20                                non vi è per entro il pastorale: imparino[99]

                                    i boschi a risuonar meglio Artemisia.

                                    Ma per ninfa ancor troppo ha dell’eroico.

                                    Artemia diciamla, e non diciamola,

                                    anagrammatizzando il nome, ed ordine

25                                di men nobile suon diasi alle sillabe,

                                    e d’Artemisia alfin n’esca Amirtesia.

                                    Amirtesia, bel nome, in te pronunciasi

                                   parte dell’arboscel che suona in Mirtilo’.

                                    Sacro è a Venere il mirto, o come accordasi

30                                anche al genio de’ boschi il tuo piacevole

                                    congiungimento delle amene sillabe!

                                    Or sì compio il piacer di amante e di arcade.

 

            m. cecco        Amor mi tese una leggiadra insidia

                                    celatamente. Ma tal voce «insidia»

35                                perdonimi qual è poeta, o tienesi,

                                    non sarà cosa mai da petrarchevole,

                                    che dal Petrarca mio mai non pronunciasi.[100]

                                    Seguo madonna anch’io: le luci tremule,[101]

                                    che fanno intorno a sé l’aria e il suol ridere,

40                                armar quell’arco, che a lei pur non mostrasi.

                                    Però ad Amor non fu onore, al mio credere,[102]

                                    ferir me di saetta allor ch’io fidomi,

                                    e lei lasciar dalle sue frezze ir libera.

                                    Ahi, che un pregio le manca, ed è che Sostrata

45                                e non Laura, o Lauretta, ella si nomini.

 

            c. marino       Ecco un altro rivale, un’altra insania.

                                    Io giammai non amai di donna il nome:

                                    chiamisi questa od Artemisia o Sostrata,

                                    sinché ha il volto di rose, e finché brillanle

50                                due stelle in fronte, e i due rubin sorridonci

                                    delle sue labbra, e che due filze iscopronci

                                    di perle orientali, e che il crin aureo

                                    in preziosa pioggia il capo inondale,

                                    io l’amerò, se fosse Lena o Taide.[103]

 

55        m. cecco         Cercato ho sempre vita solitaria

                                    piena di quella dolcezza ineffabile,

                                    cui non saggian la gola, il sonno, e l’ozio.[104]

                                    Ma dalla vista serena ed angelica

                                    or son condotto in quella parte a volgermi,[105]

60                                che disgiunta è da me per piccol aria,

                                    dove madonna si disface in lagrime.

                                    S’ io credessi per morte alfin scarco essere[106]

                                    dell’aspro giogo, a cui con te m’accoppio,

                                    sì il filo a cui s’attien mia vita è debile,

65                                che darei volentier l’ultimo scoppio;

                                    ma del caldo desir che il cuor distruggemi,

                                    il mezzo e il fine al principio rispondono,

                                    e vivo sì, che fuor di speme io vivomi.

                                    A te, dolce animal, che dai lo stroppio[107]

70                                ultimo a tai che sovra i tetti stridono,

                                    e quanto opponsi ai denti lor si rodono...

 

            mirtilo           Io mo «gatta» direi. (fra sé)

 

            c. marino                                           Gli è basso: arridemi

                                    «bella tigre pigmea». (fra sé)

 

            m. cecco                                            Per me ricorrasi.[108]

                                   Placami tu (no, non si può dir «placami»).

75                                Vincimi tu la mia nemica. Io mandoti

                                    in dono al mio bel sol: m’abbracci, e sgnavoli?

                                    Sgnavoli? E tu, che sì al Petrarca amabile

                                    un tempo fosti, or mi farai dir «sgnavoli»,

                                    abborrita da lui parola orribile?

 

80        c. marino       Deh con qual core, o petrarchista ed arcade,

                                    redivivo il Marin per voi deridesi?

                                    E pur nel fonte, ch’io cantai, d’Apolline

                                    ebbe da me fama la fiamma eterea[109]

                                    di chi amò un lauro in sulla Sorga, e fecesi

85                                rival d’un dio, che sul Peneo già strinselo;

                                    onde il verde arboscel, che fassi in cenere

                                   lunge ai rami cader di Giove i fulmini,

                                    le saette d’Amor ferir poterono.

                                    E tu, pastor, d’onde imparar le fistole

90                                meglio che dalla mia Sampogna i sibili?

                                    E tu, ingrato, mi beffi, ed opra e studio

                                    metti a rapirmi la pudica vedova;

                                    e addocchiata, che l’hai, corri con impeto

                                    per seco disfogar l’accesa furia.

95                                Io l’arrivai sul margine odorifero[110]

                                    della fonte vicina, ov’ella i fulgidi

                                    soli dell’alma mia dentro il bel nuvolo

                                    della palpebra nascondea, giacendosi:

                                    e sì leggero io mi accostai, sì timido,

100                              che sotto il piè l’erbe né men si torsero;

                                    ma, lasso, ahi se n’accorse, e, come un aspido

                                    veduto avesse velenoso e squallido,

                                    del volto bel discolorò le porpore,

                                    e per timor qual violetta mamola

105                              divenne esangue a maraviglia e pallida.

                                    Non però stette ad aspettarmi; e subito,

                                    in quella guisa che smarrita tortora

                                    suole involarsi, o ver colomba semplice

                                    a fero artiglio di falcone o d’aquila,

110                              accelerando il piè spedito e libero

                                    diessi ratta a fuggir tra i più folti alberi.

                                    Di’ mo il tuo caso, e giocherò, sia giudice[111]

                                    lo stesso Febo, che sì vivo e facile

                                    tu nol saprai ne’ carmi tuoi dipingere.

115                              Otto sdruccioli sol te a compor provoco

                                    della grazia de’ miei su lei che posasi.

                                    Ti sfido, eccoti i miei: se puoi tu vincili.

                                    «Il gorgheggiar degli augeletti garruli,

                                    a cui dal cavo speco eco tu replichi;

120                              il mormorar de’ ruscelletti placidi,

                                    che dolce van l’onde nel margo a rompere;

                                    il ventilar degli arboscelli tremoli

                                    ammaestrati a sibilar dai zeffiri,

                                    allettar lei, che sulle sponde tenere

125                              in un tranquillo obblio gli occhi composesi».

 

            mirtilo          Ma versi, o sensi odo non tuoi.

 

            c. marino                                                      Gli Elisii,[112]

                                   dov’ei sedea fra Mosco e fra Teocrito,

                                    abbandonò il Marin: del secolo eccolo

                                    a illuminar la cecità palpabile.

 

130      m. cecco        Tu il Cavalier Marin?

 

            mirtilo                                              Tu dagli Elisii?

 

            c. marino       Ben desso son, ben desso son: guardatemi.

 

            m. cecco        Ah ah ah.

 

            c. marino                               Sì pur, ridetevi:

                                   de’ pazzi in bocca ognor le risa abbondano.

 

 

                                   SCENA TERZA

 

                                   Penulo, e detti.

 

            penulo           Eccoci i tre che per li versi impazzano:

                                   se il loro aiuto a colei vincer giovami,

                                   con tal mercé sin la stoltezza piacemi.

                                    Qual di voi, gran poeti (e non senz’utile

5                                  la grazia sia) vuol compor versi e venderli

                                    a me, che miei si potran dir s’io comproli?

                                    I quai vedova bella agli astri esaltino,

                                    che imitando Artemisia, e in un Vittoria,

                                    il defonto suo sposo invita a piagnere

10                                i versi altrui, mentr’ella in sul cadavero[113]

                                    gli occhi, oimè di tal sorte immeritevoli,

                                    e notte e giorno a lagrimar si stuzzica.

 

            m. cecco         La bella donna, e l’importuna nebbia

                                    dei martir che del suo bel cuor fan strazio,

15                                ange me ancor, sì ch’empio i boschi e l’aere

                                    di quei caldi sospir che a lei sen volano;

                                    e la cruda né pur gli accoglie, e cacciali,

                                    ma ritornar onde partir non degnano.

                                   Ed io, poiché tornare a me non degnano,[114]

20                                lascioli errar per questa folta nebbia,

                                    che, sospinta qual è dal vento, cacciali,

                                    e qual essi di me, di lor fa strazio;

                                    onde qua e là que’ miseri sen volano,

                                   e innevitabilmente assordan l’aere.[115]

25                                Io vo’ più tosto farmi un liquid’aere

                                   che a quelle luci, che il mio mal non degnano,

                                   cantar gli altrui sospir che a lei sen volano,

                                   e a’ suoi mesti pensier accrescon nebbia,

                                    che del suo, del mio cuor fan doppio strazio;

30                                onde ha ragion se li spaventa e cacciali.

 

 

                                   SCENA QUARTA

 

                                   Mirtilo, cavalier Marino, e Penulo.

 

            mirtilo          Va’ per versi d’amore a chi non sentelo.[116]

                                   Arde me pur la bella ninfa e candida,

                                    a cui, più che a Diana, offrir le vittime[117]

                                    nel tempio suo si doveria da Mirtilo;

5                                  e per questa, cui Pan dispari fistola[118]

                                    consegnò ai labbri miei, farò discorrere

                                    nel nome suo le melodie degli aliti;

                                    a’ quai le driadi ed i silvani e i satiri

                                    solleveran le acute orecchie, e i sibili

10                                sospenderan fra i ramuscelli i zeffiri.

                                    Io cantar per altrui? Così faticasi,[119]

                                    api, da voi, ma non per voi; tal arasi,

                                    bovi, da voi, ma non per voi; tal portasi

                                    da voi, ma non per voi, la lana, o pecore.

15                                Va’ per versi d’amore a chi non sentelo.

 

 

                                   SCENA QUINTA

 

                                   Cavalier Marino, e Penulo.

 

            c. marino       Quand’io Lete varcai nud’ombra aerea,[120]

                                   per privilegio delle dee castalie,

                                    meco pur navigò l’aurea mia cetera,

                                    perch’eterna laggiù vivea memoria[121]

5                                  come passò con essa il cantor tracio;

                                    onde il sasso a Ision, la rota a Sisifo,

                                    quello il peso sospese, e questa il turbine,

                                   e un sorso almen non fu conteso a Tantalo.

                                   Ma al mio ritorno in questa spoglia fragile

10                                l’alma, che riguadò soletta e misera,[122]

                                   lasciò la cetra abbandonata ed orfana;

                                   tal che povero d’or, merce promessami

                                   io non ricuso, e canterò di Sostrata,

                                   o il crin sottile che disciolto sventola,

15                                o gli occhi atti a ferire a par d’un folgore;

                                   e tacerò come da serpe libica

                                   nudrida parmi, o pur del latte barbaro

                                   delle fere odorifere d’Armenia;

                                   poiché qual scoglio all’onde in sordo oceano

20                                costei fu sempre a’ pianti miei durissima.

 

            penulo           Un zecchin ti darò, se un pertichevole

                                    sonetto a me tu comporrai, che Sostrata,

                                    la novella Artemisia, innalzi all’etera.

 

            c. marino       Petrarchevol vuoi dir, non pertichevole.

25                                Prendi questo volume, ed i pierii

                                    sudor ne assaggia, e gli occhi tuoi ne abbevera.

 

            penulo           Questo è il Petrarca?[123]

 

            c. marino                                           È la mia Lira; ed eccoti

                                   le Boschereccie, Amorose, Maritime,

                                    Sacre, Morali, Lugubri ed Eroiche,

30                                e l’altre miste d’argomento vario.

                                    Ma che? Tu capo volti il frontespicio?

 

            penulo           Il precettor sì m’insegnò di leggere

                                    sempre al rovescio le segnate lettere,

                                    perché in leggerle ritte ogni altro è pratico.

 

35        c. marino       Ve’ di pedante anzi inudita astuzia![124]

                                    La leggiadra canzon dunque al rovescio

                                    leggi sovra la rosa, e che incomincia:

                                    «Or che d’Europa il toro»: ella ha d’insolito,

                                    ché dell’egloghe all’uso è fatta a dialogo;

40                                e qui Tirsi e là Mopso i carmi alternano.

                                    Alto leggi.

 

            penulo                                   Sogl’io tacito scorrere[125]

                                    gli scritti sensi: così meglio imprimoli

                                    nell’intelletto.

 

            c. marino                               Io ti farò quatordici

                                   versi vivi così, frizzanti e fluidi,

45                                che lascieran l’alme e l’orecchie attonite;

                                    e sugellati io drizzerolli a Penulo,[126]

                                    che leggendoli solo e rileggendoli

                                    gli scolpirà dentro la sua memoria,

                                    sì che potrà quai suoi spacciarli e spargere.

 

50        penulo           Leggerli? Io no. Non li mandar, ma recali,

                                    ché dal tuo recitarli io bramo apprenderli.

                                    (Fra sé) Ma non vorrei già confessar che il leggerli

                                    arte non fu, né sarà mai da Penulo.

                                    Esciam di qui, che non ci colga Sostrata,

55                                e del concerto insospettita accorgasi;

                                    né mi rivegga più che petrarchevole;

                                    e tu giura a un guerrier par mio silenzio,

                                    o il tuo capo, e il zecchin, ne andran per aria.

 

            c. marino       Per gli strali d’Amor, per le pegasee

60                                fonti il Marin fede e silenzio or giurati.

 

 

                                   SCENA SESTA

 

                                   Sostrata, Cornia.

 

            sostrata       E pur vuoi ch’io riveda il severissimo

                                   ciel, che alle braccia mie nella più giovine

                                    e più amorosa età rapì il mio Panfilo?

                                    Panfilo mio, quando potrò mai sciogliere

5                                  tutta in pianto fedel la vita misera,

                                    e te fra’ morti a mio piacer raggiugnere?

 

            cornia           E quando mai la finirem di piagnere?

                                   D’asse chiodo con chiodo alfin discacciasi,[127]

                                   e perduto piacer con quel che acquistasi.

10                                Il volto tuo, che la natura feceti

                                   così gaio e avvenente, altro che lagrime

                                   mostra voler: vuol lusinghiere e tenere

                                   occhiate, inchini, e novo laccio, o Sostrata.

                                   Tu il vedi: or siam fra pazzi; e pur ve’ savio

15                                quanto ognuno è in amarti: hai già una pecora

                                   ed una gatta in dono; e qual da poveri

                                   stolti attender si può più vivo indizio

                                   di vero amor che lo spogliarsi e il porgere?

 

            sostrata       Pria mi s’apra il terren, ch’io rompa e violi

20                                la giurata al caro mio cadavero;

                                    non la violerà giammai quest’anima;

                                    non se l’arcade stesso e il petrarchevole[128]

                                    la vena lor, ch’io bramerei, poetica,

                                    altro ben, che due bestie, in don recassermi.

25                                Non, se il guerrier mi desse lena e spirito

                                    da superar la Davala Vittoria.

                                    Ma è poi ver che sien pazzi i tre, ch’io veggiomi

                                    girar d’intorno sospirosi e pallidi,

                                    ciascun de’ quai m’alza alle stelle, e cantami?

 

30        cornia           Dai guardian di questo infausto ospizio

                                    sento esser folli in quello sol che aggirasi

                                    per le lor teste, ove tutt’altro è serio.[129]

 

            sostrata       E che vuol dir quel ritrattino in tavola[130]

                                    che usa qui messer Cecco al petto appendere?

 

35        cornia           E che vuol dir sul capo suo la laurea,[131]

                                   la cocolcata zimarra purpurea?

                                    Voglion dir ch’egli è pazzo in ciò: ch’estimasi

                                    un Petrarca novello, e trar non osasi

                                    per lui parola, non dirò, ma sillaba

40                                che nell’amato Canzonier non leggasi.

                                    Quel ritratto è di Laura, e perché narrasi

                                   che il maestro amò una micia, a gloria

                                   anche in questo imitarlo il folle arrecasi.

                                    Spasma d’amor nei dì sacrati a Venere,[132]

45                                onde cantar, sempre ch’ei canti, ascoltasi

                                   «Era il giorno che al sol si scolorarono» ecc.

 

            sostrata       E quell’altr’uom, che di pellosa e ruvida[133]

                                    spoglia s’avvolge, e sul bastone appoggiasi,

                                    benché d’età lontana alla decrepita,

50                                cui di pino e d’allor cinte verdeggiano

                                    le bionde tempie, ed una tasca allacciasi,

                                    e col soffiar nella sampogna assordaci?

 

            cornia           Odo quest’altro esser bel pazzo. Egli arcade[134]

                                    pastor si vanta, e cittadin di patria

55                                illustre nacque: ei le gran scole e i portici

                                    natii sdegnando, alle foreste, ai liquidi

                                    fonti, alle rupi cavernose ed orride,

                                    ed all’eco insensata i carmi or recita.

                                    Arrossisce a portar la lunga e serica[135]

60                                toga al suo grado e al suo natal dicevole;

                                    e fassi onor d’impellicciarsi, e rustico

                                    gode apparir, dolce insegnando all’aere

                                    della sua pastorella il nome accogliere,

                                    ch’altre volte fu Nine, e fu Amarillide,

65                                ed or sei tu ch’ei nominò Amirtesia.

                                    Ma, se un altro bel nome, e più bucolico,[136]

                                    io fingerò, che sì, che a te rapiscolo?

                                    Già col dardo d’un Clori, il qual dall’egloghe

                                    meglio s’abbracci, io lo conquido, e sfegato,

70                                e per quei fior che dal mio bel piè nascono,

                                    dietro al balen di questi rai strascinolo,

                                    del pastor, della greggia incanto e fascino.

                                    D’armi, ei canti, o d’eroi; coll’allegorico

                                    vel della selva e della pastorizia

75                                vita, o pur dell’armento, il tutto ei maschera.

                                    Chiedi il suo nome? Ei ti dirà: «Son Mirtilo,

                                    che pasco greggi entro l’Arcadia a un tempio

                                    sacro a Diana, ond’io son Dianidio,

                                    con mille altri pastor, che lungo il rapido

80                                d’Aretusa seguace Alfeo diportansi,

                                    e al suon d’avene e di sampogne querule

                                    d’amebei cantilene a gara alternano».[137]

 

            sostrata       O se tu fai la poetessa! i termini

                                    possiedi già, non sol di petrarchevole,

85                                ma d’amebei, d’eglòghe, e di bicolico,

                                    nomi a me prima ignoti, e ch’ora invidioti.

                                    Potessi io pur, non da costor sì succidi,[138]

                                    ma dal garbato e generoso Penulo

                                    apprender l’arte de’ soavi cantici,

90                                per cui Laura eternò disciolta in spirito

                                    d’Arno il canoro insuperabil genio,

                                    che spanderei dolce vena a piangere

                                    lui, che all’ombra immortal de’ mirti elisii

                                    con Artemisia alla sua destra e Mausolo,

95                                e con Vittoria alla sinistra e il Davalo,

                                    me, che in fede le vinsi, attende e chiamami.

 

            cornia           Io non fo la saputa; ma gli eroici

                                    tuoi sensi m’han da villanella, e Cornia,

                                    cangiata quasi in gentildonna, e in Sostrata;

100                              ché il lungo conversar tai cose genera.

                                    Arroge poi che com’io tresco e spazio[139]

                                   per l’ospital, questi poeti attornianmi,

                                   tal ch’io divento o poetessa o stolida,

                                   non so qual delle due maggiore insania;

105                              e sol d’esser qual sono allor ricordomi,

                                   ché soffro mal lo sbadigliar famelica,

                                   e che un pazzo amerei trovar, che prodigo

                                   gittasse il suo; ma per disgrazia io trovone

                                   di quelli sol che avari sono, o poveri;

110                              ché il cibo e l’oro a me sariano un Panfilo.[140]

 

            sostrata       Rider mi farestù, se non che piagnere

                                   irrevocabilmente ho fisso in animo.

                                    Ma che dirai di quel cotal, che lacero[141]

                                    in mantel bruno ed in farsetto avvolgesi,

115                              e sgominato, e raro, e riccio, e grigio

                                    ha un crin, ch’oltre non va della collottola,

                                    e su la fronte in un ciuffetto pullula,

                                    su la fronte sparuta, ove incavernansi

                                    l’accigliate pupille, a cui le prossime

120                              rilevat’ossa al par delle mandibole

                                    la smorta guancia e macilenta incavano?

                                    O figura d’amante, a cui s’inspinano

                                    le due labbra di baffi intorti ed ispidi,

                                    e il mento in quadra aspra barbetta termina!

125                              La conostù?

 

            cornia                                   Quegli odia il petrarchevole,

                                    vecchio antico rivale, e il giovin arcade.

                                    E s’immagina un uom, che ha più d’un secolo[142]

                                    che diè l’ultimo scoppio, ond’ora è cenere.

                                    E fu quel Cavalier Marin, cui Napoli

130                              stette estatica intorno e il bel Posilipo.

                                    Or s’è distorta in capo suo l’immagine

                                    d’esser quel desso che da’ Campi Elisii

                                    richiamato a quest’aure a noi resusciti,

                                    perché con lui le glorie sue risorgano,

135                              e inver n’ha da natura insin l’effigie.[143]

                                    Quinci in ira gli son quei due, che incolpansi

                                    di aver tolto l’onor coi carmi ingenui[144]

                                    delle lor scole alla fiorita e prodiga

                                    vena sua lusinghiera ed arrendevole,

140                              con cui lieve all’orecchie il nuovo Apolline

                                    (che tal parve il Marin) dall’accademie

                                    riscuoteva a sue ciance applauso e gloria;

                                    dove or caduto in povertà d’encomii,

                                    che intorno a lui, come solean, non suonano,

145                              anzi a color, che l’applaudean, ridevole,

                                    volle perseverar nel suo proposito.

                                    Perché, siccome suol la moda libera

                                    nell’inventar fissù, randiglie, e cuffie,[145]

                                    oprar che sempre girino e rigirino

150                              alternamente con perpetuo circolo,

                                    così sper’ei che, sua mercé, ritornino

                                    le dimesse sue rime in pregio, e sfiatasi,

                                    intestato egli sol d’ir contro all’empito

                                    dei più savi poeti, e di confonderli;

155                              ma, abbattuto e confuso, ed in chiamandoli

                                    pazzi tutti, in pazzia però li supera,

                                    e deplora del mondo miserabile

                                    la cecitade, ei ch’è più cieco. Or eccone

                                    un altro.

 

            sostrata                   Ove ne aspetta il bel cadavere

160                              andiamo a consolarci.

 

            cornia                                               Io più consolomi[146]

                                   nell’ascoltar costui, che, come all’aurea

                                    età suppon che, cantando, parlassesi,

                                    musico, qual si sia, favella in musica.

                                    Ve’, qual tasteggia un picciol gravecembalo

165                              che gli pende davanti.

 

            sostrata                                           Egual stoltizia

                                   chi vide mai? Gir me ne vo’.

 

            cornia                                                           Trattieniti

                                   per quell’amor che porti alla buon’anima.

 

 

                                   SCENA SETTIMA

 

                                   Lofa, e dette.

 

            lofa               (Canta sempre, accompagnandosi con uno spinettino)

                                   Farfalletto ingannato[147]

                                   intorno aggirasi

                                    agli ardenti tuoi rai,

                                   che dolci accendono.

5                                  M’agito sventurato,

                                   e meco adiromi

                                    che a incenerirmi assai

                                   cura non prendono.

                                    Farfalletto ecc..

10                                Navicello in quel mar vago e ceruleo

                                    già m’abbandono, e le tempeste insorgono,

                                    ma più mi è caro il naufragar che il vivere.

                                    Ape tu sei, che col pungente aculeo

                                    fai scontar da tue labbra il mel che porgono;

15                                ma la ferita mia, che val descrivere,

                                    se la tua crudeltà mai non si sazia,

                                    e l’impetrar da te la morte è grazia?

                                    Sostrata bella e ria

                                   vienmi ad uccidere.

20                                Ma della morte mia

                                   deh, almen non ridere.

                                   Sostrata ecc.

 

            sostrata       O che faccia, a mirarla, e vecchia e giovine,[148]

                                    sì è crespa e imberbe, ond’è che in lei si accoppino

25                                apparenze di maschio e in un di femmina;

                                    ma di femmina più; ché quella lubrica

                                    voce sottil non ben coll’uomo accordasi.

 

            lofa               Ma a’ miei soavi ed amorosi numeri,

                                    Sostrata, non rispondi?

 

            sostrata                                           E chi rispondere

30                                vuol, non cantando, a chi le parla in musica?

 

            lofa               Non altrimenti l’usignuolo querulo

                                    sfoga gli affetti, e il cardelin purpureo

                                    così sue pene all’augelletta esagera.

                                    E l’uom, pria che il fallir suo corrompessegli[149]

35                                la sua favella originaria, udivasi

                                    per natura cantare: or l’arte giovici

                                    a tornar la favella al suo prim’essere;

                                    e da men degli augei non sia più gli uomini.

 

            sostrata       Parla dunque agli augelli; e quei rispondano

40                                colle musice note ad uom che imitali,

                                    non io, che sul sol fa mi re non regolo

                                    quest’ingrata mia voce. Il ciel mi fulmini

                                    pria che con altro amor l’amor contamini

                                    giurato a lui, che nel medesmo tumulo

45                                m’aspetta, e da me chiede illustre esempio

                                    di fede intatta alle future vedove

                                    per meraviglia all’avvenir dei secoli.

 

 

                                   SCENA OTTAVA

 

                                   Lofa, e Cornia.

 

            lofa               Come in sua pania[150]

                                   l’augellin smania,

                                    né scioglie l’ala, o il piè;

                                    tal io dibattomi.

5                                  Ma già mi svincolo

                                   dal primo vincolo.

                                    Da chi schiavo mi

                                   Cornia, riscattomi.

                                    Come in sua pania ecc.

 

10        cornia           Orrido l’amor sempre è ad una vergine

                                    senza l’onesto fin del matrimonio.

 

            lofa               Ponno insieme sposarsi i cori e l’anime.

 

            cornia           Mi dicea mamma mia che ciò non bastaci

                                    per esser spose.

 

            lofa                                       Altro non è possibile.

 

15        cornia           Ma perché no?

 

            lofa                                       Perché la bella e musica[151]

                                    voce a me mancheria, se non mancassemi

                                    condizion che all’imeneo richiedesi.

 

            cornia           Io non penetro i tuoi nebbiosi oracoli.

 

            lofa               Questa eunucheità mia liscia opponesi

20                                in me al tuo vivo e vano desiderio.

 

            cornia           O parolaccia, che mi pute e nausea

                                    produce in me tal che, se resto, io vomito.

                                    O per ciò che non mancati, e che mancati,

                                    egualmente alle donne ingrato e succido,

25                                ché di caprone olezzi, e ché l’infamia

                                    sei di due sessi, non uomo, non femmina,

                                    mezzo l’un mezzo l’altra, e tutto bestia.[152]

 

 

                                   SCENA NONA

 

                                   Lofa.

 

            lofa               Fra cotanta fierezza e tante ingiurie

                                   io non vo’ per lo men partir senz’aria.

                                    Atta sarà questa a placar le furie

                                    della sorte ribalda a me contraria.

5                                  Mi consolino Zeffiro e Favonio

                                   dell’impossibilità del matrimonio.

                                   O venticelli che intorno scherzatemi,

                                   consolatemi: il cuor per voi ristorasi,

                                   per voi, sempre a seguir chi sempre fuggemi

10                                m’odia e struggemi, l’alma ognor rincorasi.

                                   O venticelli ecc.

 

                                   Fine dell’atto secondo

 

 

 

                  ATTO TERZO

 

 

                                   SCENA PRIMA

 

                                   Penulo.

 

            penulo           Or Marte, Ercole, Achille, Aiace ed Ettore[153]

                                   venite tutti al paragon di Penulo,

                                    e partitene vinti. E qual vittoria,

                                    sia di Patroclo o dell’ars’Ilio, o siasi

 5                                 di leon, di chimera e di stinfalidi

                                    (nomi incogniti a me, nomi a me barbari,

                                    che Sannione proferire insegnami)

                                    emular può le penuliache glorie?

                                    Domo si rese al mio saper l’orribile[154]

10                                mostro dell’ignoranza, e son, s’io credolo

                                    (e chi nol crederebbe?), all’uom di Napoli,

                                    un letterato, un gran poeta, e facciomi,

                                    come Sostrata brama, un petrarchevole,

                                    che de’ versi non miei fecondo ammiromi,

15                                siccome suol rozzo inserito un albero

                                    che le novelle frondi e le non proprie

                                    poma spuntar dal tronco suo rimirisi,

                                    senza il come saperne, e sente stupido

                                    intorno a sé l’ortolanelle a coglierle

20                                e farne dono ai villanei, che bramano

                                    altro che poma dall’amate vergini;

                                    bella del Cavalier similitudine!

                                    Io son dunque un poeta, e mel rammemoro,

                                    come rammemorai l’antiche e celebri

25                                vittorie mie che Sannion descrissemi.

                                    Forse ch’altre ne tacque; a lui ricorrasi

                                    per ben tutte saperle, e s’io vi numero

                                   anni miei dall’imprese, ho trenta secoli

                                   quando aver sette lustri io sol credeami.

30                                E questo è mo quel che talor raccontasi

                                    dei gloriosi eroi ch’eterni vivono;

                                    onde avvien che in etade altrui decrepita[155]

                                    ancor mi sento vigoroso e giovine,

                                    talché la bella eternità promettomi,

35                                e canterò, poiché poeta io dicomi,

                                    le mie battaglie a me da prima incognite

                                    sinché alla saporita amabil vedova

                                    per meraviglia ambe le ciglia inarchinsi.

                                    Eccola. Il mio sonetto a lei fo leggere?

40                                O qual io dal Marin l’appresi il recito?

                                    Ma se poi erro in recitarlo? Accorrere

                                    già non posso alla carta: io petrarchevole

                                   son, che non so né scrivere né leggere,

                                    e guai a me se di ciò scaltra avvedesi.

 

 

                                   SCENA SECONDA

 

                                   Sostrata, Cornia, e detto.

 

            penulo           Il domator de’ più tremendi eserciti

                                   alla tua vedovanza, o donna, inchinasi.

 

            sostrata       Non so che far d’uom prode e sanguinario.

                                    Tre poeti ho d’intorno, e vuol disgrazia

5                                  che il più secco di lor sia il petrarchevole,

                                    ma il suo Petrarca alfin farà ch’io ‘l tolleri

                                    per imparar l’arte canora e nobile,

                                    che in me sol manca ad eternarti, o Panfilo.

 

            penulo           S’altro non chiedi tu che un petrarchevole,

10                                onde impari a cantar, perché ricusimi

                                    or che del gran Petrarca un guerrier emulo

                                    hai, se lo vuoi, nova mia Laura, in Penulo?

 

            sostrata       O, se tanta gli dèi mi fesser grazia!

 

            penulo           Fole non ti vend’io: non hai che a leggere

15                                questo sonetto ove imitai le serie

                                    rime del buon poeta; e sai se celere

                                    io lo composi?

 

            sostrata                               O lieta me! Leggiamolo.

                                    Gnaffe, s’ha dell’antico il tuo carattere!

 

            penulo           So il Petrarca imitar sin nello scrivere.

 

20        sostrata       Stammi tu sopra, e se intoppassi, aiutami.

 

            penulo           Le note mie vo’ che t’avvezzi a intendere

                                    da per te sola, onde, idol mio, figurati

                                    ch’io non possa aitarti.

 

            sostrata                                           Io pria vo’ scorrerle

                                    Per provar se le intendo.

 

            penulo                                              O così: studia.[156]

 

25        sostrata       Difficiletta è la scrittura: or pratica già

                                    ne divenni in un baleno. Ascoltami.

                                    «Diva immortal, ch’entro - un mortal ricovero

                                    marmoree - tombe indegnamente accolsero,

                                    io quei gelidi sassi - inver rimprovero,

30                                che a così ardenti - rai non si disciolsero».

                                    O gran Petrarca! «Rai non si disciolsero».

                                   Te benedetto, e chi sì bene imitati!

                                    Quel disciogliersi i raggi, oh Dio, trafiggemi

                                    di tenerezza! Inver sei petrarchevole.

35                                «Neso», che vuol dir «neso»?[157]

 

            penulo                                              E non ricordati

                                   della promessa mia, ch’è di non leggerti

                                    quel che per te non intendessi? I nobili

                                    guerrier di sua parola unqua non mancano.

                                    Studia su quelle note: il ciel propizio

40                                vuol che su lor tue belle luci impieghinsi.

                                    Addio.

 

            sostrata                   Studio prometto, e gratitudine.

 

 

                                   SCENA TERZA

 

                                   Sostrata, Cornia, cavalier Marino

 

            sostrata       Ma che impaccio è costui!

 

            c. marino                                                      Mio sol, che illumini.

 

            sostrata       Via da me marinista. Io, così vedova

                                   come mi vedi, sono un’Artemisia,

                                   e di più, ad onta tua, son petrarchevole.

5                                  Come Artemisia, non vi sia in Cosmopoli

                                    chi di novello amor tentare ardiscami:

                                    e come petrarchevole, chi vomita

                                    le frasacce dismesse di Posilipo

                                    lunge si stia dal panfiliaco Mausolo,[158]

10                                e col suo dir non ne profani il tumulo.

