Tomaso Mondini
Pantalone mercante fallito
Comedia esemplare nuovamente data in luce dal Dottor Simon Tomadoni
a cura di Maria Ghelfi
con un’introduzione di Piermario Vescovo
Biblioteca Pregoldoniana
lineadacqua edizioni
2019
Tomaso Mondini
Pantalone
mercante fallito
a cura di Maria
Ghelfi con un’introduzione di Piermario Vescovo
© 2019 Maria
Ghelfi
© 2019 Piermario
Vescovo
© 2019
lineadacqua edizioni
Biblioteca
Pregoldoniana, nº 26
Collana diretta
da Javier Gutiérrez Carou
Supervisore dei
dialetti: Piermario Vescovo
www.usc.es/goldoni
Venezia -
Santiago de Compostela
lineadacqua
edizioni
san
marco 3717/d
30124
Venezia
tel.
+39 041 5224030
www.lineadacqua.com
info@lineadacqua.com
ISBN
dell’edizione completa: 978-88-32066-09-8
La presente edizione è risultato
dalle attività svolte nell’ambito dei progetti di ricerca Archi-
vio del teatro pregoldoniano
(FFI2011-23663) e Archivio del teatro pregoldoniano II: banca dati e biblioteca
pregoldoniana (FFI2014-53872-P) finanziati dal Ministerio de Ciencia e
Innovación spagnolo. Lettura, stampa e citazione (indicando nome della
curatrice e dell’autore dell’introduzione, titolo e sito web) con finalità
scientifiche sono permesse gratuitamente. È vietato qualsiasi utilizzo o
riproduzione del testo a scopo commerciale (o con qualsiasi altra finalità
differente dalla ricerca e dalla diffusione culturale) senza l’esplicita
autorizzazione della curatrice, dell’autore dell’introduzione e del direttore
della collana.
Biblioteca Pregoldoniana, nº 26
Nota al testo
Edizioni
utilizzate
Di seguito l’elenco e la
descrizione delle edizioni di cui si è tenuto conto per la presente edizione
del Pantalone mercante fallito. Si tratta di una tradizione di testi
esclusivamente a stampa che non presentano un panorama significativo di
varianti.
Edizione siglata M:
PANTALONE / MERCANTE /
FALLITO, / COMEDIA / ESEMPLARE / Nuovamente data in / luce / DAL DOTTOR / SIMON
TOMADONI / [insegna] / IN VENETIA, M.DC.LXXXXIII. /
[riga orizzontale] / Domenico Lovisa sotto i Port à Rialto. / <Con>
Licenza de’ Superiori. <E> Privilegio.
A p. 2 si colloca l’ elenco dei personaggi.
La commedia va da p. 3 a
p. 72.
A metà di p. 72 si
colloca il listino della libreria.
[riga orizzontale] / Dal
Lovisa à Rialto
Edizione siglata M2:
PANTALONE / MERCANTE /
FALLITO. / COMEDIA / ESEMPLARE / Nuovamente data in / luce / DAL DOTTOR / SIMON
TOMADONI / [insegna] / IN VENETIA, M.DC.LXXXXIII. /
Per Domenico Lovisa à Rialto. / Con Licenza de’ Superiori.
A p. 2 si colloca l’ elenco dei personaggi.
La commedia va da p. 3 a
p. 72.
A metà di p. 72 si
colloca il listino della libreria.
[riga orizzontale] / Dal
lovisa à Rialto.
L’edizione critica del Pantalone mercante fallito si basa sulla stampa M, conservata alla
Biblioteca Nazionale Centrale di Roma. Il confronto è avvenuto con M2,
copia conservata alla biblioteca di Casa Goldoni. Il testo è identico anche se
in alcuni casi M2 ha permesso di
integrare parti che in M erano poco leggibili.
Sono elencate di seguito le varianti di M2
rispetto a M:
I.1.49: presenta “se i avessi” invece di “se i gh’avessi”;
I.6.1: presenta “vintena” invece di “vintina” e “ma ancùo
doman” invece di “si ancùo doman”;
I.7.1: presenta come numero di indicazione di scena VI
invece di VII;
I.8.13: presenta “a patte” invece di “a parte”;
I.9.1: nella didascalia di inizio scena presenta
“Beatrice, Bagolino” invece di “Beatrice e Bagolino”;
III.4.15: presenta “caval una lirazza” invece di “caval a
una lirazza”;
III.5.33: presenta “gazeta” al posto di “gàzia”;
III.10.1: presenta “aggiare” al posto di “agiare”;
III.11.2: presenta “conzalavez” al posto di
“conzalavezi”;
III.11.27: presenta “agiutti” invece di “agiuti”;
III.12.21: presenta “e porterò” invece di “e ve porterò”.
Sono
segnalati in seguito i punti, comuni alle due copie, dove è
stato operato un intervento.
I.4.13-18: le battute sono state indicate come a parte
conformemente al loro significato nella realizzazione scenica;
I.13.24: “e” è stato corretto “el”;
III.11.18: “dofevi” è stato corretto “dovevi”;
III.12.23: “cospetto de Dina” è stato corretto “cospetto
de Diana”.
Per quanto riguarda gli a parte indicati nel testo
si è scelto di riportarli graficamente tra parentesi prima della porzione di
battuta sussurrata indicata anch’essa tra parentesi, come nell’esempio che
segue, I.1.5:
pantalone (a parte) (Cazza, ti falli Dottor.)
Da segnalare che nella scena decima del terzo atto è
stata introdotta una numerazione dei versi del canto di Pantalone in prigione,
il flon, allo scopo di rendere più chiaro il commento.
Si segnala che nel commento si troveranno riferimenti all’edizione:
Giovanni Bonicelli, Pantalone
bullo overo La pusillanimità coverta. Comedia di Bonvicino
Gioanelli, a cura di Maria Ghelfi, Venezia - Santiago de Compostela,
lineadacqua, 2013 (www.usc.es/goldoni), indicato brevemente come Bullo.
Mentre altri riferimenti sono
relativi al testo del Pantalon spezier di Giovanni
Bonicelli, seguendo l’edizione: Giovanni
Bonicelli, Pantalon
spezier con le metamorfosi d’Arlechino per amore. Scenica rappresentanza, a cura di Maria Ghelfi con un’introduzione di Piermario Vescovo,
Venezia - Santiago de Compostela, lineadacqua, 2018 (www.usc.es/goldoni). Il
testo verrà indicato brevemente come Spezier, senza l’indicazione della
pagina ma solo di atto, scena e battuta.
Si ringrazia infine qui Luca D’Onghia
per i preziosi suggerimenti in fase di revisione del testo.
Tomaso Mondini
Pantalone mercante fallito
Comedia
esemplare nuovamente data in luce
dal Dottor
Simon Tomadoni
Personaggi
pantalone
celio suo figlio
arlichino suo servo
dottore
leandro il bello
lucindo il bravo
beatrice dama di Pantalone
bagolino suo servo
angela dama di Celio
spinetta sua serva
<sartore>
<calegher>
ATTO PRIMO
SCENA I
Pantalone,
Dottor.
pantalone Sior Dottor caro, veramente son
tanto obligà al vostro bon affetto cognossùo da mi in tante occasion, che me
par che me trarave in fuogo co se trattasse de farve servizio; ma tanto più me
despiase aver con vu tante e tante obbligazion, quanto che mai ve degneressi
comandarme qualcossa per farme anca mi tegnirme in bon d’averve qualche volta
servìo.[1]
dottor Oh, ’l me çerimonios Pant’lon, l’obligh
che mi a’ i’ ho con vu, a’ i’ so mi; ma la vostra cortesie
mazorment a’ i fa augmentar quand con tanta galanterie m’intona espression così
garbat: m’ despias che poss poch, ma quant i’ ho possud, poss e podrò, semper
sarò al servizi del me amigazòn, el me car Pantalon.[2]
pantalone Oh, siéu tanto benedìo, questi xe
amighi che adesso se ne trova puochi; ma credélo, sior Dottor, che anca mi
conservo memoria de quanto reçevùo per farvene restituzion a tempo e liogo. Ma
varé, vu mai me comandé gnente, e mi dagnora v’incomodo e son anca adesso per
pregarve d’un servizietto; e’ me vergogno, no miga perché dubita che no me ’l
fé, che son più che siguro che me ’l faré, ma me vergogno che sempre me tocca a
mi far el sfazzào, ma xe causa el vostro affetto e la vostra gran cortesia, che
me dà campo de ciorme tant’ardir.[3]
dottor Oh v’lio fors azardarv’ a far çerimoni
co un dottor? A’ si’ ben mercant valent, industrios e rich.[4]
5 pantalone (a parte) (Cazza, ti
falli Dottor.)[5]
dottor Ma in cerimoni
contentév, no si’ bon per mi.[6]
pantalone Za za, me
cognosso; so che me cazzeressi in sacchetto de posta; no gh’ho sta prosonzion,
no, sior Dottor.[7]
dottor Oh ben donca, d’sì
su s’ciett cossa v’ fà bisogn; un consult per qualch vostr interess?[8]
pantalone Sior no, sior no.
10 dottor Una stipulazion d’ instroment d’
compreda de stab’li?[9]
pantalone Ehibò, gnanca.[10]
dottor Informazion per
comprar qualch mercanzie b’lognes?
pantalone Seh, bondì;
laseme dir a mi, sior, che ve ’l digo delongo.[11]
dottor A’ d’sì donca, d’sì.
15 pantalone El servizietto che desidero l’è,
sior, che vorrìa che m’imprestessi çinqueçento duca...
dottor Ohimè, Pantalon,
ohimè.
pantalone Coss’è, sior
Dottor, coss’è?
dottor Dem licenza, Pantalon, che me vien su el mal che m’ travaia zornalment.[12]
pantalone Che mal èllo, sior?
(a parte) (Ohimèi, cattivo augurio.)
20 dottor Una doia int’un fianch, che m’
tormenta.[13]
pantalone Eh gnente no,
saldi, xe passào, sior; no v’auguré mal per l’amor del Çielo, che pur troppo ’l
vien; e’ no xe altro no. E cussì, come ve diseva, me
farìa bisogno çinqueçen...[14]
dottor Che ora credìu
che sia, Pantalon?
pantalone Sarà disisett’ore
in çirca.
dottor Oh puv’ret mi; a’
i ho mettù orden d’esser in Palaz a disiset’ore, e son za; dem licenza,
Pantalon, che l’è un negozi che m’ prem a fort.[15]
25 pantalone Eh, no le xe gnancora, no, sior; v’ho
ditto in çirca, ghe mancherà mez’ora bona. (a parte) (Ho inteso: el
negozio ciappa cattiva piega.)[16]
dottor (a parte)
(L’è un çert ton sto çinqueçent che no m’ pias tropp.)
pantalone Int’un momento se
sbrighemo, sentì. Savé che i marcanti ora i ghe n’ha d’i contanti a burchi, ora
i xe a sutto, segondo che batte l’occasion. El banco xe averto, doman xe ’l
sesto, ho da pagar una letterina de çinquecento ducati, e si no ’l fago doman,
savé in che imbarazzo che casco; la xe una mincionaria da gnente, ma pur co no
i gh’è, sangue da un muro no ’l se puol cavar.[17]
dottor Çinquecent ducat
i ha da esser?
pantalone Sior sì, çinquecento.
Poderìa mi andar in tre quattro lioghi che i me li ha da dar, e anca de più, ma
no vòi gnanca mostrar tanta premura; m’intendéu, sior Dottor? Vu mo, che me se’
amigo sviscerào, me contento e me fido che la sappié come la xe.[18]
30 dottor (a parte) (L’ha d’aver dai alter, l’ha la bottega; cossa s’ puol far? Dargh’li,
pazienza.)[19]
pantalone (a parte)
(Ohimèi, fa niòlo; no me dir de no, varenta casa toa.)[20]
dottor Orsù, Pantalon,
la nostr’amicizia vecchia m’obliga a no v’ dir de no, benché l’imprestar l’è un
verb che mi a’ no ‘l so coniugar; e se foss alter che Pantalon, no gh’ darav
nient, da ver Dottor.
pantalone So, sior Dottor,
che la distinzion che fé della mia persona me xe de vantazo, ma intendo anca mi
altrotanto d’esser pronto a servirve.[21]
dottor Ma quel ch’importa
el servisi è d’ poch moment, b’sogna ch’anch’el me util sia poch, che mi no son
om interessat, v’dì Pantalon.[22]
35 pantalone Eh, ben, ben; quel che xe de rason e
de giustizia, son qua, sior.
dottor Ghe ne volìu
quaterçent e çinquanta?
pantalone Mo i vorria esser
çinqueçento, lu.[23]
dottor Eben; far la
scrittura d’ çinqueçent, e darven quaterçent e çinquanta; l’è un utilet d’una
bagatella.[24]
pantalone (a parte) (Nana, che cara bagatela in çinqueçento, çinquanta
de stronzaùra.)[25]
40 dottor El faz perché m’ si’ amigh, v’dì,
Pantalon, del rest no ‘i gh’è guadagn.
pantalone Eh no, caro sior
Dottor, no me dé sto danno; l’è troppo, da amigo.
dottor Via, via, farò a
mod voster, a’ v’ in darò quaterçent e sessanta.
pantalone L’è ancora troppo,
si ve vòi ben.
dottor A’ no s’ pol mo
minga far manch, v’dì, Pantalon.[26]
45 pantalone Che vuol dir, cóstelo tanto a
bottega? (a parte) (Eh n’importa; cior quel che vien.)[27]
dottor Che d’sìu,
Pantalon?
pantalone Façiliterò quel che comandé, ma me racomando alla vostra descrizion.[28]
dottor Ben, ben, e una.
Che moneta volìu?
pantalone Vorria tanti
çechini mi, se i gh’avessi.
50 dottor ’I ho, ma a quant?
pantalone A quel che i val: a disisette lire.
dottor I çechin ch’a’ ’i
ho mi, a’ i val vinti lire l’un, se i ve pias se’
patron.
pantalone Òe, vinti lire l’un?
Mo come? No no, ciorò tanti ducati.
dottor A’ v’ darò tanti
ducat, ma i val sie lire e meza l’un.
55 pantalone (a parte) (Oh poveretto
mi; Dio varda che no ’l me fusse amigo!) Orsù ho inteso, l’ha puoca vogia de
darmeli, mi gh’ho assae bisogno de ciorli; serrerò un occio e anca tutti do, za
al scorlar delle stiore se toccheremo la zatta.[29]
dottor Volìu scudi
veneziani a und’se lire? Voléu doble italiane a trentadù lire? Commandé
Pantalon, l’è ’l so prezi ordenari, v’dì.
pantalone Orsù sentì, sior
Dottor, andemo a cior i bezzi, e là sul fatto s’agiusteremo de tutto: che
diséu?[30]
dottor A’ no v’ fagh manch un piz’nin, v’dì; andem dov volì, ma com v’ho dit.[31]
pantalone Andemo, andemo,
che no ghe sarà che dir, no. (a parte) (Eh gonzo, el lazzo della
necessitae me strenze; daresto, a gaglia a gaglia.)[32]
SCENA
II
Angela
e Spinetta, in casa.
angela Che dici,
Spinetta, del nostro Celio? Non è un giovane garbato e al tempo d’oggi di pochi
pari?
spinetta Sì, sì signora,
credetemi che avete sotto un bon polacchetto; ma almeno è anche una bella
figurina, che merita esser amata.[33]
angela Se vuoi che ti
dica il vero, amo più la sua mano liberale che la sua faccia bella; e se la sua
faccia mi par bella, in tanto mi par bella in quanto me la fa parer tale la
liberalità della mano.
spinetta Che bella
discrezione, è vero?
5 angela Oh oh, veramente tu non hai
altra mira che di sodisfarti delle fattezze de’ visi.
spinetta Eh dal più al
meno; ma...
angela Guarda, guarda,
che mi par che battino; sarà forsi lui.[34]
spinetta Guardo signora. Chi
è? È lui, è lui, signora.
SCENA III
Celio, Arlichino, Angela e Spinetta.
celio Riverisco quell’adorabile
bellezza, dolce tormento del mio cuore.
angela M’inchino a quel
giocondo aspetto, unico refrigerio de’ miei ardori.
arlichino Madonna Spinetta,
basa-la man ’la me mattarella.[35]
spinetta Bondì, bondì, el
mio caro Arlichinetto.
5 celio Sono forse stato indiscreto
disturbatore de’ vostri divertimenti?
angela Qual divertimento
posso godere, se questo non deriva dalla compagnia e dalla presenza di voi, che
sete solo e causa di tristezza absente e motivo di consolazioni presente?
celio Ah, Celio beato,
se l’espressioni della tua cara s’uniformano ai sentimenti del suo animo!
angela Angela fortunata,
se il concambio affettuoso del tuo idolo pareggia l’intenso amore della tua
lealtà!
arlichino E ti, madonna
Spinetta, tègnet in cadrega da poz o col ciaf per terra ol to Arlichin, che se
desfriz per amor to?[36]
10 spinetta Oh, caro, se ti voglio bene?
Vengo tanto fatta quando vedo quel tuo bel visettino.[37]
arlichino Dit po davira?[38]
spinetta E no altro,
padre.[39]
celio È venuto, signora
Angela, il sarto per la misura della sotana?
angela Che? Avete forse
fatto qualche spesa?
15 celio Ho fatto scielta di certo
drappo, che spero vi riuscirà di sodisfazione.
angela Mi dispiace che v’abbiate preso quest’incomodo, che, credetemi, è
superfluo.
celio Oh, quanto mi son
noiose queste parole! Perché superfluo? Dunque non aggradite un segno della
memoria che tengo di voi, mia vita?
angela Gradisco i
contrasegni del vostro affetto da me sospirato, ma questo spender...
celio Che spender? Che
spender? Mi meraviglio; queste sono minuzie, e se non mi volete far torto,
desistete da questi vocaboli, che spenderei per voi il sangue e la vita, purché
non mi manchi la bramata corrispondenza d’amore.
20 arlichino Che spender? Che spender? Me
maravéi, l’è una bagatella! (a parte) (Oh, che gonzo!)
spinetta (a parte) (Òe, signora padrona, mi rallegro, avete buscata la
sotana, voi.)
angela (a parte)
(Minchiona, voglio anche il mantò compagno.)[40]
spinetta (a parte)
(Via, via, da brava.)
arlichino Coss’è là? Chi va
là?
25 celio Che c’è, Arlichino?
arlichino L’è la porta in strada
che batte, signor.[41]
spinetta I batte? Adesso
vado a véder.
angela Che color è
questo drappo che dite, signor Celio?
celio Vederete la
sotana fatta, che so vi piacerà; per ora non voglio dirvelo.
SCENA IV
Sartore e detti.
spinetta È il sartore,
signora padrona.
celio Bene, bene, venga
inanzi.
arlichino Che venga, che
venga!
sartore Sior Celio,
patron; servitor, sior clarissima.
5 celio Buongiorno.
angela Mistro, vi
saluto.[42]
sartore Basa-la man, patrona.
arlichino (a parte)
(Èllo ’l boia sto mistro?)[43]
sartore Siben, per
servirve.
10 arlichino No, no, fradel, servì pur quella
zentilorgana.[44]
celio Via, via,
prendete misura della lunghezza, quel giovane.
sartore La servo, sior clarissimo.
(prende la
misura ad Angela) Con grazia patrona.
angela (a parte)
(Un mantò compagno con le sue guarnizioni, vi basta l’animo con la vostra
destrezza farmelo avere?)
sartore (a parte)
(Èllo ladin?)[45]
15 angela (a parte) (E come! Ma io
non voglio parer desiderosa, sapete?)
sartore (a parte)
(Ho inteso, lassé far a mi, siora, ma arricordeve po che anca mi son
poveretto.)
angela (a parte)
(Se vi basta l’animo un çechinetto è vostro.)
sartore (a parte)
(Sì? Adesso.)
celio Bella Spinetta,
che si fa?
20 spinetta Tutta ai vostri comandi, signore.
celio Come mi vuol bene
la tua patrona?
spinetta Poter de mi! Come
vi vuol bene domandate? Io credo che se stasse un giorno senza vedervi,
morirebbe da passione.
arlichino (a parte)
(Da passion de no pelar.)[46]
celio Arricordati
metter buone parole, sai Spinetta?
25 spinetta Cancaro, è obligo mio; ma chi non
vorrebbe bene a quel caro visetto?
sartore L’ho servida,
sior clarissimo.
celio Bravo; quanti
braccia ne vorrà?
sartore Ghe ne vorrà,
sior, vintiquattro brazza.[47]
celio Cosa dite? In una
sotana ventiquattro braccia?
30 sartore Tra la sotana e ’l mantò, sior,
no ghe vuol manco certo.
angela Eh, non occorre
mantò, no.
sartore Oh, la vorrìa la
sotana senza ’l mantò compagno, patrona? La me compatissa, daresto mi son qua a
servirle come le comanda.
celio Orsù via, fate,
fate anche ’l mantò.
arlichino (a parte)
(E fate, fate, oh che gonzo!)
35 angela Credetemi, Celio, che non importa;
basta, basta la sotana.
celio E sempre avete da
sprezzare i miei tributi? Andate, quel giovane, andate, fate tutto e pulito.
sartore Manderalla ’l
fornimento a bottega, sior clarissimo?[48]
arlichino (a parte)
(Anca ’l fornimento? El casca ’l gonzo, ’l casca.)
celio Che fornimento vi
vuole?
40 angela Eh, non importa
no, lasciatela schietta.[49]
celio Oh quanto mi
mortificate!
sartore Ghe vorrà merlo,
alamari, franza, segondo la commanderà.[50]
celio Orsù, andate a
mio nome al Diamante, e fatevi dare quant’occorre, che parlerò poi io con lui.[51]
sartore Volentiera,
servitor sior clarissimo e la compagnia.
45 arlichino (a parte) (L’è cascà,
l’è cascà ’l polaco.)[52]
celio Buon viaggio.
SCENA V
Calegher e detti.[53]
angela Amatissimo Celio,
e quando potrò in parte sodisfare a tante obligazioni che giornalmente mi
accrescete?
celio Ah, cara! Un’occhiata
benigna, un dolce sguardo, un sorriso gentile che mi compartite, merita assae
maggiori gl’attestati della mia obligata
corrispondenza.
calegher Basa-la man, sior
clarissimo, sior Celio, patron.
celio Benvenuto.
5 spinetta Come sete venuto dentro voi senza
batter?
calegher El sartor andava
via, mi ho trovà la porta averta; son vegnù drento alla prima mi, siora.
celio Avete avuto
quella pelle ricamata?[54]
calegher Clarissimo sior sì, son stà in Ruga a torla come la m’ha commandà, e son qua per torghe la misura alla gentildonna per far el servizio de brocca.[55]
celio Via, via,
sbrigatevi.
(qui tol
la misura ad Angela)
10 arlichino (a parte) (Che la
bucchia, che la bucchia!)[56]
spinetta Sior Celio, anche
io tengo bisogno d’un paro di scarpe.
celio Sì volentieri
Spinetta, manco male; ho messo a parte un cavezzetto per la tua persona giusto
a proposito.[57]
spinetta Sì signor. Oh, siate benedetto, prego il Cielo vi concedi ogni
contentezza.[58]
celio Eh, cara
Spinetta, la tua patrona sola può farmi star allegro e contento.
15 arlichino Ah,
sior patron, tendì un poch alla vostra e lassene far le manàtole a nu.[59]
celio Sì, sì, non t’ingelosire,
no.
arlichino Basta, cospetton!
spinetta Cape, sei bravo,
Arlichino![60]
arlichino Cancar, el trema
de paura dei fatti me’, ol patron!
20 calegher Oh, l’è servida.
celio Anche a Spinetta un
paro, via, presto.
calegher Anca alla rucola?
son qua, sior, la servo delongo.[61]
(qui
tol la misura a Spinetta)
arlichino Fagh’le alla
moda, sat’?[62]
calegher Sior sì, sior paron,
colla ponta davanti, pulite e belle.[63]
25 arlichino Basta, abbi giudizi.
calegher Anca questa è
fatta; me commàndele altro?
celio No, no, buon
viaggio.
calegher Servitor, sior
clarissimo.
celio Orsù, Arlichino,
andiamo anche noi, che se il vecchio va a bottega e non ci trova, sarà susurro.[64]
30 arlichino Fin che ’l fa susurro pazienza, pur
che no ’l me faghe dolor!
angela Partite dunque, o
Celio?[65]
celio Sì, mia bella, ma
in pegno di mia fede resta con essa voi il mio cuore.
angela L’accetto, e per
sicurezza della mia lealtà vi consegno in concambio ’l mio spirito.
celio Oh, con quanto
dolor sforzato parto!
35 angela Oh, con quanta passion dubiosa
resto!
celio Di che dubiosa;
del mio affetto?
angela Apunto.
celio E diffidate
dunque del mio amore?
angela No, no, ma l’occasioni...
40 celio Tutte le sfugirò.
angela Gl’accidenti,
i rincontri...
celio Nulla potranno in
me.
angela A tanto v’obligate?
celio Sì, sì; ma pel
concambio, chi m’affida?
45 angela Angela a Celio fida.
celio Ahi, che in
femina è troppo esser fedele!
angela Non v’è ragion in
me di dubio.
celio È vero.
angela Dunque a che vi
lagnate?
50 celio Figlio è timor d’amore.
angela D’un amore
imperfetto.
celio Dunque altri geni
e servitù e bellezze?
angela Tutte le
sfuggirò.
celio Promesse, offerte
e doni?
55 angela Nulla potranno in me.
celio Tanto mi
promettete?
angela Sì, ma chi affida
a me, se in voi mi fido?
celio Celio ad Angela
fido.
angela Dunque con
fedeltà.
60 celio Dunque con lealtà.
angela Il mio cuor vi
consacro.
celio Il mio affetto vi
dono.
angela E al mio amante
amato.
celio E alla mia amata
amante.
65 angela,
celio Con reciproco
amor sarò costante.
angela Inalterabile.
celio Insuperabile.
angela Sin che spirito
avrò.
celio Sin che avrò
vita.
70 angela Sarò di voi mio caro.
celio Di voi mia cara
viverò costante.
angela,
celio Con
reciproco amor amata amante.
angela Angela in Celio
vive.
celio Celio in Angela
spira.
75 angela E tanto nel mio petto.
celio E tanto nel mio
cuore.
angela L’alma sarà costante.
celio,
angela Quanto sarò di
voi amato amante.
celio Angela, parto.
80 angela Celio, resto; e con voi viene
il cuor mio.
celio Angela.
angela Celio.
celio,
angela Addio.
arlichino E tant ghe voliva
a dir bondì?
SCENA VI
Pantalone.