 

            c. marino       Or sta a veder che l’ignoranza insegnami.

 

            sostrata       Se apprender vuoi come un sonetto intreccisi,

                                   ascolta me, che i versi miei ti recito

                                    cui composi a sfogar del cuor la smania.

 

15        c. marino       Tu poetessa in un baleno?

 

            sostrata                                                       Apolline

                                   mi favorì.

 

            c. marino                               Fa questo dio miracoli,

                                   mentre a’ miei dì, come i fonghi prorompono,[159]

                                   nasconmi in man le poetesse, e crescono.

                                    Ma sopra che tu poetasti?

 

            sostrata                                                       In dubbio

20                                lo rechi tu? L’alto argomento è Panfilo.

 

            c. marino       Leggi mo, ch’io t’ascolti.

 

            sostrata                                           Or odi, e invidiami:

                                   «Diva immortal, ch’ entro - un mortal ricovero

                                    marmoree - tombe indegnamente accolsero,

                                    io quei gelidi sassi - inver rimprovero,

25                                che a così ardenti - rai non si disciolsero.

                                    Neso...»

 

            c. marino       (A parte) Il sonetto è ch’ ho venduto a Penulo.

 

            sostrata       E che vuol dir quel borbottar? Commisero

                                    la tua pazzia.

 

            c. marino                               Sostrata mia, mal tollero

                                   che tu scambi le pause, e che confondasi

30                                il punteggiar delle quartine: ascoltale!

                                   «Diva immortal, ch’entro un mortal ricovero

                                    marmoree tombe indegnamente accolsero,

                                    io quei gelidi sassi inver rimprovero,

                                    che a così ardenti rai non si disciolsero.

35                                so come a que’ membri, a cui si volsero[160]

                                    i lumi tuoi, che quai due soli annovero,

                                    poiché i lampi vitali in sen ne accolsero,

                                    il cor resti di vita ignudo e povero.

                                   Con un sol po’ di sol Prometeo l’anima[161]

40                                a statua diè: ma cinto di papavero

                                    lo fa Morfeo giacer; né invan presumolo;

                                    però che il guardo tuo lo scalda e anima,

                                    ond’ei dormendo, ei, che si par cadavero,

                                    desto, ti farà talamo del tumolo».

 

45        sostrata       Come? Tu i versi miei serbi a memoria?

 

            c. marino       Quanto sgorga da te, ben tosto inondami.

 

            sostrata       Ma tanto avanti io già nol lessi, e il reciti.

 

            c. marino       Il precorsi coll’occhio acuto e linceo,

                                   e il caratter m’è noto.

 

            sostrata                                           Il mio?[162]

 

            c. marino                                                      Carattere

50                                tuo quell’è. (a parte) Questa è tronfa: io ‘l feci e scrissilo;

                                    o dèi persecutori! Almen si reciti

                                    punteggiato a dovere!

 

            sostrata                                           A un’Artemisia,

                                    a una Vittoria, ad una petrarchevole

                                    vuoi tu pazzo insegnar come si reciti?

 

55        c. marino       Ma quel sonetto è sovra a te, no a Panfilo.[163]

 

            sostrata       Ancor vuoi provocar la mia pazienzia?

                                   Restati o vil, fra tue stoltezze, io vadolo

                                    a recitar sul caro mio cadavero.

                                    O qual piacer per la bell’ombra!

 

            c. marino                                                                  O tacciasi,

60                                o il zecchino e la testa andran per aria.           

 

 

                                   SCENA QUARTA

 

                                   Cavalier Marino, Cornia in disparte.

 

            c. marino       Imparate, o poeti: oimè che giovaci

                                   di molto Febo aver calde le viscere[164]

                                    se siam costretti a tollerar da femmina,

                                    che, come suoi, nostri poemi or vantinsi,

5                                  e in faccia nostra i piedi lor si stroppino,

                                    noi sofferenti, e che stil petrarchevole

                                    nomisi quel del cavalier di Napoli.

                                    O Marino, a qual pena, a quale ingiuria

                                    dai pacifici Elisi il ciel richiamati!

10                                O dell’ingegno mio parti ingratissimi,[165]

                                    che, ribellanti al genitor, la gloria

                                    sua stessa in onta ed in martir torcetegli,

                                    vi diseredo io già come degeneri

                                    dal chiarissimo onor di vostra origine;

15                                e qual buon fiume, che i suoi figli rivoli

                                    non riconosce più da che l’oceano

                                    riconobbero in padre, e le melliflue

                                    acque lor corrompendo in amarissime

                                    lo stesso fiume ad insalsir congiurano,

20                                tal, se ad amareggiarsi in bocca a vedova

                                    per voi passò la dolce scaturigine,

                                    che spiccò dal mio ingegno intatta e vergine,

                                    già vi rifiuto, e come suoi vi abbomino.

 

 

                                   SCENA QUINTA

 

                                   Cornia.

 

            cornia           Non lo diss’io che a star fra pazzi impazzasi?[166]

                                   La mia padrona omai troppo invaghitasi

                                   di questa sua fama di fede aerea,

                                    non contenta di starsi intorno ai balsami

5                                  del giacente marito, e della boria

                                    che poche sieno ai nostri dì le vedove

                                    da gir per fede al paragon di Sostrata,

                                    vuol mo dirsi Artemisia e ancor Vittoria,

                                    e il suo Panfilo già non è Panfilo,

10                                ma egli è (se il chiedi a lei) Mausolo o Davalo;

                                    e vuol già far la poetessa, e in prestito

                                    scrocca i versi non suoi, quai suoi spacciandoli,

                                    a costo ancor di quel deriso e povero

                                    napolitan, ch’essere un morto or sognasi,

15                                il qual certo gli avrà donati a Penulo,

                                    che come suoi li ha poi ceduti a Sostrata.

                                    Ma l’autor loro il rivelar non giovami,

                                    poiché, sebbene è vantator ridevole

                                    il soldato, egli è tal che sol regalami

20                                fra questa turba, onde il serbarlo in grazia

                                    della padrona è a me diletto ed utile.

                                   Diletto egli è perché, se non tradiscemi

                                   la mia a me sino ad or fedele astuzia,

                                   già di mal occhio Sostrata non miralo,

25                                e, se ci fosse un fenestrin che l’animo[167]

                                   suo vedere al di fuor lasciasse, io dubito

                                   che in quel suo cuor la prima sede egli occupi,

                                   e che Panfilo sia ridotto ad esserle

                                   non più che in bocca. Non vorrei le lagrime

30                                attribuir, più che all’antica smania,

                                   al furor novo. Io sento già che il celebra

                                   come avvenente e liberal: gli encomi

                                   son di genio nascente in donna indizio.

                                   La femminil prudenza ha i propri limiti,

35                                oltre a’ quai, se trapassa, oimè, che sdrucciola

                                   nella lubricità di un’imprudenzia,

                                   la qual scivola ognor nel suo capriccio.

                                   Mi son provata a consigliarla, ed odomi

                                   rimproverar: dunque il suo peggio adulisi,

40                                poiché le piace, e con costor spassiamoci

                                   or che n’è forza abbandonarci e scorrere

                                   là dove il genio e la follia strascinaci.

                                   Io più Cornia non sono, o, se son Cornia,

                                   vo’ provar, sia con Cecco o sia con Mirtilo,

45                                novi nomi. Io sia Cornia e Laura e Cloride.

                                   Già donne so ch’han più nomanze e titoli[168]

                                   che buchi entro i merletti della cuffia.

 

 

                                   SCENA SESTA

 

                                   M. Cecco, e detta.

 

            m. cecco        Io riedo, Cornia, a te qual Progne riedesi[169]

                                   colla sorella al dolce suo negozio.

                                    Il mio negozio è addirizzato a Sostrata,

                                    di cui, tua mercé, far vorreimi uom ligio,

5                                  ond’ella fosse all’amor mio mancipio;[170]

                                    non all’amor, lo qual signore ed idolo

                                    fatto è da gente vana, ma il principio

                                    ha su tra i numi, e, ov’ha il principio, termina,

                                    di pensier santi nudrito, non d’ozio.

 

10        cornia           Per mercede ricorri indarno a Cornia;

                                    ché l’Artemisia mia tutti al suo Mausolo

                                    consecrati ha gli affetti, e il busto esamine

                                    adorar vuol sinch’ella pur sia cenere;

                                    ma perché me coi nomi miei non nomini,

15                                s’io Laureta mi chiamo, e Clori e Cornia?

 

            m. cecco        Laureta tu?[171]

 

            cornia                                   Sì ben.

 

            m. cecco                                            Già i sospir movonsi

                                   vèr quel nome che Amor dentro il cuor scrissemi;

                                    e il primo suon dei dolci suoi caratteri

                                    di fuor laudando a sentire incominciasi.

20                                Vostro stato real che poscia incontrasi,

                                    all’alta impresa il mio valor raddoppia;

                                    ma taci, grida il fin, che darle gloria

                                    soma è da altri ben che da’ tuoi omeri.

                                    Già a te seguire il mio desir traviasi,

25                                nome de’ rami sì cari ad Apolline;

                                    nome del vincitor trionfal albero[172]

                                    di cui poeti e imperadori onoransi.

 

            cornia           Non mi avrai, Cecco, ai voti tuoi difficile,[173]

                                   purché poi l’amor tuo sia petrarchevole,

30                                ch’ama sol per amar.

 

            m. cecco                                            Dal cielo empireo[174]

                                   scese il mio foco e al ciel per te ritornasi,

                                    che sei scala al Fattor chi bene estimati.

                                    Ma, o sotto verde lauro donna giovine,

                                    interromper convien quegli anni floridi,

35                                perché col ben morir più onore acquistasi

                                    e avrai virtù da far un sasso piangere,

                                    né al dir soave mai porrò silenzio,

                                    ma canterò per ventun’anni amandoti:

                                    «Oimè il parlar, che d’aspro un cuor fece umile,

40                                ed oimè il dolce riso onde il dardo escemi.

                                    Alma reale d’impero degnissima,

                                    se non fossi tra noi scesa tardissima».

 

            cornia           Cotesto amar da petrarchista, a dirtela,

                                    che morte brama all’idol suo per piangerlo,

45                                troppo per una donna ha dell’eroico.

                                    Sentiamo un po’ se come Clori all’arcade

                                    piacer potessi in miglior sorte, e vivere;

                                    poiché a fin di morir per me non amasi,

                                    ma pria per conservar la vita propria,

50                                e poi per darla a chi non dianzi aveala.           

                                    Amor è un certo mal, per quel che dicesi,[175]

                                    che fa le genti, non morir, ma nascere.

 

            m. cecco        Se nella testa Amor pensier non creati

                                    di aver pietà del mio lungo martirio,

55                                dolci i tuoi sdegni, e l’ire tue dolcissime!

                                    M’invidieresti se per te sentissesi

                                    della mia gioia la parte millesima.

 

 

                                   SCENA SETTIMA

 

                                   Mirtilo, Cornia.

 

            mirtilo          O Cornia bella, a che nega Amirtesia

                                   saper da me quel che i ruscelli e i zeffiri,

                                    a’ quai parlo di lei, saper non negano?[176]

                                    Ella ha pur ne’ begli occhi amore, e spiralo

5                                  nell’alme altrui, ma nella sua non sentelo.

                                    Langue col suo pastor la greggia misera,

                                   che spaziando per l’amene pratora

                                    sospende il muso dagli amati pascoli,

                                    perché colei dell’amor suo non pascemi.

10                                Dalla capanna mia bandito il tacito

                                    sonno, ricusa in questi lumi assidersi,

                                    che notte e giorno a lagrimar sol vegliano:

                                    già la sampogna mia copre alta polvere,

                                    e dentro a lei la bigia aragna annidasi

15                                a far reti alle mosche invan dolentisi;

                                    mentre sospesa ad un amaro salice

                                    chiama indarno i miei labri a darle il solito

                                    onor del suono a cui s’affolla Arcadia,

                                    ed applaudon le ninfe, e Mopso invidia.

 

20        cornia           E come mai dal pastoral tugurio[177]

                                    tant’alto forse il rustical tuo genio,

                                    che a cittadina, a gentildonna innalzisi?

                                    Io, che pur nata son fra selve e pecore,

                                    umile pastorella a nobil giovine

25                                non ardirei di offrir quest’alma ignobile;

                                    e se l’offrissi, io m’udirei rispondere:

                                    «Va’, Clori, va’ le pecorelle a pascere».

 

            mirtilo          Tu pastorella? e come Cornia e Cloride?

 

            cornia           Laura son, per servirti, e Cornia e Cloride.

30                                L’ultimo nome i genitor m’imposero,

                                    Sostrata fu che mi appiccò il penultimo,

                                    e ficcommi il primiero il suo buon Panfilo;

                                    ma Clori ho dalle fasce, e tal mi nomino,[178]

                                    come nata alle selve, ai fonti, ai pascoli,

35                                e so qual dalle capre il latte spremasi,[179]

                                    e in giro accolto poscia insieme stringasi.

 

            mirtilo          Il bel nome, il natale, e l’esercizio

                                    tuo pastoral di te, mia Clori, invogliami;

                                    e come ninfa, che per l’erma e florida

40                                collinetta in cercar la menta, incontrasi

                                    in famigliuola di fonghi odoriferi,

                                    scorda l’erba cercata, e al frutto appigliasi

                                    avidamente, e tutta gola e giubilo

                                    con delicata man dal suol distaccali,

45                                e, a imbandirne la mensa, il sen riempiene;

                                    così, avvenuto in pastorella e vergine,[180]

                                    la traccia oblio di gentildonna e vedova;

                                    e, se tu non ricusi il puro e semplice

                                    amor d’un pastorello, il mio cuor eccoti.

50                                Mirtilo e Clori, o come ben s’accoppiano!

                                    E quanto gioiran le selve arcadiche

                                    ombra facendo al nostro insieme assiderci,

                                    e al cantar, alternando a suon di fistola

                                    le delizie io di Clori e tu di Mirtilo!

 

55        cornia           Mirtilo mio, come dal lupo temono

                                    sin nell’ovil le pecorelle insidia,

                                    onde ai cani e al pastor si raccomandano

                                    col parlar, come fanno, allor che belano;

                                    così da Lofa, che per tutto attorniami,

60                                per Pane tuo, per Pale tua deh salvami;

                                    ché all’udirlo vicino il cuor già tremami.

 

 

                                   SCENA OTTAVA

 

                                   Lofa, e detti.

 

            lofa               In bocca mia, recitativo, or vientene[181]

                                    sotto le note musicali e lisce,

                                    poiché a te sono i bei passeggi in odio,

                                    più di quel ch’io mi pianga in odio a Cornia

5                                  dura al par di qual marmo alberghi in Caria;

                                    ma cedi i labbri, egli è già tempo, all’aria.

 

            cornia           Ah ah ah ah ah.

 

            mirtilo                                  M’è forza il ridere.

 

            lofa               Ride nel prato il fior

                                   ride su l’etera,

10                                mentr’io qui piango il sol. Ride su l’etera,

                                    ma quel crudel d’amor

                                   vuol che mia cetera

                                    non suoni altro che duol.

                                   Ride su l’etera

15                                mentr’io qui piango il sol.

                                   Che vuoi far, Cornia,

                                    d’un pastorel, che cantar dice, e parlati

                                    con voce ognor sì roca e lamentevole[182]

                                    che a fronte sua parer soave e musico

                                    può in gonfio mar lo strepitar di borea,

20                                tanto ingrato all’orecchio, e ronza e fischiati?

 

            mirtilo          Che sì, che sì, che col vincastro io rompoti

                                    pria lo strumento e poi le corna, e caccioti

                                    la pazzia musicale in un col celabro![183]

 

            lofa               Così vostra mercé, donzelle tracie[184]

25                                cadde il musico Orfeo coi membri laceri,

                                   e della morta man la cetra vedova

                                    raccogliendo le muse, estinto il piansero.

 

            mirtilo          Tu, vivo e morto, ognor sarai ridevole.

 

            lofa               Ma ridevole è più chi male adopravi[185]

30                                aure, augei, venticei, farfalle e luciole,

                                    pecorelle, selvette, ed acque limpide,

                                    tutte parole a cui le note adattansi

                                    di noi cantor così leggiadre e facili,

                                    ché senza una di lor languisce ogni aria.

35                                Voi costor sì, che per follia fansi arcadi,

                                    colle ruvide voci ognor profanano,

                                    e su voi sempre i carmi lor raggirano,

                                    cui dicon canti, e grida son dell’aride

                                    cicale, allorché sotto i lunghi e fervidi

40                                soli, assetate dagli arbusti, stridono.

 

            mirtilo          Scendami i fiori a stritolar la grandine,

                                    vengami i paschi ad infamar la vipera,

                                    se te non strozzo...

 

            lofa                                                   Ahi, ahi, pietà!

 

            cornia                                                                       Fermatevi,

                                   e la sentenza mia vi rappacifichi.

 45                               Or che si è data a poetar la vedova

                                    signora mia, farassi al suo già Mausolo

                                    da cotesta Artemisia un’accademia.

                                    Or io vo’ preferir nella turba emola[186]

                                    de’ vaghi miei qualunque del lor numero

50                                il cui cantar sarà più grato a Sostrata.

                                    Sannion, Cecco, Marino, Lofa e Mirtilo

                                    nell’opra dunque a gareggiar concorrano,

                                    e del mio affetto al vincitor fo grazia.

 

            lofa               Io l’introduzion farò per musica.

 

55        mirtilo           Vo, corro, volo ad intrecciarvi un’egloga.

 

            cornia           E l’apparato a concertar va Cornia

 

 

                                   SCENA NONA

 

                                   Lofa.

 

            lofa               Deh inspiratemi,

                                    voi note dolcissime,

                                   belle arïette

                                   passeggiate, e tenere.

5                                  Deh prestatemi,

                                    mie gorghe acutissime,

                                   voce che allette

                                   la mia bella Venere.

                                   Deh inspiratemi,

10                                voi note dolcissime,

                                   belle arïette

                                   passeggiate, e tenere.

 

                                   Fine dell’atto terzo

 

 

 

                  ATTO QUARTO

 

 

                                   SCENA PRIMA

 

                                   Penulo, Cavalier Marino.

 

            penulo           Eccolo, che sfavilla il don promessoti,[187]

                                   mettilo in tasca, e te ne serbo un simile,

                                    se fia lodato il madrigal da Sostrata,

                                    che, come suo, vuol che il sonetto io reciti,

5                                  mercé di cui ne spero amore in premio.

 

            c. marino       Propalar, come sua, la lode propria?[188]

 

            penulo           Lascia tu a lei che di sé cura prendala;

                                    ma già in tuo petto un tal segreto ascondasi,

                                    ché altrui del ver mai non traspaia indizio,

10                                altrimenti di te farò un cadavero.

                                    Ma dov’è il madrigal?

 

            c. marino                                          L’ho presso, ed eccolo.

                                    Sudori miei, chi vien le bacche a cogliersi

                                    di quegli allor che il vostro fronte innaffiami?

 

            penulo           Petrarchevole il voglio.

 

            c. marino                                          E l’hai qual bramilo.

 

15        penulo           Te’, e me lo leggi.

 

            c. marino                                           Io già non vergo arabiche[189]

                                    note sui fogli, e chi ti vieta il leggerle?

 

            penulo           Meglio il metro si gusta allor che ascoltasi.

                                    Su leggi.

 

            c. marino                   Eh leggi tu.

 

            penulo                                              Le ceremonie

                                    sempre nemiche fur della milizia.

 

20        c. marino       Io non vorrei, verificarsi un dubbio.

 

            penulo           Che dubbio? Che?

 

            c. marino                                           Sento vergogna a dirtelo.

 

            penulo           Dillo, o qui mori.

 

            c. marino                                           Che l’A B t’è incognito.

                                   A dirlo alfin la tua minaccia astrinsemi.

 

            penulo           Vinca il proprio rossor chi vinse eserciti.

25                                Buon cavaliere, ecco a’ tuoi piè già supplice

                                    colui che le fatiche ascritte ad Ercole

                                    consumò tutte: a Sannion richiedine,[190]

                                    che testé le ridusse a mia memoria.

 

            c. marino       Tu, le fauci nemee? tu il fier setigero[191]

30                                turbator d’Erimanto, e tu le vergini,

                                    donne sino alla cinta, il resto nottole?

                                    Tu il gigante che, più steso, più ergeasi?

 

            penulo           Ma Sannion n’è un vivo testimonio.

 

            c. marino       Ma Sannione e tu ducento Nestori[192]

35                                numerate negli annni?

 

            penulo                                              E non eternano

                                    i fortunati eroi l’opre lodevoli?

                                    Noi siam dunque immortali. Ei parla a un demone,[193]

                                    che ne sa più di noi. Con lui diportasi,

                                    e spirital cubiculario il nomina.

 

40        c. marino       (A parte) Odi pazzia!

 

            penulo                                              Ma due zecchin, che or escono

                                    dal torchio, onde non son schiacciati o logori,

                                    prendi in prima mercé del tuo silenzio,

                                    e qui m’insegna in un momento a leggere.

 

            c. marino       Sta quel che chiedi tu fra gl’impossibili.

45                                Possibil è che a non tener rovescio[194]

                                    t’insegni allorché ostenterai di leggere

                                    lo scritto, come s’usa in accademie.

 

            penulo           E questo anche mi basta.

 

            c. marino                                                      Ecco incomincia.

                                    «Donna, è ver che piangete?» Or ve’: la cifera

50                                ch’arco in piè rassomiglia è un D maiuscolo.

 

            penulo           Buono: or vien meco, e ficcami e rificcami

                                    il madrigal ben dentro alla memoria,

                                    in cui le cose presenti si stampano,

                                    ma da cui le passate, oimè, svaniscono,

55                                come le imprese dell’antico Penulo.

 

            c. marino       Ma il tuo valetto a ciò non è bastevole?[195]

 

            penulo           Gli è vero; e so ch’egli è fedel nel leggermi

                                    qualche biglietto a me scritto da Sostrata.

                                    Tu rimanti; e ben ratto a lui ricorrasi.

 

 

                                   SCENA SECONDA

 

                                   M. Cecco, Cavalier Marino.

 

            m. cecco        Se a noi rivolgi lo stil molle e debile,[196]

                                    quantunque in bocca di madonna ei siasi,

                                    siccome angue tra fiori alfin palesasi:

                                    e chi pon mente all’ardir temerario

5                                  di sue saette velenose ed empie,

                                    che intorno a sé la mal nat’erba scuotono,

                                    ben s’avvisa qual peste ivi entro avvolgasi.

 

            c. marino       Ve’ come l’arenosa ed arsa Libia,[197]

                                    che fil d’erba non nudre al latte irriguo

10                                de’ rii sì che, arrossito il capo, ascondesi

                                    il suo barbaro Nil fangoso ed unico,

                                    temeraria a schernir l’Europa affacciasi,

                                    che fiori e frutti a mille fiumi abbevera.

                                    Io tal mi son che, ovunque passo o posomi,

15                                fo meraviglie in un balen prorompere,

                                    che le pupille alle gran menti abbagliano,

                                    e di tropi gl’ingegni altrui fecondano,

                                    e all’acutezze inaspettate aguzzano.

                                    Il tuo Petrarca, intisichente e timido,

20                                de’ suoi seguaci invidiosi e miseri

                                    fassi intorno languir la turba attonita,

                                    la qual, se vede un risoluto aereo[198]

                                    volo di penna ascrea, con cui disperasi

                                   poggiar del paro, in un ghigno sardonico

25                                bieca scompon le strette labbra a riderne,

                                   e con gli archi dei torvi sopracilii

                                   di malediche punte invan saettami,

                                   che perdon lena alla metà dell’aria.

                                   Ma che che sia de’ pregi nostri, io pregoti,

30                                per quel genio comun che Apollo ispiraci,

                                   o almen per quel che al cocollato e chierico[199]

                                   tuo maestro ti lega, od a qualsiasi

                                   madonna tua, che da te mai non escano

                                   voci marinicide, e tai sariano

35                                quelle di me che propalar si udissero,

                                   ché de miei carmi io fo tesoro a Sostrata.

 

            m. cecco        A un pio tacere caritade spronami

                                    di non farti por giù la spoglia fragile

                                    insino al cener del rogo funereo;

40                                e sospirando e insieme andrò ridendomi,

                                    che a sciocca per natura e mobil femmina

                                    quegli onorati rami non disdicansi

                                    de’ quai chi scrive, poetando, adornasi.

 

            c. marino       Sacra fame dell’oro a me feo vendere[200]

45                                i bei favor della cortina Delia.

                                    Penulo, comprator delle pierie

                                    delizie mie, fu che donolle a Sostrata.

 

            m. cecco        L’ira di Giove fa che nuda e povera[201]

                                    poesia vada, e i carmi a prezzo vendere

50                                (che dell’esilio nostro ancor non sazia

                                    così nascosti ci ritrova Invidia)

                                    o i famose fronti il lauro è gloria,[202]

                                    o l’insegna si pon di color gemino,

                                    dove si loca tal da cui sostienesi

55                                l’alta onorata verga della patria;

                                    o sia che mai da una vestal pia vergine,

                                    o per sole o per ombra il vel non lascisi,

                                    vedi come Atalanta i versi correre[203]

                                    per palle d’oro; ed anche a soffrir aggiolo,

60                                se a ciò vilmente si abbandona il secolo.

                                   Ma, che menzogne e parolette vendersi

                                   io vegga per gli effetti che in un’anima

                                    fan due lumi soavi e un viso angelico,

                                   avanti a cui men spesso a noi vorriasi

65                                degli occhi nostri innamorati il battere,

                                   non fia chi mai di sofferire insegnimi.[204]

                                   Ma più oltre mi spinge ancor l’ingiuria

                                   che del Petrarca il dir sì dolce innasprisi,

                                   e gli alti nomi suoi la vena arroghisi

70                                del vil Marino, e la mal tocca cetera.

 

            c. marino       Quasi che il tuo Petrarca anch’ei non imiti[205]

                                    me, che sono il Marino, e le mie formole.

 

            m. cecco        Tu il cavalier cui tutta onorò Italia,

                                    e che dal buon Petrarca in bando tennela

75                                coi dolci versi e lusinghieri e liberi,

                                    ne’ quai l’ultima prova feo lussuria?[206]

                                    Tu quel nuovo inventor d’un’arte magica

                                   che in sue note incantar potea sin gli aspidi,

                                    non che l’orecchie, ch’alto udir non seppero?

 

80        c. marino       Ecco in me la sirena di Partenope,

                                    ecco quel cavalier che novo Apolline

                                    in Parnaso più bel cangiò Posilipo.[207]

 

            m. cecco        O Marino, disnor del tuo Vesuvio!

                                    E v’è chi al più perfetto or paragoniti?

 

85        c. marino       Il punto sta che nel parraggio il supero;[208]

                                    e proverò che il tuo Petrarca applaudemi.

                                    Pensi tu che il poeta entro gli Elisii

                                    campi sia quel che in Avignone e ai rivoli

                                    fu già di Sorga? Egli era, in corpo e in anima,

90                                secco, restio, pien di durezze e taccoli;[209]

                                    e in quell’età, dove la lingua, sterile

                                    di vocaboli al par che di metafore,

                                    mista qual fu di francïoso e d’italo,

                                    stentate forme ed insoavi numeri

95                                suggeriagli all’orecchio, oprò miracoli:

                                    e dietro a sé pur strascinò due secoli

                                    di sacri ingegni, i quai, bench’altro intesero,

                                    pur lasciaron neglette errar le grazie

                                    ch’altre volte fur care a Mosco e a Nomio;

100                              e i toscani epigrammi, oimè, languivano

                                    colle code dimesse e senza aculeo,

                                    che dolce punge i delicati, e gli eccita

                                    a stupir, da soggetto ignudo ed arido,

                                    improvvise spuntar vezzose arguzie,

105                              quai nell’antica antologia s’ammirano,

                                    o in Marziale, o nel pungente Ovenio.

                                    E non è ver che in erma rupe aeria,[210]

                                    da cui sol tufi e precipizi aspettansi,

                                    se mai smarrita e sgominata e pallida

110                              per la futura sua caduta, avvienesi

                                    improvvisa in un fior leggiadra vergine,

                                    tutta si riconforta e ricolorasi?

                                    E, quasi abbia un tesor che al piè le germini,

                                    con lieve ugna lo fende, e colto odoralo,

115                              e il bacia, e al vel fra le due poma annodalo?

                                    Cosa che non faria, se in giardin fertile

                                    di mille fiori il ritrovasse a ridere.

                                    Mosso Febo a pietà di un tal delirio,[211]

                                    cento trentasett’anni omai discorsero

120                              da che femmi spirar quest’aura eterea,

                                    ne’ sacri studi a riformar l’Italia,

                                    sì che vinsi, cantando, e Smirna e Tracia.

                                    Cantai d’amor con sì soavi e tenere

                                    note, e ne’ versi miei così saltavano

125                              per tutto i vezzi e l’inudite arguzie,

                                    che Partenope mia, Sicilia e il Lazio,

                                    Toscana, Lombardia le luci apersero,

                                    quasi al mio stile innamorante estatiche,

                                    e dietro e intorno in un balen mi stettero.

130                              E col vostro Petrarca allor fu, o miseri,

                                    che rimaneste abbandonati e squallidi.

                                   Sin che tanti scoccar sinistri augurii[212]

                                   da voi contro di me, che infin l’Invidia

                                   pose all’empia mia Parca in man le forbici.

135                              Chiuse ch’ebbi le luci, e che piangevanmi

                                   la nativa sirena e i cigni ingenui,[213]

                                   voi rigogliosi opra metteste a sorgere,[214]

                                   ed a me vostro depressor deprimere.

                                   Ma che fe’ Giove ai preghi di Partenope?

140                              Sforzò Plutone, e mi ritolse a Cerbero,

                                   che invan dietro latrommi, e qua ritrassemi

                                   a punir voi con un perpetuo esilio[215]

                                   da Cirra e Pindo, e da quant’ave Apolline.

                                   Ché lo stesso Petrarca in oggi onorasi

145                              d’imitare il mio stil, che appar sì facile,

                                   ma se tal sia, chi vi si prova, ei sasselo.            [216]

                                   Perocché quando il portator dell’anime

                                   tragittommi laggiù, nud’ombra ed inclita,

                                   tutte a me l’ombre ad inchinarsi assorsero,

150                              che ne’ boschi letei fean cerchio a Pindaro.

                                   Là Bione ed Alceo dal crin si sciolsero           

                                   le lor corone, e al capo mio le cinsero;

                                   ma il Fiorentino, a questi piè prostratosi,[217]

                                   mi pregò d’accettarlo in mio discepolo.

155                              La man sul capo allor, pietoso e placido,

                                   gli sovraposi, e tutta quanta infusigli,

                                   con stupor di laggiù, l’arte poetica.

                                   Surse allora il Petrarca, e alla sua cetera

                                   insegnò i modi miei soavi e lubrici;

160                              ed io, che ingegno poi capace e docile

                                   lo spero, anzi che no, profitto attendone.

                                   E se non mi raggiunge, almen può corrermi

                                   dietro il calcagno; e, di sua buona in premio

                                   volontà generoso, a lui do il titolo

165                              di marinesco, a me di petrarchevole,

                                   da che i due stili in amistà rispondonsi.

 

            m. cecco         A questo dir non riderebbe Eraclito?

                                    O vuoto uom di giudicio, e pien d’insania!

 

 

                                   SCENA TERZA

 

                                   Mirtilo, Cornia, e detti.

 

            mirtilo          Costei, che per man guido, e che lanciatomi[218]

                                   lasciva un pomo a fuggir diessi ai salici

                                    ma bramosa però ch’io pria vedessila,

                                    qua meco trassi, or che il suo volto amabile

5                                  già mi ha fatto aprir gli occhi al ver nascostomi.

                                    Io non vedea, sì amor bendato avevami,

                                   quella mal nata ambizion ridevole

                                    che a mentir poesie non sue pon Sostrata,

10                                invidiosa, dic’ella a Vittoria,

                                    perché Vittoria è già conversa in cenere;

                                    ma invidiosa è che alle stelle innalzisi

                                   l’arcade Aglauro, Aglauro la Cidonia,[219]

                                    che col suo Tirsi (e gli sien pur le Grazie

15                                favorevoli, e quanti Amori e Veneri

                                    spaziano in Pafo) può d’onor contendere.

                                    Onde (chi ‘l crederebbe?) Apollo in dubbio

                                   sta a qual dei due meglio corona intreccisi.

                                    L’ha infin Tirsi di mirto, e il dono è d’Erato;

20                                ma la severa Clio di sua man propria

                                    ne tesse una d’alloro e al crine adattala

                                    di lei, che umile stassi in tanta gloria.[220]

                                   Daria Sostrata cento e più cadaveri

                                    di pria diletti imbalsamati Panfili

25                                per divenir Fidalma la Partenide,[221]

                                    nata in gran sangue ed inserita in Massimo,

                                    cara a Febo, a Diana, a Pane e a Pallade

                                   più di qual dotta ninfa alberghi in Lazio.

                                    Darebbe un occhio per aver qual Silvia[222]

30                                Licaotide il vezzo anacreontico

                                    in canzonette che, soletta e vergine,

                                    canta del natio Spello entro il bell’eremo,

                                   a cui d’intorno i colli suoi rispondono.

                                    Ma che daria per posseder la gloria

35                                dell’ardua Irene? Io dico la Pamisia,[223]

                                   che porria passeggiar d’Atene i portici

                                   con quanti Grecia mai vantò filosofi;

                                   e che daria per divenir Paraside[224]

                                   Mirtinda, amor del Po, del Reno e d’Adria

40                                per le rime leggiadre? E che, per essere

                                   la leggiadra Larinda, che Alagonia[225]

                                   dall’Arbia suo s’appella? Or crede Sostrata,

                                   che, come usan le ninfe allor che ammirano

                                   in capo ad una, o sia di crin piramide,[226]

45                                che l’ovato a un visin dia fatto a circolo,

                                   o sia di fior selvatici e domestici

                                   mazzetto fra l’orecchio e fra la tempia,

                                   l’imitan tosto in sulla fonte pendule,[227]

                                   e tutte eccole già che veder fannosi

50                                con par mazzetto e con egual piramide;

                                   così, poiché nel coro suo femmineo

                                   v’ha qualche musa, e perché Italia applaudele,

                                   pensa come famosa ir per Cosmopoli,

                                   e che Safo e Corinna ogni uom la reputi.[228]

55                                Ma il poetar non è cucir né tessere.[229]

                                   Ecco poi che ne avvien: quai petrarchevoli

                                   i marineschi e non suoi versi ostentaci;

                                   e chiamo te, che dell’etrusco Apolline[230]

                                   seguace sei, che in ciò consenta all’arcade

60                                di non lodar la femminil sua boria.

                                   Di cotai saputelle or scaturiscono[231]

                                   per tutti i borghi, e le contrade e i vicoli;

                                   e già s’erige un tribunal di cuffie

                                   sui virili poemi; e torma affollasi

65                                di bei gerbini, intorno a lor, che inchinano

                                   le fiocche teste e pettinate agl’idoli,

                                   che van sputando in altrui sprezzo oracoli.

                                   Misera poesia, se da tai giudici

                                    giammai degna di te sentenza attendasi!

 

70        m. cecco        Ragion farotti del tuo desiderio.[232]

                                    Farò che il suono in rime sparse ascoltisi

                                    de’ miei sospir, ma per quel lauro amabile

                                   di cui tu pure alla bell’ombra siediti;

                                    non per tal pianta, che selvaggia e sterile

75                                de’ frutti altrui non di rara excellenzia,

                                    ma guasti e pieni di amorosi vermini

                                    mostrata a dito immantinente adornasi.

 

            cornia           Marin, pon mano ad ordinar le sedie

                                    per la sostraticiaca accademia.[233]

 

80        c. marino       Fachinar tocca a un cavalier? Pazienzia!

                                    Ercol filò (ridendo Amor) per Onfale.[234]

 

            m. cecco        Al Petrarca non fur le «selve» in odio.[235]

                                   Ei le ha dieci fiate, s’io ben numero.

                                    Cinque ha «pastor». Ne vuoi tu i sensi intendere?

85                                «Il PASTOR che a Golia già ruppe il cranio ecc.»

                                    «Quando vede il PASTOR che i raggi calano ecc.»

                                    «O del PASTOR che ancora onora Mantova ecc.»

                                   «Né il PASTOR di che ancora Troia lamentasi ecc.»

                                    «Seco ha il PASTOR, che mal sì fiso mirala ecc.»

90                                «Pastorella» una volta egli usa, ed eccola:

                                    «Che a me la PASTORELLA alpestra e rigida ecc.»

                                    Mai «pecorelle» il Canzonier non nomina;

                                   ma nell’egloghe sue talor rammentale

                                   in latino idioma.

 

            mirtilo                                  Adunque un arcade

95                                favorevol ti avrà, se i boschi in grazia

                                    ebbe già il tuo maestro.

 

            m. cecco                                            È ver; ma sforzami

                                   vostra legge a soffrir bastardi e barbari

                                   nomi che in bocca sua mai non suonarono.

                                    O Petrarca, a’ tuoi piedi ecco inginocchiomi,[236]

100                              reo d’altre frasi e di non tuoi vocaboli,

                                    tanto che altr’uom da quel che fosti, intendami,

                                    da te pietà non che perdon io speromi;

                                   e ciò farò perché la sua ridevole

                                    stoltizia ei spogli, e rivestir poi giuroti

105                              l’antica forma e la sembianza propria.

 

            mirtilo          O superstizïon di petrarchevole!

 

            m. cecco        Fratel, tu vedi la festuca minima

                                   negli occhi altrui, ma non ne’ tuoi la massima

                                    trave, che della luce a te fa tenebre.

110                              Che vuol dir quella tua pelliccia ruvida,

                                    quella sampogna pastoral, quel zaino?

                                    Vi son pur tai che nel suo ruolo Arcadia[237]

                                   descrive, e in manto van da galantuomini,

                                    e di selve e di greggia ognor non parlano.

115                              Ma per gli eroi vedi sublimi e nobili

                                    scorrere i versi lor, né sempre a mugnere

                                    guidar le ninfe allor che d’amor cantano.

                                   Il padre vostro Alfesibeo, l’ingenuo[238]

                                    Alessi, il grazïoso Tirsi, il querulo

120                              Ila, il facil Montano, il savio Uranio,

                                    l’ingegnero Clidemo, e il fior de’ lirici

                                    Aci, e non men che gran poeta, astronomo,

                                   Teleste il franco, e quanti in somma assidonsi

                                    all’ombra eterna del Bosco Parrasio

125                              aman con lunghe e inanellate zazzere,

                                    capel ritorno, e gran colar che increspasi.

                                    Gode altri in perucchini, a cui la cipria

                                   polve dà in parte e canutezza e grazia,

                                    nel tuo coro apparir puliti e candidi,

130                              con colarini fra bianchi e cerulei

                                    sotto il mento attilati, uniti e sferici.

                                    Ma tu per tutto vuoi selvetta e rivolo,

                                   augelletto, aura, e pecorelle e pascoli,

                                    praticel, collinetta, antr’, ombra e foglia,

135                              cose che udite al primo suon ricreano,

                                    ma col sovente ricrear rincrescono.

                                    Cotesto latte è un cibo dolce e candido,[239]

                                   che ne’ giunchi, qual è, rappreso e tremulo,

                                    o in ricottelle avidamente ingoiasi;

140                              ma col troppo ingoiarne alfin ci stommaca,

                                    dove saziaci il pane, e mai non tedia.

                                   Io già m’intendo, or chi lo puote intendami.

                                   E quei sciroforioni? e le olimpiadi?[240]

                                   e i dì anarchi? e chi savvi, o nomi barbari,

145                              pronuncïar, di ceto e serbatorio?

 

            mirtilo          Io, se questa è follia, folle esser godomi.

                                    Ma saviezza sarà dì e notte struggersi

                                   sul divino Petrarca, e quel sol prenderne[241]

                                    che, interrogato, ei s’udiria riprendere?

150                              Altro ci vuol che i soli suoi vocaboli

                                    articolare e le sue frasi torcere

                                    con diverso dal suo concerto ed ordine;

                                   ché il diverso locar sue note e sgiungerle

                                    crea sovente all’orecchio un suon sì vario

155                              che tutte inferma al suo bel dir le grazie.

                                    Vestir convien della grand’alma il genio,[242]

                                    le figure, il pensar, la guida, e il facile

                                   colorir delle cose, e quel palpabile,

                                    anche aeree che sien, formarle e sporgerle,

160                              sì che la fantasia sensi aver credasi

                                    con cui gli obbietti ella maneggi e scorgali.

                                    Così pittor, che il buon disegno e gli agili[243]

                                   moti delle figure in testa imprimesi

                                    per esprimerli in tela, e sin degli animi

165                              guida ai visi il color, mira, non copia[244]

                                    di Rafael l’insegnatrici immagini;

                                    ma poi, col vero e coll’idea che fissesi

                                   d’imitarlo a dover, sì ch’atti ed arie

                                    tutti all’impresa espression cospirino,

170                              fassi un Giulio, un Allegri, un Michelagnolo,[245]

                                    un Zampieri, un Albano, un Reni, e creasi

                                    cotal maniera originale e propria,

                                   che pare già da Rafael dipendere,

                                    onde qual meraviglia a dito mostrasi.

 

175      cornia           Finiam le liti, ecco l’irrevocabile[246]

                                    sentenza mia, poiché madonna accostasi.

                                    Chi vuole amor, sia da Laureta o Cloride,

                                   onor faccia a costei: nei carmi esaltila,

                                    o buoni o rei; qual petrarchista onorisi,

180                              ed al suo recitar sonoro applaudasi.

                                    Altrimenti io vi caccio, e più non sperisi

                                    per voi mercé; ma questo core in premio

                                   prometto a qual più nel lodarla affannisi.

 

            m. cecco        O dura legge! A qual giogo Amor posemi!

 

185      mirtilo          La pastorella mia sossopra volgami,[247]

                                    siccome colte in sul mattin le fragole

                                    qualor sul desco il suo panier riversale.

 

 

                                   SCENA QUARTA

 

                                    Sostrata, e detti

 

            cornia           Sostrata vienne. O delle muse decima!

                                   Te impazienti ecco i poeti attendono,

                                    e delle lodi tue testé stordivanmi.

                                    Cecco giurava (ed ei presente attestilo)

5                                  nulla il Petrarca suo, se paragonisi

                                    a te, valer; né men di lui fea Mirtilo,

                                    te passar quante ninfe or vanta Arcadia,

                                    sien Aglauro, o Fidalma o Irene, o femmine

                                    quante atte ai carmi il buon Teleste adunaci.[248]

10                                Non è ver egli? A lei voi due narratelo,

                                    né il bel rossor, che la natia modestia

                                    le induce in volto, dal ridirlo affrenivi;

                                    ma tu per Laura, e tu per Clori or giuralo.

 

            m. cecco        Il giuro.

 

            mirtilo                      Il giuro.

 

            sostrata                               O petrarchista ed arcade,

15                                foss’io pur tal che meritar potessimi

                                    i vostri applausi! Allor sarian mie lagrime

                                    degne in ver di quel fido amato spirito,

                                    che per quest’aria intorno all’ossa esanimi,

                                    se ben credo al mio amor, m’ascolta e spaziasi;

20                                e allor sì di Vittoria avrei vittoria.

                                    Voi de’ miei versi al risuonar, che Penulo

                                    reciterà, ch’oltr’esser petrarchevole

                                    più ch’altri sia, nel recitarli ha grazia,

                                    dove me il mio dolor nel dir fa stupida,[249]

25                                direte forse: «Or ve’, se questa vedova

                                    tutto ha il Petrarca suo nella memoria»;

                                    e pur vi giuro, in su l’onor di Panfilo,

                                    che, scorso appena un suo sonetto, io sentomi

                                    certo brio natural che Apollo inspirami,

30                                mercé di cui, senz’altro studio, i quindici

                                    versi fanmi un sonetto in cui ravvisasi

                                    del buon Petrarca il delicato e il tenero.

 

            m. cecco        Il sonetto avrà coda, o sien quatordici

                                   i versi suoi, madonna mia, non quindici.

 

35        cornia           Vuoi la maestra tu d’ogni uom correggere?

 

            mirtilo          Quel fu di lingua addolorata equivoco.

 

            sostrata       Dice ben il pastor. Perdon, s’io sbagliomi,

                                    perché il labbro non sa quel che s’articoli,

                                    e, se badasse al cuor, non suggeriscegli

40                                che Penulo e poi Penulo e poi Penulo.

 

            cornia           Che di Penulo dici?

 

            sostrata                                           O qual delirio!

                                    Io volli dir (ma il mio dolor traviami)

                                    che Panfilo e poi Panfilo e poi Panfilo.

 

            cornia           (A parte) Dove il dente ci duol, la lingua sdrucciola.[250]

45                                (Ad alta voce) Ma il rimanente or vien degli accademici,

                                   Sannione, e il guerrïer.

 

            sostrata                                           Ve’ mai, se Penulo

                                    se ne vien lento, e non dovrebbe ei correre?

 

            cornia           (A parte) Dove il dente ci duol, la lingua sdrucciola.

 

 

                                   SCENA QUINTA

 

                                   Penulo, Sannione, e detti.

 

            penulo           M’inchino alla bellissima Artemisia.[251]

 

            sostrata       Ben venga, ancor che tardo, il petrarchevole

                                   guerriero eroe. Ma chi è colui?

 

            penulo                                                          Quel, Sostrata,

                                   è poeta seguace di Fidenzio,[252]

5                                  cui sempre è al fianco, un famigliar suo spirito

                                    che talor di poeta il fa filosofo.

 

            cornia           Luogo ognun prenda. Qua Sostrata. Penulo

                                   siedi alla sua sinistra, e voi spartitevi

                                   di qua, di là sinch’è ripieno il circolo.

10                                Lofa di dietro. Il musical prefazio[253]

                                    in distanza si vuol dall’accademia;

                                    e la figura io qui farò di popolo.

 

            mirtilo          No, che m’è d’uopo a te vicino assidermi,

                                    perché mi aiuti a recitar quest’egloga.

 

15        cornia           Almen dammela pria, sì ch’io prevedala.

 

            mirtilo          Eccoti la tua parte.

 

            cornia                                               Io fo da Cloride,[254]

                                    e da Mirtilo tu; ma Clori è Sostrata?

 

            mirtilo          Quella sia che tu vuoi.

 

            penulo                                              Marino, accostati.

                                    La D questa non è?

 

            c.marino                                            Sì. Taci, e siediti.

 

20        sostrata       Il concerto incominci. O là, silenzio!

 

            lofa               Ceda la rosa, onde le fonti infioransi,[255]

                                    alla viola del color di cenere;

                                    benché a quell’altra le foglie colorinsi

                                    dal piè ferito della bella Venere.

25                                Ceda la rosa ecc...

 

                                   Lascivi amanti un bel roseto esaltino,

                                    scherzando ignudi infra le rotte aspergini;

                                    ma tua modestia, o violetta, esaltino,

                                    per fregiarsene il crin, poeti e vergini.

30                                Lascivi ecc.

 

                                   La violetta della rosa ridesi,

                                    benché quella a più d’una il viso imporpore.

                                    Da che in volto a costei suo pallor videsi,

                                    più nel pregio di pria non son le porpore.

35                                Simile alla viola al suon di cetera

                                    la novella Artemisia or s’alzi all’etera.

 

            sannione       Ai luminari tuoi, Sostrata, immolinsi[256]

                                    i distici del proximo epigrammate.

                                    «Ond’è che, o dèi marini, inferi e superi,[257]

40                                femmella voi, voi universi exuperi?

                                    Che a te coi leti occelli io ben non digero

                                    faccia l’arme cader dio tridentigero;

                                    che tue medulle, o Pluto, un sol circuito

                                    vori del suo flammimovente intuito;

45                                che a te sin, Giove, insù i siderei culmini

                                    tragga di man pupula ardente i fulmini?

                                    E all’ardor poi resisteranne il trunculo

                                    di Sannion, floccipenduto omuncolo?»

 

            m. cecco        (A parte) O che pedanteria!

 

            mirtilo          (A parte)                       Canti a Camillulo[258]

50                                quel Fidenzio novel.

 

            cornia           (A parte)                       Ma quanto io ridomi[259]

                                    che la padrona e Penulo sen ridano![260]

 

            c. marino       Invito a ber te, bella donna, e recito

                                    le stanze mie, che già famose e sdrucciole

                                    allo Stiglian nemico mio sin piacquero.

 

55                                «Ond’ellera s’adornino e di pampino

                                    i giovani e le vergini più tenere;

                                    e gemina nell’anima si stampino

                                    l’immagine di Libero e di Venere:

                                    tutti ardano, s’accendano, ed avvampino

60                                qual Semele, che al folgore fu cenere;[261]

                                    e cantino a Cupidine ed a Bromio

                                    con numeri poetici un encomio.

 

                                    La cetera col crotalo e con l’organo[262]

                                    sui margini del pascolo odorifero,

65                                il cembalo e la fistula si scorgano

                                    col zuffolo, col timpano e col piffero;

                                    e giubilo festevole a lei porgano

                                    ch’ or Espero si nomina, or Lucifero;

                                    et empiano con musica che crepiti

70                                Cosmopoli di fremiti e di strepiti.

 

                                    I satiri con cantici e con frottole[263]

                                    tracannino di nettare un diluvio.

                                    Trabocchino di lagrime le ciottole

                                    che stillano Posilipo e Vesuvio;

75                                sien cariche di fescine le grottole,

                                    e versino dolcissimo profluvio.

                                    Tra frassini, tra platani e tra salici

                                    esprimansi de’ grappoli ne’ calici.

 

                                    Chi cupido è di suggere l’amabile[264]

80                                del balsamo aromatico e del pevere,

                                    non mescoli il carbuncolo potabile

                                    coll’Adige, col Rodano e col Tevere;

                                    ch’è perfido, sacrilego e dannabile

                                    e gocciola non merita di bevere

85                                chi tempera, chi intorbida, chi incorpora

                                    coi rivoli il crisolito e la porpora.

 

                                   Ma guardinsi gli spiriti che fumano[265]

                                    non facciano del cantaro alcun strazio,

                                    e l’anfore non rompano, che spumano

90                                già gravide di liquido topazio;

                                    che gli uomini ir in estasi costumano,

                                    e s’altera ogni stommaco già sazio;

                                    e il cerbero, che fervido lussuria,

                                    più d’Ercole con impeto s’infuria.»

 

95        mirtilo          (A parte) Tre sdruccioli per verso? Inver che supera[266]

                                    le tue terzine, o Serafin dell’Aquila!

 

            sostrata       (A parte) Ohibò il Marino!)

 

            penulo           (A parte)                                   Ohibò il Marino!

 

            sostrata        (A parte)                                                                      Or odasi

                                   quel cotal che il Petrarca imitar vantasi,

                                    ma non è già da pareggiarti, o Penulo.

 

100      penulo           Noi due sì che da ver siam petrarchevoli.[267]

 

            c. marino       Cecco, che fai?

 

            m. cecco        (A parte)           Se ciarlano... Capitolo.[268]

                                   (Ad alta voce) «Properzio, Ovidio, e quei che ben cantarono

                                     mirino il novo sol di pudicizia,

                                    onde al sol vero i rai si scolorarono;[269]           

105                              e loderan costei nova Sulpizia,[270]

                                    che sa ogni cuor d’oneste voglie accendere,

                                    non di gente plebea, ma di patrizia;

                                    né a cose non da ei degna discendere.

                                    Poco ama sé chi a tal gioco s’arrischia,

110                              e di quell’alma poco mostra intendere.

                                    Onde non bollì mai Lippari ed Ischia,[271]

                                    Stromboli e Mongibello in tanta rabbia

                                    dentro confusion torbida e mischia,

                                    quant’io nella mia nova e stretta gabbia.»

 

115      mirtilo          Mirtilo.[272]

 

            cornia                       Clori.

 

            sostrata       (A parte)           Io mo Clori sono.

 

            mirtilo                                                                      Egloga.

                                   «Or che i lenti ozzi a noi non lupo insidia,

                                    non signor, non caprar, cantiamo, o Cloride,

                                     e rompa i fianchi al rauco Mopso Invidia.

 

            cornia           E rabbia faccia intisichir Licoride,

120                              or che nell’erbe i bei color gioiscono

                                    delle campagne al tuo venir più floride.

                                    Ma, se tu parti, oh come i fior languiscono!

                                    e sin l’acque sonanti ai rii che scorrono,

                                    per la tua lontananza inaridiscono.

125      mirtilo           Arido è il campo, ed i ruscei non corrono,

                                    e tanto può dell’aria calda il vizio,

                                     ché le rugiade sue più nol soccorrono.

                                    Ma ritornano i fonti a precipizio;

                                    e il matutino umore è a cader libero,

130                              sol che Clori ci renda il ciel propizio.

 

            cornia           Come a Giove la quercia e l’edra a Libero,

                                     così diletta è la mortella a Venere,

                                    e Mirtilo ama il gelsomin celtibero.

                                    Quercia, edra e mirto, ir vostre glorie in cenere

135                              e sinch’egli ami il gelsomin, si lassino

                                    i primi onori alle sue foglie tenere.

 

            mirtilo          Nell’orto il pino, e nella selva il frassino

                                    signoreggiar per la bellezza ammiransi:

                                     pur, se Cloride arriva, a lei si abbassino.

140                              Ma le colombe alla lor torre aggiransi,

                                    e a due, a tre, perch’all’ovil si mungano,

                                    le pecorelle a capo chin ritiransi,

                                    or che dai monti in giù l’ombre s’allungano.»

 

            sostrata       (A Penulo) Può passar.

 

            penulo           (A Sostrata)                  Ma però non c’è miracolo.[273]

145                              (ad alta voce)  Attenti. Ecco un sonetto petrarchevole

                                    della bella Artemisia. Aggiungerassegli

                                    poscia un mio madrigal pur petrarchevole.

                                    (Al Marino) Cavalier, su...

 

            sostrata                                                       Signori, compatiscano

                                   questo componimento estemporaneo,

150                              che m’inspirò messer Francesco a tessere.

 

            cornia           Bello!

 

            sannione                   Bel!

 

            c. marino                               Più che bel!

 

            m. cecco                                                        Più che bellissimo!

 

            mirtilo          Prima s’oda il sonetto, e poscia applaudasi.

 

            penulo           «Diva immortal, ch’entro a mortal ricovero

                                    marmoree tombe indegnamente accolsero,    

155                              io quei gelidi sassi inver rimprovero,

                                    che a così ardenti rai non si disciolsero.»

 

            cornia           Bello!

 

            sannione                   Bel!

 

            c. marino                               Più che bel!

 

            m. cecco                                                        Più che bellissimo!

 

            penulo           « so come a quei membri, a cui si volsero

                                    i lumi tuoi, che quai due soli annovero,

160                              poiché i lampi vitali in sen ne accolsero,

                                    il cor resti di vita ignudo e povero».

 

            cornia           Bello!

 

            sannione                   Bel!

 

            c. marino                               Più che bel!

 

            m. cecco                                                        Più che bellissimo!

 

            mirtilo          Pria finisca il sonetto, e poscia applaudasi.

 

            penulo           «Con un sol po’ di...»  (da sé) Ah, la memoria mancami!

 

165      m. cecco        Su, ricorri alla carta.

 

            penulo                                              Amico, aiutami. (al Marino)

 

            sostrata       Che cos’è? Che cos’è?

 

            penulo                                              Mi svengo, o Sostrata;

                                   ahi, che l’alma mi manca in un deliquio!

 

            sostrata       Ahi! Manteca chi n’ha? Chi muschio o balsamo?[274]

 

            cornia           (A parte) Ei s’abbandona; e pur, se il volto interrogo,

170                              mi risponde il color ch’è sano e vegeto.

 

            c. marino       (A parte) Il deliquio è coperchio all’ignoranza.

 

            sostrata       Cornia, dammi l’orecchio.

 

            mirtilo          (A parte)                                   E che sussurrale?

 

            sostrata       Vanne tosto, e vien, vola! e te’ le forbici.[275]

 

            cornia           (A parte) O questo ancora ho da sentir! Vo, e lascioti

175                              nel grembo il peso.

 

            sostrata                                           Io per amor sostegnolo

                                   de’ versi, onde un novel Petrarca è Penulo.

            sannione       (A parte) Est l’amor del poeta, o l’est del Penulo?

 

            sostrata       Panfilo mio, deh perché sei cadavero?

                                    Perché a te, come a questo, il cuor non palpita?

180                              Strugger mi sento a sì crudel memoria.

 

            mirtilo          Da te fede ed amor le ninfe imparino.

 

            m. cecco        E le madonne ad esser Laure apprendano.

 

            sostrata       Ma Cornia unqua non torna? Egli è già un secolo

                                    che partì quinci; e non è già uno stadio

185                              il suo viaggio. Oh come son le giovani

                                    pigre oggidì!

 

            lofa                                       Vien come lampo, ed eccola.[276]

 

            sostrata       Odorate, o signori.

 

            lofa                                                   Oh dèi! Qual balsamo

                                   mi rincora odoroso e mi resuscita?

 

            m. cecco        Ch’egli sia del Perù?

 

            sannione                                           Ma qual pellicola?

190                              Forse cute sarà di que’ due gemini

                                    che al marin venator linque il castoreo?[277]

 

            sostrata       Droga è più prezïosa.

 

            cornia           (A parte)                       Egli è il prepuzio

                                   che —ve’ fede ed amor!— recisi a Panfilo;

                                    e il comandò la sua pudica vedova

195                              per soccorrere il drudo.

 

            sannione       (A parte)                       A reviviscere[278]

                                   già comincia il Tirone. Accorri, o demone!

                                    ma perché ridi, e obtemperarmi or renui?

 

            penulo           Qual odor mi consola, ond’io recupero

                                    l’alma smarrita? E dove son? Mia Sostrata,

200                              vero è che in seno io ti svenii?

 

            sostrata                                                       Ringrazia

                                   l’imitato Petrarca e il mio buon Panfilo.

                                    In memoria di lor fu ch’io sostenniti.

                                    In memoria di lor fu ch’io sovvenniti.

                                    Dimattina sull’alba intimo a Panfilo,

205                              o valenti poeti, altra accademia,

                                    poiché il guerrier refocillò gli spiriti.

 

            penulo           (Al Marino) Cavalier, sarem pronti?[279]

 

            c. marino                                                                  Affé, ch’io viditi

                                   in cotal labirinto, ché al pericolo

                                    del pubblicar che tu non sai pur leggere

210                              quel sol finto svenir potea sottraerti.

 

            penulo           Accortezza in amor non manca a Penulo.

 

            lofa               Riderà, sorgerà fuor dell’oceano

                                   la bella Aurora, onde gli augei che destansi,

                                    e alla madre del dì coi canti applaudono

215                              le pecorelle ed i pastor ricreano.

                                    Riderà, sorgerà, fuor dell’oceano...

 

                                   Fine dell’atto quarto

 

 

 

                  ATTO QUINTO

 

 

                                   SCENA PRIMA

 

                                    Penulo.

 

            penulo           Persuader la saporosa e tacita

                                   notte può luci affaticate a chiudersi

                                    che non sian d’un amante, o che non siano

            l                       le mie, ché invan per l’egre piume aggiromi.

5                                  O stia in fianco, o supino, o capovoltimi,

                                    mai non trovo un momento in cui non empianmi

                                    il capo i vezzi e la beltà di Sostrata.

                                    Quinci abbandono le odiose e vigili

                                    mie materassa, e mentre a caso spaziomi,

10                                o destino od amor fa ch’io qui trovomi

                                    presso all’albergo, anzi al sepolcro amabile

                                    di lei, che, conversando coi cadaveri,

                                    mi avrà ben tosto a imbalsamar qual Panfilo,[280]

                                    se pur don mi farà di qualche lagrima,

15                                dono a chi è fuor degli uman sensi inutile.

                                    Questo bel petrarchino in carta pecora

                                    stampato, e di zegrin coperto, u’ leggesi

                                    di tutto quanto il Canzonier la tavola,

                                    se il ver dissemi Cecco a me vendendolo,

20                                vo’ presentare alla mia bella, e sperone

                                    mercé da lei, che tanto almeno amassemi

                                    quanto il poeta suo. Coraggio! picchiisi

                                    alla porta funesta.

 

 

                                   SCENA SECONDA

 

                                   Sostrata, Cornia, e detto

 

            sostrata                                           Olà chi turbaci? (di dentro)

 

            penulo           Amici.

 

            cornia                       Il nom vuol sapersi. (di dentro)

 

            penulo                                                          È Penulo.

 

            cornia           Signora, egli è il guerriero, il petrarchevole.

 

            sostrata       A un poeta, a un guerrier porta non chiudasi. (escono)

                                   Qual pensier qua ti sprona, or che non trovasi

5                                  forse in terra animal, che non sia nottola

                                    notturna, o vedovella inconsolabile,

                                    che non le cure in dolce oblio dimentichi?

 

            penulo           Gli è amor, donna crudel, gli è amor che m’eccita

                                    in tempo ch’altri a respirar si corica

10                                dai diurni travagli, ed è il suo stimolo

                                    che, pungendomi il cuor, dì e notte cruciami,

                                    e mi strascina ad una inesorabile,

                                    che qual perde i suoi pianti in chi non senteli,

                                    vuol che in lei pure i pianti altrui disperdansi,

15                                come insensata al par di quel cadavero.

                                    Sì, per piangere un morto, un vivo uccidesi.

                                    Me rispettò fra le falangi armigere

                                    la invan cercata morte, e fuggir vidila

                                    davanti a questo brando, inerme e timida;

20                                potea vendicar cotante ingiurie,[281]

                                    se in cotesti occhi tuoi non ricovravasi,

                                   da’ quai la vinta impunemente assaltami,

                                   e del suo vincitor sta per far strazio,

                                   se in mio soccorso un guardo tuo non armasi.

25                                Vagliami almen con poetessa a grazia

                                   questo piccolo dono, in cui rinchiudonsi

                                   le dolci rime e le amorose lagrime

                                   di lui ch’arse per Laura ancora esamine.

 

            sostrata       Oh s’egli è bello! e come ben maneggiasi

30                                così lindo e raccolto! Il dono accettisi

                                    più caro a me perché da te derivami;

                                    né ricuso d’amarti con quel candido

                                    e platonico amor che pel corporeo

                                    vel si fa strada a vagheggiar lo spirito.

35                                Ma perché il vulgo vil sovente interpreta[282]

                                    sinistramente le fiamme platoniche,

                                    come bragia si suol covrir per cenere,

                                    vuolsi a tutt’occhi il nostro incendio ascondere.

 

            penulo           Là in quel sepolcro asconderassi; e il talamo

40                                sarà la bara ove disteso è Panfilo.

 

            cornia           (A parte) Vuol l’amor coniugal, non il platonico.

                                    Gnaffe! Ei viene alle corte.

 

            sostrata                                                       Oh sacrilegio!

                                    E che di’ tu del far la bara un talamo?

                                    Come poss’io ne’ casti orecchi accogliere

45                                sì sconce cose? Ogni mio pelo arricciasi

                                    al sentirmi parlar di nozze, orribili

                                   a me più della febbre e della scabbia,

                                    a me, ch’emular voglio indi Artemisia,

                                    indi Vittoria. E farle in faccia a Panfilo?

50                                Sul cadavere suo? Tu ridi, o Cornia?

                                    Per te sento arrossirmi, e tutta avvampomi.

 

            cornia           Rido perché vuoi piangere a sproposito.

                                    Gode ogni donna in maritarsi, e il giubilo

                                    nasce dalla speranza d’esser vedova,

55                                per poi rimaritarsi, e sopravvivere,

                                   indi rimaritarsi, e sopravvivere,

                                   indi rimaritarsi, e sopravvivere,

                                    indi rimaritarsi, e sopravvivere,

                                    indi rimaritarsi, e sopravvivere,

60                                sinché una cinquantina almen di Penuli

                                   l’un dopo l’altro onestamente godasi.

                                    Io sì l’intendo; altri a sua posta intendala.[283]

 

            sostrata       E non ti caccio un occhio con quest’indice,

                                    putta loquacissima, sfacciatissima?[284]

65                                Ahi, Mausolo! Oimè Davalo! Oimè, Panfilo!

 

            cornia           L’ira torci in costui che d’amor tentati,

                                    non in me, che, se ancor seppellir vogliti,

                                    m’obbliga a non oppormi in forma camerae.[285]

 

            sostrata       E pur tu reggi a me davanti, o Penulo?

70                                Volgi quegli occhi in altra parte, ah volgili!

                                    altrimenti a punirti ho i pugni in aria.

 

            penulo           Noi guerrier siam avvezzi a quel che narrasi

                                    dell’orso, il qual, per quanto l’api il pungano,

                                    purché ne lecchi il mel, l’ira ne tollera;

75                                care mi sian le tue percosse, o Sostrata,

                                    se per mezzo di lor giungo a conquidere

                                    cotesta tua non femminil ferocia;

                                    ma non sai tu perch’io mi vegli; or svelisi[286]

                                    l’alto mistero ch’ho sino ad ora ascosoti,

80                                per provar, se vèr me piegava un genio,

                                    ch’io non credea sì sconoscente e barbaro

                                   in beltà sì gentile e sì dimestica.

                                    Il tuo sposo poc’anzi in sogno apparvemi,

                                    quanto diverso da quel miserabile

85                                avanzo suo, che imbalsamato ed arido,

                                    e notte e giorno a lagrimar mal t’occupa.