I
çecchini a vinti lire, a sie e mezza. I ducati e i
scudi a undese lire. Oh, che macca! El scritto de çinqueçento e ghe n’ho ‘bùo
noma quattroçento e sessanta. Oh, che baza! Ah, pazienza! A bonconto i bezzi è vegnùi a méa; avanti che ‘l ghe ne veda un ciarabaldàn ho
per pensier che l’abbia da lambicarse ’l çervello con tutta la so dottrina. Gh’ho
qua una vintina de çechinetti, ’i fago passar
traghetto delongo delongo; siben, i xe destinai int’un colpetto per quella
cagna de quella Beatrice; quella per la qual gh’ho una fame che me ispirito, e
sì ancora son a dezùn. N’importa; saldi, Pantalon; tien fermo in pugno el to
cào e sii seguro, che finché ti averà el martello d’oro ti trarà zoso anca le
porte de ferro. Ma si ancuodoman torno in secco, come saralla? Eh, gnente; darò
vogàe de schena, catterò ben liogo da impiantar un’altra gazìa e anca un pèr,
si sarà bisogno; za i fatti mii via della communitàe nissun li sa. Ah, vogio
batter e véder si posso un puoco far una volta almanco
le manàtole; me sento che s’cioppo, el figào m’arde, la spienza me bùlega, le
buelle fa tombole, vegno, vegno! (batte)[66]
SCENA VII
Bagolin e Pantalone.
bagolino Chi è là? Chi
batte? Oh, sior Pantalon, mio patron singolarissimo, ghe faz umilissima riverenza.
pantalone Eh, no te voleva
ti, mi; via, via, za che ti è vegnùo, vie’ qua.
bagolino Son za, signor,
tutt dispost a servirv.
pantalone Cape, ti è çerimonioso.
5 bagolino Oh, manch mal, sior Pantalon, è ’l
me obligh; el so merit domanda molt de più, ma le mie forze è debole.
pantalone Sì, sì, quel che
ti vuol; manco zanze vorrave e un puoco de congiungimini, si se podesse,
co i mi’ bezzi.[67]
bagolino De quel che poss
si’ patron; desponì con ogni libertà, signor.
pantalone No ti m’intendi?
Vorrave che déssimo fuogo al pezzo, e si ti non ti batti l’azzalin ho paura de
no far gnente.[68]
bagolino V’intend ben mi,
signor, e per mi son za lest e all’ordene, ma bisogna che mené ’l déo grosso,
savì come la va.[69]
10 pantalone Mo che? Sóngio tegnaìzzo? Me par mo
anca de destaccarme dall’osso, caro sier Bagolin, digo mo, m’avé provào e savé
si ogni volta che avé volesto parar avanti v’ho onto la rioda.[70]
bagolino E’
me maraveg sior Pantalon, no digh de mi, ma a ella, a ella.
pantalone A ella, a ella, è
vero?
bagolino Çert, signor.
pantalone Ho inteso via,
che cade? Ciolé, Sior, questo xe un çechinetto per vu a capara; ciaméla e fé
pulito.
15 bagolino L’è superfluo che v’incomodé,
signor, ma quand volì così, no refudo le vostre grazie.
pantalone No, no, no me
spué sul piatto, sier fio d’un miedego.[71]
SCENA VIII
Beatrice e detti.
bagolino Oh, de casa,
siora patrona!
beatrice Chi è, Bagolino,
che c’è?
pantalone Vélla qua la
matta, che bulegàe de sangue che me sento![72]
bagolino (a parte)
(L’ è qua ’l vecc, e cred che ’l vegna gobbo. Abbié giudizi.)[73]
5 beatrice (a parte) (Sì, sì, lascia
far a me.)
pantalone Siora Beatrice,
mia patronazza, ve fazzo reverenza umilissima.
beatrice Oh signor
Pantalone, è tempo, è vero, che vi degnate lasciarvi vedere. Sapete che son tre
giorni che son priva della vista desiderata di voi, mio caro?
pantalone Care vìssere mie,
abbiéme per compatìo, perché ha bisognesto che spedissa una marziliana per Pùgia,
che no ho bù tempo gnanca da magnar. (a parte) (No gh’aveva monéa, per
questo no son vegnùo.)[74]
beatrice Che la sia poi
così; guardate bene che io son tutta vostra, non mi negate il concambio.
10 pantalone Ohimèi, cossa diséu? Che Pantalon
sbandonasse la siora Beatrice? Me straccherò prima de sbatter le palpiere, me
stufferò de tirar el fiào, me augurerò la rogna, la tegna e la freve quartana,
prima che vaga drio d’altra zovene.[75]
beatrice Compatitemi,
sapete, perché chi ama teme.
pantalone Siora no, no
temé, e acciò che credé daseno, ciolé siora, questa xe una borsa con vinti
zechinatti ruspìi, e’ credo che i sia anca de paèla,
godéli per amor mio con ciorve una scuffia o un parasù o quel che ve piase.[76]
bagolino (a parte)
(Bona quella, bona!)
beatrice Veramente i
contrasegni del vostro amore sono ormai così chiari che non v’ha più loco il
dubio, e non posso se non promettervi leale corrispondenza.
15 pantalone Questa xe quella che me fa andar a
remengo e che m’ha debotto morto sbasìo; però alle curte per vegnir al quia,
andemo in casa, e femo fuora robba![77]
beatrice Oh, adesso, caro
signor Pantalone, è ora di pranso, non è tempo a proposito.
pantalone Vignerò a disnar
anca mi con vu, via.
beatrice Non vi è robba da
par vostro; quando volete venire sete patrone, ma venite con ordine, e mandate
qualche cosa di rilievo.
pantalone Orsù, ho inteso,
spettar, pazienza. Si no ve la posso sonar, ve la vogio almanco cantar.[78]
20 bagolino Flema, sior Pantalon, nel rest no v’indubité.[79]
pantalone Sì, flema, sì.
Oh,
che basi in quel visetto
che ghe vogio destirar;
oh, che tombole in quel petto
che
sti lavri gh’ha da far.
Oh, che ecc.
Oh, con
che strette de cola
che me vogio sbabazzar,
quando
che da solo a sola
me la posso un dì serar.
Oh, che ecc.
E debotto me
trago a una man e lassa![80]
beatrice Orsù, signor Pantalone, datemi licenza e arricordatevi di lasciarvi
vedere.
pantalone No stizzé sotto,
varenta vu, che purtroppo ardo che bruso. Sentì, siora Beatrice, vegnì drìo disnar
a bottega qua col vostro guardian, che v’ho parecciào un tagio de raso che no ’l
ve despiaserà.[81]
bagolino Siorsì, vignerem,
vignerem.
25 pantalone Cape, se’ pontual, sior, a brazzar l’occasion![82]
beatrice Veniremo a
ricever le vostre grazie, signor. Intanto li baccio la mano.
bagolino Siorìa, sior
Pantalon.
pantalone Andé drento,
andé; oh, co’ volentiera che ghe vegnirave anca mi; eh; non forsi bisogna far
un scalin alla volta chi vuol andar in apòdene? Vogio andar a bottega, che no
vorrave che quel baron de mio fio me fasse anca lu qualche bassetta.[83]
SCENA IX
Leandro, Lucindo, poi Beatrice
e Bagolino.
leandro Veramente, sior
Lucindo, la nostra sorte è rara e curiosa, mentre alle spalle di quel vecchio
minchione, dotato voi della vostra bravura, io della mia stimata bellezza,
raccogliamo quei frutti che il signor Pantalone ci va inestando e coltivando
con la sua spesa.
lucindo Certo, signor
Leandro, che io mi trovo tanto fedelmente corrisposto dalla signora Beatrice,
benché privo affatto de’ beni di prospera fortuna, che io credo né infatti
saprei che davantaggio bramare se fossi in stato anche riguardevole di
ricchezza.
leandro E io di che posso
lagnarmi? Vi dico il vero che mi trovo più tosto alle volte importunato dalle
frequenti richieste e successivi rincontri.
lucindo In questo io non
mi trovo mai stanco perché la robustezza della mia complessione non è meno
valorosa ne’ campi di Marte che negl’agoni di Cupido.
5 Beatrice Signor Leandro, signor Lucindo!
leandro Eccola apunto;
riverisco la signora Beatrice mia cara.
lucindo M’inchino al
merito della mia dea.
bagolino Servitor,
patroni.
leandro Buongiorno amico.
10 lucindo Bagolin, buondì.
bagolino (a parte)
(Oh che arsure!)[84]
beatrice Sentite
brevemente, devo andar alla bottega del nostro Pantalone a prender certa robba,
siate in Piazza alle ventidue ore e lasciatevi vedere sotto le Procuratie
Vecchie che anderemo un poco a spasso.[85]
leandro Sarò prontissimo
a ricevere i vostri comandi.
lucindo Verrò
infallibilmente a servirvi.
15 beatrice Vi riverisco.
bagolino (a parte)
(No gh’è altro, la va così.)[86]
leandro Umilissimo
servitor.
lucindo Servo devoto.
bagolino Le salud anca mi,
siori.
20 leandro Voglimi bene, Bagolino
lucindo Buongiorno,
buongiorno. Andiamo un poco, signor Leandro, a legger i foglietti; vediamo se v’è
alcuna novità di guerra.[87]
leandro Sono a servirvi.
SCENA X
Celio che scrive conti e
Arlichino in bottega.[88]
celio Via, signor
Arlichino, il permettervi ogni divertimento vi fa scordare il vostro essere, è
vero? Aggiustate, aggiustate quelle scanzie, scoppatele e fate quello bisogna,
se vi piace.[89]
arlichino (a parte)
(L’ha paura de commandarme, a’ ’l me dà del signor, a’ ’l dis se me pias; mi no
che no me pias far fadiga!)
celio M’intendi? Fa il
sordo. Olà, Arlichino, vuoi che mi levi?
arlichino Ciaméu, signor?
5 celio Non senti, è vero? Còmmoda
quella robba, netta quel banco, o buonanotte.
arlichino Cancar, no ’l me
dis più signor; besogna levar su, che no la ghe saltasse la barila.[90]
celio Via, fa’ presto e
pulito.
arlichino Signor sì, signor
sì. (agiusta la robba, prende una scopetta e scovola cantando)
Falalalalalela, quando giera putella
i me diseva Anetta,
ades che son grandetta
tuti me vuol dir Ana.
Tocca de pifaro e barba Nicolò.[91]
celio Oh, che
strambaccio!
10 arlichino Falalalalalina,
quando giera picenina
che diseva la mattina
cara la mia mama
dai mustacci e la barba no.[92]
celio Cosa dici, cosa
canti, animalaccio?
arlichino Signorsì, vagh
nettand pulit i busi vodi![93]
SCENA
XI
Angela
e Spinetta in maschera e detti.
celio Signore mascare,
commandano alcuna cosa?
arlichino Oh, mascarine,
vegnì, vegnì, che qua se dà bona misura.[94]
(le
mascare alzano la portella, entrano in bottega)
celio Usano
confidenza queste mascare.
arlichino Besogna che la
sia robba de casa.[95]
(Angela fa
insolenze a Celio, e Spinetta ad Arlichino)
5 celio Dico il vero, sono assai
compite.
arlichino Gratté, gratté,
che me pizza.[96]
celio Io per mia fe’ non
le conosco.
arlichino Sia quel che se
vol, benvegnude.
(si cavano
le morete)[97]
celio Oh, mia bella,
voi sete? E fui così cieco che non rafigurai in due stelle effigiato il mio
sole?
10 arlichino Ve’, ve’, ti ti è, brutta lova?[98]
celio Presto, Arlichino,
va’ a prendi quattro biscotti e porta un poco di quel proseco.[99]
arlichino Vagh delongo, a
tombolón.[100]
celio Dove siete stata
a diporto mia cara?
angela Siamo venute qui
adirittura per riverirvi.
15 spinetta Sì, in verità bona, signor Celio.
celio Eh,
credo, credo: ma che grazie son queste?
arlichino Son za, signor. (porta biscotti, sopracoppa d’argento e proseco; mangiano e bevono)[101]
celio Compatite la
confidenza, signore mascare, e aggradite il buon animo.
spinetta Cape, la va detta
così daseno.
20 arlichino Un prìndese voi far a sta cittàe
alla moda che
parla i veneziani,
e per dar el
so liogo ai più sorani
prima in
salute della nobiltàe.
Dei çittadini
doppo in sanitàe
e po drìo dei
marcanti e d’i artesani,
che prego ’l
Çiel ’i tegna vivi e sani
con laorieri
e negozi e grosse intràe.
In sanitàe de
vu che vuoghé ’l remo,
e perché so
che gh’avé bona piva,
barcarioli v’invido,
a nu, cantemo.
Cantémoghe a
Venezia un viva, viva,
e criémoghe d’accordo
quanti semo
viva Venezia
sì, Venezia viva! (beve)[102]
tutti Eviva, eviva!
SCENA XII
Pantalone comincia a
parlar di dentro e detti.
pantalone Ma no so da galantuomo, mi; so che la partìa in libro maestro xe averta,
no so mo come gh’abbié dào i bezzi, orsù, basta, parlerò con ello e sentirò
cossa ’l sa dir. Sier Tofolo d’i Mezani, poppier del Finsi da Mantoa, m’ha da
dar trenta lire per un çendao che l’ha ciolto a bottega; adesso ’l me dise che
l’ha contà i bezzi a Celio mio fio; no so come la sia; lu xe un galantomenazzo çerto;
oh, l’è intrigada la manestra![103]
(Angela e
Spinetta, uscite di bottega, partono)
celio Quando non
vogliono restar servite, signore mascare, non so che dire, sono patrone.
arlichino Çert che ghe ’l
dem per el costo.[104]
pantalone Coss’è qua?
Mascare? Volevi gnente, siore mascarete? Cazza le me par gagiose![105]
5 celio Volevano certo drappo, ma
non si abbiamo potuto agiustare.
arlichino Eh, no gh’è
ordene, le tira troppo bass.
pantalone Varé, siore mascare,
el vantazo che gh’averé a bottega da mi, no ’l cattaré in altri lioghi, gnanca
si l’anderé a çercando cola candeletta, no; in materia de pagamento, vedé
siore, daresto po semo galantomeni anca nu.[106]
celio (a parte)
(Sì certo, guardate là.)
arlichino (a parte)
(Oh, che vecc lusurios!)