                                    Giovinezza sul volto ancor fioriagli,

                                    e un bel corpo di luce accesa e vitrea[287]

                                    fea trasparer da’ membri suoi lo spirito,

90                                che il libricciuol lasciò cadersi; e, «Recalo»

                                   disse «a Sostrata mia perché in lui studii

                                    come farmi immortal, cantando, ai posteri,

                                    poich’altra vita oggi nel mondo io nauseo,

                                    fuor che quella del nome; e questa eternisi,

95                                e si eterni per lei; ma deh! non serbimi

                                    un corpo odioso a me nud’ombra; e canginsi

                                    in nozze i funerali; e la memoria

                                    mia tu risveglia in novi figli, e nascano

                                    tanti poeti, a’ quai prometto infondere

100                              virtù forse maggior che petrarchevole.»

                                    Disse; e ne’ rai della sua luce ascosesi.

                                    Vengo a te baldanzoso, il ver dissimulo,

                                    ti presento il suo dono, e d’amor pregoti:

                                    tu ritrosa mi cacci; or, se vuoi, cacciami,

105                              e l’ombra amata ad irritar persevera.

 

            sostrata       Tolga lo ciel ch’io spiaccia alla buon’anima;

                                    ma del mio cuor dispongasi ad arbitrio

                                    di chi sol n’è signore; ei dielti, io dottelo.

 

            cornia           (A parte) Ve’ se presto s’arrende, e ratta bevesi

110                              la menzogna del sogno!

 

            sostrata                                           Or dunque io bacioti,

                                    libro adorato, e al donator fo grazia

                                    di cangiar, poiché il vuol, tumulo in talamo.

                                    Ma pria fra noi, mio novo sposo, accordisi

                                    la ragion delle nozze, e, mentre a Panfilo

115                              piace ch’amboduo noi siam petrarchevoli,

                                    e che nascan da noi pur petrarchevoli

                                    che il nome suo novellamente esaltino,

                                    a prometter tu m’hai di compor subito

                                    un canzonier che al Canzoniero adeguisi

120                              del Petrarca in bellezza, in specie e in numero:

                                    cioè sonetti pria trecento tredici,[288]

                                    canzoni poi quarantanove, e dodici,

                                    che sian, delli trionfi o pur capitoli.

 

            penulo           A quanto vuoi, con giuramento astringomi.

 

125      sostrata       Et io la destra militare impalmoti.

 

            cornia           Ecco già stabilito il matrimonio.

 

            penulo           Ma entriam, sposa, a gioir, diam gloria a Panfilo.[289]

 

            sostrata       Davanti a lui, sull’ossa sue, qual vittima

                                    strascinata ne vegno al sacrificio.

 

 

                                   SCENA TERZA

 

                                   Cornia.

 

            cornia           Oh che vittima allegra! Or fia che sanisi

                                   la sua pazzia col novo elettuario,[290]

                                    il qual mai, per ver dir, non nocque a femmina.

                                    Se non era il soldato a inventar agile

5                                  l’accorto sogno, l’inventava Sostrata,

                                    tanto un pretesto e nulla più cercavasi

                                    per darsi in preda sì, ma senza scandalo,

                                    al piacer delle nozze. E non ha Cornia,

                                    fomentandole in sen l’amor di Penulo,

10                                mal servita costei. Mal, so, maritasi,

                                    ma peggior d’ogni male è poi l’insania,

                                    e da pazzia col maritarsi è libera.

                                   Saputezzza viril, prudenza eroica

                                   così a noi donne ingratamente adattasi,

15                                come il filare ed il cucire agli uomini,

                                   a cui non mai per lungo studio addestransi.

                                   Ciascun sesso stia dentro all’esercizio[291]

                                   che natura e le stelle a lui prescrissero,

                                   o si prepari a far che di lui ridasi.

20                                Ma qual suono novel vien l’ombre a rompere?

                                   Affé, ch’è Lofa: anch’ei d’intorno al tumulo

                                   della carne all’odor qual corvo or crocita.[292]

 

 

                                   SCENA QUARTA

 

                                   Lofa, e detta.

 

            lofa               A un bel raggio di luna io solitario

                                   già per la selva a solfeggiar coll’aria;

                                    e tasteggiando iva le corde in vario

                                    suon per crearne, in passeggiando, un’aria.

5                                  Quando i quarti del reo, che funestarono

                                    la maggior quercia, in un balen svanirono:[293]

                                    tre, che sien benedetti, indi staccarono

                                    le appese aride membra, e poi sparirono.

                                    Or lieto è il bosco, e l’augellin destandosi

10                                avrà più lena alle sue gorghe amabili.

 

            cornia           Oh, che di’ tu? Povera me! Te misero

                                    sposo, ch’ora gioisci, e ch’ hai da pendere[294]

                                    fra poco ove pendea chi dato in guardia

                                   fu alla tua fede dall’inesorabile

15                                tribunal de’ censori. O Lofa, io pregoti

                                    a ritornar pria che l’aurora affaccisi,

                                    a spiar di quel furto un qualche indizio,

                                    e, se vuoi ch’io non t’odi, a me riportalo.

 

            lofa               Precipitevolmente io corro, e recoti

20                                quanto fia che dall’alba a me rivelisi.[295]

 

 

                                   SCENA QUINTA

 

                                   Cornia fuori, Sostrata e Penulo dentro.

 

            cornia           Per mia , da buttar tempo non restaci.

                                   Picchiam pure; e i due sposi mi perdonino

                                    se la lor calma ad agitar vien Cornia.

 

            penulo           Chi è? (a parte) ch’io lo fo in pezzi (ad alta voce) il temerario

5                                  che i sonni altrui van frastornando!

 

            cornia                                                                       È Cornia.

 

            sostrata       O invidiosetta, or che fo onore a Panfilo,

                                    vuol disturbarci il sacrificio.

 

            penulo                                                          Ah possati

                                   il canchero venir, bestiola indocile;

                                    se vil non fosse insanguinarsi in femmina,

10                                di te un vaglio faria la mia ferocia.[296] (escono)

 

            sostrata       Troppo avanti si fa cotesta audacia,

                                    serva insolente. Or va’, che ti licenzio.

                                    Trovati una padrona un po’ più stolida,

                                    che le tue sfacciataggini si tolleri.

 

15        penulo           Poter di Bacco. E perché il ciel non feceti

                                    un capitano con tutto un esercito,

                                    che vorrei tutti darvi ai corvi a pascere?

 

            cornia           Godo, o signor, di tua braura: aspettati[297]

                                    qui meno assai di un duce e di un esercito;

20                                ma tanto almen che il tuo furor disfoghisi.

                                    Verran birri fra poco, e te fra i vincoli

                                    por tenteranno, e trarti alla giustizia,

                                    per appiccarti là dove già stettero[298]

                                    dell’appeso assassin le membra lacere,

25                                le quai, già date alla tua fede in guardia,

                                    fur testé distaccate; e Lofa sasselo,

                                    ché di furto spiccar le vide, e nuncio

                                    a me ne fu. Ma ad un guerrier qual Penulo

                                    ciò nulla importi. Ei, che di duci e popoli

30                                fu già conquistatore, a scherno recasi[299]

                                    e bargello e canaglia.

 

            sostrata                                           Io vedo in polvere[300]

                                   stritolarsi i ribaldi a un guardo, a un alito

                                    del mio prode guerrier, però ridiamone.

                                    Ma non ridi, o ben mio? Tu tremi? Il tremito

35                                forse vien da furor, per cui ribolleti

                                    dentro le vene il sangue fier? Deh! tempralo

                                    sin tanto almen che il militar pericolo

                                    t’infochi alla vendetta.

 

            cornia                                               Et io, licenzia[301]

                                    poiché ottenni da te, l’eremitorio

40                                lascio tapina, e me ne vo in Cosmopoli,

                                    un salario a cercar per elemosina.

 

            sostrata       Vanne pur sciocca, e una padrona acquistati

                                    che, qual io, possa dirsi un’Artemisia.

                                    Te villanella io volea far partecipe

45                                d’una sinora inimitabil gloria;

                                    ma la gloria è una gioia che mal donasi

                                    a chi non la conosce.

 

            penulo                                              O sposa, a Cornia

                                    si perdoni un error che ha poscia origine

                                    da un zel di fedeltà.

 

            sostrata                                           Ma che inginocchiisi,

50                                e pianga, e preghi.

 

            penulo                                              Io la dimando in grazia.

 

            sostrata       A tanto intercessor nulla dineghisi.

 

            cornia           Io l’una e l’altro umilmente ringrazio,

                                    ma più ringrazio il ciel che mi fa libera.

                                    Addio signori.

 

            penulo                                  Ah, Cornïella amabile,

55                                non esser mostizzosetta. Io giuroti

                                    che in te sola è il mio scampo: ecco il tuo Penulo

                                    tutto nelle tue braccia.

 

            sostrata                                           Eh taci, e lasciala

                                   frigger nel grasso suo. Coi pugni io caccioti,

                                    se non vai tosto.

 

            penulo                                              Hai tu bel tempo, o Sostrata:

60                                tu in costei mi distruggi il mio refugio.

                                    Cornia te’ questa borsa, e i zecchin goditi

                                    ch’ivi dentro vi son, per amor mio; ma placati,

                                    e va in traccia di Lofa, e pon silenzio

                                    alla sua lingua solfeggiante e garrula.

65                                Spia se i quarti pur sien rubati, e contagli[302]

                                    ch’io son fuggito, e che di là dall’Indie

                                    fama è ch’io voli; e non fiatare all’aria

                                    me qui celarmi. Anche a te stessa ascondimi,

                                    o ch’io son morto.

 

            cornia                                               Ed io farotti ingiuria,

70                                or che vèr me sì liberal, sì prodigo

                                    col donato tesor ti mostri? Ed invida

                                    impedirti io dovrò che l’invincibile

                                    braccio tuo nelle stragi ora disetisi,

                                    e che in lenta languisca ignobil ozio?

 

75        sostrata       E in ver chi provocarti ardisca, o Penulo?[303]

 

            penulo           Ma, se nella sbiraglia alfin m’insanguino,

                                    qual core avrò per adorarti, o Sostrata?

                                    Gloria e vendetta, ahi che innamorerannomi,[304]

                                    e, vivo me, ritornerai qual vedova.

 

80        sostrata        Ah tolga il ciel cotesti infausti auguri.

                                   Cornia, su vieni, e facciam pace, io stringoti

                                    a questo sen, ma, tua mercé, non partane

                                    il mio sposo guerriero e petrarchevole.

 

            cornia           A tanti intercessor nulla dineghisi.

85                                Vo a trovar Lofa; a visitar vo l’albero,

                                    e voci vo della tua fuga a spargere.

                                    Voglian gli dèi che ciò a salute vagliati.

 

 

                                   SCENA SESTA

 

                                   Sostrata, Penulo.

 

            sostrata       L’aria fredda notturna omai consigliaci,

                                   poiché tu tremi, a ricovrarci al talamo

                                   per rinovare il sacrificio a Panfilo.[305]

 

            penulo           Lasciami qui, ché inevitabil smania

5                                  mi distrae dal piacer, di cui già sparvemi

                                    tutto il desio, da che paura entratami

                                    nelle viscere tutte, oimè congelami

                                    il sangue, e il core in agonia mi palpita.

 

            sostrata       Ma, come mai nome a te dianzi incognito

10                                d’infingarda paura in bocca or suonati?

 

            penulo           Io sempre vil mi riconobbi, o Sostrata,[306]

                                    se non che Sannion dicea ch’io supero

                                    in valor quanti eroi son, siano e furono,

                                    e imprese mi narrò famose e celebri

15                                fatte da me, sì ch’io già a lui credeale.

                                    Ma conosco esser falso il sermon magico,

                                    e che, come le vende a lui suo demone,

                                    così sfacciate e me vendea le frottole.

                                    A buon conto, per quel ch’io sol ricordomi,

20                                fui poltron, son poltron, poltron mantegnomi.

 

            sostrata       O villana parola in lingua nobile

                                    quanto mal suona. Io nerboruto e valido

                                    so pur che sei.

 

            penulo                                  Nato villano, e avvezzomi[307]

                                    marre in campo trattar, di nerbo, o Sostrata,

25                                non manco, è ver; manco di cuor, né tollero

                                    pure il sangue veder: pensa mo a spargerlo

                                    qual cuor sia il mio.

 

            sostrata                                           Ma il tuo natal, deh tacciasi,[308]

                                    per lo comune onor del matrimonio.

                                    Villan si dica il successor di Panfilo?

30                                Ma se il sangue è villano, il volto e l’indole

                                    l’ignobiltà del tuo natal compensino,

                                    e leggendo il Petrarca ingentilisciti,

                                    richiamandoti in mente il don che fecene

                                    alla mia per tua man la man di Panfilo,

35                                quand’ei spirto ti apparve allegro e diafano;

                                    e comandò quell’imeneo che intuami.[309]

                                    Ma s’egli oprò, per farmi tua, miracoli,

                                   certo non lascerà ch’io da te sciolgami

                                   per lui legata in un perpetuo vincolo;

40                                però leggi il suo dono, e in lui rincorati.[310]

 

            penulo           O te l’amore o la follia fa credula

                                    ad un sogno del tutto immaginario,

                                    che la tua ritrosia sforzommi a fingerti.

                                   Quel Petrarca comprai sol per rivenderlo

45                                a tal che in prezzo se stessa donassemi,

                                    e in ciò fortuna ebbi al desir propizia;

                                    ma non sperar già ch’io lo legga, o siasi

                                    perché dolor, perché paura or m’occupa,

                                    o siasi perché né pur so leggere.[311]

 

50        sostrata       Misera me! Ma quel sonetto?

 

            penulo                                                          Ei costami

                                   due bei zecchini, e il cavalier di Napoli

                                    fu che il compose.

 

            sostrata                                           Un marinista? Oh diavolo!

                                   Perché allor m’ingannasti, o non ingannimi

                                    tuttor, crudele? E questo fu ch’ei risesi

55                                del mio a lui recitarlo, e che corressemi

                                    in guisa, oimè, ch’io gli sarò ridicola.

                                    Io l’Artemisia un tempo, io la Vittoria,

                                    or io la sciocca, io la soldata, io misera

                                    metà d’un uom che, qual leon già intrepido,

60                                or ch’è mio, qual coniglio o lepre è timido?

                                    Ma vaglian tante mie sofferte ingiurie[312]

                                    quel tuo volto sanguigno, e quelle tergora,

                                    quel torso svelto, e rilevato in muscoli

                                    tutti ripieni di succo nettareo:

65                                in lor grazia il commesso error perdonisi,

                                    e dal compormi il canzoniero assolvoti;[313]

                                    ma non lasciarmi abbandonata e vedova!

 

            penulo           E pur vedova, oimè, sospese a un albero

                                    mirerai queste membra.

 

            sostrata                                           Oh dèi! Risparmiami

70                                sì funesto discorso. E qual rimedio

                                    a tanto orrido mal trovar può femmina?

 

            penulo           E pur egli è in tua mano: io raccapricciomi,

                                    Sostrata mia, non che a sperarlo, a dirtelo;

                                    però senza parlar ti lascio, e muoiomi.

 

75        sostrata       Ma, ben mio, che fia mai? Vuoi tu che l’anima

                                    sparga per te? La spargerò.

 

            penulo                                                          Non l’anima:

                                    qualche cosa di più si chiede, o Sostrata.

 

            sostrata       Ma di far disperarmi a gioco prenditi.

                                    Parla, o ben tosto, in faccia tua svenandomi,

80                                unirò questo frale al fral di Panfilo.[314]

 

            penulo           Ahi, che Panfilo appunto è il mio rimedio.

 

            sostrata       Come sarebbe a dir?

 

            penulo                                              Ma a un’Artemisia

                                   come ardirò propor che del suo Mausolo

                                   faccia in brani le membra, e a un tronco appendale?

85                                Ché la giustizia in ritrovar che pendono[315]

                                    dalla pianta esecrata i quarti laceri

                                    li crederà dell’assassino; e Penulo

                                    allor fia salvo a compensar di Sostrata[316]

                                    la vera con tanti vezzi e premi,

90                                che più contenta non avrà Cosmopoli.

 

            sostrata       T’intendo, o cuore mio: vuoi dir ch’io squarciti

                                    là quell’imbalsamato e vil cadavero?

                                    E per dirlo ci vuol sì gran proemio?

                                    Qua la spada: spacchiamlo; ed ambo in maschera

95                                (che per Cornia e per me là son due maschere

                                    con cui fuggimmo), insin che favorisconci

                                    l’ombre notturne, il faremo in un attimo,

                                    sì che paia quel reo, dal tronco pendere.

 

 

                                   SCENA SETTIMA

 

                                   Cornia.

 

            cornia           Al vicin bosco all’ospitale aggiromi,[317]

                                   e non ritrovo (ahi me tapina) il musico;

                                    e visto ho il tronco a cui di già pendeano

                                    i quarti in guardia consegnati a Penulo.

5                                  Ah infelice padrona, io t’avrò misera

                                    tradita oimè per risanarti? E l’animo

                                    smosso t’avrò dal tuo primier proposito

                                    per unirti ad un uom, che, vil di nascita,

                                    vil d’esercizio, andrà sovra un patibolo

10                                a recarti, morendo, eterna infamia?

                                    Egli là nel sepolcro, è ver, che ascondesi

                                    colla moneta, cui le scelleraggini[318]

                                    entro l’arche d’or gravi accumularono;

                                    ma, se il fisco sagace alfin lo penetra

15                                vago di preda, avrà rispetto a un tumulo,

                                    per sé sacro, onorando e venerabile?

                                    Sì, glielo avrà; ché sempre fur le ceneri

                                   dei sepolti defunti altrui refugio.

                                    Se fia Lofa loquace, e qual giudicio

20                                uom scemo unqua accettò per testimonio?

                                    Io negherollo, e il negherà pur Sostrata;

                                    E, poi che lui sottratto avremo all’impeto

                                    delle prime ricerche, allor poi fuggasi;

                                    ma non che s’abbia a riveder Cosmopoli,

25                                ch’ogni paese al valentuomo è patria;

                                    e gioie ed oro, ond’aspettar, non mancano,

                                    che la tempesta alfin s’allenti e plachisi.

                                    Allor, tornando a rigoder di Panfilo

                                    i lasciati poderi, andrà qual vedova

30                                la padrona a incensarne il pio cadavere

                                    nei dì solenni; e si dirà che Penulo

                                    è suo mastro di casa, e fra le tenebre

                                    sole sarà quel ch’è dover lui essere.

                                    Già di molte si sa matrone e nobili,[319]

35                                che in nozze occulte ai servi lor si sposano,

                                    mariti entro la notte amica e tacita,

                                    valetti in giorno esercitati in camera

                                    al vestirle, al lavarle; o sia che seguanle

                                    alla portiera d’aurei cocchi ond’usano

40                                inchinate da tutti ir per Cosmopoli.

                                    Ma lo sposo lacchè, che i gerbin creduli

                                    mira far di cappello, in sé già ridene;

                                    e sotto la livrea broccato avvolgesi

                                    e finissimo bisso; e in borsa cantagli

45                                l’oro della padrona, e n’è sì tumido

                                    che l’osteria paga ai compagni, u’ bevesi

                                    alla salute della miserabile,

                                    ch’irsene occulta a tutto il mondo credesi.

                                    Ma, rivelata poi dal marito ebrio,

50                                va per bocca ai lacchè scornata, e prendesi

                                    di mira alfin dall’implacabil satira.

                                    Ma ciò, per Dio, non avverrà di Sostrata,

                                    o che un coltel sommergerassi in Penulo

                                    da questa man, di vera fede esempio.

55                                Tutta Cornia oggimai richiamo in Cornia.

                                    Ma qual rumor? S’apre o non s’apre il tumulo?

                                    Sì, s’apre pur. Due mascherati? È Penulo

                                    ed è Sostrata, affé. Veggo le maschere,

                                    che colà dentro a nostro uso serbavansi.

60                                E qual peso hanno in spalla? E gambe, e braccia?

                                    Egli è un corpo squarciato: è quel di Panfilo.

                                    Ora intendo il rigiro. E qual non supera

                                    passione un amor? Ve’ l’Artemisia,

                                    che fatto in brani ad appiccar va il Mausolo!

65                                Ve’ che Vittoria ad appiccar va il Davalo!

                                    O non pensata, o non sperata astuzia!

                                    Visitar vo’ la tomba, e là chiarirmene.

 

 

                                   SCENA OTTAVA

 

                                   Sannione.

 

            sannione       O fida mia cubicularia animula,[320]

                                   che qual Libero vai lunato il vertice[321]

                                    di due tenere corna, e a cartilagini

                                    l’ali hai formate, come un vespertilio,

5                                  perché i denti mi ostendi, e leto, arridimi,

                                    e pur la fronte, in cachinnando, hai torvula?

                                    Or che chiedo in mercé del mio servizio,

                                    che a un tocco sol del magistral mio baculo[322]

                                    Panfilo informi un novo spirto, e tornisi

10                                colla sua vedovella in lieta copula,

                                    tal che n’escluda il nebulon di Penulo,

                                    che colla gelosia mi scalpe e crucia.

                                    ..............................................................

                                    Odo le voci tue qual tintinnabulo[323]

                                    l’orecchio mio pulchre ed argentee allicere.

15                                Ma tu ti scusi, e a me volgendo il podice,

                                    mi posterghi, mi sperni, e floccipendimi:

                                    o spiritel, se tu non mi commiseri,

                                    perché ognor vieni entro del mio cubiculo,

                                    e alla sinistra ognor mi parli e voliti?

20                                Deh, come è più soave dell’ambrosia,

                                    più del nettare dolce il tuo colloquio,

                                    fra cui degno mi fai di qualche suavio,

                                    così mi sia in oprar men duriusculo.

                                   ..............................................................

                                    ..............................................................

                                    O maladetta torma, che interrompemi

25                                i tuoi sermoni, e veggio ben che mettiti,

                                    nel venir de’ profani, al labbro il digito.

                                    Si trasferisca il suaviloquio in crastino.[324]

 

 

                                   SCENA NONA

 

                                   Cavalier Marino, Mirtilo, e detto.

 

            c. marino       Ma non hai tu per la Rachele e l’Adria,[325]

                                   l’una una tua pastoral, l’altra maritima,           

                                    ne’ teatri natii lombardi veneti

                                    rappresentate da Flaminia e Lelio,

5                                  fama qual più bramar potea dramatico?

                                   Ma chi mai t’inspirò l’idee bucoliche

                                    e le aquatiche al par di me, che tessone

                                    nella mia Lira una sì lunga istoria?

                                    Sienmi gli arcadi ingrati, e dovrallo essere

10                                Mirtilo ancora? Onde me nieghi accogliere

                                    in suo compagno ad aguzzar le satire

                                    contro la a noi non esorabil Sostrata,

                                    ma non già tale a quel villan di Penulo,

                                    che fa mezzani i versi miei per vincere

15                                il cuor di questa sua folle Artemisia;

                                    e me di morte anche minaccia, e giurami

                                    che mia testa, se parlo, andrà per aria.

                                    Per mercede o timor sinora io tacquimi,

                                    ma poiché Lofa in solfeggiando or pubblica

20                                gli amori suoi, la sua viltà, la timida

                                    natura sua, non lo pavento, e gridolo.

            mirtilo          Pria ch’io risponda, o cavaliero, all’ultimo

                                    de’ tuoi discorsi, uopo è che al primo io replichi,

                                    e ch’onde incominciasti anch’io cominci.

25                                Gli argumenti bucolici e maritimi

                                    trattasti, è ver, né ti fu pur incognita

                                    la maestà delle grandezze eroiche,

                                    scrittore immenso e rimator mellifluo;[326]

                                    né de’ tuoi pregi è sconoscente Arcadia;

30                                ma conosce altresì che insaziabile

                                    di vagar, sia per dritto o per rovescio,

                                    dove l’ingegno a la follia trasportati,

                                    e fiori e spine e gemme e fango mescoli;

                                    qual torrente che ruoti e chiare e torbide

35                                acque di piogge e di ruscelli, e incorpore

                                    diroccate capanne, e tronchi inutili,

                                    pastori e greggi, e ciò che in esso incontrasi.

                                    Tu sai parlar, ma in ogni tempo; e mancati[327]

                                    l’anche a tempo tacer; ché l’eloquenzia

40                                in fiacca alfin loquacità degenera

                                    qualor non è sol liberal, ma prodiga.

                                    Già non lodo nel dir certa avarizia

                                    che tai cotai del Cinquecento affettano

                                    mal chiragrosi, estenuati e maceri;[328]

45                                ma lodo ben l’economia che agli arcadi

                                    convien, come a pastor puliti e poveri,

                                    che tanto dan quanto bisogna, e serbano

                                    quel che, senz’ uopo, è follia lo spargere.

                                    Fior più vaghi de’ tuoi non Cinto o Menalo[329]

50                                nudron nelle pendici alme odorifere,

                                    ma tanto sterpo e tanta spina imprunali,

                                    che a rischio uom va di punzicarsi in coglierne,

                                    e non pratica man per tema astiensene.

                                    Gemme più fine delle tue non splendono

55                                dove i raggi del dì nascono e muoiono,

                                    ma tal fango le involve, che pericola

                                    di lordo uscir chi si avventura a sceglierle.

                                    Per altro io teco or non ricuso in satire

                                    tutto cangiarmi; e saettar qual istrice

60                                costei che gia delle nostr’alme a caccia,

                                    e cade essa alla rete indegna e tesale

                                    da un vil soldato. In faccia sua me Cloride[330]

                                    accoglierà, me sorridente, e l’arcade

                                    selve del non suo nome incise crescano.

 

 

                                   SCENA DECIMA

 

                                   M. Cecco, e detti.

 

            m. cecco        Non canterò più qual per me soleasi,[331]

                                   poiché ognor sospirar nulla rilevami.

                                    S’appressa il giorno, ond’io già son destatomi:           

                                    senza la spada amor regga suo imperio;

5                                  chi smarrita ha la strada, indietro tornisi:

                                    chi non ha albergo, sovra il verde posisi.

                                    I’ diè in guardia al soldato, e più non pentomi;[332]

                                    grave soma è un mal fio per chi mantienselo;

                                    quanto posso mi spetro, e solo io restomi:

10                                di là dal rio passato è il merlo: invitovi

                                    a rimirarlo, o Cavaliero, o Mirtilo.

                                    Ama chi t’ama, è antico omai proverbio.

                                    Brama un’altera donna un amico umile;

                                    e male il fico al mio parer conoscesi.

15                                Forse ogni uom che m’ascolta non intendemi.

 

            c. marino       Cecco, io t’intendo, e sin dentro alle tenebre[333]

                                    dei profondi apoftegmi acuto io penetro.

                                    Feriam tutti uno scopo, e instabile femmina[334]

                                    debil sarà, cred’io, ritegno ed argine

20                                al gran torrente delle nostre ingiurie.

 

 

                                   SCENA UNDECIMA

 

                                   Lofa, Cornia e detti.

 

            lofa               Cedono il canto, or che l’Aurora affacciasi,[335]

                                   i rauchi grilli agli augelletti amantisi

                                    sul margine odorifero: Lucifero

                                    versa rugiade, e vuol che il giorno cantisi.

5                                  Cedono il canto ecc.

 

            cornia           Cent’anni è ch’io ti cerco, e mai non trovoti.

 

            lofa               Cosa dirò, ché di sognar pur sembrami.

                                    Due vidi, uom, donna, ir mascherati, e all’albero

                                    aridi quarti immantinente appendere;

10                                poi fuggir ratti, e me guatar fuggendosi,

                                    e me con atti minacciar, s’io timido

                                    non mi astenea dal seguitarli, e volgere

                                    mi fer sin l’occhio ad altra parte, o Cornia,

                                    perché la man m’instupidì sul cembalo,

15                                e diè pace alle corde, e privò l’etera

                                    del dolce suon che i venticelli inebria

                                    della bell’armonia, con ch’essi imparano

                                    a susurrar fra i ramoscei che piegano,

                                    e le cime dei fior legano e slegano.

 

20        cornia           Or siamo in porto.[336]

 

            mirtilo                                              Or siamo in porto, o Cloride,

                                   salvo è il buon mastro della petrarchevole.

 

            c. marino       Sì, se noi tacerem quel che fòra empio

                                    tacer d’un’empia. E qual altro cadavere

                                    sostituito aver potrà che il misero

25                                corpo di lui ch’ella piangea con lagrime

                                    di cocodrillo in quella tomba?

 

            m. cecco                                                        Or eccoli.

 

            cornia           (A parte) Misera me, costor già l’indovinano.

 

            m. cecco        Io lodo il gran disdetto, e lo ringrazio,[337]

                                    e de’ scorsi miei danni or piango e ridomi.

 

30        cornia           Scifra a Laureta tua gli oscuri oracoli.[338]

 

            m. cecco        Io già m’intesi: or chi lo puote, intendami.

 

 

                                   SCENA DUODECIMA

 

                                   Sostrata, Penulo, e detti.

 

            sostrata       Cornia, ché non si appresta all’accademia

                                   il dovuto apparato? A me perdonisi

                                    il recitar, ché questa notte in lagrime

                                    tutta ho consunta a deplorar la perdita

5                                  dell’amato mio sposo, il qual, fra nebbia

                                    caliginosa di cordoglio, apparvemi

                                    a far più triste agli occhi miei le tenebre;

                                    onde il sonno cacciò col sogno orribile.

                                    Ma il placherà la lode sua, che vittima[339]

10                                grata gli fia più che se a lui svenassersi

                                    cento ecatombe d’animai cornigeri.

 

            penulo           Il madrigale io spaccerò, cui tolsemi[340]

                                    pronunciar quel mio mortal deliquio

                                    che mi lasciò fra le tue braccia esanime.

15                                Cavalier, siedi a me vicino.

 

            c. marino                                                      O Penulo,

                                   già so quanto sei vil: già più non temoti;

                                    so le fortune tue, so le tue macchine,

                                    che testé da un capestro hanti a far pendere.[341]

                                    Sono le imprese tue sedur le vedove,

20                                vïolare i sepolcri, e gli onorevoli

                                    busti de’ morti in bel trofeo d’infamia

                                    lacerati e sospesi esporre all’aria.

                                    Me più tosto richiami all’ombre elisie

                                    la cruda parca, ch’io soffra o disimuli

25                                il disonor che per te fassi a Sostrata,

                                    la spasimata, e la sì fida a Panfilo,

                                    ch’or di sacrificarlo a tue lascivie

                                    dovria lassa arrossire, e sen fa gloria.

                                    Poco è rubar l’altrui fatiche...

 

            sostrata                                                       Eh cacciale[342]

30                                quella spada nel fianco.

 

            c. marino                                           E come io temone,

                                    se alla spadaccia sua legato è Penulo,

                                    ond’ei pende da quella?

 

            penulo                                              Io compatiscolo

                                   sì come un pazzo; e vuol virtute eroica

                                    che il superbo si domi al vil perdonisi.

 

35        mirtilo           Il tuo timor colla pietà si pallia.[343]

                                    Tu vedi ben che, se giammai venisseti

                                    talento in cuor di un sol capello torcergli,

                                    minaccia te la verga mia, che al cranio[344]

                                   già ti sovrasta a stritolarlo in polvere.

40                                Ne ho prova già su più d’un lupo, e sparsine[345]

                                    di un colpo solo in sull’erbetta il celabro

                                    che, rotto e sparso, agli avoltoi fa pascolo,

                                    applaudendomi i cani, e, saltellandomi,

                                    di gioia in segno, intorno intorno i teneri

45                                agnelletti, che pria si ascoser pavidi

                                    sotto le poppe delle madri timide.

                                    Felice me, che ti conobbi, o Sostrata,

                                    e ti lasciai per vaga ninfa e facile,

                                    che seguirammi in queste selve, e sorgere

50                                farà qua un fiore e là un ruscello al volgere

                                    d’un sol suo sguardo, e può, quand’ella voglialo,

                                    veder suo nome in queste scorze incidersi,

                                    e in un con esse e coll’amor mio crescere.

                                    Tal mercede un pastor ti serba, o Cloride.

 

55        m. cecco        Io avrò sempre la fenestra in odio[346]

                                    onde amor co’ suoi strali il sen trafissemi;

                                    e dal ciel fiamma in sulle trecce piovati,

                                    malvagia donna, poiché tanto giovati

                                    il male oprar, serva di gola e d’ ozio,

60                                in cui l’ultima prova fe’ lussuria.

                                    Colmo hai già il sacco, o avara Babilonia:[347]

                                    or vivi sì che il lezzo anche al ciel giungane;

                                    e qui, ‘ve Laura mia da me dividemi

                                    amor, stiamo a veder la nostra gloria.

 

65        sannione       Di qual ira intumesconmi i precordi?

                                    E di qual sangue a me l’epate inflammasi?

                                    Già scoppiar mi sent’io la cistifellea

                                    contro costei, che, spreti noi, mio demone,[348]

                                    sol magnipende un sicofanta, un Penulo.

 

70        sostrata        Perché sotto il mio piè terra non apriti,[349]

                                    quanto meglio per me fòra in Cosmopoli

                                    non affettar virtù più che femminea,

                                    e quella posseder che a donna ingenua,

                                    e non saputa, e non viril convienesi.

 

75        penulo           Sei sì tosto pentita, o petrarchevole?

 

            sostrata       Maladetta sia pur di petrarchevole

                                    tanta albagia che a tal viltà strascinaci!

 

            penulo           Miseri noi, ci abbandonò fin Cornia,

                                    or che costor ci fan le fiche e ridono.

 

 

                                   SCENA ULTIMA

 

                                   Cornia (coi custodi dell’ospitale), e detti.

 

            cornia           Io, di cui si favella, a voi presentomi,[350]

                                   a vostro pro non infedel, non timida.

                                    Ecco i custodi dell’infausto ospizio,

                                    ch’io condussi a punir l’altrui stoltizia.

5                                  Venite avanti, o guardïani. Aggiransi

                                    costor liberi troppo intorno al tumulo;

                                    e, senza aver per gentildonna e vedova

                                    il dovuto rispetto, audaci insultano

                                    la mia padrona, e me zitella insidiano.

10                                Già mille fole ad infamarci inventano,

                                    e, benché pazzi sien quei che le narrano,

                                    e perciò sien da giudicarsi aeree,

                                    non è però che da punir non sieno.

                                    Or che a’ servigi suoi prescelto ha Penulo,

15                                osan dir che l’adori, e ch’ei posseggane

                                    (orribil cosa a raccontarsi!) il talamo;

                                    che più tosto, più tosto il ciel la fulmini

                                    ch’ella, o pudor, le leggi tue mai violi.

                                    Chieggo però che flagellati or danzino

20                                ad onta loro, e capriole trincino,

                                    la mercé vostra, in lor emenda, e chiudali,

                                    come a pazzi convien, perpetuo carcere.

                                    Cecco accuso, il Marin, il mago, e l’arcade,

                                    ma Lofa no, ché almen si tacque, e astennesi

25                                dal secondar le altrui ribalde ingiurie.

                                    Ma stiasi ei pure a solfeggiar nell’aere,

                                    e sol tocchi e ritocchi il clavicembalo

                                    de’ suoi consorti al saltellar ridevole,

                                    ma che per lor fia pizzicante. All’opera.

 

30        m. cecco        Ahi le spalle![351]

 

            c. marino                               Ahi le braccia!

 

            sannione                                                      Heu me! Le natiche!

 

            mirtilo          Ahi, che appello, ma indarno, al mio collegio!

 

                                    Termina colla sferzatura, e col ballo ecc.

 

                                   Il fine

 

 

 

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[1] Per maggiori dettagli si rimanda alla Nota biobibliografica di Hannibal S. Noce nella sua edizione di Martello, Scritti critici e satirici, cit., pp. 497-509.

[2] Lo aveva già rilevato con puntualità la pur benevola, ampia recensione di Fido, Il “ritorno” del Martello e una recente edizione del suo teatro, cit.

[3] Dal proemio a Gli occhi di Gesù, in Scritti critici e satirici, cit., p. 510.

[4] eccellentissimo Teleste: è lo pseudonimo pastorale di Giovan Battista Recanati (1687-1734 o 1735), «patrizio veneziano e accademico fiorentino», presente con 19 sonetti nel secondo tomo delle Rime degli Arcadi curate a Roma dal Crescimbeni nel 1716; egli fu anche autore di un’edizione di Bracciolini, Poggii historia florentina nunc primum in lucem edita. Notisque, et auctoris vita illustrata ab Jo. Baptista Recanato Patritio Veneto, Academico Florentino, Venetiis, anno MDCCXV, apud Jo. Gabrielem Hertz, criticata da un teologo ugonotto francese alle cui osservazioni polemiche rispose con le Osservazioni critiche ed apologetiche sopra il libro del Sig. Jacopo Lenfant intitolato «Poggiana», fatte da Giovambatista Recanati patrizio veneto, e della Società Reale di Londra, in Venezia, per Giovambattista Albrizzi, 1721. In quello stesso 1716 aveva inoltre curato l’antologia di Poesie italiane di rimatrici viventi (già ricordata nell’Introduzione), a cui si fa riferimento nel quarto atto della commedia. Appassionato di teatro e legato all’entourage di Apostolo Zeno e di Scipione Maffei, a cui dedicò la sua tragedia Demodice (uscita a Venezia sempre presso il Coleti nel 1720, e ristampata l’anno successivo a Firenze presso il Manni), aveva patrocinato con fervore la rappresentazione dell’Adria di Martello al teatro San Luca di Venezia il 30 gennaio 1715 recitata dalla compagnia di Luigi Riccoboni (su cui cfr. la nota al testo di Noce in Teatro, II, pp. 765-768 con i carteggi relativi fra Riccoboni, Martello e Recanati). La decisione del Martello di pubblicare la commedia Che bei pazzi si intreccia a questo problematico ‘fiasco’, all’interno di una precisa strategia drammaturgica, di cui il patrizio veneziano, appassionato di teatro e di donne savantes, è interlocutore privilegiato. Su di lui si rimanda al già citato saggio di Pizzamiglio, Poetesse italiane nel solco di Petrarca.

[5] di quel racconto che Petronio Arbitro: la storia della Matrona di Efeso è un celebre inserto novellistico (legato al genere licenzioso della fabula milesia) interno al Satyricon di Lucio Petronio Arbitro, prosimetro latino del primo secolo dopo Cristo che parodizza il romanzo greco d’amore e d’avventura; la commedia di Martello ne ricalca fedelmente l’impianto, con accentuate sottolineature nere e grottesche. Ricordiamo il precedente di Eustachio Manfredi, amico e co-autore con Pier Jacopo di vari libretti per musica, che aveva a sua volta volgarizzato la Novella della vedova efesina (in Prose e rime pastorali degli Accademici Difettuosi, composte in occasione dello sposalizio fra i signori conte Guid-Ascanio Orsi e signora contessa Caterina Orsi, Bologna, Tipografia alla Rosa, 1709, pp. 60-64; poi ristampata in Prose degli Arcadi, vol. II, Roma, A. De’ Rossi, 1718 e in Rime, Bologna, 1760). ♦ o, per capriccio compostala: una prima ideazione della commedia, magari in forma di recita accademica, potrebbe risalire al 1706, come fa pensare il preciso riferimento cronologico contenuto al verso IV.2.119, dove Marino dichiara che sono passati 137 anni dalla sua nascita (avvenuta nel 1569).

[6] la Scolastica dell’Ariosto: l’esperimento tentato da Luigi Riccoboni, nella stagione di carnevale del 1716, di recitare al pubblico veneziano una commedia regolare in versi sdruccioli fu, come è noto, disastroso: il pubblico del San Luca collegava al nome di Ariosto materia e personaggi cavallereschi e rimase disorientato; Flaminia, la primadonna che era sempre un punto di forza per la compagnia, non vi aveva parte e la recita si dovette interrompere. L’episodio è collegato, nella tradizione critica, alla decisione degli attori di partire per la Francia, arrendendosi all’impossibilità di ‘riformare’ le scene italiane. Ma la partenza era già stata fissata da tempo, e forse le cose sono più complicate e gli eventuali ‘committenti’ di questa rischiosa proposta scenica restano ancora da mettere a fuoco. Lelio, a distanza di anni, sembra assumersene la piena responsabilità: «Scielsi fra le comedie in verso de l’Ariosto la Scolastica, come la meno libertina, e con qualche alterazione, cioè levandoci un frate, e sostituendo altro decente personaggio in sua vece, moderando lo scioglimento col sfugire uno stupro, e cambiando in circa cento e cinquanta versi, la posi su la scena nella città di Venezia dove mi trovavo; ma fu con tale sfortunato successo, che doppo una smoderata inquietudine de’ miei spettatori fu necessario di finirne la rappresentazione al principio de l’atto quinto. I più sciocchi del mio numeroso uditorio si credevano che la Scolastica fosse l’Orlando furioso travestito in comedia, e la gioventù ancora più studiosa e colta non sapeva che l’Ariosto avesse mai fatto comedie. Al’ora fu che giudicai disperato il rimedio» (Luigi Riccoboni, Discorso della commedia all’improvviso e scenari inediti, a cura di Irene. Mamczarz, Milano, Il Polifilo, 1973, pp. 8-9). Fu una cocente delusione che, su vari fronti, smorzò parecchi entusiasmi in materia di riforme teatrali. Rivolgendosi idealmente allo stesso Ariosto, Mirtilo/Martello rievoca in termini simili la serata disastrosa ne La rima vendicata (II, 2, 361 e sgg): «[....]Non ben da te si mastica / ch’Adria, quant’è, sdegnasse soffrir la tua Scolastica, e pur lei sui teatri spiegar Lelio e Flaminia, / di quai sì ben gli affetti l’un pinge e l’altra minia. / Presente era Vinegia; pendeano attenti i visi/di ben cento ottimati tutti a dar plauso assisi: / recitavasi a tali, che udian sì volentieri / l’Orlando tuo sui remi cantar da’ gondolieri: recitavasi a tali, cui trar solean que’ carmi / per Po suso a Ferrara per baciarvi i tuoi marmi, / venerandovi quasi prostrati il simolacro / dell’italico Omero, che assiste al cener sacro; / e pur sull’infelice metà della commedia, / chi sbadiglia, chi s’alza, chi parte, e chi s’attedia: / si sussurra, e si grida (cosa a narrarsi orrenda) / che si cali, e si cala devuta alfin la tenda» (Teatro, I, p. 567). ♦ Lelio e Flaminia, egregi comici: sono i nomi d’arte di primi amorosi della celebre coppia composta da Luigi Riccoboni (1676-1753) ed Elena Balletti (1686-1771), attori di prestigio che in quegli anni dialogavano intellettualmente con i circoli letterari veneti, in particolare intorno a Scipione Maffei, e recitavano sulle scene dei teatri veneziani San Luca e San Samuele al soldo di Alvise Vendramin. ♦ ha potuto qualcuna delle mie tragedie e la marittima non sol tollerare, ma generosamente encomiare: lo stesso Lelio, d’intesa con Maffei e Orsi, aveva portato il teatro di Martello al pubblico pagante: l ‘Ifigenia in Tauris, dopo un fortunato debutto al teatrino dell’Arena di Verona (tradizionale spazio per ‘testare’ in anteprima le novità da proporre a Venezia) il 27 agosto 1711, era stato riproposta al teatro san Luca nella stagione d’autunno, e poi anche a Vicenza, Modena e Bologna negli anni seguenti; nel 1712, durante la Quaresima, era andata in scena, sempre al San Luca, la biblica Rachele, e il 30 gennaio 1715 l’Adria. Tutti successi (ricordati anche in Che bei pazzi V, 9, 474) di cui il Martello, sempre così esitante e spaventato dal confronto scenico, era molto orgoglioso, e che ricorda con compiacimento anche ne La rima vendicata II, 2, 377 e sgg.

[7] nel verso sdrucciolo aveva per avventura imitato: Martello aveva aggiornato gli endecasillabi sdruccioli di Ariosto, elaborando un verso, che da lui si dirà martelliano, composto da una coppia di settenari a imitazione dell’alessandrino francese; pur consapevole dell’ostinato «pregiudicio in cui sono le teste italiane di voler per tutto ornamenti da lirico, e forme di dire o petrarchevoli o chiabreristiche», egli contrappone all’imperante e superficiale musicalità in voga sui palcoscenici italiani un linguaggio volutamente artificioso ma anche colloquiale: adatto a «come debba parlare un attore», «che paia prosa legata; ma se poi la slegarete alla prova vedrete non esser prosa, et avere anche questa sorta di locuzione il suo poetico, quantunque assai naturale e modesto» (Lettere, rispettivamente pp. 48 e 49).

[8] ed io questo più tosto che quelli abbiam seguitato: nella sua ideale enciclopedia delle forme drammatiche Martello associa la commedia letteraria, piuttosto che al modello latino attestatosi dal Cinquecento in poi, a quello aristofanesco, di cui apprezza la carica satirica e l’artificiosità teatrale (in nome di quel verosimile «finto» che secondo lui pertiene alla scena); le sue riflessioni su Aristofane sono affidate alla prefazione all’ Euripide lacerato, composto a ridosso di Che bei pazzi probabilmente nel 1716, e ad essa accomunato da una marcata ed esclusiva destinazione letteraria (cfr. Teatro, I, pp. 423-429); al comico verosimile e pedagogico di marca plautina e terenziana (a cui si rifà Ariosto) pensa dunque di poter sostituire con miglior profitto un riso mordace e satirico di natura intellettuale. ♦ prenduti in mira ancora gl’ingegni: «Parmi che Aristofane abbia calcato una strada da umano piè non prima battuta, introducendo in teatro le critiche non solamente de’ costumi, ma de’ poemi e degli stili: satira, che a’ dì nostri per me si è promossa, siccome quella che, tendendo unicamente ad emendar gl’ingegni, lascia in un canto e nella lor pace i costumi» (Esamina dell’Euripide lacerato, Teatro, I, p. 427). Nella lettera di dedica premessa a Il segretario Cliternate al Baron di Corvara di satire libro del 1717, ritorna questa esplicita distinzione fra satira di costume (sostituita egregiamente nei tempi moderni dalle prediche religiose, più efficaci nel dissuadere dai vizi) e satira di idee: «Noi però, dai costumi alienandola [la satira], abbiam voluto accostarla ai soli errori degl’intelletti nelle materie letterarie. mettendo coloro in ridicolo che per via di negozi e di traffichi affettano fama, che è il vizio moderno della falsa e, purtropppo, ancora della vera letteratura» (Scritti critici e satirici, p. 73).

[9] tanto nelle cose quanto nelle parole, secondo il mio pensamento cercato veracemente il ridicolo: nell’impianto rigorosamente aristotelico del suo ragionamento, in commedia la favola, i personaggi, i costumi e l’apparato devono essere in tutto «ridicoli», ed esigono il corrispettivo di un linguaggio verbale intrinsecamente altrettanto comico dal punto di vista ritmico, stilistico e retorico, di cui passa in rassegna tutte le componenti e le fonti in questa lettera di dedica. Scommessa, evidentemente, ardua da onorare. ♦ Antonio Riccobuoni: il riferimento è all’opera di Antonio Riccoboni (1541-1599), professore dello studio padovano: Aristotelis Ars Rhetorica ab Antonio Riccobono Rhodigino I. C. Humanitatem in Patavino Gymnasio profitente latine conversa... Aristotelis Ars Poetica ab eodem in latinam linguam versa. Cum eiusdem de re comica disputatione, Cum Privilegio, Venetiis, apud Paulum Meiettum, Bibliopolam Patavinum, 1579. La Disputatio de re comica (alle pagine 431-457) è stata edita modernamente a cura di Bernard Weinberg nei Trattati di poetica e retorica del Cinquecento, vol. III, Bari, Laterza 1972, pp. 255-276. Martello utilizza questo testo, citandolo più volte a memoria con qualche inesattezza, mentre traduce alla lettera i passi del Galluzzi. ♦ Tarquinio Galuzzi: il gesuita reatino Tarquinio Galluzzi (1573-1649), professore di retorica, celebre oratore e severo rettore di collegi e seminari romani, fu allievo di Bernardino Stefonio il più autorevole autore di «tragedie cristiane» per i collegi della Compagnia di Gesù e fissò la poetica ufficiale dell’ordine nelle sue Tarquinii Gallutii Sabini e Societate Jesu De Antiquorum Comoedia Commentarius, compreso nelle Virgilianae vindicationes et Commentarii tres de tragoedia, de comoedia et elegia, Romae, Ex Typographia Alexandri Zannetti, 1621. ♦ che la cosa, o il detto ch’eccita il riso, null’altro sia se non vizio e turpezza senza dolore: «ridiculum hoc est: rem dictumque concitans risum, nihil aliud esse, nisi vitium et turpitudinem sine dolore» (ivi, p. 340 nel capitolo VIII Quae sint causae ridiculi, quibusque sit e fontibus petendus risus).

[10] Le maschere ancora de’ miei tre vecchi...: Martello precisa con molta puntualità l’immagine scenica dei suoi personaggi (quattro in maschera e quattro senza), tutti, sia pure in gradi diversi, fisicamente deformati in chiave «turpe», cioè grottesca, esagerandone espressionisticamente le anomalie fisiche e psicologiche. I quattro poeti pazzi presi di mira —i tre «vecchi» e il non vecchio Mirtilo/Martello, messo alla berlina con qualche riguardo in più— adottano maschere flessibili che coprono tutto il volto, ma sono articolate in due pezzi separati per agevolare la dizione. ♦ inciso dal rinomato Fiamingo: il Marino irrompe in scena in II.6.113 vestito alla spagnola, stralunato, lacero e incoronato di alloro, sulla falsariga del celebre ritratto che gli fece nel 1621 il pittore olandese Frans Pourbours il Giovane. ♦ messer Cecco con quella cocolla: un’altra grottesca e idolatrica incarnazione, affidata a minuti e feticistici dettagli: cfr. il testo in IV.2.31 (che allude all’icona vulgata del Petrarca «cocollato e chierico»), e in II.6.33 (sul «ritrattino in tavola» di Laura che messer Cecco si porta attaccato al collo). ♦ il Pedagogo poi...: il personaggio fonde qui quelli del Dottore e del Mago e si esprime in una lingua maccheronica e oracolare; un altro Pedagogo, che parla latino, e che si contrappone al Rimatore Mirtilo, compare ne La rima vendicata.

[11] Mirtilo, che è l’autore: l’autoritratto metateatrale pecca di una certa indulgenza: la maschera arcadica richiama le fattezze dell’autore Mirtilo Dianidius raffigurato nell’incisione che decora l’antiporta del primo volume delle Opere, Bologna, 1723-1735. e così descritto in un affettuoso sonetto-ritratto composto dall’amico Eustachio Manfredi: «Agil gamba, agil fianco, agile imbusto, / buon color, fronte aperta, occhio amoroso, / sottile il labbro, un sotto l’altro ascoso, / naso lungo aquilin fra il grande e il giusto. // Venerabile il tergo, il passo onusto, / alta la testa, il portamento arioso, / parlar soave ed atteggiar vezzoso, / francese l’aria e spagnoletto il fusto. // Un conversar giocondo, un naturale / affaccendato disinvoltamente, / di grand’impegno e di ripiego uguale, // il carattere in volto di una mente / piena d’alti pensieri, fra quai prevale / la gran tranquillità del non far niente.» (Eustachio Manfredi, Rime scelte, a cura di Francesco Foffano, Reggio Emilia, tip. Ariosto, 1888, p. 75). ♦ poche sono l’opere sue dov’egli non si faccia seguitare dagli armenti...: «la rivendicazione più esplicita per il pastorale cantore di una dignità che è forse più umana che letteraria verrà pronunciata da Pier Jacopo Martello nel Ragionamento intorno allo stato presente degli Arcadi del luglio 1710 in Bosco Parrasio (cfr. Prose degli Arcadi, II, Roma, A. de Rossi, 1718, pp. 164-174)» (Maria Grazia Accorsi, Pastori a teatro: dal melodramma al dramma ebraico, ne La Colonia Renia, II, p. 279). ♦ la mascheraccia di Lofa...: l’eunuco musicante, grassissimo e grinzoso, che reca a tracolla uno spinettino a tastiera, è infatti descritto da Sostrata in II.7.23-27 con un «faccia, a mirarla, e vecchia e giovine, / sì è crespa e imberbe, ond’è che in lei si accoppino / apparenze di maschio e in un di femmina». Mentre il Soldato, come tutti gli amorosi, recita senza maschera addobbato in un vistoso costume guerresco, alla maniera dei Capitani della Commedia dell’Arte.

[12] quando ciò che da lungo tempo desiderammo accade giocondissimamente all’animo nostro: « risum excitantia duo sunt: ea, quae longo iam tempore desideravimus, quaeque animo nostro accidunt iucundissime» (T. Galluzzi, Commentarii, cit., p. 348 nel capitolo X De rebus ipsis quae dicuntur agunturque ridiculis). La lista di questi topoi comici stesa dal Galluzzi amplia, ma ricalcandola quasi alla lettera, quella del Riccoboni (cfr. De re comica, cit. p. 275).

[13] quando alcuni errori, sbagli ed innezie degli altri incontriamo: «et ea quae quosdam habentes errores, ineptias, et deceptiones aliorum» (Galluzzi, Commentarii, cit., p. 348 nel capitolo X De rebus ipsis quae dicuntur agunturque ridiculis). ♦ taluno constituito in età avanzata ignori quello che san perfino i ragazzi: «neque enim facere possumus, quin rideamus, cum aliquos intuemur ea nescientes quae vulgo sciutur ab omnibus. Cuiusmodi erat Homeri Margites: qui adultus, et iam virilem provectus aetatem, ambigebat a quo nam ipse fuisset ex utero in lucem editus: a patre ne, an a matre» (ivi).

[14] Il secondo ridicolo nasce o dall’ebrietà, o dalla frenesia, o da qualche sogno: «Secum nascitur ex ebrietate, aut a phrenesi aut ab aliquo somnio» (Galluzzi, Commentarii, cit., p. 348). ♦ Il terzo deriva dall’ignoranza di certe arti o dall’estimazione imprudente ed insana delle proprie forze, lo che opera che alcun confidi di potere, o sapere far cose, le quali affatto ignora e fare non puote: «Tertium ex ignoratione oritur aliquarum artium, aut virium aestimatione suarum imprudenti, et insana: qua fit ut ea scire, ac facere se posse confidat aliquis, quae prorsus ignorat, ac facere nequit» (ivi). ♦ che si dicono soldati gloriosi, predicando di aver espugnati eserciti, alloggiamenti e città, allorché sono vilissimi, com’è la tracotanza trasoniana presso Terenzio: «ex hoc item genere sunt milites gloriosi, qui praedicant urbes, exercitus, castra, genus humanum uno se spiritu difflasse, evertisse montes, pugno elephantos comminuisse. Quo facile revoces Griphum illum piscatorem in Plauti Rudente» (ivi). Questa volta la citazione è imprecisa, sostituendo l’esempio del Gripo plautino del Rudens con quello terenziano di Trasone dell’Eunuchus (che è per l’appunto un soldato).

[15] Il quinto s’aggira circa le trappole nelle quali talun s’induce a cadere senza suo gran detrimento: «Quintum contra habet insidias quasdam minime vitatas, ac declinatas, sed eas tamen quae non ita magnum afferant homini decepto detrimentum» (Galluzzi, Commentarii, cit., p. 349).

[16] Altri luoghi topici del ridicolo addita il Galluzzi nel cap. XI...: intitolato «De aliis quibusdam locis. Unde peti dicta et ridiculum queant» (Commentarii, cit., pp. 349-353). Il riferimento ciceroniano è all’excursus «de ridiculis» nel secondo libro del De oratore (235 e sgg.), in cui si discute dell’origine del riso, dell’opportunità e dei limiti con cui servirsene da parte dell’oratore, e dei tipi convenienti di ridicolo da adottare. ♦ Succede il paragramma, e la paranomasia, o sia allitterazione: «Secundus est paragrammata, sive paranomasia. Latine dici potest allitteratio» (Galluzzi, Commentarii, cit., p. 350). Si tratta di una figura retorica che consiste nell’accostare parole simili nel suono ma di significato diverso. ♦ come per ragion d’esemplo sarebbe: il riferimento è, rispettivamente, a II.1.91; II.2.128; III.3.129; III.3.39; III.3.44.

[17] Il terzo fonte è l’equivoco: «Tertius ambiguo continetur, et amphibolia» (Galluzzi, Commentarii, cit., p. 350) Si tratta di un discorso o di un’espressione sintatticamente ambigui, che consentono interpretazioni diverse. ♦ il verso di Sannione latinizzato: la citazione si riferisce a IV.4.177, che però recita «est l’amor del poeta, o l’est del Penulo?». ♦ Come pur l’altro di Sostrata...: anche qui la citazione di V.6.3 è imprecisa: «per rinovare il sacrificio a Panfilo». ♦ per la uniformità che ha col soldato plautino: in verità il soldato plautino per antonomasia è Pirgopolinice, protagonista del Miles gloriosus, mentre il nome di Penulo ricalca il titolo del Poenulus,(cioè il giovane cartaginese). L’onomastica classicheggiante è ben poco filologica, come di consueto, del resto, nella librettistica e nella drammaturgia dell’epoca.

[18] Il quinto è la parodia. mercé di cui si abusano alcuni passi di nobili autori, o nulla o poco mutati, per renderli affatto ridevoli..: «Quintus habet parodiam, quae versus aliquos poetarum nobilium perparum immutatos, aut ne immutatos quidem in alicuius hominis irrisionem convertit» (Galluzzi, Commentarii, cit., p. 350). ♦ essersi nel secol d’ oro musicalmente parlato: cfr. la scena sesta del secondo atto.

[19] quand’uno col detto e col fatto palesa il vizio dell’animo suo: «Ac ridiculi quidem definitio ex Aristotele colligitur ut sit, quod movet risum, ex turpitudine aliqua aut corporis aut animi aut rerum extrinsecus positarum, quae turpitudo placeat» (Riccoboni, De re comica, cit., p. 272). ♦ col fatto del prepuzio di Panfilo: il dettaglio dell’evirazione è una nerissima aggiunta del Martello alla crocifissione del cadavere di cui si parla nella novella petroniana. ♦ le cose estrinseche ancora....: «Alia est turpitudo rerum extrinsecus positarum, ut generis, rei familiaris, consuetudinis impudicae» (Riccoboni, De re comica, cit., p. 273). ♦ «E come io temone...: in V.12.32 c’è «ond’ei pende da quella».

[20] laonde Cesare appresso di Cicerone...: si riferisce a Giulio Cesare Strabone, il più adatto, per indole, fra gli interlocutori del De oratore, a illustrare il già ricordato excursus de ridiculis. ♦ E mi pare che Platone nel suo Sofista...: «Definitur autem turpitudo a Platone in Sophista, ut sit recessus quidam ab eo quod naturae congruit» (Riccoboni, De re comica, cit. p. 273).

[21] m’invogliai di conservare la mia commedia: cioè di non darla alle fiamme come era stato inizialmente tentato di fare. Ricordiamo in quanti lo hanno fatto (o hanno raccontato di averlo fatto) con i propri componimenti teatrali: da Goldoni a Pirandello. ♦ suo fratello che le diè il compimento: la commedia, lasciata incompiuta da Ariosto con il titolo I Studenti, fu, come è noto, completata in due diverse versioni dal figlio Virginio e dal fratello Gabriele, che la intitolò appunto Scolastica. i savi applausi di ben sessanta patrizi. è difficile valutare se in questa sottolineatura numerica ci sia, o no, traccia di ironia.

[22] al pubblico esperimento de’ palchi venali esibita: su questa ferma posizione del Martello di volersi tenere lontano dai palcoscenici pubblici si rimanda all’introduzione. Ma osserviamo che il «popolaccio» implacabile e feroce che sovrasta i «savi applausi» degli spettatori aristocratici si rivela, subito dopo, composto di più innocui «artigianelli» che a buon diritto vanno a teatro per divertirsi con le maschere dell’Arte, e non certo con le commedie di Ariosto.

[23] all’apparir del Dottore...: questo Dottore grasso e logorroico che gesticola in dialetto bolognese, e questo smanioso Pantalone cicisbeo con sembianze di civetta fissano con perspicua e affettuosa icasticità delle istantanee sceniche cariche di verità, esulando dal tono dei tanti testimoni settecenteschi, che ci descrivono le maschere dell’Arte —guardate ma non ‘viste’— in forme appiattite e banalizzate.

[24] Finocchio è un rigiratore...: questo zanni bergamasco «sciocco e astuto nello stesso tempo, dai modi leziosi e effeminati» (Enciclopedia dello Spettacolo) nasce nel ‘500 come una variante di Brighella e riscuote un particolare successo in area emiliana, nella Compagnia del Duca di Modena, grazie al primo zanni Andrea Cimadori, sostituito nel 1686 da G. B. Paruti e nel 1689 da Carlo Zagnoli. «Attaccarsi alle paglie per non sommergersi» vuol dire ricorrere a qualsiasi trucco per cavarsela. ♦ quella sua maschera mora ritonda...: anche la descrizione di questo Arlecchino, tecnicamente accuratissima, rivela lo sguardo di uno spettatore appassionato e competente.

[25] il Coviello, il Giangurgolo o il Puccinella: tutte maschere meridionali (Giangurgolo è calabrese ed è parte di vecchio) tradizionalmente presenti negli organici delle compagnie attive in area bolognese e presso il Duca di Modena (cfr. Monaldini, Il teatro dei comici dell’Arte a Bologna, cit.).

[26] men perseguitando la moda del vivere che quella del verseggiare: l’autore si ritaglia dunque una fetta minoritaria di pubblico, accontentandosi di condividere con esso il piacere di un teatro che indaga più la letteratura che la vita reale. ♦ non danzi, ma a guisa di sciolta orazione agiatamente cammini: di questa specifica natura ritmica ma ‘prosastica’ della dizione recitativa, che vincola gli attori al testo evitando loro di incorrere in «astrattezze» e «baldanze» nefaste, il Martello è un convinto assertore, come si argomenta nell’introduzione, a cui si rimanda.

[27] Né già desidero da questa rappresentazione escluse le donne: il Martello, in una lettera al Muratori del 9 agosto 1710, riferisce di avere «avuta somma soddisfazione di avere donne per giudici, poiché le donne non son in ciò prevenute d’alcun pregiudicio poetico» (Lettere, cit. p. 51); in quel caso egli si riferisce ad una rappresentazione conventuale del Gesù perduto nel convento del Corpus Domini di Bologna e non ad un pubblico mondano. Al di là della larvata misoginia di questa commedia, la questione era spinosa e apertissima, in un contesto in cui personaggi come Muratori o Maffei aspiravano ad una drammaturgia interamente al maschile. Dopo una prima fase di attiva partecipazione dei due sessi alle recite carnevalesche private nella cerchia dell’Orsi, a partire dal 1690 nell’entourage accademico bolognese le dame intervenivano soltanto come spettatrici, e i ruoli femminili erano ricoperti da attori maschi giovani o da attrici professioniste (cfr. Guccini, Per una storia del teatro dei dilettanti, cit. p. 281).

[28] Monsignor de Molière...: il precedente delle Femmes savantes faceva scuola in materia di galanterie letterarie; nel suo soggiorno parigino dal marzo 1713 al dicembre 1714, al seguito della legazione pontificia del cardinale Pompeo Aldovrandi, Martello era stato introdotto dall’abate Conti in teatri e salotti, e ricorda due recite di questa commedia alla fiera di Saint-Germain e al castello di Sceaux, dove la duchessa del Maine Luisa Benedetta di Borbone-Condé presiedeva un prestigioso circolo letterario e teatrale.

[29] In vitium ducit culpae fuga, si caret arte: Ars poetica, V, 31.

[30] perché lasciarlo mancante di una commedia istrionica: cioè di una commedia con le maschere tradizionali dell’Arte. Ancora una volta per Martello è centrale la questione del linguaggio, con una forte (e rassegnata) consapevolezza dell’abisso che separa il testo dallo spettacolo; per cui giudica senz’altro impossibile —oltre che inopportuno per ragioni morali— tentare di restituire in forma scritta il dialetto e la recitazione dei comici dell’Arte.

[31] uno sfogo, il men nocivo che dar si possa: tollerare le improprietà licenziose della scena istrionesca come indispensabile valvola di scarico per evitare mali peggiori è argomento topico di molta trattativa controriformistica in materia, a cui il Martello si allinea totalmente. Un’ampia e appassionata difesa del valore civile e morale del teatro è affidata alla «Dedicazione» All’Illustrissimo ed Eccelso Senato di Bologna premessa nel 1723 ai due volumi del Seguito del teatro italiano (Teatro, I, cit.,pp. 653-665).

[32] In genere il Martello definisce «personaggi» o «attori» i protagonisti di tragedie, tragicommedie e drammi sacri, mentre —come in questo caso— li chiama «interlocutori» nei componimenti per musica o nella variegata serie di prove ‘estravaganti’ (satire lucianesche come Il piato dell’H, “farse di bestie” come A re malvagio consiglier peggiore, bambocciate come Lo starnuto di Ercole, ditirambi come Arianna ecc..), a cui forse si addicono stili recitativi poco naturalistici. La loro onomastica classicheggiante è genericamente derivata da Plauto, Terenzio e Menandro. Il personaggio di Mirtilo/alias l’autore ricompare anche ne La rima vendicata, «rappresentazione satirica» antipedantesca, di analogo impianto letterario, uscita a stampa nel volume quinto delle Opere del 1723.

[33] I guardiani sono detti «mimi» perché arrivano in scena, alla fine del quinto atto, in una sequenza muta e danzata. ♦ Della Cosmopoli fantastica in cui è ambientata l’azione Martello si ricorderà nella princeps de Il secretario Cliternate al Baron di Corvara di satire libro, pubblicata anonima con l’indicazione «Cosmopoli al Grifo l’anno 1717», dove riemerge la vena sarcastica della commedia e l’autore nascosto si rende altrettanto riconoscibile per indizi anagrammatici.