(le
mascare partono; Pantalone entra in bottega)
10 pantalone No gh’è ordene, no, de cape longhe?
Bon viazo. Coss’è sta bozza qua?[107]
celio Avevo sete, mi ho
fatto portar da bere.
pantalone Coss’èlla la
sottocoppa, quella? Varé che frasca, varé, e colla sottocoppa ti te fa portar da béver, di’, carissimo spuzzetta?[108]
celio Io non gliel’ho
detto; l’ha portata lui.
pantalone Tanto çerimonioso
se’ diventào, vu, sier mùtria negra, disé?[109]
15 arlichino Signorsì, signorno, perché, signorsì...
pantalone Sì; t’hastu
imbriagào, màmara d’Inghilterra? Coss’èllo quello? Èllo forsi proseco? Mo
giusto proseco el xe. No ti savevi farte portar del vin negro, di’, carogna?
Avévistu vogia de imbalsamarte ’l buel zentil?[110]
celio Caro signor padre,
ne bevete voi, posso béverne anch’io.
arlichino (a parte)
(Anca mi che ho le ciave.)
pantalone Varé chi se vuol
metter con mi![111]
20 celio Anche a me sa buono.
pantalone Orsù, manco ciàcole;
e cava qui’ conti e fa’ quel che ti ha da far.[112]
celio Sono
due ore che io scrivo e voi sempre a spasso.
pantalone A spasso, è vero,
sier mandria? A tirar la caretta fin desso son stào, e si volé che ve renda conto
dove e come, commandé, sior.[113]
arlichino (a parte)
(Èl deventad un bò?)
25 celio Non cerco davantaggio.
pantalone Te torna conto a tàser, sì. Sier Tòfolo d’i Mezani t’hallo dào bezzi a
ti?[114]
celio Chi è questo Tòfolo
d’i Mezani?
pantalone Quel barcariol
che ha ciolto quel çendao.
celio Ah, signorsì,
signorsì, m’ha dato trenta lire.
30 pantalone E perché no xelli notài in maestro?
celio Sono in squarzo;
a suo tempo li notterò anche in maestro. Faccio tutto io, non ho più che due
mani.[115]
arlichino (a parte)
(Oh, che vecc cuch, se ’l savess tutt!)[116]
pantalone Via, via, no me
dé, che sarò bon.
SCENA XIII
Beatrice e Bagolino in maschera e
detti.
arlichino Mascare, mascare,
vegnì avanti.
bagolino Eeen een en! (tosse,
e sputa)
pantalone (a parte)
(Xèlla ella? La xe, la xe.)
(le
mascare vanno alla bottega, Celio si leva e va appresso Beatrice)
celio Signora maschera,
che commanda?
5 pantalone Va’ via de qua ti, lassa far a mi. (Pantalone
spinge Celio e lui torna)
celio Eh, caro signor
padre, voi sete vecchio, riposate, lasciate, che io servirò queste maschere.
pantalone Che caritàe
pelosa! Va’ a tendi a scriver, m’hastu inteso gnancora?[117]
celio (a parte)
(Arlichino, osserva un poco minutamente cossa li dice e cossa li dà.)
arlichino (a parte)
(Lassé far a mi, signor.)
10 celio (a parte) (Dubito
che sia quella sua nefanda, è dessa al certo.)[118]
pantalone Òe, maschera Bagolin, sta’ all’erta, ma costori me tien lumào. Ah, Celio...[119]
celio Che volete? Che
serva la maschera?
pantalone No, no; va’ desù,
va’ a metti a so liogo quella robba che ancora da gieri la xe sottosora.[120]
celio Eh, adesso non è
tempo.
15 pantalone Sì, no xe tempo, e mi vogio che ’l
sia, via delongo e delongo .
celio Vado. (a parte)
(Ma saprò tutto.)
pantalone Arlichin, vaghe
agiuta.[121]
arlichino Eh, no l’ha besogno
de mi, no signor.
pantalone Anca ti ti vuol
replicar? Hastu vogia che te mola una papina?[122]
20 arlichino Vagh, vagh, no v’infurié.
(Pantalone
mostra un drappo a Beatrice)
pantalone Cossa diséu,
vìssere mie, ve piàselo? Èllo bello?[123]
beatrice È bellissimo.
celio Ah, signor padre,
dov’è quel drappo fondi bianco, andamento blò e sguardo a stricche?[124]
pantalone A mi ti me
domandi? Che sòi mi, el sarà andào a dormir.
25 bagolino Oh, che metta sotto, sior Pantalon?
pantalone Sì, sì, tien
sconto pulito.[125]
arlichino Ah, sior patron,
dov’è quel veludo tabinà in quattro lazzi?[126]
pantalone Oh, che
spropositào! Cossa ciàrlistu de velùo tabinào? Vien zoso, vien qua, destriga là
con sesto.[127]
(Celio e
Arlichino tornano, le mascare partono)
celio Hanno
fatto spesa le mascare, signor padre?
30 pantalone Sier no, no s’avemo acordào.
arlichino (a parte)
(Sior Celi, vardé ’l mascarot che l’ha sotto ’l mort!)[128]
celio (a parte)
(È vero per mia fe’; eh, già me ’l pensavo.)
pantalone Andé, andé, siore
mascare, a un’altra buttada.[129]
celio Signor padre,
cosa ha quella mascara là sotto?[130]
35 pantalone Cossa che la gh’ha? Che sòi mi.
celio Non lo sapete, è
vero? Se vi ho veduto io a darli una pezza di robba.
pantalone Ve ne mentì per
el gargato, sier scartozzo; e po si gh’avesse dào, hastu da far qualcossa, gh’averàvio
dào gnente del tòo?[131]
celio Dite almeno di sì
alla prima.
pantalone Vogio dir quel
che me par e piase, e tien la lengua drento dei denti, che sarà megio per ti, e
te ’l digo daseno , vè.
40 celio Eh, non sono più bambozzo
da farmi paura col mo mo, no.[132]
pantalone Cusì ti me metti
al ponto? No so’ omo da farte paura? (li salta adosso e li dà schiaffi e
pugni) Mo ció donca, e nasa
da che saór che le sa, e ció, e ció ancora.[133]
celio Fermatevi,
sapete!
arlichino Eh, lassél star,
che vergogna, ehibò.
pantalone E po ancora ció,
e abbi l’angossa, e un’altra volta impara![134]
ATTO
SECONDO
SCENA I
Dottore.
All’erta,
Duttor; a’ ’i ho una gran paura che Pantalon m’abbia mess la vesta. A’ ’i ho
comprad sie pezze de damasch a quater lire e meza ’l braz da un galantom che ’l
m’ha ditt de venderle per commission del fiol de Pantalon per bisogn de far
moneda. Mo com? Un marcant de quella sort ha sta premura d’ copar sta bagatella?
Oh, la ved imbarbaiada: iacula quae praevidentur minus feriunt. Avrirò
ben i occ per scansar el colp, che me par de véderlo a sguolar per aria. El m’ha
dad la fede, la parola; el scritt l’ho mi, l’è vera, ma temo di febre, perché,
al véder, el paronzin ha fenìo de toccar el pols al scudelot; starò all’ordene
coll’informazion, al ghe vol giudizi per andar a covert da qualch scaravaz che
podes grongar.[135]
SCENA II
Beatrice e Bagolino in maschera e detto; urtano Dottore e
lo salutano col capo.
dottore Mascare, no i è
logh da passar?
(tornano a
urtarlo)
Ho intes,
mozze che va çercand nolo.[136]
beatrice Signor Dottor
bello, vi riverisco.
dottore Cancaraz, ades sì
m’ tegn in bon; bas la man a vusiorìe.[137]
beatrice Avete alcun
affare in questo punto?
5 dottore A’ ’i n’ ho, e no ’i n’ ho,
perché mo?
beatrice Perché se avesti
comodo vi pregarei che mi menaste in un casoto.[138]
dottore L’ho indovinada
alla prima. A’ ’l busogna che vada a far un servizi
che m’ prem a fort, e po sarò in Piazza alla Çecca; lassev’ trovar là, che v’
servirò volentiera.[139]
beatrice Vado dunque
avanti pian piano.
dottore La vada, la vada,
a chi arriva prima aspetta la camarada.[140]
10 Beatrice Benissimo: non mi burlate sapete.
dottore Oh, cancaraz!
Guarda ’l Çiel; vagh e vegn in un batter d’uocc. (a parte) (E no te
partir se no vegn, che te vol aver un bel solaz.)
bagolino Giazzo, giazzo;
no gh’è da far ben, no; andem in casa.[141]
beatrice L’ho arrischiata,
ma non ho incontrato bene; pazienza, a una meglio.
SCENA III
Pantalone, poi Beatrice e Bagolino.
pantalone So’ qua, spasimo,
sbasisso e muoro co son lontan pì d’una quarta da ste porte, da ste muragie.
Ah, cagnazza, ti me l’ha robbào sto cuor e per farme la restituzion ti me tien
dagnora in anda e ti me fa licar le zatte co’ fa l’orseta. Ah, si te zonzo, si
te zonzo, o casì o canò che vorrò refarme; son vegnùo che no la vogio lassar de
pesto, vòi menarla stasera un puoco a tórzio in gondoletta; vòi véder si posso una volta sbrissar su un scorzo de melón e farla,
quella tombola maligna! Xe tardoto, vogio ciamarla e metter l’ordene de far
fuora robba. (batte)[142]
bagolino Sior Pantalon,
mio patronazzo.
pantalone Dov’è la parona?
bagolino La vien, la vien,
signor, véla qua.
5 beatrice Riverisco il mio caro amato
signor Pantalone.
pantalone Ve saludo, la mia
siora bella Beatrice, vìssere, cuor, zogiello, anema de sto corpetto desconìo.[143]
bagolino Cancar, a’ ’l gh’è
imbertonà![144]
pantalone Mo disé, cara
vita mia, sempre notte sempre e mai vignerà dì, mai, mai? Mo crepo, s’cioppo,
no posso pì star in stroppa.[145]
beatrice A bell’agio, a bell’agio signor Pantalone, sapete che voi solo sete l’unico
scopo de’ miei amori.[146]
10 pantalone Mo gh’averave giusto bisogno d’un
puoco d’agio, perché debotto debotto vago in fastidio.
bagolino Sior Pantalon,
prudenza, speranza e moneda, nel rest no v’indubité.
pantalone Eh, ho capìo; via, che cade? Orsù, sentì, siora Beatrice, sta sera
vorrave che ve degnessi de vegnìr con mi a far colazion in gondola, anderemo un
puoco a passar l’ore malinconiose; cossa diséu, siora? vigneréu?[147]
beatrice Venirò a servirvi
più che volentieri.
pantalone Oh, ben, vignerò
a levarve per canal, avì inteso?[148]
15 beatrice Benissimo, starò attendendovi.
pantalone Sì, caretta, vago
a metter all’ordene, che ’l scuro xe puoco al largo; ve saludo, savéu?[149]
beatrice Anch’io voi,
signor Pantalone, e mi ritiro in casa a prepararmi.
pantalone Sì, cara, andé; quando
vignerògio anca mi a tegnirve su la còa?[150]
bagolino Flema e moneda,
sior Pantalon, e no v’ indubité.
20 pantalone Cape, ti ghe va de vita alla monèa;
pussibile che no t’ingosserò anca ti un zorno! Ah, l’è andada drento; vago via
anca mi de vuoga battùa a tirarme in squero: oh, si questa fusse la notte dalle
manàtole; oh, che grìzzoli, oh, che cattarìgole che me sento![151]
SCENA IV
Celio e Arlichino.
celio Che ti pare,
Arlichino, di quel mio buon padre?
arlichino L’è vera ala fe’,
signor.
celio Che cosa è vero?
arlichino Che ’l signor
Pantalon l’è vostro pader.[152]
5 celio Che ignorantaccio! Io ti
dico del suo vivere e del strapazzarmi in quella
maniera.
arlichino Ah, mo, çert,
verament, l’è brutta.
celio Eh, non importa,
goda pur lui, che so ben godere anch’io, sì.
arlichino M’inzegnerò anca
mi.
celio A buon conto
aspetto certi soldi di non so che damaschi che subito venuti volo dalla mia
Angela; e senza non occorre andarvi.[153]
10 arlichino Eh,
so ben, sì, che gh’avì dad quelle pezze a quel cortesan vostro compare.[154]
celio Cossa vuoi che
faccia? Voglio dei denari anch’io certo.
arlichino Eh, fé ben, fé
ben, démene anch’a mi, del rest.
celio Orsù, andiamo in Ruga, che corre l’ordine di portarmi i soldi là a tre
ore.[155]
arlichino Andem, andem, no
perdemo temp.
SCENA V
Pantalone, Beatrice e Bagolino in gondola con sonatori, poi
battello con due cortesani.[156]
pantalone Via, sonatori,
paré via allegramente, sonéghela de vena. Che diséu siora Beatrice, ve piase
ste armonie?[157]
beatrice Mi piacciono estremamente per essere contrasegni del vostro
affetto verso la mia persona.
pantalone Mo se’ tutta
galante e liberal in parole vu, ma le parole xe femene e i fatti xe mas’ci:
fatti, fatti vorrave! anca mi fago fatti: vorrave che me respondessi del ziogo.[158]
beatrice Assicuratevi
signor Pantalone che sarete in breve sodisfatto.
5 pantalone Sarà
sempre ora. Orsù, sonatori, soné la mia arieta, che ghe la vogio cantar.
Quel
bocchin e quelle tette
quando
poderòi basar?
No
me far pì far crosette,
che
no le posso più far.
Quel,
ecc.