[34] in cui la vedovella, d’Artemisia: Artemisia, regina di Caria e vedova inconsolabile di Mausolo, gli fece erigere ad Alicarnasso un sontuoso sepolcro annoverato fra le sette meraviglie del mondo antico e chiamò i più celebri retori dell’epoca a pronunciarne, in gara, le lodi, come farà Sostrata nella commedia.

[35] che imbalsamato e non converso in cenere: il prologo richiama molti dettagli della petroniana novella sulla Matrona di Efeso.

[36] cui nella fantasia sola un’immagine ecc.: la pazzia consiste dunque, per ciascuno di loro, nella fissazione monomaniacale per la poesia, a cui si somma la follia amorosa.

[37] contro il soffiar di Borea e di Favonio: Borea è il vento che soffia da nord, e Favonio, o Zefiro, da ponente.

[38] Suggerisce ragion che mai per lagrime: la serva Cornia —motore decisivo dell’intreccio come già la sua omologa del Satyricon— esibisce una ferrea logica ragionativa di notevole effetto comico, e si rivelerà spesso, nel procedere dell’azione, dotata di un’impeccabile e competente dialettica letteraria e persino forense. Nell’ottica intenzionalmente letteraria della commedia, Martelli prova a trasformare in mimetismo linguistico caricaturale il metamorfismo scenico della parte, rifacendosi a tradizioni compositive di cui si ricorderà, per fare un esempio famoso, il Goldoni de La donna di garbo.

[39] nel comprato dolor di cento prèfiche: «grazie al compianto funebre di numerose lamentatrici prezzolate» Il vedovo evocato dalla cameriera eloquente, elaborato rapidamente il lutto, non perde tempo a guardarsi intorno in cerca di nuove nozze.

[40] alza, e delle gramaglie il lungo strasico: comica e icastica l’immagine che coglie in simultanea il gesto di sollevare lo strascico nero dell’abito vedovile e di sbirciare i balconi circostanti in cerca di qualche occasione propizia.

[41] sin che proni a vicenda i capi inchinansi: «finché, agganciati reciprocamente gli sguardi, i due arrivano a scambiarsi un discreto cenno di saluto».

[42] e noi, che il Cielo e la natura instabili: «e noi donne, più fragili degli uomini, e per natura più vulnerabili nei confronti dell’amore».

[43] che dal sesso viril bandita esageri: cioè faccia tanto più onore al nostro sesso testimoniare una virtù a cui gli uomini hanno rinunciato, giudicandola eccessiva e impraticabile.

[44] gita primiera la bella Artemisia: «la bella Artemisia non pensò se Mausolo le sarebbe stato o no fedele se lei fosse morta prima di lui».

[45] non ti sovvien di quel famoso Davalo: Sostrata allude a Ferdinando Francesco D’Avalos, marchese di Pescara, morto nel 1525 e lungamente compianto in rime e sonetti amorosi

dalla moglie Vittoria Colonna (1490-1547), il cui esempio essa intende emulare insieme a quello di Artemisia.

[46] a cui le membra han qui serbate i balsami: «di cui gli unguenti profumati hanno preservato il corpo, mentre il suo spirito aleggia libero qui intorno, mescolandosi all’aria che respiro piangendo».

[47] e l’imitazion sì poi confermasi: «e l’imitazione si radica fino al punto da risultare inestirpabile». Il furor poetico degli innnocui malati che si aggirano nei dintorni è dunque contagioso e incurabile; l’ammiccamento, quasi metateatrale, è rivolto ad una platea di letterati a loro volta a rischio di follia.

[48] E sin a quando, o Cornia: alle pratiche argomentazioni della serva, preoccupata di intisichire e morire di fame, Sostrata risponde con alti accenti di sdegno, che riecheggiano le ciceroniane Catilinarie.

[49] Chi bussa?: il testo allude, sempre con una certa precisione, all’apparato scenico fisso, ripartito in due zone visibili in simultanea agli spettatori: l’interno del sepolcro di Panfilo (in cui si svolgono varie sequenze dell’azione) e un esterno genericamente silvestre che reca sullo sfondo la forca con l’impiccato a cui Penulo deve fare la guardia. Le due parti della scena sono divise da una parete con una porta praticabile, a cui si allude al verso I.2.106.

[50] Che gaie piume ha su l’elmetto!: anche la notazione costumistica è precisa (e del resto confermata dalla dedicatoria): Penulo, poeta ridicolo ma amoroso seducente, indossa l’elmo piumato e la corazza tipica di un Capitano dell’Arte «pennacchiato tutto e nastrato, con arme lucide, antiche» da paladino medievale.

[51] né a schivo aver che da un soldato insegnisi: «e compiaciti di imparare da un soldato come vendicarti nobilmente della morte che ti ha portato via Panfilo». Penulo si adegua comicamente all’alterigia di Sostrata con un linguaggio involuto piuttosto goffo, invitandola a sfogare sui polli la sua rabbia repressa.

[52] e il pane e il cinnamomo, arosto inghiottesi: anche questi dettagli culinari sono topiche stilizzazioni comiche di ascendenza ridicolosa, replicate, tra l’altro, in una vasta iconografia: i pollastri succulenti con cui Penulo inizia il suo assedio amoroso sono dunque lessi, arrostiti e cucinati in umido con burro e cannella.

[53] Io mi sento morir se non divorovi: altrettanto topica è la controscena della serva affamata, che pure sfoggia un linguaggio alto e retorico per convincere la padrona a mangiare.

[54] o suggesti tu ancor delle Pierie: il pomposo discorso di Sostrata, che da subito scambia Penulo per un intellettuale e un poeta, resta troncato dalla candida ignoranza di lui in materia di latte delle Pieridi, le nove figlie di Pierio e di Pella che sfidarono le Muse in una gara di canto sul monte Elicona.

[55] All’aureo secolo si conformava: Penulo è pronto a rimediare alla gaffe, immediatamente rilevata da Cornia, trasformando la madre pecoraia in una pastorella arcadica da età dell’oro.

[56] Son io forse da men? Son pertichevole: gli equivoci e i clamorosi svarioni in cui inciampano gli indotti confrontandosi con la lingua colta costituiscono un altro meccanismo-cardine del comico: Penulo, scambiando «petrarchevole» con «pertichevole», si vanta di saper tenere a distanza, con la sua asta minacciosa, i curiosi che si avvicinano troppo al patibolo di cui è custode.

[57] Ve’ il campion del senato: «vedi in me il campione del Senato e del Popolo». Questa professione di civismo eroico da parte di Penulo, custode di cadaveri, risuona comica (e forse amaramente critica da parte dell’autore).

[58] Vuoi che ignota a un guerrier sia la vittoria: il soldato continua beatamente a non capire il linguaggio di Sostrata.

[59] mediterò qualche prosetta in tenere rime: la crassa ignoranza di Penulo, che ignora persino la differenza di base fra poesia e prosa, è altrettanto ridicola della pretesa fedeltà maritale di Sostrata, pronta a giurargli amore eterno «da vedova onorata».

[60] Io mi ti rendo, o Cornia: «io mi arrendo a te, o Cornia».

[61] a me tiro la porta, e fuori io serromi: con comica inversione di senso.

[62] Me la fortuna ad altri sì volubile: Penulo, dunque, nella sua carriera di carrettiere e poi di militare (ricostruita ai versi I.5.30-35), è sempre riuscito, finora, ad evitare di misurarsi fisicamente con gli avversari e di rischiare la pelle.

[63] spalle mie, che dispari avea quel piccolo: il soldato, vanitoso della propria prestanza fisica, si paragona con Alessandro Magno —che, secondo la tradizione, era basso, tozzo, sgraziato e con una spalla più bassa dell’altra— e con Scipione l’Africano, ma confonde i dati storici, assegnando al primo la conquista di Cartagine e al secondo la vittoria su Dario di Persia

[64] Ma qual barbon con toga venerabile: Sannione è uno dei tre vecchi in maschera, abbigliato in un costume da Dottore dell’Arte con «barba nera, e […] gran toga, […] magica o maestrale», come uno «spauraccio da passeri», che ricopre il ruolo comico del pedagogo e del mago e si esprime in lingua maccheronica (come anche farà un altro pedagogo, suo collega, ne La rima vendicata del 1721).

[65] quella sua verga ond’ei gestisce e rotala: la vistosa agitazione di Sannione, che descrive in aria circoli misteriosi con la sua bacchetta di mago, suggestiona e inquieta Penulo, immediatamente più che disponibile a prestar fede ai suoi incanti.

[66] e non turbar con indiscreti eloqui: «e non disturbare con le tue chiacchiere importune lo spirito che mi accompagna e mi serve, altrimenti ti farà assaggiare le sferzate e la potenza magica della mia verga».

[67] Per la mia voluptà pria voglio il demone: «prima voglio supplicare lo spirito in tua presenza, quindi chiedergli quello che desideri». Sannione parla una lingua pedantesca e latineggiante e si accinge ad un rito magico, terrorizzando il pavido soldato —che pure dovrebbe essere avvezzo al fragore (taratantara) delle battaglie— paralizzato e muto entro il cerchio magico tracciato per terra.

[68] Il mio coraggio or stringesi: Penulo sta tremando come una foglia e raccoglie all’interno del suo cuore il poco coraggio che possiede.

[69] Aspice il Socrate: «Guarda l’antico Socrate reduce dall’adilà insieme al suo demone con cui era solito dialogare interiormente senza che gli altri potessero udirli». I rapporti fra Socrate e il suo spirito-guida sono attestati da Platone nell’Apologia di Socrate e nel Simposio.

[70] e flagreranno a te legni odoriferi: «e bruceranno in tuo onore legni profumati se esaudirai due mie richieste». Sannione dialoga (o finge di dialogare?) con uno spirito invisibile, chiedendogli l’amore della bella Sostrata dagli occhi neri e dal petto candido, che lo ha annientato (sannionicida) e fatto innamorare (sostratifilo).

[71] Ora so che amor sia: «ora conosco la ferocia di Amore, educato da Marpesia, regina delle Amazzoni, e allattato dalle feroci tigri indiane». Lo spirito, ridendo, gli conferma che Amore ha anima caucasica (cioè aspra e feroce, come gli abitanti di quella remota regione), bell’aspetto e pessimo carattere (detterrimo, da deterior).

[72] ed è che quest’onor del Bello Punico: «ti prego anche che questo soldato glorioso possa diventare magicamente un poeta: mostrati a lui, come a me, o spirito servitore, in modo che oda la tua voce, che è in grado di spaccare le pietre». Un’evenienza che, peraltro, terrorizza Penulo.

[73] che Libia al par d’Annibale condecora?: «che onora la Libia come Annibale?»

[74] Evanuì; per inseguirlo io volito: «Svanì; scappo ad inseguirlo». Così Sannione si trae brillantemente d’impaccio.

[75] Son io da men, perché altri a me ricordilo?: il monologo stralunato di Penulo —che si è appena rivelato a se stesso come valoroso ed eroico— ha alle spalle una lunga tradizione comica di personaggi incerti circa la propria identità e la propria storia (da Calandrino e dal Grasso legnaiuolo in poi).

[76] e del guadagno mio comprai: «e con i soldi guadagnati mi comprai (da un capitano disonesto) un ingaggio nell’esercito che mi rese socialmente rispettabile».

[77] O tu, che appresso ai laureati ceneri: il vecchio pazzo che si crede la reincarnazione di Giovan Battista Marino irrompe in scena (mascherato, stralunato e in «abito antico napoletano») invocando la città di Napoli, che custodisce le sue spoglie insieme a quelle di Sannazzaro (il buon pastore Sincero protagonista dell’Arcadia) e del mantovano Virgilio.

[78] perché a canora e nova vita or m’ecciti: «perché mi resusciti a poetare in questo secolo ingrato dove, insieme a me, sono resuscitati e si sono moltiplicati i miei grandi nemici?». Marino allude ai suoi più feroci avversari ‘storici’: Gaspare Murtola (1570-1624), che dopo averlo preso di mira nei sonetti satirici della Marineide, arrivò addirittura a sparargli in un agguato tesogli a Roma nel 1609, e Tommaso Stigliani (1573-1651), che stroncò ferocemente l’Adone nel suo Dell’occhiale uscito a Venezia nel 1627; e lamenta che l’Arcadia contemporanea rinnovi contro di lui le antiche persecuzioni.

[79] Dove, o baldo Achillini e Preti candido: il cavaliere si rivolge alle ombre dei suoi sodali e seguaci defunti: i bolognesi Claudio Achillini e Girolamo Preti, il leccese Antonio Bruni, il bolognese Giovan Battista Capponi e il fiorentino Giovanni Ciampoli, perché intervengano dall’aldilà (dal silenzioso Lete) a tacitare i suoi invidiosi detrattori.

[80] che addenta i nomi e che di noi fa strazio: «che, come un cane feroce, aggredisce la nostra reputazione, un tempo oggetto di ammirato stupore ed ora invece di dileggio e disprezzo». Il marinismo barocco declina nel gusto contemporaneo, dominato dal classicismo arcadico.

[81] quando i volumi nostri insin per l’orride: «mentre i nostri canzonieri, dal Meridione, travalicarono gli aspri crinali dell’Appennino fino a raggiungere la Francia e l’Olanda».

[82] poi da batavo torchio impressi uscirono: «poi furono stampati dalle tipografie olandesi». I Batavi erano gli antichi abitanti dell’Olanda meridionale.

[83] e inviarmi al presciutto, al cacio, ai bigoli: l’inchiesta ‘di mercato’ compiuta dal cavaliere redivivo nei dintorni di Cosmopoli (alias Bologna) gli ha rivelato che le pagine dei suoi libri (secondo un antico topos catulliano attinto dal carme n. 95, dove si dice che i versi di Volusio serviranno a incartare gli sgombri) sono utilizzati dai salumieri per impacchettare le loro merci (i bigoli sono un tipo di pasta).

[84] Ecco un altro librar piatir nel fondaco: «ecco un altro libraio che si lamenta con me, uscendo dalla sua bottega e investendomi della polvere che emanano i miei libri tarlati ed abbandonati».

[85] Lira, Sampogna, Epitalami: il libraio intende vendergli a peso, per pochi spiccioli, le sue opere, un tempo stampate a Venezia dal tipografo Francesco Baba e richieste dovunque a peso d’oro. L’immagine di libri «dappoco» (in quel caso di autori cinquecenteschi eclissati dai trionfanti poeti barocchi) venduti «a vilissimo prezzo» «per li panchi di piazza» ritornerà nel dialogo Il Tasso o Della Vana Gloria del 1722 (cfr. Scritti critici e satirici, p. 394).

[86] «E chi or si pregia?»: «E quale poeta al giorno d’oggi va per la maggiore?».

[87] d’insigne Murator ben degna fabbrica: era fresca di stampa (1711) l’edizione modenese, per i tipi dello stampatore ducale Bartolomeo Soliani, delle Rime riscontrate co i testi a penna della Libreria Estense, e co i fragmenti dell’originale di esso poeta, s’aggiungono le considerazioni rivedute e ampliate d’ Alessandro Tassoni, le Annotazioni di Girolamo Muzio, e le Osservazioni di Lodovico Antonio Muratori, un’ opera, destinata a grande fortuna, che riporta il petrarchismo al centro della cultura arcadica fra filologia, buon gusto e «regolata lettura» filosofico-religiosa; il Marino vi allude con paternalistica sufficienza, rammaricandosi che tanto sudore non sia stato invece sparso per valorizzare i pregi nascosti della sua poesia. Il Martelli, buon amico del Muratori, ammirava molto questo lavoro, che definisce «insigne» (cfr. Lettere, p. 58) e l’abate, di rimando, nella lettera-prefazione indirizzata al Conte Antonio Rampaldo il 28 maggio 1711, gli riconosce il merito di aver reso giustizia al poeta «contra le pretensioni e gli abusi della Scuola Marinesca, la quale nel secolo prossimo passato avea preso troppo gran piede fra gl’Italiani con danno del buon Gusto e della buona morale» (Le Rime di Francesco Petrarca, cit., p. XXXV). Il riferimento di Marino a quest’opera è ovviamente un implicito omaggio metateatrale di Martello all’amico, definito affettuosamente «ingenuo», cioè di animo schietto.

[88] Mostrami poi vecchie raccolte, ed avido: «il libraio continua a importunarmi proponendomi di acquistare vecchi canzonieri cinquecenteschi».

[89] Io li vidi color, ma qual Virgilio: «ma, come Virgilio attinse qualcosa di buono per la sua Eneide dai fangosi Annales di Ennio, così io ricavai pur qualche fiore dalle loro rime spinose». Marino si esprime concettosamente, difendendo la propria superiorità rispetto alla tradizione petrarchista cinquecentesca.

[90] generoso ch’io fui, per sin lodaili: «arrivai persino a tributare loro un generoso elogio nel canto IX dell’Adone». Qui la fontana di Apollo simboleggia la poesia stessa, e ospita una nutrita schiera di cigni sacri a Venere, che cantano a gara per lei e adombrano, oltre che Petrarca, Dante e Boccaccio, alcuni lirici cinquecenteschi di prestigio (Bembo, Casa, Sannazzaro, Tansillo, Ariosto, Tasso e Guarini).

[91] Mi soggiungono poi di certa Arcadia: il discorso, rivolto enfaticamente al dio Pan, è alquanto involuto e così risuona: «gli esponenti dell’Arcadia, seduti sulle rive del fiume che rappresenta la poesia, osano contrapporsi a me, che per primo seguii le orme pastorali di Sannazzaro, fino a superarlo, lasciandolo indietro rosso di vergogna lassù nei campi Elisi».

[92] Già del Bosco Parrasio all’ombra ir gli Arcadi: «Ormai questi Arcadi si sono impadroniti della memoria classica, come se fossero dei Greci autentici, a dispetto di quelli veri —i Traci, e i Veneti loro successori ( per il tramite di Antenore)— e tali si proclamano con pomposi pseudonimi». Boschi Parrasi (dalla Parrasia che è una regione dell’Arcadia) erano definiti i luoghi di riunione degli accademici romani —prima agli Orti Farnesiani, sul Palatino, e poi nel giardino Ginnasi all’Aventino— che lo stesso Martello aveva frequentato intensamente durante il suo recente soggiorno nella capitale; solo nel 1726, grazie ad una donazione di re Giovanni V di Portogallo, sarebbe stata inaugurata, con questo nome, la villa alle pendici del Gianicolo che ne divenne da quel momento in poi la sede ufficiale.

[93] Anch’io Filen mi nominai: «Nella persona di Fileno, nome derivato dall’amore, il poeta descrive se stesso con gran parte degli avvenimenti della sua vita»: così recita l’Allegoria premessa al canto nono dell’Adone.

[94] così fosse fiorito, e dolce e fertile: Marino apprezza dunque in parte «il tenero stile» arcadico che piacerebbe allo stesso Sannazzaro, ma auspica che possa innalzarsi, facendosi più concettoso, ricco di antitesi, di immagini icastiche e di paronomasie.

[95] ‘ve dal secol presente appello al postero: «ho deciso dunque di tornare al presente e ridurmi in questo luogo desolato, Cosmopoli, per appellarmi ai posteri e restaurare la mia fama usurpata».

[96] dagl’insulti febei la solitudine: «ma neanche qui posso trovar pace dalle polemiche letterarie».

[97] entrambi pazzi. Ad una micia abbracciasi: Qui —e in II.6.42— correggiamo in micia il micca del testo, che è un evidente refuso. Secondo una fortunata e diffusa tradizione, Petrarca amava molto la gatta che accompagnò l’ultima parte della sua vita nella casa di Arquà; là se ne conserva ancora il corpicino imbalsamato, in una nicchia sormontata da un’iscrizione recante due epigrammi latini del canonico Antonio Quarenghi (1547-1634). Il pazzo petrarchista Cecco arriva dunque in scena stringendosi al petto una gatta, e il pazzo arcade Mirtilo tirandosi dietro per le corna un lercio capretto.

[98] Misero me, che invan son Dianidio: Mirtilo Dianidio era appunto lo pseudonimo arcadico di Martello; Mirtilo si lamenta che la dea Diana, di cui è seguace, non lo abbia aiutato a trovare, in tutta Cosmopoli, un capretto più bello di quello che sta faticosamente trasportando con sé; sfidando i capri rivali in onore della bella Sostrata, esso doveva inchinarsi leggiadramente davanti a lei, che, camminando leggera, fa fiorire persino la polvere senza lasciarvi traccia. L’arcadismo di Mirtilo è leziosamente petrarcheggiante, secondo moduli che Martello parodizza nella sua canzone Apologia del comporre pastorale (cfr. G. Distaso, Fra Barocco e Arcadia: poesia ed esperienza critica di Pier Jacopo Martello, cit., pp. 516 e sgg.)

[99] non vi è per entro il pastorale: imparino: al nome pedestre di Sostrata è meglio sostituire quello classicheggiante di Artemisia, che tuttavia risuona troppo solenne per una ninfa, e andrà dunque anagrammato in Amirtesia, parzialmente consonante con quello di Mirtilo. Si prende di mira, naturalmente, la leziosa e pedantesca onomastica accademica.

[100] ché dal Petrarca mio mai non pronunciasi: l’aberrazione di Messer Cecco è quella di utilizzare soltanto parole presenti nelle Rime del suo idolo, una pratica che non piaceva decisamente a Martello, come spiega ad esempio in una lettera del 26 gennaio 1702: «Il Secolo vuole pensieri vigorosi, e siano pure quei del Petrarca mascherati, o ancor smascherati ciò non importa. Io venero il pensar alla maniera del Petrarca, ma non stimo tanto il ripetere i di lui pensieri» (Lettere, p. 32), o nel sesto fra i Sermoni della poetica (vv. 364-366), dove aveva scritto: «Quind’io te pazzo e vil poeta estimo,/che, di pittore original, copista/vuoi farti, e gir dall’alto seggio all’imo.» (Scritti critici, p. 54).

[101] Seguo madonna anch’io : le luci tremule: Messer Cecco abusa, naturalmente, di tropi e immagini petrarchesche: occhi luminosi, aure vibranti, archi e faretre d’Amore...

[102] Però ad Amor non fu onore, al mio credere: «però non fu onorevole, da parte di Amore, colpirmi mentre ero indifeso, risparmiando invece lei dalle sue frecce».

[103] io l’amerò, se fosse Lena o Taide: «io l’amerò anche se si chiamasse Lena, come la mezzana protagonista dell’omonima commedia di Ariosto, o Taide, come la prostituta dell’Eunuchus di Terenzio». Un’affermazione enfaticamente paradossale che può far ridere solo un’udienza colta in grado di decifrarla.

[104] cui non saggian la gola, il sonno e l’ozio: «che basta a se stessa e resiste a qualsiasi altra esigenza materiale». Anche qui è evidente il richiamo al De vita solitaria e a molti componimenti del Canzoniere che celebrano il distacco dal mondo.

[105] or son condotto in quella parte a volgermi: Cecco, cioè, si trova vicino al sepolcro, al cui interno Sostrata si consuma in lacrime.

[106] S’io credessi per morte alfin scarco essere: «se potessi liberarmi dal giogo amoroso recidendo l’esile legame che ancora mi tiene in vita, esalerei volentieri l’ultimo respiro, ma il desiderio mi mantiene vivo anche se privo di speranza». Il lamento di Cecco cita i sonetti XXXVI e XXXVII del Canzoniere (S’io credessi per morte e Sì è debile il filo a cui s’attene).

[107] A te, dolce animal, che dai lo stroppio: l’apostrofe è rivolta alla gatta che Cecco si porta dietro: essa impedisce (dà lo stroppio) ai topi di fare i loro danni; secondo la tradizione, infatti, la gattina di Arquà difendeva dai loro assalti i manoscritti del poeta. Gli astanti osservano e commentano fra sé: Mirtilo la chiamerebbe semplicemente «gatta», mentre Marino preferirebbe la definizione meno pedestre di «piccola tigre graziosa».

[108] Per me ricorrasi: riprende l’appassionata apostrofe di Messer Cecco alla gatta, a cui chiede di perorare la sua causa (ricorrere in giudizio) presso la ritrosa Sostrata (petrarchescamente detta nemica), ma la bestia non collabora e gli resta attaccata addosso miagolando disperata, e lo fa cadere, suo malgrado, in un linguaggio eterodosso e alquanto comico.

[109] ebbe da me fama la fiamma eterea: Marino, punto sul vivo, si palesa ai due, rivendicando, con molte involuzioni stilistiche, i propri meriti sia petrarcheschi —per aver lui pure celebrato nell’Adone il poeta, che in Provenza, sulle rive del Sorga, emulò Apollo nell’amore per Dafne/Laura e per la poesia— che bucolici, attestati dai versi della sua Sampogna.

[110] Io l’arrivai sul margine odorifero: l’incontro di Marino con Sostrata, addormentata lunghe le rive profumate del ruscello, riecheggia naturalmente la celebre rievocazione di Laura in Chiare, fresche e dolci acque.

[111] Di’ mo il tuo caso, e giocherò: «racconta ora la tua esperienza e scommetto, chiamando a giudicare lo stesso Apollo, che non sarai capace di celebrarla poeticamente. Ti sfido a comporre su di lei dormiente soltanto otto versi più belli dei miei». Gli otto sdruccioli della sfida, come osserva subito Mirtilo, sono poco barocchi e semmai piuttosto petrarcheschi e arcadici; riconoscendo in parte le rivendicazioni letterarie del rivale, egli si fa portavoce del moderatismo di Martello sulla spinosa querelle che travagliava l’accademia.

[112] Gli Elisi: il Marino, sollevando le risa e l’incredulità dei suoi interlocutori, ribadisce quanto aveva già affermato al verso II.2.81, ma senza che i due cogliessero appieno il messaggio: egli, cioè, ha abbandonato l’aldilà, dove sedeva accanto a Mosco e Teocrito, padri della poesia bucolica, per risarcire la propria fama nella cieca modernità che lo ha dimenticato (e dunque ritiene di avere tutte le referenze del caso per comporre in qualsiasi stile).

[113] il defonto suo sposo invita a piagnere: i versi altrui è il complemento oggetto, e il senso è: «Sostrata sollecita i versi altrui, cioè i poeti, a celebrare il suo sposo defunto».

[114] Ed io, poiché tornare a me non degnano: anche il lamento di Cecco è alquanto concettoso: i suoi sospiri amorosi, respinti da Sostrata, non tornano a lui, che ne è il legittimo proprietario, ma si aggirano nell’aria, sradicati e senza padrone; il vento li tormenta come essi tormentano l’amante, trasformandoli in entità dolenti che fanno risuonare ovunque i loro lamenti.

[115] Io vo’ più tosto farmi un liquid’aere: voglio dissolvermi io stesso nel dolore, piuttosto che contribuire (con i versi che tu mi richiedi) ad accrescere il suo, giacché Sostrata —così straziata per il marito che può solo respingere e scacciare ulteriori sofferenze amorose, come la mia— non è in grado di inabissarsi ancora di più nella nebbia dei pensieri luttuosi. Cecco respinge dunque la richiesta, rispettosa e molto concreta, del soldato.

[116] Va’ per versi d’amore a chi non sentelo: «vai a chiedere versi amorosi a chi non è vittima di Amore».

[117] a cui, più che a Diana, offrir le vittime: «a cui io, Mirtilo, dovrei fare più offerte votive che alla stessa dea Diana che onoro come pastore di Arcadia».

[118] e per questa, cui Pan dispari fistola: «e attraverso le canne (in numero dispari) di questo flauto sacro a Pan, farò sgorgare armoniosamente il suo nome», facendolo udire agli abitanti semidivini delle selve, e agli stessi venti che smetteranno di stormire per ascoltarlo.

[119] Io cantar per altrui? Così faticasi: anche Mirtilo respinge sdegnato la proposta: scrivere versi d’amore per Penulo sarebbe come lavorare a vantaggio di qualcun altro.

[120] Quand’io Lete varcai nud’ombra aerea: soltanto Marino, spinto dalla fame, raccoglierà dunque l’offerta, aiutando Penulo a corteggiare Sostrata, che pure è così dura con lui.

[121] perch’eterna laggiù vivea memoria: «perché laggiù si ricorda in eterno il mitico ritorno dal regno dei morti di Orfeo», al cui passaggio le pene infernali di Issione, Sisifo e Tantalo ebbero un attimo di tregua.

[122] l’alma, che riguadò soletta e misera: ma quando mi sono reincarnato, l’anima, guadando nuovamente l’Acheronte, non si portò dietro la cetra poetica; cioè: in questa nuova vita ho perduto la mia fama di un tempo e sono povero e oscuro.

[123] Questo è il Petrarca?: Penulo —con implicita, comica incredulità— crede di avere in mano il misterioso Petrarca, ma si tratta invero della Lira, il canzoniere di Marino, enciclopedicamente ripartito in rime «Amorose, Marittime, Boscherecce, Heroiche, Lugubri, Morali, Sacre e Varie».

[124] Ve’ di pedante anzi inudita astuzia!: ironicamente Marino, che cerca di istruirlo un po’ sui rudimenti della poesia, lo invita a leggere a voce alta, cominciando dal fondo, una sua egloga in cui due pastori fanno l’elogio della rosa(cfr. Or che d’Europa il toro, in G. B. Marino, Poesie varie, a cura di B. Croce, Laterza, Bari 1913, p. 30).

[125] Sogl’io tacito scorrere: l’intera sequenza delle manovre di Penulo per dissimulare il proprio analfabetismo, affastellando scuse sempre più fantasiose, riecheggia schemi topici della drammaturgia comica.

[126] e sugellati io drizzerolli a Penulo,: Marino intende, cioè, inviare a Penulo, in un plico chiuso, il sonetto straordinario che comporrà per lui, ma l’altro, che non sa leggere, gli raccomanda di portarglielo invece di persona per farglielo sentire recitato a voce alta.

[127] D’asse chiodo con chiodo al fin discacciasi: «chiodo scaccia chiodo»; il ruvido buon senso di Cornia demistifica l’enfasi oratoria della sua padrona.

[128] non se l’Arcade stesso e il Petrarchevole: non violerò mai il mio giuramento «neppure se Mirtilo e Cecco mi regalassero, invece che queste due bestie, i versi che mi farebbe piacere avere da loro».

[129] per le lor teste, ove tutt’altro è serio: la pazzia che li ha colpiti, secondo i guardiani del manicomio, riguarda soltanto le loro fantasie intellettuali, mentre per il resto sono normali (e dunque verosimilmente e ragionevolmente innamorati di te, insinua con astuzia la serva compiacente).

[130] E che vuol dir quel ritrattino in tavola: si tratta del «pendente» di una collana con il «ritrattino di Laura», a cui si allude anche nella dedicatoria della commedia, che, evidentemente, fa dubitare la vanitosa Sostrata della sincerità di una tale infatuazione, Cornia continua pazientemente a rassicurarla.

[131] E che vuol dir sul capo suo la laurea: Cecco, dunque, è letteralmente ‘travestito’ da Petrarca con una corona di alloro in testa e una cappa rossa con cappuccio. Ciascuno di questi poeti pazzi vive una totale simbiosi con il proprio modello, che ripugna al tollerante e relativista Martello.

[132] Spasma d’amor nei dì sacrati a Venere: ogni venerdì lo si sente sguaiatamente recitare il terzo sonetto del Canzoniere, rievocando il proprio innamoramento, che scattò il venerdì santo 6 aprile 1327.

[133] E quell’altr’uom, che di pellosa e ruvida: Sostrata, continuando la sua discreta e vanitosa inchiesta per testare la sincerità degli spasimanti, descrive Mirtilo abbigliato con un tipico costume pastorale: relativamente giovane, biondo, coperto di pelli e provvisto di bastone, corona di pino e alloro, bisaccia e zampogna. Un ritratto tutto sommato meno spietato degli altri tre e, nelle intenzioni dell’autore, intenzionalmente riconoscibile «con una maschera composta del naso aquilino e dell’aguzzo suo mento, con faccia ridevolmente ridente, e in ogni parte sua caricata più alquanto del proprio originale», come spiega ancora la dedicatoria.

[134] Odo quest’altro esser bel pazzo. Egli arcade: accogliamo la correzione proposta da Hannibal Noce all’originale Odo essere quest’altro bel pazzo. Egli arcade...

[135] Arrossisce a portar la lunga e serica: la descrizione di Sostrata si allarga quasi a inserto metateatrale. Mirtilo/Martello preferisce di gran lunga le rustiche vesti alla lunga toga di professore dello Studio che gli compete, come anche preferisce agli studi la poesia amorosa in onore di ninfe, che furono già Nine o Amarilli (pseudonimi arcadici rispettivamente di Teresa Zani e di sua moglie Caterina Torri), e ora si chiamano Sostrata/Amirtesia. Sul personaggio di Teresa Zani, una giovane poetessa bolognese amata in gioventù dal Martello e al centro di un affaire sentimental-poetico che ha a che fare, probabilmente, con la genesi della commedia, cfr. B. Croce, I versi di Teresa Zani, cit. e l’introduzione.

[136] Ma, se un altro bel nome e più bucolico: Cornia finge scherzosamente di voler rubare alla padrona questo corteggiatore, conquistandolo con il nome (poeticamente più maneggevole) di Clori.

[137] d’ amebei cantilene a gara alternano: i pastori arcadici dialogano cantando al suono dei loro rozzi strumenti sulle rive del mitico fiume Alfeo, che insegue la ninfa Aretusa trasformata in fonte. Lo sfoggio di erudizione da parte di Cornia suscita l’invidiosa ammirazione dell’ignorante Sostrata, che invece storpia bucolico in bicolico.

[138] Potessi io pur, non da costor si succidi: Sostrata comincia ad apprezzare l’attraente Penulo (rispetto ai suoi laidi concorrenti) e vorrebbe apprendere da lui le meraviglie della poesia toscana per celebrare il suo sposo che l’attende nell’adilà insieme alle due coppie esemplari Artemisia/Mausolo e Vittoria/D’Avalos.

[139] Arroge poi che com’io tresco e spazio: Aggiungi poi che non posso fare a meno di subire la loro influenza girando continuamente per l’ospedale attorniata da loro, per cui non mi resta scelta fra la pazzia e la poesia, e soltanto i morsi della fame mi fanno ricordare di chi sono davvero. La poesia, insomma, è un male contagioso.

[140] che il cibo e l’oro a me sariano un Panfilo: Cornia sarebbe dunque ben contenta di trovare fra questi pazzi un corteggiatore facoltoso.

[141] Ma che dirai di quel cotal, che lacero: l’aspetto scenico di Marino è quello di un allampanato fantasma vestito di nero, con baffetti e corta barba, ispirata al ritratto di Frans Pourbours il Giovane del 1621 (il «rinomato Fiamingo» ricordato nella dedicatoria) e conservato oggi al Detroit Institute of Arts.

[142] e s’immagina un uom che ha più di un secolo: «e crede di essere un uomo ormai morto da più di un secolo e ridotto in cenere».

[143] e in ver n’ha da natura insin l’effige: questo pazzo che si crede il Marino resuscitato in effetti gli assomiglia.

[144] di aver tolto l’onor coi carmi ingenui: le semplici rime dei petrarchisti e degli arcadi sarebbero colpevoli di avere messo in ombra la gloria accademica e mondana del suo stile gonfio e fiorito, di cui egli intende ora restaurare la gloria.

[145] nell’inventar fissù, randiglie, e cuffie: come si alternano ciclicamente le mode in materia di fazzoletti da collo (fichu alla francese), randiglie (cioè baveri alti e increspati alla maniera delle gorgiere spagnole) e cuffie, così egli spera che torni in auge il suo stile ora decaduto, e se la prende con gli avversari, che giudica pazzi e ciechi, pur essendo lui più pazzo e cieco di loro.

[146] Io più consolomi: Cornia preferisce fra tutti Lofa, che sta arrivando e che parla cantando sulle note di una spinetta a tastiera che porta appesa al collo.

[147] (canta sempre, accompagnandosi con uno spinettino): si tratta di un piccolo strumento a tastiera ad uso domestico, simile per meccanica e funzionamento al clavicembalo, accordato di solito un’ottava sopra la normale spinetta e perciò detto spinettino o spinetta ottavina. Dal primo Seicento questa modalità di esecuzione (la monodia accompagnata) venne a caratterizzare anche il madrigale, genere fino a quel momento tipicamente legato alla polifonia. ♦ Farfalletto ingannato: il canto amoroso di Lofa evoca una serie di immagini e similitudini topiche nel repertorio profano italiano: la farfalla che gira intorno al lume fino a bruciarsi e morire come l’amante che soccombe affascinato dalla donna; e poi la nave agitata dai marosi, che nei libretti d’opera segna il momento destinato all’aria virtuosistica di furore (spesso introdotta dal verso “son qual nave...” ecc...). I versi II.7.1-9 formano un madrigale con rime ABA ABA CC. Nel trattato Della tragedia antica e moderna lo pseudo-Aristotele, fornendo i precetti-base dello stile adatto ai componimenti per musica dichiara fra l’altro: «Ti raccomando nelle arie qualche comparazione di farfalletta, di augelletto, o di ruscelletto: queste son tutte cose che guidano l’idea in non so che di ridente, che la ricrea, e siccome sono venusti questi obbietti così il son le parole che li rammentano e li dipingono alla fantasia; ed il compositor della musica sempre vi si spazia con avvenenza di note. Ed avrai osservato anche ne’ pessimi melodrammi che il musico riporta distinto applauso, cantandone una di queste nell e quali i diminutivi [...] aggiungono leggiadria» (in Scritti critici, p. 290).

[148] O che faccia, a mirarla, e vecchia e giovine,: l’eunuco ha l’aspetto inquietante di una creatura ibrida: glabro, rugoso e dalla voce acuta.

[149] E l’uom, pria che il fallir suo corrompessegli: prima che le conseguenze del peccato originale determinassero la corruzione babelica delle lingue, l’uomo primigenio si esprimeva in musica. Lofa vorrebbe ripristinare, grazie all’arte, l’antica eccellenza che rendeva gli uomini canterini come gli uccelli, ma Sostrata respinge duramente anche lui.

[150] Come in sua pania.: senza lasciarsi troppo smontare, il cantore riprende i suoi stornelli, volgendo ora le proprie attenzioni a Cornia.

[151] Perché la bella e musica: nello scambio con la ragazza (non si sa quanto ingenua o maliziosa) Lofa vanta la bellezza canora della propria voce, ammettendo a malincuore di non essere idoneo al matrimonio.

[152] mezzo l’un mezzo l’altra, e tutto bestia: la sprezzante reazione di Cornia riecheggia l’invettiva di Corisca contro il satiro «mezz’uomo e mezzo capra, e tutto bestia» nel Pastor fido (II.6.98). Il povero Lofa si consola in musica.

[153] Or Marte, Ercole, Achille, Aiace ed Ettore: il «vanto» di Penulo ricalca i generici dei capitani dell’Arte —a partire dalle Bravure di Francesco Andreini— con i nonsense che li caratterizzano. Dopo aver scoperto, grazie a Sannione, di essere un grande guerriero, egli è ora persuaso, grazie a Marino, di possedere anche virtù poetiche, e ne è compiaciutissimo ma anche sottilmente inquietato.

[154] Domo si rese al mio saper: «l’orribile mostro dell’ignoranza si arrese, domato, al mio sapere e io sono diventato un grande poeta, se devo credere al Marino». Il ragionamento del soldato, stupito e orgoglioso della propria metamorfosi «petrarchevole», si dipana in un’ardua similitudine venata di ironica lubricità: i versi altrui hanno fecondato mirabilmente la sua vena poetica, come l’innesto di un albero da frutta su un arbusto sterile fa crescere mirabilmente sui suoi rami dei frutti, dono amoroso delle villanelle ai loro giovani spasimanti, che peraltro vorrebbero ricevere da loro qualcosa d’ altro.

[155] onde avvien che in etade altrui decrepita: le amplificazioni barocche di Marino confondono un po’ le idee a Penulo, incredulo di potersi sentire così giovane e energico con ben trenta secoli (e non più trent’anni) di eroismi sulle spalle, e ansioso di farsi ammirare dalla «saporita amabil» Sostrata.

[156] O così: studia: l’intera sequenza è comicamente giocata sul filo del rasoio delle reciproche dissimulazioni.

[157] Neso, che vuol dir neso? : l’incerta lettura di Sostrata si arresta, dopo la prima quartina, di fronte alla locuzione per lei oscura “né so”; Penulo, naturalmente, non è in grado di illuminarla e se la batte precipitosamente. Sarà lo stesso Marino a declamare correttamente l’intero sonetto ai versi III.2.31 e seguenti.

[158] lunge si stia dal panfiliaco Mausolo: e, in quanto seguace di Petrarca, scaccio dalla tomba di Mausolo chi si esprime nel gergo napoletano e barocco. Il povero Marino non ha dunque alcuna chance, né amorosa, né poetica. Correggiamo in panfiliaco l’incomprensibile pansiliaco del testo, pensando alla Panfilia, una regione limitrofa alla Caria governata da Mausolo.

[159] mentre a’ miei dì, come i fonghi prorompono: la polemica contro l’infestante proliferare delle potesse accademiche, di molieriana memoria, percorre tutta la commedia. Marino subisce come una tortura la zoppicante dizione di Sostrata e si precipiterà a raddrizzare i suoi poveri versi storpiati.

[160] Né so come a quei membri, a cui si volsero: e non so come sia possibile che, sotto il tuo sguardo che ha la stessa forza vivificatrice dei raggi del sole, il corpo di Mausolo continui a restare inanimato.

[161] Con un sol po’ di sol Prometeo l’anima: a Prometeo bastò solo un po’ di fuoco per animare la statua, eppure Panfilo continua a dormire, anche se forse, rianimato dal tuo sguardo ardente, si sveglierà per amarti nella tomba. Il doppio riferimento mitologico è ad una versione del mito di Prometeo, che dette vita con una fiaccola accesa ad una statua di argilla dalle sembianze umane, e al potere di Morfeo di indurre il sonno sfiorando le palpebre degli uomini con petali di papavero.

[162] Il mio?: il genuino sbalordimento di Sostrata al cospetto di tanto, misterioso sapere squarcia comicamente, ma per poco, il velo della sua alterigia. Il suo personaggio alterna continuamente una pomposa supponenza a improvvise cadute di stile.

[163] Ma quel sonetto è sovra a te, no a Panfilo: il povero autore si ostina a difendere la propria creazione, non solo straziata nella forma ma totalmente equivocata nel significato. La totale sordità e incomprensione della poesia da parte di Sostrata (e di Penulo) costituisce il rovescio complementare della devozione maniacale dei tre pazzi poeti ai loro rispettivi modelli letterari.

[164] di molto Febo aver calde le viscere: «essere ardentemente ispirati da Apollo».

[165] O dell’ingegno mio parti ingratissimi: Marino rinnega i propri stessi componimenti, che in mano altrui, scambiati addirittura per petrarchevoli, gli fanno vergogna e gli appaiono irriconoscibili, così come accade quando le acque dolci di un fiume si mescolano a quelle salate del mare. All’ambigua matrice barocca di molta poesia arcadica che si professa anti-marinista Martello allude spesso in modo sornione in questa commedia e in vari altri suoi scritti.

[166] Non lo diss’io che a star fra pazzi impazzasi?: il lungo monologo di Cornia —raisonneur in gonnella che anche tira le fila dell’intreccio— riassume i fatti agli spettatori con una certa ridondanza gnomica.

[167] e, se ci fosse un fenestrin che l’animo: «se fosse possibile dare un’occhiata ai segreti della sua anima, penso che Penulo abbia occupato il posto di Panfilo». L’immagine di uno sportellino che si possa aprire e chiudere per leggere l’interno dei cuori risale a Luciano, ed era già stata utilizzata da Martello, nel 1714, nel dialogo L’impostore, prima versione parigina del trattato Della tragedia antica e moderna (cfr. Scritti critici, p. 227). Se ne ricorderà anche Alfieri, forse proprio per tramite di Martello, nella commedia «aristofanica» intitolata per l’appunto La Finestrina (cfr. F. Fido, Alfieri, Martello e una possibile fonte della “Finestrina”, in Le muse perdute e ritrovate, cit., pp. 59-67).

[168] Già donne so c’han più nomanze e titoli: anche la serva, dunque, può condividere facilmente le galanterie poetiche alla moda, provvedendosi dell’immancabile pseudonimo accademico come tante dame letterate.

[169] Io riedo, Cornia, a te qual Progne riedesi: l’arrivo di Cecco apre il primo dei siparietti in cui Cornia si produce in successive, versatili metamorfosi letterarie. La tragica storia di Progne e della sorella Filomena, rispettivamente mutate in usignuolo e in rondine, è narrata da Ovidio nelle Metamorfosi.

[170] ond’ella fosse all’amor mio mancipio: «vorrei, con il tuo aiuto, esprimere a Sostrata la mia devozione, in modo che essa accetti il mio amore» (mancipio è termine giuridico che designa, fra l’altro il compratore o l’aggiudicatario di un’asta pubblica). Un’ offerta amorosa, beninteso di natura spirituale e non mondana, in linea con i dettami petrarcheschi.

[171] Laureta tu? : basta il nome fatale ad attivare la passione amorosa e la vena lirica di Cecco, in una vertiginosa catena di associazioni irresistibili.

[172] nome del vincitor trionfal albero: la castità trionfa sulla passione nella mutazione in alloro di Dafne, rendendo la pianta un simbolo di gloria poetica e regale.

[173] Non mi avrai, Cecco, ai voti tuoi difficile: secondo Cornia (che si fa portavoce di idee care anche a Martello) l’amor platonico si riduce ad un (bizzarro?) «amare tanto per farlo», che delimita rigidamente i confini della sua civettuola arrendevolezza.

[174] Dal cielo empireo.: «il mio amore deriva da Dio e a Dio per tuo tramite ritorna», ma, o una bella morte nel fiore degli anni ti renderà oggetto della mia poesia, oppure continuerò a consumarmi di amore e a celebrarti nei miei versi. Cecco affastella una serie di stilemi e immagini petrarchesche dal sonetto CCLXVII del Canzoniere (Oimè il bel viso, oimè il soave sguardo).

[175] Amor è un certo mal, per quel che dicesi: il buon senso di Cornia smonta comicamente i deliri di Cecco.

[176] a quai parlo di lei, saper non negano?: «perché Sostrata finge di non conoscere il mio amore, che è ben noto persino ai venti e ai ruscelli ai quali mi rivolgo in poesia?» Il lamento arcadico di Mopso zoomma topicamente dal generale al particolare: dal paesaggio di Arcadia al gregge partecipe; dalle suppellettili della capanna al sonno perduto; dal ragno invisibile fino alla zampogna inesorabilmente impolverata. Da parte sua Cornia, con perfetto mimetismo, passa con disinvoltura dal concettismo aulico degli scambi con Cecco ai panni pastorali, in veste di civettuola ma modesta Clori.

[177] E come mai dal pastoral tugurio: con Mirtilo Cornia gioca dunque la carta ‘sociale’, rimproverandogli di onorare ambiziosamente una dama altolocata, trascurando invece un’umile pastorella come lei.

[178] ma Clori ho dalle fasce, e tal mi nomino: la nuova identità anagrafica è dunque cosa fatta.

[179] e so qual dalle capre il latte spremasi: «e so come mungere le capre e come ricavare il formaggio dal latte rappreso».

[180] così avvenuto in pastorella e vergine: «così, imbattutomi in una giovane pastora», quasi quasi dimentico la più matura vedova e ti offro il mio cuore.

[181] In bocca mia, recitativo, or vientene: Lofa ci riprova con Cornia, invocando il soccorso del recitativo musicale, dopo che le sue modulazioni canore (i passeggi) sono state così duramente respinte. Le sue battute seguenti sono dunque segnalate in carattere tondo.

[182] con voce ognor sì roca e lamentevole: con una voce così rauca e lamentosa che, in paragone, persino il rombo fischiante della tramontana sul mare in tempesta sembra soavemente musicale.

[183] la pazzia musicale in un col celabro: Mirtilo è pronto a massacrare il rivale, spaccandogli la testa e il cervello con il suo bastone pastorale.

[184] Così vostra mercé, donzelle tracie: Lofa si paragona al povero Orfeo fatto a pezzi in Oriente dalle baccanti.

[185] Ma ridevole è più chi male adopravi: pur a mal partito, Lofa ribatte con toni pungenti di una certa efficacia, denunciando la povertà dell’armamentario poetico arcadico quando non abbia il supporto della musica, e la sua sterile, ripetitiva inflazione nelle mani di troppi lirici improvvisati.

[186] Or io vo’ preferir nella turba emola: Cornia interviene a sedare la rissa, promettendo il proprio favore al vincitore dell’accademia poetica in onore di Panfilo che Sostrata si accinge a promuovere.

[187] Eccolo che sfavilla il don promessoti: lo zecchino del pagamento pattuito al verso II.5.21.

[188] Propalar, come sua, la lode propria?: Marino si ostina, invano, a ribadire che il sonetto è stato scritto in lode di Sostrata, che non può dunque vantarsene autrice.

[189] Io già non vergo arabiche: io non scrivo in caratteri arabi, e dunque puoi leggertelo da solo. Si replica lo sketch dei pretesti fantasiosi di Penulo per non leggere, ma questa volta Marino capisce infine come stanno le cose.

[190] consumò tutte: a Sannion richiedine: Penulo, subitamente ammansito, chiede comprensione, ammantandosi delle imprese prodigiose che l’incantesimo di Sannione —che tanto lo aveva spaventato e poi compiaciuto nelle scene quarta e quinta del primo atto— ha rivelato ai suoi stessi occhi.

[191] Tu, le fauci nemee? Tu, il fier setiger.: in un comico crescendo di incredulità, scandito da un iterato «tu», Marino si mette ad enumerare le fatiche di Ercole, ricordando il leone di Nemea, il cinghiale di Erimanto irto di setole, le Arpie, per metà donne e per metà civette, e l’indomabile gigante Caco.

[192] Ma Sannione e tu ducento Nestori: ma quanto siete vecchi tu e Sannione?

[193] Noi siam dunque immortali. Ei parla a un demone: il soldato, come al solito, prende alla lettera le metafore dell’immortalità poetica, e conserva una viva impressione dello spirito frequentato da Sannione.

[194] Possibil è che a non tener rovescio: comprarsi il saper leggere è un miracolo impossibile da realizzare, ma Penulo potrà imparare, almeno, a tenere il libro diritto per fare un po’ di scena.

[195] Ma il tuo valetto a ciò non è bastevole?: Marino chiede, con finta ingenuità, come mai non basti a soccorrerlo lo spirito servitore già ricordato.

[196] Se a noi rivolgi lo stil molle e debile: la lunga scena —costruita su un’esemplare comicità allusiva e preziosa di destinazione accademica— si risolve in una verbosa tenzone poetica fra il marinista e il petrarchista, satura di rimandi letterari e di vertiginose acrobazie metaforiche, in cui i due, vittime di una comune pedanteria letteraria, si rivelano peraltro più simili fra di loro di quanto dichiarino. Non si capisce bene quando e come Cecco abbia udito recitare da Sostrata il sonetto, in cui ha riconosciuto la firma del rivale dallo stile subdolo e velenoso come il morso di un serpente annidato fra l’erba.

[197] Ve’ come l’arenosa ed arsa Libia: «guarda un po’ come l’Africa sabbiosa (Libia per metonimia) —dove la vegetazione stenta per la mancanza di fiumi, tranne il Nilo, che vergognoso della propria inadeguatezza scorre nascosto e fangoso— osa schernire Europa, ricca di fiori e di frutti».

[198] la qual, se vede un risoluto aereo: «la quale [macilenta turba di poeti petrarchisti], al cospetto di un guizzo poetico che dispera di poter eguagliare, non fa che sogghignare e lanciare strali satirici senza peraltro neanche raggiungere il bersaglio». Ascreo, da Ascra, l’antica città della Beozia patria di Esiodo, vale per poetico in genere.

[199] o almen che quel che al cocollato e chierico: «o almeno in virtù di quello che ti lega al tuo Petrarca, chierico incappucciato».

[200] Sacra fame dell’oro a me feo vendere: «fu la maledetta avidità di guadagno a farmi vendere a Penulo la mia poesia». In un crescendo di autocommiserazione, che contagia anche Cecco, Marino cita il celebre passo virgiliano (Eneide III, 57) già ripreso da Dante in Purgatorio XXII, 40-41. La cortina Delia è la cortina del tempio di Delo, sacro ad Apollo, dio della poesia.

[201] L’ira di Giove fa che nuda e povera: l’altro gli risponde «per le rime», citando il sonetto VII del Canzoniere (La gola e ‘l sonno e l’oziose piume), che lamenta il declino delle virtù nel mondo dominato dall’avidità e dal materialismo.

[202] o’ di famose fronti il lauro è gloria: Cecco enumera sconsolato una serie di casi di corruzione e pubblico disconoscimento del valore della poesia.

[203] vedi come Atalanta i versi correre: Atalanta, vergine imbattibile nelle imprese virili, perse la gara di corsa a cui l’aveva sfidata Ippomene, perché si fermò a raccogliere le mele d’oro disseminate sul suo percorso per rallentarla, secondo un malizioso suggerimento di Afrodite. Dovunque si commette frode i versi dei poeti sono dunque mercificati (scambiando la gloria della vittoria con le lusinghe delle fraudolente «palle d’oro»).

[204] non fia chi mai di sofferire insegnimi: non riuscirò mai a sopportare che si vendano versi bugiardi per amore di due begli occhi.

[205] Quasi che il tuo Petrarca anch’ei non imiti: l’attacco di Marino allude velenosamente al perdurante gusto barocco interno a certe fasce di arcadi, e alle polemiche che fiorivano in materia.

[206] ne’ quai l’ultima prova feo lusuria?: la sensualità barocca è esecrata dal purista Cecco, come da molti arcadi intransigenti. Martello continua a non prendere partito in modo troppo netto fra i due fronti.

[207] in Parnaso più bel cangiò Posillipo: «rese la sua Napoli più bella dello stesso Parnaso».

[208] Il punto sta che nel parraggio il supero: il ‘sorpasso’ di Marino su Petrarca è avvenuto nell’aldilà, dove quest’ultimo, spogliato del suo prestigio terreno, ha dovuto cedergli il primato. Con parlaggio, un edificio deputato ad accogliere riunioni e orazioni, si indica dunque l’empireo in cui risiedono le anime dei poeti.

[209] secco, restio, pien di durezze e taccoli: nella prospettiva di lunga durata, dunque, lo stile e la lingua petrarcheschi si sono dimostrati poveri, goffi (pieni di durezze e di dettagli oscuri e irrilevanti), anche se egli fece fare al volgare dei suoi tempi —ancora acerbo e disameno— un miracoloso balzo in avanti, che gli assicurò due secoli di gloria. Ma l’eccellenza petrarchista si mantenne pur sempre inferiore alla lirica classica, sia idilliaca che epigrammatica, per cui i poeti satirici toscani furono noiosi e privi di nerbo come insetti senza aculei. Nomio, abbinato a Mosco, è epiteto genericamente pastorale, Ovenio è l’epigrammatista John Owen (1564-1622), autore di 12 libri di epigrammi (genere che lo associa a Marziale), stampati fra il 1606 e il 1620.

[210] E non è ver che in erma rupe aeria: «e non accade forse che —aggirandosi in un luogo aspro di precipizi rocciosi, che la spaventano per il rischio di precipitarvi— una fanciulla, scoprendo all’improvviso un fiore inaspettato, lo raccolga e se lo ponga in seno, rallegrandosi del ritrovamente molto di più che se esso fosse avvenuto in un bel giardino fiorito?».

[211] Mosso Febo a pietà di un tal delirio: per salvare le sorti della poesia italiana, nel 1569, Apollo fece nascere il Marino, che surclassò Bione di Smirne e Orfeo di Lebetra (in Tracia), cioè raggiunse l’eccellenza in tutti i generi della poesia e si conquistò un successo di proporzioni straordinarie. L’indicazione cronologica è molto precisa, e colloca dunque una prima ideazione del componimento al 1706, magari in forma di trattenimento accademico carnevalesco. Un testo rimasto abbozzato e che infatti non è compreso nei due volumi romani di Teatro italiano del 1715 (con imprimatur 16 agosto); qualche mese più tardi, tuttavia, il rumoroso fiasco veneziano della Scolastica recitata da Riccoboni nel carnevale 1716, che aveva rimesso sul tappeto la spinosa questione della commedia letteraria, induce Martello a rielaborare in forma distesa e a rendere finalmente pubblico questo antico esercizio di satira letteraria drammatizzata.

[212] Sin che tanti scoccar sinistri augurii: finché l’invidia aggressiva dei petrarchisti in disgrazia propiziò la mia stessa morte.

[213] la nativa sirena e i cigni ingenui: cioè la sua città natale, Napoli, e i poeti in buona fede (simboleggiati dai cigni che abitano la fontana di Apollo nel canto nono dell’Adone, già menzionata in II.1.53).

[214] voi rigogliosi opra metteste a sorgere: voi vi adoperaste in modo indefesso a restaurare il vostro prestigio a scapito del mio.

[215] a punir voi con un perpetuo esilio: il redivivo Marino, che per volere dello stesso Giove ha sfidato le leggi degli Inferi, è tornato per umiliare tutti i suoi nemici

[216] ma se tal sia, chi vi si prova, ei sasselo: lo stile marinista, saccheggiato dagli stessi petrarchisti, è solo illusoriamente facile da imitare.

[217] ma il Fiorentino, a questi piè prostratosi: in un crescente delirio di onnipotenza Marino racconta dunque di aver ricevuto nei Campi Elisi gli omaggi e la corona poetica dai più grandi lirici della storia, nonché la richiesta di essere accettato come discepolo da un Petrarca sottomesso, a cui avrebbe infuso solennemente, per imposizione delle mani, il proprio stile molle e soave, operando una fusione inestricabile fra le due forme di poesia.

[218] Costei, che per man guido, e che lanciatomi: dopo il contrasto fra Cecco e Marino, subentra Mirtilo, spostando l’obiettivo sull’arcadismo; egli arriva in scena, reduce da giochi galanti, per mano a Cornia, ora oggetto delle sue attenzioni al posto della bugiarda Sostrata. Il venir meno anticipato della sua devozione amorosa per costei è un dettaglio dell’intreccio che potrebbe aggiungere un altro tassello all’ipotesi crociana, a cui si è fatto cenno nell’ introduzione, che la commedia sia da leggersi in relazione all’affaire poetico-sentimentale di Teresa Zani. Il monologo di Mirtilo è tutto intessuto di allusioni a chiave ad una serie di poetesse contemporanee, di cui la vedova bugiarda non può che essere gelosa. Quasi tutte sono comprese nell’antologia curata dal Recanati (per cui si rimanda ancora all’introduzione).

[219] l’arcade Aglauro, Aglauro la Cidonia…: si tratta di Faustina Maratti Zappi (1680-1740), romana, figlia del pittore Carlo Maratti e moglie dell’avvocato e poeta Giovan Battista Felice Zappi, buoni amici del Martello e suoi accompagnatori nella visita alle stanze raffaellesche vaticane da cui inizia il Comentario del 1710. La bella Faustina era celebre anche per essere sfuggita rocambolescamente, ai castelli Romani, ad un tentato rapimento da parte di un corteggiatore aristocratico che aveva respinto (Giangiorgio Sforza Cesarini dei duchi di Genzano), che era stato per questo condannato ed esiliato; aveva in seguito sposato lo Zappi (il Tirsi qui menzionato), conosciuto in Arcadia, nel 1705; la loro casa era divenuta un vivace cenacolo culturale, frequentato da personaggi del calibro di Friedrich Handel, Domenico Scarlatti, Vincenzo Gravina, e Giovanni Mario Crescimbeni (cfr. B. Maier, Faustina Maratti Zappi, donna e rimatrice d’Arcadia, Roma 1954). In un’ ideale gara poetica fra i due coniugi entrambi ricevono serti di mirto e di alloro dalle Muse in persona. Il Martello dedicherà a Faustina, nel 1721, il Davide in corte, dichiarando di aver modellato su di lei il personaggio di Micolle (in Teatro, II, pp. 153-158).

[220] di lei, che umile stassi in tanta gloria.: questa volta è Mirtilo a citare un verso di Petrarca (il quinto della quarta strofa di Chiare fresche e dolci acque).

[221] per divenir Fidalma, la Partenide: è lo pseudonimo di Petronilla Paulini (1667-1726) baronessa abruzzese, sposa bambina a 10 anni (per speciale dispensa papale di Clemente X imparentato con i Massimi) del quarantenne nobile romano Francesco Massimi, vice castellano di Castel Sant’Angelo, da cui ebbe tre figli; tentò di sfuggire all’infelice ménage separandosi e ritirandosi in convento, dove si dedicò alla poesia, senza però vedersi riconoscere dal tribunale il diritto di vedere i figli né di riavere la propria dote. Riconquistò la libertà e i suoi beni soltanto nel 1707, quando rimase vedova ed ebbe in Arcadia un tardivo risarcimento poetico.

[222] darebbe un occhio per aver, qual Silvia…: è la monaca umbra Gaetana Passerini, nipote del canonico Giuseppe Paolucci di Spello (l’Alessi menzionato in IV, III, 345), segretario del cardinale Giovanbattista Spinola, che fu uno dei membri fondatori di Arcadia.

[223] dell’ardua Irene? Io dico la Pamisia: altra dama altolocata, Teresa Grilli, moglie del genovese Principe Camillo Panfili.

[224] e che daria per divenir Paraside: fra tante dame aristocratiche, l’egualitarismo arcadico ammette anche un’attrice borghese: la grande Elena Balletti (1686-1771), in arte Flaminia, moglie di Luigi Riccoboni, acclamata interprete della Merope di Scipione Maffei nel 1713 e, in precedenza, anche di vari testi di Martello, ricordati diffusamente in V.9.1-5.

[225] la leggiadra Larinda, che Alagonia: questa ninfa, che non è compresa nell’antologia poetica del Recanati, è la gentildonna senese Aretafila Savini de’ Rossi, «gran dama letteratissima» buona amica del Martello, che le dedica la tragedia L’Elena casta, composta probabilmente insieme a Che bei pazzi nel 1716 e stampata a Firenze nel 1721 (cfr. Teatro, III, pp. 717-718) e, nel 1723, l’orazione In morte di Po, cane mormusse. La signora fu autrice di un’ Apologia in favore degli studi delle donne scritta in polemica con il misogino Giovan Antonio Volpi professore di filosofia allo Studio di Padova, e si adoperò come mediatrice nella controversia fra il Martelli e il Maffei a proposito del Femia.

[226] in capo ad una, o sia di crin piramide: il senso è che non basta travestirsi da ninfe dei boschi per diventare poetesse d’Arcadia, come fanno le dame che vogliono essere alla moda senza avere i requisiti necessari. Come esempio il Martello cita l’usanza diffusa di acconciare i capelli in stile Fontange (dalla duchessa che l’aveva ‘lanciato’ con successo durante una partita di caccia con Luigi XIV), appuntandoli rialzati alla sommità del capo in una stuttura ‘a piramide’, o di portare dei mazzetti di fiori dietro le orecchie come fanciulle di campagna.

[227] l’imitan tosto in sulla fonte pendule: le ninfe vanitose copiano questi dettagli curvandosi a specchiarsi nelle fonti.

[228] e che Safo e Corinna ogni uom la reputi: Saffo di Lesbo e Corinna tebana sono due grandi poetesse antiche.

[229] Ma il poetar non è cucir, né tessere.: non tutte le donne sono in grado di farsi poetesse. Nell’attualissima querelle il sobrio Martello si schiera ostentando un buon senso solo blandamente misogino.

[230] e chiamo te, che dell’etrusco Apolline: Mirtilo si appella a Cecco, rivendicando il proprio diritto di non condividere il coro di lodi indirizzate alla fraudolenta Sostrata e alle sue aberrazioni poetiche.

[231] Di cotai saputelle or scaturisticono: l’affollata scenetta richiama l’espressionismo satirico di quelle vivaci pitture di genere ‘alla Hogarth’ —coltivate a Bologna da artisti come Carlo Cignani o Giuseppe Maria Crespi— molto in sintonia con i gusti e l’indole dell’autore.

[232] Ragion farotti del tuo desiderio: Cecco assicura petrarchescamente la propria solidarietà nel nome della comune devozione per il lauro, che produce frutti duraturi, a differenza della sterile tamerice virgiliana (celebrata nella IV egloga delle Bucoliche). La polemica si appunta, al solito, contro l’arcadismo salottiero di una facile e inflazionata poesia galante.

[233] per la sostraticiaca accademia: come al solito Cornia si cala perfettamente nelle varie parti letterarie che si trova ad impersonare con sorprendenti e pertinenti mimetismi verbali, senza mai perdere né efficienza né concretezza.

[234] Ercol filò (ridendo Amor) per Onfale: schiavo d’amore della regina Onfale, Ercole si travestì da donna coprendosi di ridicolo per volere di Cupido. In questo, come in molti altri passi della commedia, i riferimenti mitologici sono resi, con uno spiccato sguardo ‘iconico’, come altrettanti frammenti figurativi.

[235] Al Petrarca non fur le selve in odio: il pedantissimo Messer Cecco riflette sull’appello ‘unitario’ che gli ha indirizzato Mirtilo, ma lo interpreta, letteralmente, in funzione delle occorrenze numeriche di tipici vocaboli arcadici all’interno del Canzoniere, arrivando persino ad includere le egloghe latine nel corpus di riferimento.

[236] O Petrarca, a’ tuoi piedi ecco inginocchiomi: timoroso che questa provvisoria alleanza con l’arcade contro l’odioso marinista comprometta il proprio purismo oltranzistico, Cecco chiede preliminarmente perdono al proprio maestro dell’eventuale utilizzo di vocaboli non suoi, promettendo di tornare, subito dopo, alla purezza di sempre. Un «eccesso» a perseguire l’«unica imitazione» del modello, per cui «impazzano di sovente i moderni poeti», che il Martello biasima con fermezza nell’avviso A chi legge del suo Comentario e Canzoniere del 1710.