Quella
vita gagiosetta
quando
poderòi brazzar?
No
me dir più spetta, spetta,
che
no posso più spettar.
Quel,
ecc.
No che no posso più, che se dago ancora do bogi
vago in aqua de viole.[159]
beatrice Oh, quanto mi alettate con questo vostro dolce canto; seguite vi prego.
pantalone M’avé da commandar
e no da pregar, siora, no savéu che so’ vostro s’ciavo e vostro s’ciavazzo? E
sì no me vergogno minga, vedé, che una femena sia parona assoluta de mi, che xe
sta’ al mondo de qui’ puochi che m’ha tagiào l’aqua. E za che ve piaso a
cantar, si no me dé però incenso, vogio cantarve quell’ottava de Ercole che per
amor mena ’l fuso, che la dise: «Mirasi qui tra le meonie ancelle»; ma ve la
vogio cantar int’el mio lenguazo, che l’altro zorno me son imbattùo a Rialto,
sotto i porteghi della Drapparìa, dal Lovisa stampador e librèr, e go visto un
libro che dise: El Goffreddo del Tasso cantà alla barcariola, e l’è
tutto ’l Tasso cantào cusì, alla veneziana, che a dire ’l vero me dà in genio. Sonaori,
seguiteme!
Ercole
qua gh’è fatto, quando amante
el
conta delle fiabe tra le serve
quel
che Pluton gh’ha fatto le reserve;
adesso
qua, e Cupido sta sgrignante;
el
mena ’l fuso e alla so Iole ’l serve;
e
questa per burlarlo in man la clava
e
del lion la pelle la portava.[160]
beatrice Veramente è una
fatica bizarra e studiosa, e credo per essere così vaga darà nel genio a’
dilettanti.
pantalone No la puol esser
noma bella e bona co la ve piase a vu!
(vengono
due cortesani vogando in battello)
10 cortesani Òe![161]
barcarolo Tiente a
stagando.[162]
cortesano A premando
vorrave andar.[163]
barcarolo A stagando, hastu
inteso?
cortesano Vara che umoreto,
vè![164]
15 barcarolo O umoreto o altro, volemo cusì.
cortesano E chi ve dasse
sta pala int’el stomego, vorressi cusì?[165]
barcarolo Ve cazzarò sto
ziron int’el babio, mi, sier paronzin dalle canole![166]
cortesano A chi, sier tocco
d’aseno?
barcarolo Giusto a vu, sier
mandolato grançìo.[167]
20 cortesano A nu donca, suso![168]
(qui si
danno, Pantalone viene in prova con pugnal e targa)[169]
pantalone Via, pezzi de
scartozzi gazarài! oh, poveretto mi! agiuto! (Pantalone cade in aqua)[170]
SCENA VI
Celio e Arlichino
con pignatella, poi cortesani.[171]
celio Oh, questa mi dispiace!
M’aveva promesso a fido a fido.
arlichino El vederem
domattina, via.
celio E se non lo trovo,
devo far senza?
arlichino El troverem, el
troverem.
5 celio Ah, pazienza; seguimi,
seguimi Arlichino.
arlichino Andé pur là, che
vegn.
(Celio
entra, escono cortesani che conoscono Arlichino)
cortesano Tien zó quella
luse là.
(Arlichino
alza la pignatella per vederlo nel viso)
arlichino Sìu commandador
de notte vu? (li getta la pignatella a terra)[172]
cortesano Ah, sier fio de çent’ongie,
cusì ‘fronté i galantomeni?[173]
(danno
mano all’armi)
10 arlichino Ah poveret mi, sior Celi, sior patron,
i m’ha rott la pignatta![174]
(Celio
torna fuori col stilo in mano)[175]
celio Chi è quel
temerario là?
cortesano (a parte)
(Òe, sior Celio l’è? Bona, bona.)
arlichino I me l’ha rotta
ala fe’, sti baroni.[176]
cortesano Sior Celio mio
patronazzo, séu vu, sior?
15 celio Oh, compare Tita.
cortesano Da quel servitoreto che ve son, che culù a istanzia vostra renasse sta
notte.[177]
celio Eh, compatitelo,
che è imprattico del paese; prendete, prendete, andate a bevere e fattemi un prìndese.
(li dà un argento)
cortesano Volentiera sior,
co la commanda cusì; la compatissa, salla, che se l’avessimo cognossùo per so
omo, savemo ’l nostro debito.
celio Sono sicuro del
vostro affetto.
20 cortesano Servitor devotissimo.
celio Buon viaggio,
buon viaggio.
arlichino Va’ via,
ringrazia ’l Çiel che la te passa così per sta volta!
celio Eh, povero goffo.
arlichino Si no gh’eri vu,
mi i coppava tutti, qui’ porçi.
25 celio Sì,
sì bravo; andiamo, andiamo.
SCENA VII
Pantalone, Beatrice e
Bagolino.
pantalone Ancora me sento i
grìzzoli; gramo mi si no saveva nuàr, manco mal.[178]
beatrice Io non so come sono restata viva quando vi ho veduto precipitar in aqua.
bagolino Mi son stad valent, che subit gh’ho dad agiut.[179]
pantalone No, no;
veramente, chi vuol dir la veritàe, sier Bagolin s’ha portào ben, ghe son
obligào della vita.
5 bagolino Conoss el me obligh, sior Pantalon.
pantalone Ve n’amarzé, sier
birba.[180]
beatrice Sia ringraziato
il Cielo che l’avete portata fuori così bene.
pantalone Eh, no è stà
gnente; me despiase noma che no semo stài allegramente come voleva, che i n’è
vegnùi a romper le maroèle; ma sentì, siora Beatrice, vogio doppo disnar, si se’
contenta, che andemo a Muran in casin a marenda fuora d’i strepiti e d’i
susurri.[181]
beatrice Sarò a servirvi
dove commandate.
10 pantalone Oh, a farme grazia siora, me
maravegio, mi.
beatrice Sentite, signor
Pantalone, se v’imbattete in qualche galantaria, vi prego mandarmela per ora di
pranso, che vengono a disnar meco certe mie amiche.
pantalone Cape, lassé far a
mi, siora: più ca volentiera; vederé ben si saverò far bella lettera. No
mancherave altro noma che se disesse che chi dipende da Pantalon no fasse un
disnar co sesto.[182]
beatrice Starò dunque
attendendo i vostri favori e doppo pranso la vostra compagnia.
pantalone Sì, vìssere mie, andé là che ve servo de ponto in bianco, de vuoga
battùa.[183]
15 bagolino Sior Pantalon, basa-la man.
pantalone Bondì, sier
Bagolin, arecòrdete metter bone parole, sa’? Ah,
vago a dar un’occiada a bottega e po sguolo a cattarghe qualcossa de cossediè.[184]
SCENA VIII
Arlichino, poi Pantalone.
arlichino La casa se brusa;
no èl po mèi che me scalda anca mi un pochettin? El patron vecc mattaz a tórzio;
el zuenott matton a spass, e mi a baronand; la bottega ha su otto o des
serradure de carta; mi no so se Pantalon a’ ’l sappia, mi me despias, ma co no
i ghe pensa lori, manch vog pensarghe mi; vog lassar che la buccia fin che la
va; e ghe pensa i astrologhi.[185]
pantalone Nana; son stào a dar un’occiada alla bottega e gh’ho visto suso una
dozena de pìttime; in veritàe, che
no vogio saverghene un fio d’una curarisi.[186]
arlichino Oh, l’è qua ’l vecc.
pantalone Ghe n’ho ancora
un puochi, vogio che i sguola e presto e vaga come la sa andar. Òe Arlichin
coss’è? Cossa fastu qua?[187]
5 arlichino Vegniva apont çercandove per dirve
che i ha bollà la bottega.
pantalone Eh, caro ti, no
me contar desgrazie, se i’ l’ha bolada i’ la desbolarà. Camina, camina, vien
con mi, che andaremo a spender per la putta.
arlichino Sì, è vera? Co l’è
così, andem, andem.
pantalone Seh, mògia mògia,
lassa che i se destriga lori.[188]
SCENA IX
Leandro e Lucindo
leandro Oh, che
contentezza bizarra, oh, che spasso gustoso, vivere alle spalle del buon
vecchio!
lucindo Io credo che pochi
godano sorte così benigna e curiosa come noi.
leandro Manco male che ’l
Cielo provede anche alle nostre miserie.
lucindo Sì; che per altro
e voi con la vostra bellezza e io con la mia braura, siamo molto leggeri di
borsa.
5 leandro Vi confesso il vero: che una lira
non credo averla al mio commando.
lucindo Io in questo non
porto superbia, ma credetelo che ’l dico senza ambizione, non ne ho uno
maledetto.[189]
leandro Orsù, a buon
conto, andiamo a pranso, che per quanto ha detto Bagolino la spesa è fatta dal
signor Pantalone col supposto che la signora Beatrice facci banchetto a certe
sue amiche, avendolo la medema fatto appositamente per noi.[190]
lucindo Sì, sì, andiamo
che l’ora è vicina.[191]
SCENA X
Pantalone, poi Bagolino, Beatrice e Leandro e Lucindo in
parte.
pantalone Che la vaga; no
gh’è altro, siben, che la vaga; za tanto fa pensarghe come no pensarghe. Ho
mandào la spesa, che son siguro che le amighe della mia sviscerada anemetta
sarà restàe in asso, perché ho fatto pulito e l’ho cazzada de cola. A st’ora
credo che ’l disnar sarà anca paìo; l’ordene de Muran xe alestìo, no manca noma
andarla a far fuora; vogio ciamarla, che qua in cào la fondamenta gh’è la
gondola che n’aspetta. (batte)[192]
bagolino Chi è là? Oh,
sior Pantalon, mio patron.
pantalone Bagolin bondì,
via, vienla zoso?[193]
bagolino Sì, bondì, vegnir
zoso! La xe che la va in letto giusto adesso, ella.
5 pantalone Ohimèi, poveretto mi! Coss’è? Cossa
galla? Se gh’ha mosso la mare? Se gh’ha voltà ’l buèllo?
Cossa gh’è intravegnùo?[194]
bagolino Mi no so per
verità, so che l’ha mal.
pantalone Mo vogio ben
andar a véder cossa xe sta novitàe. (Pantalone vuole entrare e Bagolino lo
tien respinto)
bagolino No, no, in verità
sior Pantalon.
pantalone Varte bestia, làsseme
andar.[195]
10 bagolino Non occorr çert, signor; ghe faré
più confusion che altro.
pantalone N’importa, vàrte,
làsseme andar, lassa far a mi.
bagolino (a parte)
(Oh, poveret mi, si gh’è colori de sora!)[196]
beatrice Son qui, signor
Pantalone, son qui.
pantalone Vè, vè, vè; coss’è
sta cronica?[197]
15 beatrice (a parte) (Bagolino, va’
là, falli partire.)
bagolino (a parte)
(Lassé far a mi.)
pantalone Coss’è stào, siora
Beatrice?
(escono
intanto di casa di Beatrice pianamente Leandro e Lucindo e Bagolino li fa
partire)
beatrice Vi dirò; la
memoria che continuamente mi tormenta del strano
accidente ieri sera occorsovi m’aveva così fattamente stretto il cuore che mi
aveva levato il respiro; ma agiutatami col sovvenimento della vostra sicurtà mi
s’è allegerito, anzi svanito il dolore, e se volete che andiamo in Muran eccomi
pronta.
pantalone Gran caso, siora
Bernardina! Donca per affetto mio, per el ben che me porté, ve giera vegnùo
affanno al coresin?[198]
20 beatrice Sì certo.
pantalone Oh, siéu çento e
millanta volte benedìa. Mo che diséu de sto amor? No doveràvio andar in fuogo
per ella, si fasse bisogno?
bagolino La v’ha sentì a
tuffo, e ’l vostro odor l’ha guarida.[199]
pantalone Ma si mi l’ho
varìa coll’odor, quando me variràlla mi col saòr?[200]
bagolino Non forsi, sior
Pantalon, flemma e moneda.[201]
25 pantalone L’è la veccia, questa. Oh via, deme
la zatta, vita mia, e andemo de qua, che la gondola xe all’erta.[202]
beatrice Andiamo dove vi
piace.
pantalone Dove che me piase? Oh cara, caretta e carazza e caronazza e caronazzazza!
bagolino (a parte)
(Oh che vecc gonz matt!)
SCENA XI
Celio.
Oh,
che caro signor padre! Ho saputo che ieri sera è stato gettato in aqua; li
succederà anche di pegio; io non so che farci; sta allegramente lui che è vecchio,
meglio posso starvi io giovane e benché mi levi manizo de’ soldi so ingegnarmi;
ma oggi o dimani dubito che si scuopra il nostro stato redutto al fine. Non so
se sia vero che la bottega è bollata, così ho sentito a dire; non ne voglio
saper niente. Ho avuto a conto delli damaschi ducati trenta, voglio andar a imascherarmi
e con la mia amatissima Angela voglio andar al Ridutto a rischiar la sorte.
Allegramente certo, con Angela infallibilmente, del resto non voglio
travagliarmi niente niente. Mi dispiace che è assai che non son stato dalla mia
cara, non vorrei dubitasse del mio affetto; ma le scarselle erano vuote, per
questo non mi son lasciato vedere. Adesso che ho questi pochi, vado a volo a
farmi maschera e direttivo a trovarla.[203]
SCENA XII
Angela e Spinetta.
angela Non te lo dissi,
Spinetta, che Celio ha impiegato altrove il suo affetto?
spinetta Io ancora non lo
credo.
angela Non hai sentito quello
che mi ha detto Tonin?
spinetta So che quel
giovinotto vi ha detto che Celio tende ad un’altra, ma può essere che lo dica
per invidia e per entrar lui nella vostra grazia.
5 angela E perché vorresti che non si
lasciasse vedere?
spinetta Veramente io non
saprei.
angela Orsù, la prima
volta che viene voglio farli saltar la scala, già ho sentito da diversi
mormorar anche delle sue fortune.[204]
spinetta No, signora
patrona, adagio, fate a mio modo; lasciate pure che dicano che sia in miseria;
se viene gobbo lasciate che venga, fateli accetto; quanto al suo amore ad
altre, certificatevi meglio, e quando sete sicura fate pure quello che dite,
che v’agiuterò anch’io.[205]
angela Così è meglio;
andiamo; e sta anche tu ascoltando e osservando tutto, che voglio chiarirmi.
10 spinetta Lasciate pur far a me, che saprò
tutto fin in un et.[206]
SCENA XIII
Pantalone
in casin, Improvisante con sonatori che canta, poi Leandro,
Lucindo, Bagolino e Arlichino.[207]
pantalone Allegramente,
siora Beatricetta; Bagolin, daghe da béver; Arlichin, dàmene anca a mi; sanità
siorìa, eviva, eviva.
improvisante Za che la sorte vuol che so a Muran,
ve vegno a
saludar, sior Pantalon,
che so che co
la femena a pepiàn
in quel casin
ghe se’ in conversazion;
ve reverisso
e zuro da cristian
che vu se’ ’l
mio carissimo paron;
siora
Beatrice, v’aguro ogni ben,
a vu e a quel
caro sior che ve mantien.[208]
(Pantalone
vien alla finestra)
pantalone Òe compare, che
grazie xe queste?
improvisante Servitor, sior Pantalon;
compatì, sior.
5 pantalone Cape, me dechiaro che ve son obligào.
Bagolin, vaghe a portar da béver, presto.[209]
(Bagolino
vien fuori con bozza e gotto)[210]
bagolino Vagh, vagh de
longh; son qua, bevé.
improvisante Ve saludo anca vu, sior
Bagolin,
che col gotto
e la bozza vegnì via,
un occio che ’l
me cava si l’è un spin,
patroni a
tutti, sanità siorìa.[211]
pantalone Mo l’è ben gagioso; Bagolin, vien qua, ció fa’ presto, daghe sti çinque ducati e che ’l vaga a
bonviazo. (va dentro)[212]
improvisante Ve’ qua che ’l torna co
altro che con vin,
sìela pur
quella zatta benedìa;
dé qua, sior,
v’amarzé; saludé ’l veccio;
fradelli
andemo, che ho tirà su ’l seccio.[213]
10 bagolino Andé, andé, che in sta volta avé
fatt una bona parada.[214]
pantalone Bagolin, dov’èstu?
Via destrìghete.[215]
bagolino Vegn, vegn; son za.
(entra)
leandro (a parte)
(Questo è il casino per quanto Bagolino mi ha motivato.)[216]
pantalone Èllo andà via?
15 bagolino L’è andà, l’è andà, sior.
lucindo (a parte) (Giusto
per apunto sentite che parlano.)
pantalone (a parte) (Via, siora Beatrice, allegramente, feme un puoco un prìndese.)
lucindo (a parte) (Osservate, signor Leandro, a prenderci spasso con
questo vecchio.)
leandro (a parte)
(Sì, sì, fateli qualche burla.)
20 pantalone Èllo cotto quel figào gnancora?[217]
lucindo Ti ti è cotto![218]
pantalone Olà! De chi è sta
ose?[219]
bagolino Eh de fuora, de
fuora, qualch baron.[220]
pantalone Avìu vogia,
baronagia, che ve sguoda un bocal de pisso in cào?[221]
25 lucindo Puoi beverlo tu quello, vecchio
matto.[222]
pantalone Sì, altro ca
baronagia. Vegnìu a tender rede, sier canapiolo? No faré gnente, varé.[223]
leandro Noi mangiaremo a
tuo conto.
pantalone Òe, i è in qui’ puochi,
ho inteso.[224]
lucindo È finita ancora
la prima tavola?[225]
30 pantalone Ah, scartozzi, destruzzeressi un
piatto de lasagne?[226]
lucindo Più tosto dei
macaroni par tuo.[227]
pantalone Magnéu de grasso?
Ve trarò zó quattro osseti da rosegar.[228]
leandro Lecati pur tu le
zatte, che noi mangiamo carne a panza piena.[229]
pantalone So, so che destué
i pavéri alla moda.[230]
35 lucindo Sì, quando il tuo naso non c’impedisse.[231]
pantalone Hàla fenisto sta
musica, cannoni?[232]
lucindo Fai tante ciacole
perché sei in casa, è vero, uomo da niente?
pantalone Veramente chi
avesse paura de fumo de raffiòi.[233]
leandro Tanto che ti
batteressimo via le piàtole.[234]
40 pantalone Eh, casì che si fago vista d’averzer la
porta, batté delongo ’l taccón.[235]
lucindo Non sei figlio d’un
uomo onorato se non vieni fuori.
pantalone Se’ un fio de
donna Betta e un fio d’una caldiera si no me spetté.[236]
leandro (a parte)
(All’erta, signor Lucindo, che viene.)
lucindo (a parte)
(Eh, lasciate far a me; voglio gettarlo in aqua, niente altro.)
(escono
Pantalone con spenton, Bagolino con arma e Arlichino con una stanga)[237]
45 pantalone Son qua, siori tràpanalavezi, a nu;
via de qua, via![238]
lucindo Alon, alon,
vecchio porco.[239]
(qui si
danno e Pantalon va in aqua)
pantalone Bagolin,
Arlichin, saldi; ohimèi agiuto, agiuto!
ATTO
TERZO
SCENA I
Dottore poi Celio.
dottore Ah, pover Duttor!
Ah, che la vos commun non falla; ma chi av’rav stimad un marcant d’ quella sort
che a’ l’era in tanta reputazion, che così in un moment a’ ’l rompess la fortàia?
No s’ pol far alter; a’ ’l busogna aver pazienza a du vie; remediargh in quel
che s’ pol. A bon cont ho sentenziat al scrit a leze, ho fatt tutt quel che fa
bisogn, no gh’ manca alter che dar l’estrazion in bergamina in man ai sbir;
aspett ancora fin che ’l ved si ’l me dass almanch la mità, nel rest subit
subit vog tirarme in segura.[240]
celio Son andato in
casa, Arlichino non c’è; non avevo volto, m’è bisognato andar a provedermi; ora
vado a dirittura a mascherarmi per portarmi dalla mia cara amata, che sono
ormai ansioso di vederla.[241]
dottore Vè za ’l fiol de
quell’omo da ben.[242]
celio Oh, oh, il
Dottore che ha sentenziato a legge lo scritto di mio padre; vada, vada a
intrometter; mi vien da ridere.
5 dottore Vog veder cossa ’l me sa dir.
Sior Celio, mio patron, la reveriss; salla?[243]
celio Oh, signor Dottor
eccellentissimo, mi perdoni che non l’avevo osservata, che per altro non averei
mancato all’essecuzione dei miei doveri da me a pieno conosciuti.
dottore Cred l’averà d’i
lunari in capite, né la m’ha fatt a ment per sto riguard; nel rest la so
compitezza supplis ad ogn’ inavertenza involontaria.[244]
celio La cortesia del
signor Dottor, mio riveritissimo patron, come è solita distribuir grazie, così
ha per compatita la mia trascuratezza.
dottore La s’ covra, la s’
covra.[245]
10 celio Oh signor Dottor, conosco i termini, la mia riverenza non me ’l
permette.
dottore Eh la tegna, la
tegna in testa ’l so capel.
celio Non commetterò
certo questo errore.
dottore Volla che me ’l
cava anca mi o volla metter su anca lié?[246]
celio In segno d’ubidienza
esequirei i suoi voleri, ma...
15 dottore (a parte) (Se i
pagass così ben i so debiti come far ciàciari, sarav mèi per mi.)[247]
celio Ma mi dia
licenza, che devo portarmi per certo affare alla Piazza.
dottore La senta, la
senta in grazia, sior Celi, per un tantin, ma m’tì su ‘l capel.
celio Quando così
commanda, eccola servita. Dica, signor Dottor, che vuole da me?
dottore Brevibus verbis,
i me çinqueçento ducat, quando li averò?[248]
20 celio Eh non parliamo di
malenconie, caro signor Dottore; prendete, prendete una presa di tabacco.
dottore El tabach el me
pias e ’l togh, ma che vegna stasera a casa?[249]
celio Che dite signor
Dottore, è buono? Che bella grana, che buon odore, è vero?
dottore L’è bel e bon, ma
dubit che al m’abbi da costar tropp car.
celio È vero da
Bologna.[250]
25 dottore L’odor l’è d’ gazìa cert.[251]
celio Oh, signor
Dottor, li rassegno la mia servitù.
dottore Sior Celi, i me çinqueçento
ducat, guardé ben che farò d’le resoluzion.[252]
celio Oh, caro signor
Dottore, sentite, in grazia, non avete appresso di voi lo scritto sottoscritto
di mano di mio padre?
dottore Çertissim, grazie
al Ciel.
30 celio Oh bene; se non averete i
soldi, consolatevi, che almeno avete lo scritto che vi potrà valere ne’ vostri bisogni.[253]
dottore Ah, toch d’arsura
giazzada; sì, è vira? Anca sonarm’la d’soravie? Vegn, zafaut, vegn.[254]
SCENA II
Pantalone, poi Beatrice e Bagolino.
Pantalone Item
godo, e matti int’el cào chi sparagna per dir po item lasso. Ma sempre
Chiribin vien a metterghe la cóa, che daresto o in gondola o a Muran forsi fava
qualcossa; e dagnora me tocca ’l lotto a mi, varé. Ah, pazienza, son qua san,
in ton e inamorào più che mai; le cosse veramente se va strenzendo; el Dottor
ha levào la cartolina; ferma là sula bottega dagnora i cresse, e sì mo no vòi
saverghene una patacca. Un sior mio amigo veccio, che bisogna che l’abbia
qualche peccào da purgar, m’ha fidào trenta zechinetti; i xe qua, vòi ciamar la
mia raìse e co ella al fianco vogio andar a Redutto a risegarli e tagiàr,
vogio; chi sa che no faga tre fià sette? (batte)[255]
beatrice Chi è? Oh, signor
Pantalone.
pantalone Anema mia, son
qua, varé; senza de vu no gh’è remedio che possa star un colo.[256]
bagolino Servitor, sior
Pantalon.
5 pantalone Bagolin, bondì. Che diséu de qui
paronzinetti de Muran?[257]
bagolino Eh, frasconi
insolenti, ’i è da compatir.[258]
pantalone Son sbrizzào zó
del ponte, saìu?, daresto i impirava un drìo l’altro
co’ fa i beccafighi, da amigo.[259]
beatrice Eh, meglio così,
che non vi è gran male.
pantalone L’è megio çerto,
perché adesso sarave intrigào. Orsù, siora Beatrice, go qua trenta zecchini,
vogio andarli a risegar al Redutto; e son vegnù a levarve acciò che vegnì con
mi.[260]
10 beatrice E se perdete poi?[261]
pantalone Eh, no perderò
no, me sento mi che ancùo ho da vénzer.[262]
beatrice È meglio me li
date, che li perderete.
pantalone Ve digo de no, no
me fé cattivo augurio, andemo.
bagolino Via, via, andemo
siora, cossa volìu far?
15 beatrice Andemo; ma se perdete?
pantalone Eh, che no posso
perder no, co vu me se’ a lài.[263]
SCENA III
Celio,
Angela e Spinetta mascherati in Redutto;
Quel dalle carte e poi Pantalone, Beatrice e Bagolino.[264]
celio Che vuol dire non
vi sono giocatori? Bisogna che peranco sia a bonora, Carte.
quel dalle
carte Cossa commàndela,
siora maschera?
celio Siamo soli qui, è vero? Perché è così abbandonato questo vostro Ridutto?
quel dalle
carte Eh, manca zente,
siora maschera, la vaga in le camere che se laóra sì.[265]
5 celio Andiamo dunque, mascare.
pantalone Coss’è? No gh’è nissun qua? Ho giusto caro che ciapperò ’l tolin. Carte![266]
quel dalle
carte Chi è? Oh, sior
Pantalon, mio patron.
pantalone A nu, porta i teleri.[267]
quel dalle
carte Vèi qua, sior;
almanco fussi vegnùo un puoco avanti, che xe andào in camera certe mascare.
10 pantalone Eh, vignerà, vignerà; senteve qua, zògia,
steme a lài e feme anemo.[268]
beatrice Ho tanto timor
che perdete che mai più.
pantalone E mi me dà tanto ’l
cuor de vadagnar che no poderessi creder.[269]
beatrice Prego ’l Cielo
sia così; ma se perdete, certo che vogliamo gridare.
pantalone No, vita mia, che
no crieremo no, e varé quanti ’i vadagno, tutti i xe vostri, e anca questi
varé, tutti fina uno.[270]
15 celio Taglia certa gente che non
ho genio di metter, oh, pofar Bacco, maschera guardate, guardate signor padre
che fa banco; andiamo, andiamo a metter sotto di lui.[271]
(Celio e
Angela mettono sotto Pantalone)
pantalone Maschere ve servo;
çinque e quattro çinque, avé venzo mezo zechin, sior, e quattro
anca vu, mascheretta.
(tornano a
mettere al secondo taglio)
Òe, le mette
ben la so segonda, ste maschere; çinque e quattro, tutti do al più. Quattro,
avé venzo; quanti èlli siora? Tre e do, cinque e mezo, che da uno, che vuol dir
çinque e un sie; e çinque, anca vu sior, avé venzo; èlli çinque anca i vostri?