[237] Vi son pur tai che nel suo ruolo Arcadia: la differenza fra i rozzi pastori autentici e i pastori gentiluomini attillati in eleganti mantelli, rilevata polemicamente da Cecco, adombra le discussioni estetiche interne alle diverse fazioni arcadiche. Mirtilo/Martello, naturalmente, si schiera dalla parte della concretezza e della semplicità, come aveva ancora dichiarato in testa al Comentario: «Ma qual cava preziosa è mai senza terra? Vero è che quelle dei diamanti, dei carbonchi e degli smeraldi sono più fecciose e men copiose delle altre che contengono meri cristalli, i quali, quantunque abbondin di lume, non sono stimati per rarità. Così sono sopportabili quei componimenti che contengono sensi pellegrini, benché mescolati di cose alle volte ordinarie» (Scritti critici, p. 516).

[238] Il padre vostro Alfesibeo, l’ingenuo: Cecco ricorda la serie di nobili arcadi di fede petrarchista con parrucche inanellate e ampi collari che coltivano una poesia rarefatta ed elegante. Loro tutore è Giovan Mario Crescimbeni, alias Alfesibeo Cario, che aveva guidato la scissione della prima Arcadia romana dopo l’allontanamento di Gravina; gli altri sono: Giuseppe Paolucci di Spello, Alessi; il torinese Paolo Coardi, Tirsi Leucasio; l’abate Angelo Antonio Somai, Ila Orestasio; Giovanni Maria Piantini, Montano; l’abate Vincenzo Leonio da Spoleto, Uranio Tegeo; il conte Cesare Bigolotti da Reggio, Clidemo Trivio; Eustachio Manfredi, Aci Delpusiano; e il già più volte ricordato conte veneziano Giova Battista Recanati, Teleste Ciparissiano.

[239] Cotesto latte è un cibo dolce e candido: la scelta del partito di Mirtilo è pedestre e stucchevole, come una dieta a base di troppi latticini, mentre il semplice pane della poesia petrarchesca è un cibo che sazia senza mai venire a noia.

[240] E quei sciforioni? O le olimpiadi?: la polemica è rivolta verso gli eccessi del gergo ellenizzante degli arcadi, che danno nomi pretenziosi e lambiccati alle cose più semplici ed esagerano a coltivare rituali all’antica. Sciforione è il nome di un mese ateniese (giugno-luglio), i anarchi potrebbero essere i giorni di festa (del carnevale?); la consuetudine di celebrare in accademia giochi “olimpici” poetici e musicali risale al 1697; non riusciamo a decifrare invece il significato di questi «barbari» ceto e serbatoio.

[241] sul divino Petrarca, e quel sol prenderne: il petrarchismo ridotto a infinita variazione combinatoria dei medesimi stilemi è un’aberrazione, che distorce la qualità del modello.

[242] Vestir convien della grand’alma il genio: Mirtilo difende un’ idea flessibile e aggiornata di imitazione, come riferimento ad un modello suscettibile di essere riplasmato dalla fantasia, in cui egli identifica il massimo requisito poetico; gli «Arcadi petrarchevoli» dai «nasi adunchi» che la mortificano con la loro pedanteria non gli piacciono affatto (cfr. la lettera a Muratori del 25 ottobre 1710 in Lettere, p. 57).

[243] Così pittor, che il buon disegno e gli agili: un’ imitazione poetica di qualità è analoga, in pittura, alla capacità di ricalcare un grande modello, senza copiarlo pedestremente, ma interiorizzandolo per rifarlo in proprio armoniosamente. Martello racconta nell’autobiografia di avere a lungo osservato, da bambino, il pittore Carlo Cignani al lavoro (leggendogli ad alta voce Ariosto e Tasso), e di averne riportato una forte sensibilità visiva, insieme pittorica e poetica.

[244] guida ai visi il color, mira, non copia: l’intera sequenza ricalca le idee esposte dall’autore nel già ricordato Comentario che introduce l’edizione romana del suo Canzoniere nel 1710, dove il topico sogno di un giudizio d’Apollo (a proposito, in questo caso, della «differenza del compor marinesco dal petrarchevole») scaturisce proprio a partire da un’animazione dell’affresco del Parnaso nella Stanza della Segnatura visitata di recente; lo guida nel magico viaggio lo stesso Raffaello, a cui egli riservava, sulla scorta di Giovan Pietro Bellori, una speciale predilezione (cfr. F. Waquet, Allégorie, autobiographie et histoire littéraire, cit.).

[245] Fassi un Giulio, un Allegri, un Michelagnolo: la galleria dei raffaelleschi di qualità che sono stati capaci di crearsi uno stile proprio comprende Giulio Romano, Niccolò Correggio, Michelangelo Caravaggio, Domenico Zampieri detto il Domenichino, Francesco Albani e Guido Reni. Il passo ne riecheggia un altro del Comentario, dove Raffaello, che guida l’autore in Parnaso al cospetto di Apollo, mostra di apprezzare la sapiente mescolanza di antico e di moderno che ha caratterizzato «i quattro Carracci, il Reni, il Zampieri, l’Albani e modernamente il Cignano con, suo giovane figlio, il Franceschini, il Quaini» (Scritti critici, p. 141).

[246] Finiam le liti, ecco l’irrevocabile: è Cornia a stoppare con fermezza la lunga discussione, invitando i contendenti a celebrare adeguatamente i meriti poetici di Sostrata, pena il ritiro della sua benevolenza.

[247] La pastorella mia sossopra volgami: nell’atmosfera fortemente iconica della scena il disastro delle fragole sparpagliate fuori dal paniere, evocato nella lamentosa metafora di Mirtilo, fa pensare davvero ad un quadretto rococò.

[248] quante atte ai carmi il buon Teleste adunaci: Cornia, inflessibile e minacciosa regista dell’Accademia poetica, mente senza rimorsi, chiamando a testimoni i malcapitati spasimanti a proposito della superiorità di Sostrata rispetto alle poetesse arcadiche celebrate nell’antologia di Teleste Ciparissiano/alias Giovanbattista Recanati.

[249] dove me il mio dolor nel dir fa stupida: sia Sostrata che Penulo, in verità, sono bravissimi a trovare scuse articolate per non cimentarsi nella lettura e nella recita.

[250] (Dove il dente ci duol, la lingua sdrucciola): l’iterazione della controscena di commento proverbiale della serva è topica.

[251] M’inchino alla bellissima Artemisia: Penulo inaugura questa sequenza iperletteraria con un saluto di sapore solenne quasi dantesco (Inferno, IV, 80).

[252] è poeta seguace di Fidenzio: Penulo, facendo mostra di un’ incongrua competenza letteraria, presenta ironicamente Sannione come seguace di Pietro Fidenzio Giunteo da Montagnana, detto Glottocrisio (Linguadoro), il pedantissimo protagonista dei Cantici di Fidenzio di Camillo Scroffa (1526-1565).

[253] Lofa di dietro. Il musical prefazio: Lofa si limita a garantire un commento musicale alle declamazioni, e dunque resta fuori dal cerchio accademico così precisamente indicato dal testo.

[254] Io fo da Cloride: Mirtilo reciterà un’egloga dialogata di omaggio amoroso a Sostrata; Cornia impersona Cloride nella lettura.

[255] Ceda la rosa, onde le fonti infioransi: l’aria intonata da Lofa, questa volta, ha la struttura di un sonetto “elisabettiano”, con quattordici versi divisi in tre quartine a rima alternata e un distico finale a rima baciata.

[256] Ai luminari tuoi, Sostrata, immolinsi: Sannione dedica ai begli occhi dell’amata un epigramma classicheggiante in distici a rima baciata.

[257] Ond’è che, o Dei marini, inferi e superi: l’epigramma encomiastico di Sannione celebra il trionfo di Sostrata su tutti gli dei dell’universo: Nettuno, disarmato del suo tridente dai suoi occhi ridenti; Plutone folgorato dalla sua intelligenza brillante; lo stesso Giove, derubato dei suoi fulmini, da una donna ardente. Se loro capitoleranno così, come potrà resisterle quel poco che resta del povero, insignificante Sannione? Trunculus è vocabolo che indica una piccola parte recisa del corpo; flocci pendere in latino vale «considerare di nessun valore».

[258] (Canti a Camillulo: il riferimento è a Camillo Scroffa.

[259] (Ma quanto io ridomi…: Cornia registra soddisfatta che il suo piano di avvicinare Sostrata a Penulo sta andando a gonfie vele…

[260] Invito a ber te, bella donna, e recito: da qui al verso 94 Marino recita le ottave 118-122 del canto settimo dell’Adone, dove «accenti di dolcissima armonia/ascolta Adon tra suoni e balli e feste;/s’asside a mensa con la dea celeste/e le lodi d’amor canta Talia». Il testo di Martello ricalca, con minime varianti, l’originale, sostituendo (al verso 70) Cosmopoli al quest’isola del poema; l’attacco Ond’ellera costituisce probabilmente un refuso rispetto all’0r d’ellera mariniano.

[261] qual Semele che al folgore fu cenere: i giovani e le fanciulle celebrano canti di ebbrezza e d’ amore in onore di Bacco (Bromio), di Venere e di Cupido, ardendo di passione (come Semele, che fu incinerita dall’amplesso con Giove).

[262] La cetera col crotalo e con l’organo: la musica festiva rimbomba in onore di Venere (detta Lucifero come stella del mattino ed Espero come stella della sera) da un concerto di strumenti diversi: a tastiera (organi), a corda (cetre), a percussione (crotali, cembali e timpani) e a fiato (fistole, zufoli e pifferi).

[263] I satiri con cantici e con frottole: si celebra l’abbondanza festosa di vino e di cibo (le ciottole sono i vasi di coccio e le fescine le ceste).

[264] Chi cupido è di suggere l’amabile: la strofa (di cui si ricorderà nel suo Bacco in Toscana Francesco Redi, ammesso nel 1688 fra gli accademici Accesi di Bologna sotto la segreteria del Martello), itera una serie di scherzose diffide ad annacquare il vino rosso (cioè del colore del rubino e della porpora) o bianco (come il crisolito, cioè il topazio). La pevera è un recipiente di legno oblungo che si usa per travasare il vino nelle botti.

[265] Ma guardinsi gli spiriti, che fumano: l’ultima strofa diffida i moralisti astiosi dal rovinare la festa rompendo anfore e cantari (le antiche coppe greche con i manici laterali) e facendo arrabbiare i bevitori.

[266] Tre sdruccioli per verso? In ver che supera: la performance di Marino ha rivelato un virtuosismo ritmico che abbaglia gli spettatori naif come Penulo e Sostrata, ma il competente Mirtilo vi riconosce, con ammirazione, una perizia superiore persino a quella del mitico Serafino Aquilano (1466-1500), gran frottolista e intrattenitore. Il Martello spezza qui una lancia in favore del proprio giovanile marinismo.

[267] Noi due sì che da ver siamo petrarchevoli: l’attrazione crescente fra i due si manifesta per il momento in forma di solidarietà poetica.

[268] Se ciarlano. Capitolo: Cecco è ingelosito dai conciliaboli fra Sostrata e Penulo, e annuncia seccamente il suo capitolo (di terzine incatenate) modellato sui Trionfi e sulla poesia amorosa tardo-quattrocentesca.

[269] onde al sol vero i rai si scolorarono: la lode di Sostrata, nel solco dei grandi poeti d’amore latini, cita il terzo sonetto del Canzoniere (Era il giorno ch’al sol si scoloraro).

[270] e loderan costei nova Sulpizia: la poetessa romana del primo secolo avanti Cristo, di cui sopravvivono alcuni carmi compresi nel Corpus Tibullianum.

[271] Onde non bollì mai Lippari ed Ischia: la passione amorosa lo devasta dall’interno come il fuoco vulcanico di Lipari, Ischia, Stromboli ed Etna.

[272] Mirtilo: si presentano alla ribalta i due successivi recitanti, che si producono in un duetto amoroso di natura pastorale.

[273] Ma però non c’è miracolo: Penulo si precipita a ridimensionare l’apprezzamento (vanitoso) di Sostrata, annunciando che reciterà il sonetto composto da lei e poi un proprio madrigale: il plauso degli astanti e le ripetute rimostranze di Mirtilo di fronte a questo entusiasmo preventivo a scatola chiusa ne punteggiano comicamente la recita esitante, conclusa dalla simulazione di un deliquio amoroso quando non riesce più ad andare avanti.

[274] Ahi! Manteca chi n’ ha? Chi muschio o balsamo?: Sostrata sollecita affannosamente creme profumate per rianimarlo, ma Cornia nota che non è affatto pallido.

[275] Vanne tosto, e vien, vola! e te’ le forbici: «vai e torna di corsa, e tieni le forbici»: le istruzioni conferite a Cornia a bassa voce —fra i crescenti sospetti degli astanti circa il reale significato di ciò che sta accadendo— sono di recidere la parte più facilmente asportabile di Panfilo (che è imbalsamato e dunque profumato), e cioè il prepuzio, per far rinvenire Penulo. La commedia comincia a virare sul macabro grottesco in un crescendo di trovate comiche.

[276] Vien come lampo, ed eccola.: la battuta è cantata (come segnala il carattere corsivo della princeps), con una pennellata di surrealtà comica.

[277] che al marin venator linque il castoreo?: cioè il medicamento che si ricava dai castori, cacciati sulle acque. La preziosa ipotesi di Sannione sulla natura del farmaco è ricavata dalle Georgiche di Virgilio.

[278] A reviviscere: mentre Penulo si sta riprendendo, Sannione, che lo paragona sprezzantemente a Tirone (lo schiavo liberato di Cicerone, che divenne scrittore), si rivolge al suo demone, ma questi si rifiuta di obbedirgli perché sta ridendo per conto proprio….

[279] Cavalier, sarem pronti?: Penulo l’ha appena scampata bella e si rivolge preoccupato al Marino per avere garanzie.

[280] mi avrà ben tosto a imbalsamar, qual Panfilo: insonne e smanioso, Penulo si aggira intorno alla porta del sepolcro, deciso a tentare la sorte con Sostrata recandole in dono una preziosa edizione di Petrarca, la stessa che Cecco teneva appesa al collo nelle scene precedenti. L’attenzione alle suppellettili sceniche, come abbiamo visto finora, è piuttosto minuziosa.

[281] potea vendicar cotante ingiurie: «la morte, già vinta e umiliata da me tutte le volte che in battaglia è dovuta scappare di fronte alla mia spada invincibile, ora, riparata dal tuo sguardo severo che mi uccide, si appresta alla sua vendetta, a meno che tu non mi salvi da lei guardandomi benevolmente». Penulo ha quasi imparato il linguaggio concettoso dei poeti.

[282] Ma perché il vulgo vil sovente interpreta: Sostrata, pur cedendo terreno, è sempre attenta a salvare le apparenze e pronta a scandalizzarsi vistosamente quando le profferte di Penulo si fanno troppo esplicite.

[283] Io sì l’intendo; altri a sua posta intendala: la derisione smaccata e l’attacco diretto di Cornia non bastano a far capitolare la padrona.

[284] putta loquacissima, sfacciatissima?: il ritmo del verso, con accento di quinta, è petrarchescamente anomalo, ma comune nella poesia comico-espressionistica (per esempio del Pulci) e anche bucolica.

[285] m’ obbligo a non oppormi in forma camerae: «arrabbiati con lui, che ti tenta ad amare, e non prendertela con me, che, se anche vuoi seppellirti viva, non ho alcuna possibilità di contrastarti». Cornia, dai mille linguaggi, ricorre ad una solenne e molto tecnica formula giuridica: in base ad una bolla pontificia del 1564, l’Auditor camerae era competente a giudicare in appello le cause relative ai contenziosi sui contratti stipulati secondo le disposizioni contrattuali della Camera Apostolica, oppure relative a membri della Curia Romana.

[286] ma non sai tu perch’io mi vegli: or svelisi: «ma non sai perché sono così insonne: è tempo ora di rivelarti il segreto finora nascosto, per vedere se l’inclinazione aspra e feroce che mi hai dimostrato finora, incompatibile con la tua dolce bellezza, può mutare di segno nei miei confronti».

[287] e un bel corpo di luce accesa e vitrea: la trovata di Penulo della visione onirica di Panfilo, trasfigurato entro una luce neoplatonica vivida e trasparente, è un vero e proprio deus ex machina risolutore.

[288] ciò è sonetti pria trecento tredici: come al solito Sostrata non è molto precisa a fare i conti: il Canzoniere comprende infatti 317 sonetti, 29 canzoni, 9 sestine, 7 ballate e 4 madrigali.

[289] Ma entriam, sposa, a gioir, diam gloria a Panfilo: la battuta, una volta tanto, ha una notevole efficacia comica.

[290] la sua pazzia col nuovo elettuario: l’elettuario (o lattovaro) è un composto farmaceutico ricostituente.

[291] Ciascun sesso stia dentro all’essercizio: il Martello, per bocca di Cornia, espone la propria idea di un’ ordinata ripartizione di ruoli e di competenze fra i due sessi.

[292] della carne all’odor qual corvo or crocita: «gracchia come un corvo che sente odore di carne».

[293] tre, che sien benedetti, in un balen svanirono: Lofa si rallegra che il cadavere squartato sia stato trafugato, ripristinando l’idillio naturalistico che ispira il suo canto.

[294] sposo, ch’ora gioisci, e c’ hai da pendere: Penulo, che si sta godendo la sua prima notte di nozze, finirà presto impiccato al posto del cadavere perduto che doveva custodire per conto dell’inflessibile tribunale.

[295] quanto fia che dall’alba a me rivelisi: tutte le informazioni che riuscirò a racimolare alle prime luci dell’alba.

[296] di te un vaglio faria la mia ferocia: «ti farei a pezzettini», riducendoti come un colabrodo (il vaglio è il crivello bucherellato per setacciare le sementi).

[297] Godo, o signor, di tua braura: aspettati: Cornia, al solito, non si lascia intimidire dalle reazioni indignate dei due e sfida ironicamente la braveria di Penulo, annunciandogli che lo attende un cimento meno impegnativo con le guardie che verranno ad arrestarlo.

[298] per appiccarti là dove già stettero: «per impiccarti alla stessa forca a cui avresti dovuto fare la guardia»; ricordiamo che vigeva ancora, all’epoca, la pratica di lasciare esposti, a scopo dissuasivo e intimidatorio, i corpi squartati o impiccati dei rei.

[299] fu già conquistatore, a scherno recasi: un eroe invincibile come lui non teme né i malviventi, né gli sbirri (altrettanto temibili).

[300] Io vedo in polvere: Sostrata (molto su di giri in questa sua notte nuziale) ci mette un po’ a capire la situazione, e scambia per furore represso il repentino attacco di tremito da cui Penulo è colto (come già gli era capitato, nella quarta scena del primo atto, alle prese con le magie di Sannione). Per tutta la scena si confrontano comicamente, senza riconoscersi a vicenda, la tensione erotica di lei e il terrore, altrettanto fisico, di lui.

[301] Et io licenzia: la sorniona Cornia prende atto del licenziamento.

[302] Spia se i quarti pur sien rubati, e contagli: verifica se il cadavere è stato davvero trafugato, e racconta a Lofa che sono scappato molto lontano. Penulo è veramente disperato, e Cornia continua a stuzzicarlo.

[303] E in ver chi provocarti ardisca, o Penulo? : «ma chi oserebbe mai sfidarti?».

[304] Gloria e vendetta, ahi che innamorerannomi: «se mi cimento con gli sbirri l’ardore della lotta mi distoglierà dall’amore e tu, anche se io sono vivo, tornerai alla tua solitudine vedovile». Un argomento decisivo per farle cambiare atteggiamento.

[305] per rinovare il sacrificio a Panfilo: in verità il guerriero terrorizzato non è in vena di fornire prestazioni amorose e neanche di reggere più la parte del maschio potente.

[306] Io sempre vil mi riconobbi, o Sostrata: Penulo si arrende alla verità quasi con sollievo, e dichiara di essere stato ingannato, circa il proprio coraggio, dagli incanti di Sannione, che gli ha rivenduto come vere le frottole dello spirito.

[307] Nato villano, e avvezzomi: nato contadino, e abituato a maneggiare la zappa, sono robusto ma vigliacco, e non sopporto neanche la vista del sangue; pensa un po’, dunque, come mi sento ora al pensiero di dover spargere il mio…

[308] Ma il tuo natal, deh tacciasi: Sostrata continua a rifuggire in tutti i modi dalla verità con una sorta di rimozione, ricorrendo, come ad un mantra e ad una garanzia, all’inossidabile risorsa di Panfilo.

[309] e comandò quell’imeneo che intuami: e mi ordinò, dall’aldilà, questo matrimonio che mi fa tua.

[310] però leggi il suo dono, e in lui rincorati: la soluzione va cercata, dunque, nella lettura del Canzoniere.

[311] e siasi perché né pur so leggere: la brutale e impaziente serie di rivelazioni di Penulo culmina nella finale ammissione di non saper neanche leggere (veramente catartica per lui dopo tanti affanni e dissimulazioni).

[312] Ma vaglian tante mie sofferte ingiurie: il bilancio di Sostrata, alla fine, è tuttavia positivo e si misura senza pudori sulla virilità di Penulo, riecheggiando comicamente —ma rovesciato di segno in termini di appagamente erotico— il famoso lamento del satiro frustrato in Aminta II, 39-44: «Questa mia faccia di color sanguigno, / queste mie spalle larghe, e queste braccia / torose e nerborute, e questo petto / setoso, e queste mie velate coscie / son di virilità, di robustezza / indicio: e, se no ‘l credi, fanne prova».

[313] e dal compormi il canzoniero assolvoti: «e ti sollevo dagli obblighi poetici pattuiti».

[314] unirò questo frale al fral di Panfilo: il duetto lirico e melodrammatico degli amanti pronti a morire vira rapidamente in direzione grottesca.

[315] Ché la giustizia in ritrovar che pendono: «Perché gli sbirri, ritrovando appesi alla pianta i pezzi del cadavere di Panfilo, li crederanno quelli del condannato».

[316] allor fia salvo a compensar di Sostrata: la concreta ricompensa promessa alla ««vera » di Sostrata (sempre ufficialmente riservata a Panfilo) risulta grossolanamente comica, e lei, del resto, è prontissima ad accogliere la richiesta e a passare all’azione.

[317] Al vicin bosco all’ospitale aggiromi: mentre la coppia sta provvedendo a smembrare il cadavere, Cornia si aggira nei dintorni in ambasce. Il dispositivo scenico ripartito in due zone praticabili (definito, come abbiamo già osservato, con una certa precisione) è lo sfondo di questa doppia azione scenica . Al verso V.7.57 la serva vedrà infine aprirsi la porta della tomba e uscirne Sostrata e Penulo mascherati con il loro macabro carico.

[318] colla moneta, cui le scelleraggini: Cornia, divisa fra speranze e timori, elabora intanto un piano spregiudicato e molto concreto: scarta l’ipotesi che Penulo, rintanato nell’arca funebre, possa essere scoperto dagli avidi cacciatori dei tesori della cripta, o che qualche giudice possa prestar fede all’eventuale testimonianza di uno stupido come Lofa; passata la bufera, dopo una fuga temporanea, Sostrata potrà dunque tornare, e recitare ufficialmente la parte di vedova inconsolabile, godendo delle proprietà del defunto Panfilo, mentre Penulo, in veste ufficiale di domestico, resterà il suo amante segreto.

[319] Già di molte si sa matrone e nobili: ecco un altro cammeo nero e misogino —ancora più feroce di quello evocato in IV.3.64 a proposito delle poetesse infiocchettate e blateranti— che prende di mira un fenomeno scandaloso di corruzione aristocratica: dame di ostentata rispettabilità che si portano a letto in segreto valletti sguaiati e sensuali, pronti a svergognarle all’osteria con i loro compagni di crapule. Un tocco di espressionismo, lo ripetiamo, certamente debitore a certa pittura di genere bolognese interna all’Accademia Clementina.

[320] O fida mia cubicularia animula: dopo le violenze trucide della scena precedente, l’irruzione in palcoscenico di Sannione che invoca liricamente il suo demone rialza i toni, evocando parodisticamente i celebri versi di Adriano rivolti all’Animula vagula blandula.

[321] che qual Libero vai lunato il vertice: lo spirito sghignazza sulle illusioni del povero incantatore e gli si palesa con le sembianze di un pipistrello (vespertilio) cornuto come l’antico dio agreste Libero, che gli mostra i denti con aria severa e derisoria (cachinnando, cioè ridendo).

[322] che a un tocco sol del magistral mio baculo: «che per virtù della mia verga magica Panfilo resusciti e torni con la sua vedova, scacciando quel mascalzone di Penulo che mi fa tormentare di gelosia».

[323] Odo le voci tue qual tintinnabulo: i puntini di sospensione segnalano un inserto musicale previsto nello spettacolo come risposta dello spirito: «odo risuonare la tua voce come dei campanellini che mi attirano con suono soave e argentino, ma tu mi volgi il didietro, mi disprezzi e mi trascuri».

[324] Si trasferisca il suaviloquio in crastino: «si rimandi a più tardi il dolce colloquio» bruscamente interrotto dall’arrivo di estranei.

[325] Ma non hai tu per la Rachele e l’Adria: «ma non sei contento dei tuoi successi teatrali come autore della pastorale Rachele e della piscatoria Adria, recitate da Lelio e Flaminia sulle scene venete e lombarde? Chi, se non io con la mia Lira, ti ha ispirato questi generi di poesia?» Il Cavalier Marino continua a rivendicare i propri diritti di primogenitura in materia bucolica e marittima, lamentando l’ingratitudine degli Arcadi che lo disconoscono, e si appella alla riconoscenza dovutagli da Mirtilo, perché entrambi si uniscano a punire a colpi di satira l’implacabile Sostrata e a vendicarsi dei soprusi di Penulo, di cui ora, grazie a Lofa, è nota la viltà. La Rachele era una tragedia di materia biblica e di ambientazione pastorale recitata al teatro San Luca di Venezia nella quaresima del 1712, su pressante sollecitazione di Scipione Maffei, dai coniugi Luigi Riccoboni e Elena Balletti (in arte Lelio e Flaminia), che ne avevano replicato il successo a Verona, Vicenza, Padova, Modena e Bologna; anche la marittima Adria aveva avuto buon esito al teatro San Luca, il 30 gennaio del 1715, grazie all’appassionato interessamento del nobile Giovan Battista Recanati a cui è dedicata la commedia (sulla materia cfr. le note al testo di H. S. Noce in P. J. Martello, Teatro, II, rispettivamente pp. 809-814 e 765-769). L’inserto metateatrale —oltre che omaggio implicito a quest’ultimo e sommessa autocelebrazione dell’autore— è deputato ad allargare alla poesia drammatica la cruciale questione del rapporto fra marinismo e arcadismo, che costituisce il problema centrale affrontato nella pièce; e infatti la lunga replica di Mirtilo si dilunga proprio su questo tema.

[326] scrittore immenso e rimator mellifluo: versatilità e ampiezza di produzione, dolcezza e musicalità espressiva sono i pregi indiscutibili che Mirtilo/Martello riconosce al Marino, suo giovanile maestro di poesia.

[327] Tu sai parlar, ma in ogni tempo; e mancati: il ripudio del marinismo è legato alla sua indiscriminata e lutulenta verbosità, a cui gli Arcadi contrappongono il buon gusto di un’eloquenza sobria e misurata.

[328] mal chiragrosi, estenuati e maceri: «gottosi, sfiniti e sofferenti» sono definiti i puristi cinquecenteschi, ristretti nel loro angusto petrarchismo.

[329] Fior più vaghi de’ tuoi non Cinto o Menalo: sul monte Cinto, nell’isola di Delo, Latona aveva partorito Apollo e Diana; il monte Menalo, sacro a Pan, si trovava invece in Arcadia, prediletta zona di caccia per la dea. Il senso è che i tesori della poesia di Marino —come fiori nascosti fra i rovi, o pietre preziose coperte di fango— sono difficili da cogliere e da imitare.

[330] da un vil soldato. In faccia sua me Cloride: Mirtilo è disposto ad unirsi a Marino per svergognare Sostrata che si è lasciata abbindolare da un soldataccio e, al posto suo, amerà e celebrerà nei boschi il nome della dolce Cloride/Cornia (con ciò tornando l’autore ad una salutare auto-ironia).

[331] Non canterò più qual per me soleasi: anche a Messer Cecco è passata la passione amorosa.

[332] I’ diè in guardia al soldato, e più non pentomi: Cecco si abbandona con sollievo ad una serie di dichiarazioni sentenziose: «io ho affidato Sostrata al soldato senza pentimenti; un peso è grave per chi se lo vuol tenere; per quanto posso mi ammorbidisco e me ne sto per conto mio; il merlo ha saltato il fosso: Cavaliere e Mirtilo, ammirate la mia libertà ritrovata» ecc.

[333] Cecco, io t’intendo, e sin dentro alle tenebre: Marino gli esterna la propria comprensione di tante massime così solennemente proclamate.

[334] Feriam tutti uno scopo, e instabil femmina: «festeggiamo tutti (da ferior latino) l’obiettivo comune di svergognare Sostrata come si merita».

[335] Cedono il canto, or che l’Aurora affacciasi: il canto di Lofa segnala il sopraggiungere dell’Aurora, quando ai grilli subentrano gli uccelli, e, con esso, il rispetto dell’unità aristotelica di tempo osservato nel componimento.

[336] Or siamo in porto: il sollievo di Cornia per l’andata a buon fine della sostituzione del cadavere è subito turbato dall’irrompere minaccioso dei pretendenti infuriati.

[337] Io lodo il gran disdetto, e lo ringrazio: Cecco continua a rimuginare per conto proprio sul ripudio di Sostrata, che ora gli appare provvidenziale, e di cui ringrazia, naturalmente, il suo Petrarca.

[338] Scifra a Laureta tua gli oscuri oracoli: «lascia decifrare questi vaneggiamenti alla tua Lauretta».

[339] Ma il placherà la lode sua, che vittima: «ma le lodi poetiche lo rallegreranno più del sacrificio di cento buoi». L’invenzione di questo Panfilo corrucciato che le sarebbe apparso in sogno è forse il sintomo di un inconscio disagio nella pur impudente Sostrata.

[340] Il madrigale io spaccierò, cui tolsemi: Penulo si accinge dunque a ripetere la recita del madrigale interrotto dal suo preteso malore, e chiede la consueta assistenza di Marino.

[341] so le fortune tue, so le tue macchine, che testé da un capestro hanti a far pendere: «conosco il tuo stato miserabile e le tue macchinazioni, che presto ti faranno impiccare».

[342] Eh cacciale: insensibile alla sdegnata perorazione, Sostrata suggerisce di infilzarlo senza tanti complimenti, ma la spada di Penulo (secondo una gag tipica) è solo di rappresentanza e del tutto inservibile: la situazione inizia a precipitare rovinosamente.

[343] Il tuo timor colla pietà si pallia: la tua vigliaccheria si traveste di condiscendenza e misericordia.

[344] minaccia te la verga mia, che al cranio: Mirtilo, dunque, tiene minacciosamente sospesa sul capo di Penulo il suo bastone pastorale, pronto a fracassarglielo di botte.

[345] Ne ho prova già su più di un lupo, e sparsine: «l’ho già testato su diversi lupi, di cui ho sparso il cervello sull’erba, per la gioia degli avvoltoi».

[346] Io avrò sempre la fenestra in odio: Cecco, scampato ai rischi d’amore, si dichiara invece refrattario a nuove avventure; a proposito di questa «finestra» che si apre e si chiude sui sentimenti e i pensieri, cfr. la nota al verso III.5.25.

[347] Colmo hai già il sacco, o avara Babilonia: la sua invettiva sale di tono in forme petrarchesche, richiamando il sonetto CXXXVII L’avara Babilonia à colmo il sacco.

[348] contro costei, che spreti noi, mio demone: Sannione condivide con il proprio demone lo sdegno «contro colei che, avendo disprezzato tutti loro, onora soltanto un mascalzone come Penulo» (definito comicamente sicofante, cioè calunniatore).

[349] Perché sotto il mio piè terra non apriti: sotto questa pioggia di attacchi Sostrata vacilla con un principio di pentimento, e anche il muto Penulo se la vede brutta.

[350] Io, di cui si favella, a voi presentomi: Cornia arriva sul più bello a risolvere tutti i guai con audace improntitudine, consegnando i malcapitati ex-pretendenti alle guardie del manicomio e risparmiando soltanto l’inoffensivo Lofa.

[351] Ahi le spalle!: l’azione si conclude con una ritmica bastonatura danzata nella più pura tradizione di teatro popolare e musicale e l’ultima battuta è lasciata a Mirtilo, che invoca (invano) i suoi sodali Arcadi.