(Celio fa
cenno col capo di sì)
Ve diol el
gargato, sior? Ve ’l credo, ma vòi véder el fatto mio; avé rason, sior; çinque
e un sie anca a vu, sior, ciolé. E una dozena, saldi a sto resto.
(tornano
a mettere al terzo taglio)
Çinque e quattro
a quei là. Çinque; avé venzo; mo cospetto, mo debotto dirave de qualcossa;
quanti èlli, sior? Tre e tre sie; pasienza; me despiase assae più darveli a vu
sior che alla vostra compagnia.
(Celio fa
segno di far pace della posta)
Coss’è
maschera, va’ a pagài?
(Celio fa
cenno col capo di sì)
Aìu paura de
dir siben? La volé a vostro muodo, è vero? Avé rason. Va’, va’ a pagài, zò ’l
lico, sàu maschera. E una e una do; l’è andada. Vèllo
qua, corpo del diavolo, no me posso mo pì tegnir mi; debotto però, vedé,
debotto. Avé venzo col çinque, avé venzo, sior; sie e sie dodese, ciolé sior,
ma ve i dago co rabbia vedé; sior, hallo cattào sonica delongo? Pazienza, fin
che posso: vardemo sto quattro; varé co lontan che ’l vedo; oh, fionazze de chi
digo mi, le carte, vedé, siore maschere, le carte; quanti èi siora? Tre e tre
sie; i ghe xe giusto a filo; ciolé siora; credo che gh’abbié fatto su ’l conto,
mi.
(Celio dà
tutti i soldi venzi ad Angela in presenza di Pantalone e Beatrice)
M’avé curào pulito,
giusto a cico.
(Celio,
Angela e Spinetta partono)
Bon viazo,
maschere; si i xe puochi compatì, aççetté ’l buon anemo; a revéderse a una pì
bella. Faghe de atto, che ’l tròtolo è andato. (gira la borsa attorno
dicendo) Chi vuol sponze? No gh’è altro, no cade, che zògia. Ah, vogio
andar via de qua; andemo, siora Beatrice?[272]
beatrice Eh, andate sulle
forche![273]
pantalone Bon; sora marcào,
è vero?[274]
beatrice Non ve l’ho detto
che perderete?
20 pantalone Cossa
se puol mo farghe? I xe persi, gh’ho bù desdita, no se puol far altro.[275]
beatrice Avete veduto come
quella maschera li ha dati tutti alla donna?
pantalone El gh’i ha dài
seguro; cusì ’i gh’avéssio mi in scarsella; ma anca mi si vadagnava ve i dava
tutti a vu; ho mo perso mi, e sì no gh’è pì remedio.[276]
beatrice Dovevate darmeli
senza giocare, che ve l’ho detto tante volte.
pantalone Via, cara veccia,
no me mortifiché devantazo, andemo via de qua.[277]
25 beatrice Andatevi a far squartare, che con
me non vi voglio.
pantalone Mo perché, cara
fia, cussì me tratté?
beatrice Perché non vi
voglio meco, intendete?
pantalone Mo no fé che la
ve salta cusì presto, in cossa imbàttela sta musica, in trenta zechini? Ve ne
porterò altri trenta ancuo, voléu altro?[278]
beatrice Non voglio
niente, non voglio saper niente; andate a far i fatti vostri, che io anderò a
fare i miei.
30 pantalone Care vìssere, no me tormenté, che gh’ho
pì affanno al cuor co me disé una paroletta per storto che si ghe n’avesse
perso çento d’i çechini.
bagolino Via, cara siora
patrona, quand el ve promette portarv’oggi i trenta zechini, no ve rabbié.
beatrice Anche tu li
credi? Mi porterà un corno che lo marida.[279]
bagolino Eh, siora sì che ’l
ve li porterà; è vero, sior Pantalon?
pantalone Ve ’i porto in veritàe delongo co v’ho compagnào a casa.
Cospetto de mi, tanto puoco credito gh’ho appresso de vu? Savé pur quanti che
per vu ghe n’ho speso e spanto.
35 Bagolino Via, via, andem, andem, che ’l li
porterà, sì.
pantalone Ve ’i porto in veritàe benedetta; via, no me fé la matta, démela,
quella zattina.[280]
beatrice Orsù andiamo, ma
se mi fallate guardate bene il fatto vostro; non vi dico altro.[281]
pantalone Oh cara; e’ no fallerò no, andemo.
SCENA IV
Baroni che giocano in
Redutto e Arlichino.[282]
arlichino Coss’è za, se zoga,
se zoga?
barone Qua se zioga alla bona bassetta; si volé metter, sior, monèa la vol esser.[283]
arlichino Çert che vòi
metter. Va’ do soldi, aseno.
barone Coss’è sto aseno?
Séu imbriago?
5 arlichino Varda co’ ti parli, sa’...
barone Mi parlo ben, si
mi vedé; ma vu parlé mal, che vegnì a dir aseno.
arlichino Mi ciam el pont e
digh “aseno a do soldi”.[284]
barone (a parte)
Ho inteso, l’è da Lodi costù.[285]
arlichino Via a nu,
destrighémose.[286]
10 barone Cavalli in ste carte ghe n’è
quattro, ma aseni no ghe n’è altri ca vu.
arlichino Ah, sier carogna,
abbié giudizi.[287]
barone Mo caro vu, la
ghe va de sbalzo, bisogna molarla per forza.[288]
arlichino Via, via, caval
donca a do soldi.
barone Grassi co’ fa’ ciodi;
do soldi ’l mette co sto ruinazzo. (taglia) Cavallo; avé venzo sior,
ciolé do soldi.[289]
15 arlichino Falalalalalalela; caval a una
lirazza.[290]
barone Bravo, metté ben
la segonda, me piasé.[291]
arlichino Oh, me n’intend
mi, che crédistu?
barone (a parte)
(Bisogna sonarghela stavolta.) (taglia) Cavallo; avé perso.[292]
arlichino Come, come? No l’è
vera.
20 barone Vara, no l’è vera veh! A nu i
bezzi.
arlichino Sier no, sier
birba, ti m’ha gabbà.[293]
barone Coss’è sto birba?
Coss’è sto gabbà? Aìu vogia che ve rompa ’l muso?[294]
arlichino A chi romper el
muso, a chi?
barone Giusto a vu, si no me daré una lirazza che v’ho davagnào onoratamente.[295]
25 arlichino No te vog dar nient e no ho paura
nient.
barone No? A nu donca.
(qui si
danno)
SCENA V
Pantalone poi Dottore.
pantalone Oh poveretto mi!
L’ho menada a casa, gh’ho promesso portarghe subito i trenta zechini, ma no so
dove andar a trovar gnanca trenta lire. Çito, ghe xe no so chi, che forsi chi
sa? L’anderò a risegar, si la va, la va , sinò, no so
mo cossa farghe, mi, che l’abbia pazienza; la me n’ha deslubiào tanti che fa
paura. Daresto deboto son dove che posso esser; bolli, intimazion, citazion, psì,
bona notte a dozene i vien! Quell’avarazzo, po, de quel Dottor, nana; el me
strenze tanto i panni adosso che, per Diana,
l’è intrigada la manestra; e si daseno e dasenazzo che no ghe ne vòi
saver, ala summa de gnente; che ghe pensa chi ha d’aver, che mi gh’ho bel e
pensào.[296]
dottore Ah, i miei çinqueçent
ducat!
pantalone Vèllo qua, vèllo
qua ’l desperào.
dottore Possibil che i
abbia da perder tutti?
5 pantalone Eibò, do volte mezi; no, è megio aver
da dar. Ciolé, mi ho da dar e stago alliegro; lu i ha da aver e varé, debotto ’l
se va a picar.[297]
dottore L’è za, l’è za,
oh, se ’l me li dasse, vog saludarlo.
pantalone Si no l’è un
strigon, che ’l me ne fazza nasser.[298]
dottore Sior Pantalon, a’
v’ saludi.
pantalone Oh, sior Dottor
caro, basa-la man a vostra signoria.[299]
10 dottore Savì, Pantalon, con quanta
cortesie mi v’ho imprestad çinqueçent ducat la prima volta che mi avì d’mandad.
pantalone È vero sior, è
verissimo.
dottore E mi tant volt’ i’
ho da d’mandar a vu per la restituzion?
pantalone Caro vu, cossa
voléu far? Abbié pazienza; notéi sul libro d’i scossi.[300]
dottore No ’i vol
pazienza, i vol esser dinari.
15 pantalone Bezzi mi no ghe n’ho, e si no volé
aver pazienza, e vu lassé star.
dottore E mi ho da perder
çinqueçent ducat?
pantalone Faressi ben
imprestarmene altri çinqueçento, vu, e ve farìa la scrittura anca da sieçento.
dottore Ah, om’ ingrat,
così se paga, è vira?
pantalone Vara ingrato vè,
si no ghe n’ho?
20 dottore Si no ghe n’avì, perché vegnir a
imprestar?
pantalone Cazza, Dottor, se’
pampalugo! Perché vegnir a imprestar? Perché no ghe
n’aveva![301]
dottore Pampalugh, è
vira? Anca strapazzar?[302]
pantalone Caro vu, no me stornì; si no me ne volé dar d’i altri, almanco lasseme
star.[303]
dottore Lassar star?
Lassar star? A’ t’ vòi dar un lassastar.
25 pantalone Varé
che desgrazie; cossa me daràstu? Quel che ti ha tra i occi e la bocca?[304]
dottore Te farò cazzar in
una preson, sat’?
pantalone Eh, no gh’ho
paura, no.
dottore No? All’erta.
pantalone All’erta pur
quanto te piase; za, sier usurarazzo, sier Iacodin maledetto, ve la querelarò,
quella scrittura, al Piovego, sì, che la dise çinqueçento e si no è vero
gnente.[305]
30 dottore Ben, ben, va’ là, va’ là, ti
averà da far co un gnoch![306]
pantalone O gnocco o altro,
va’ via de qua che te darò una peàda, veh, dottor senza
dottrina![307]
dottore A mi una pezzada?
Adess al zafaut, al zafaut![308]
pantalone Sì, sì, va’ là,
che starò qua a spettarte. Mi no gh’ho bezzi, daresto vorave querelar el
scritto daseno; ah, pazienza. Pur che Beatrice me vogia ben no ghe ne vòi saver
de gnente; vogio andar a véder si posso impiantar st’altra
gazìa, daresto allegramente, e che la vaga![309]
SCENA VI
Celio, Arlichino, poi
Beatrice; Angela in disparte, poi Spinetta.
celio Dunque sei andato
a portar buona spesa a quella signora e poi sei andato a Muran a spasso con lei
e con signor padre, ed è stato gettato in aqua, è vero?
arlichino Signorsì, e vu
sìu stad a spass?
celio Sì, son stato
dalla mia cara Angela, ma non so, non mi ha fatto quella ciera che era solita.[310]
arlichino L’averà sentid
che sem’ al bass.[311]
5 celio Se l’abbia sentito non so;
so bene che siamo dove potemo essere, ma non so che fare; signor padre le vuol
tutte senza pensare a niente. A dirti il vero non voglio travagliarmi niente
niente.[312]
arlichino Oh, neanche mi,
segura.
beatrice Signor Celio, vi
riverisco.
celio Mia signora, che
mi commanda?
beatrice Prego la vostra cortesia d’un favore che risulterà anche in vostro
beneficio.
10 celio In che vaglio, son qui
pronto a servirla.
angela (a parte)
(Non lo dissi io? V’è più che dubitare, e taci, indegno, che me la pagherai.)[313]
beatrice La grazia che
desidero è che diciate al vostro signor padre che non venga in mia casa, perché
io non lo voglio per niente, e se nemeno si approssimerà riceverà de’ disgusti
che non li piaceranno.
celio Quando non m’impone
d’avvantaggio, s’assicuri resterà servita.
beatrice Di tanto solo la
prego e la riverisco.
15 celio Vada felice. Arlichino, che
dici?
arlichino No digh nient,
mi, signor.
celio Eh, animalaccio,
sempre sarai così goffo? Dico, cosa ti pare di quel che m’ha detto costei?
arlichino Mi par che l’ ha dit che no la ’l vol più.
celio Mah, e quant’oro
li costa!
20 arlichino E la vostra a vu, nient, è vira?
celio Sì, ma almeno mi
vuol bene.
arlichino Le vol ben da
quel che l’è.[314]
spinetta Signor Celio,
buongiorno a vostra signoria; la patrona vi chiama, venite in casa che vi vuol
parlare.
celio Spinettina cara;
vengo, vengo.
25 arlichino E mi Spinetta, qua de fora?
spinetta No, no, vieni,
vieni anche tu, cape!
arlichino Sì, è vira? Ah,
caretta, carina.
SCENA VII
Dottore poi Pantalone.
dottore Noté sul liber d’i
scossi? Démen d’i alter? Dottor pampalugh? No mi stornì? Dem del nas? Una
pezzada? E no ’l gh’anderà al cald? Sì che ’l gh’anderà, sì. A bon cont i zaff
i è là da dré, starò za spettandol e si ’l ghe capita, gh’insegnarò ben a
parlar.[315]
pantalone Madé, no gh’è
ordene, l’è andada sbusa; e sì xe un pezzo che l’ho menada a casa.[316]
dottore Non pagar, non
pregar e strapazzar?
pantalone Cazza, son
intrigào, e sì no so pì dove dar la testa, daseno.
5 dottore Dopp fatt el
servizi? A un dottor?
pantalone La me’ gi’ esser
spettar, imagineve, e si gh’ho mo vogia da andarghe che crepo, mi no ghe n’ho
uno, cossa vuol dir uno.[317]
dottore L’è za, l’è za,
corp de mi! (sùbia)[318]
pantalone Chi sùbia là? Ah,
ladro, ah spion, no ti farà gnente, vè. (fugge da Beatrice)
dottore Tireghe ’l col,
tireghe ’l; ma t’ farò la sguàita che te ghe cascheré, sì.[319]
SCENA VIII
Celio
in braghessine, Arlichino in camisa bastonati da Angela e
Spinetta; poi Pantalone similmente bastonato da Beatrice, poi
preso da zaffi.[320]
angela Tocco d’indegno,
sa’, impara a trattar!
spinetta To’, to’, to’, e
to’, e torna un’altra volta!
celio Così mi tratta...
angela Taci briccone,
infame, e porta a casa!
5 arlichino Ohimè, ohimè, ohimè.
spinetta Taci zó,
furbazzo, baron e scuffa![321]
(Angela e
Spinetta vanno in casa; esce da Beatrice Pantalon in braghesse)
beatrice Non te l’ho
detto? Non te l’ho detto?
pantalone Ohimèi, ohimèi,
pietàe, agiuto!
beatrice Serra quella
bocca vecchio porco, e to’ suso!
(Beatrice va
in casa)
10 celio Misero Celio!
pantalone Gramo Pantalon!
arlichino Povero Arlichin!
celio In che miserie
sei caduto?
pantalone In che stato xéstu
vegnùo?
15 arlichino In che termine es’ redotto?
celio Ah, donne perverse!
pantalone Ah, femene
malegnazze!
arlichino Ah, scrovazze
desfamàe![322]
celio È questo il
contracambio del mio affetto?
20 pantalone Xe questo el ben pagào a peso d’oro?
arlichino Èl quest el fin
delle careze mie?
celio Folle chi in voi
si fida!
pantalone Gramazzo chi ve
crede!
arlichino Mincion e
pampalugh chi casca in rede![323]
25 celio Per affetto e regali.
pantalone Per amor e
spesazze.[324]
arlichino Per el me sangue
spanto.[325]
celio Così mortificar
un innocente?
pantalone Cusì pestar un
povero veccietto?
30 arlichino Così scazzarme dalla casa e ’l
letto?
celio Signor padre?
pantalone Missier fio?
arlichino Siori paroni?
celio Avrete terminati
i vostri spassi.
35 pantalone Ti sarà pur col to batello in secco.
arlichino Averem tutti finì
de guarse ’l becco.[326]
celio E per colpa di
che?
pantalone E per causa de
chi?
arlichino E mi perché così?
40 celio Per aver troppo amato e troppo
speso.
pantalone Perché so’ andào
dagnora cola gobba.[327]
arlichino Perché son tropp
andà dré quella robba.[328]
celio Mi pentisco, ma
tardi.
pantalone Serro la cheba,
ma è scampào l’osello.[329]
45 arlichino Mai pì, mai pì al bordello.[330]
celio Ah, traditrice
infame!
pantalone Ah, sassina
cagnaza!
arlichino Ah, che te digh
el ver, ah puttanazza![331]
celio Vedrò le mie vendette.
50 pantalone Vignerà anca la toa.
arlichino Ti pagherà le
pacche della scóa.
celio Sì, ti vedrò in
ruina.
pantalone Sì, ti anderà a
pepiàn in Carampana.
arlichino Sì, ti deventerà una
marziliana.[332]
55 celio Intanto io pur patisco.
pantalone A bon conto mi
scusso.
arlichino In sto de mez, mi
sol ho ’l mal del flusso.[333]
celio Ah, perverso
destin!
pantalone Ah, fortuna
sassina!
60 arlichino Ah, sorte malandrina![334]
(escono i Zaffi, prendono e menano via Pantalone; Celio e Arlichino
fuggono)
pantalone Ohimèi, agiuto!
Celio, Arlichin! Oh, poveretto mi!
SCENA IX
Leandro, Lucindo, poi Beatrice e Bagolino.
leandro Avete veduto,
signor Lucindo?
lucindo Ho veduto e a dirvi il vero ero in stato di liberarlo povero vecchio, che
l’avrei ben fatto fuggire; ma già non ha più dinari; non fa più per noi.
leandro Non so come
sentirà questa nuova la signora Beatrice.
lucindo Oh, sète pur
buono! Sapete quando li spiacerebbe? Quando fosse il signor Pantalone nel stato felice che era una volta; ma ora che era ridotto
in miseria, cosa volevate che facesse di lui?
5 leandro Eccola a punto.
beatrice Signor Lucindo,
signor Leandro, che si fa?
lucindo Siamo qui ambi
dedicati al suo servizio. Ha saputo che il signor Pantalone è andato a star via
di casa?
beatrice Dove è andato a
stare?
bagolino In preson i l’averà
cazzad.
10 leandro Bagolino l’ha indovinata alla
prima.
bagolino Me l’ho pensada,
mi; poveraz!
beatrice Sia ringraziato
il Cielo che averà finito di rompermi la testa.
lucindo Sentite, signor
Leandro, come li spiace?
leandro Avete ragion voi.
15 beatrice Orsù, andiamo in casa che voglio
che stiamo un poco allegramente.
bagolino Entré, entré,
signori.
lucindo Andiamo, signor
Leandro, senza cerimonie.
SCENA X
Pantalone in preson.[335]
Mo
ghe son mi, cossa se puol far? Pazienza, oramai se m’ha fatto nìi per le cusiùre
che i fa la bella vogia. Manco mal che gh’ho compagnia; gh’è qua un sior
carissimo che andava col capotto de velùo; me consolo almanco, che si ’l ghe xe
ello, megio posso esserghe mi. Coss’è, sior? Allegramente, za, tanto fa, vedé,
consoléssimo, che almanco no i vegnerà a batter per el fitto; no ne vignerà
ladri a trar zó le serraùre, e no patiremo de freddo, siben che xe giazzo; sì,
sì, allegramente, caro vu, no me cressé la malinconia. Feve imprestar el violin
dal guardian, varenta vu, e soneme, che vogio cantar una canzon alla moda;
cossa voléu che faga, che daga la testa in sti ferri? Vara no,
vè; soné, soné.
Za che son in colombera,
mi ve vogio cantar,
ve
prego volentiera,
siori,
stela ascoltar:
sta
niova canzonetta 5
sull’agiare
del flon.
Flon flon marié vu belle,
flon
flon marié vui don.
La
xe sora de quelli,
che quando bezzi i gh’ha, 10
i
vuol tutti i bordelli
con
prodigalità;
e
senza guardar gnente
i butta via a orbón.
Flon,
ecc.
Che che non è, vien l’ora 15
che
se scoverze ’l mal;
co
se scorla la stiora,
no
gh’ è pì cavedal;
no
scorre pì le riode
si no ghe dé l’onzión. 20
Flon,
ecc.
Questi
è i carissimetti,
che
spende e porta zó,
e
scùffie coi cornetti,
e
còttoli e mantò,
e parasù e galani, 25
e
bezzi a tombolón.
Flon,
ecc.
Questi
xe i zuenotti,
che
con inzegno fin
i
dà i so scopelotti
al gramo scuelottìn; 30
e
quelle moneòle
i
ciappa su a palpón.
Flon,
ecc.
Questi xe i pizzegài
da
quel baron d’Amor,
che zó per ogni lài 35
i
spande ’l so suór
de
sangue e bezzi e robba
per
qualche bon boccón.
Flon,
ecc.
Questi
xe che in malora
senza d’altro pensar 40
i
se la vuol far fuora
dagnora
col ziogar,
con
bestemmie, con rabbia,
con
dogia e con passión.
Flon,
ecc.
Questi xe qui’ mincioni, 45
quei
pàmpani da ben,
che
a çerti compagnoni
taccài
sempre i se tien,
che
i fa magnarse ’l soo
per boria e ambizión. 50
Flon,
ecc.
Ma
più de tutti quanti
xe
pessimo mestier
quello
di grami amanti
che
fuora de dover
i para zó
ogni tanto 55
pilole
a strangolón.
Flon,
ecc.
Quelli
che se destruze
el
corpo e ’l cavedal,
che
’l ben sempre ghe fuze
e ghe succiede ’l mal; 60
mal
in borsa, int’i nervi,
int’i
ossi, int’el polmón.
Flon,
ecc.
E
forsi che culìa,
che
tanto ’i fa penar,
ancora da drìo via 65
la
i gi’ esser minchionar
con
far le scondariole,
e
ciassi col bertón.
Flon,
ecc.
Ma
si zó da cavallo
cattiva sorte i trà, 70
se
mùa delongo ’l ballo,
desù
più no se va;
e
si sarà bisogno
la
ciappa sul bastón.
Flon,
ecc.
Si so quel che ve digo 75
domandémelo
a mi,
che
subito da amigo
mi
ve dirò de sì;
siben
che ste carogne
le
xe de sta rasón. 80
Flon,
ecc.
Grami
chi trà via ’l soo,
chi
no lo sa tegnir,
grami
chi mette a còo
da
femene con dir:
ció, ció, le mie raìse 85
ció,
tutto de ti son.
Flon,
ecc.
Grami
chi se confida
con
dir; eh, che ghe n’è,
che
i spera pur che i rida,
che presto i vederé, 90
redutti
in tal miseria
che
i farà compassión.
Flon,
ecc.
Fradèi
per vostro megio
el
vostro tegnì a man,
ciappeve al mio consegio: 95
in
spender andé a pian;
le
prattiche e le donne,
né
’l ziogo no xe bon.
Flon,
ecc.
Mi
ve la conto giusta,
quando
che bezzi avé, 100
nissun
no ve desgusta,
a
tutti cari se’;
ma
si la rioda zira
i
ve trà int’un cantón.
Flon,
ecc.
E qua no gh’è defese 105
da
farve dubitar;
imparéla
a mie spese,
che
l’è un bell’imparar;
perché
no ho ‘bùo giudizio
son
qua int’una presón. 110
Flon,
ecc.
Fenisso
de stuffarve,
no
vago avanti più;
fradèi
de regolarve
el
tempo gh’avé vu;
cusì ’l gh’avesse ancora 115
el
gramo Pantalon.
Flon,
ecc.
Daresto
compatime,
si
no ve piase ’l stil,
si
ste mie grame rime
no xe tanto zentil; 120
almanco
abbiéle a care
per
l’agiare de flon.
Flon,
ecc.
Siersì, e la
xe cusì, varé, collega, sì, in veritàe bona; deghe, deghe indrìo ’l so violin,
che no ’l volesse che la ne costasse salada; che ghe paghéssimo ’l frùo, che
son pur troppo in secco.[336]
SCENA XI
Celio mal vestito e detto.
celio Ah, sorte infida! Ah, rio destino! Ma dirò meglio; ah, Celio
inavertente!
pantalone Òe, chi è culù
la? Qualche conzalavezi?[337]
celio Ma, e come
viverò? Oh, me infelice!
pantalone All’ose ’l me par
Celio.[338]
5 celio Non ho soldi, non ho robba,
come farò?
pantalone Giusto lu l’è,
gramazzo, ’l me fa peccào.[339]
celio È qui la
prigione; eccovi, eccovi mio padre; poveraccio mi commuove le lacrime.
pantalone Mo l’è ben
sbrìndoli, sbrìndoli per campagna.[340]
celio Imaginatevi in
che miserie deve essere, voglio salutarlo. Signor padre.
10 pantalone Òe, bella creatura, séu in corte de
qualche strazzeferut?[341]
celio Avete il morbino,
è vero, benché sete in prigione?[342]
pantalone Caro ti, stago
megio qua che in palùo.[343]
celio Cosa mangiate?
Come vivete? Io non so.
pantalone Mi magno d’i
gardellini in pastizzo, mi.[344]
15 celio Ma a che stato sete ridotto
per cagione del vostro sregolato vivere!
pantalone Òe, dimelo che no
te ’l diga veh, ciappa ’l tratto avanti.[345]
celio Vi son anch’io certo;
ma voi m’avete dato il buon esempio.
pantalone Ti, sier carogna,
co ti me vedevi mi andar a orza ti dovevi tegnir dretto ’l timon; no sastu che
un matto per casa basta?[346]
celio Bene, bene, a
buon conto io non so che mangiare, né dove dormire.
20 pantalone Va’ a far el zaffo.
celio Son in stato d’andarmi
a vender in gallìa.[347]
pantalone No i te vorrà no,
che ti ha ’l petto intrégo.[348]
celio Voglio andar in
qualche magazeno a veder se potessi bruscar un pezzo di pane, che ho una fame che
m’ispirito.[349]
pantalone Sì, sì, vate a
inzegnar; ti è grandotto e mal all’ordene, deresto te manderave al penacchio de
mezo.[350]
25 celio Ah, signor padre, vi
riverisco; state allegramente.
pantalone Staghe pur ti,
che mi ho fatto ’l callo.[351]
celio Prego ’l Cielo ci
agiuti; buongiorno a vostra signoria.
pantalone Bondì, bondì. Oh,
mondo! Oh, mondo, fatto a tondo. Ve digo ’l vero che ’l me màsena ’l coresin![352]
SCENA XII
Arlichino vestito da
cercantino, Diana, putto, e detto.[353]
arlichino Oh, Arlichino,
dov’è ’l tant bon temp, tanti comodi, tant formai, tanti marangoni? Ma pazienza
mi, che giera po servitor, ma i me patroni? Ah, fortuna desfortuna. Son vegnud
a trovar el me paron vecc, a véder se ’l vol qualcossa, come ’l se la passa.
Vog un po’ canzonar. Oh, oh, oh, dalla luminosa![354]
pantalone Oh, oh, olà!
arlichino Come stanzia la
bolla d’i gambari?[355]
pantalone Da lodi, da lodi.[356]
5 arlichino El
vostro formigotto è trucado a intagiar? Come stanzia vostra madre?[357]
pantalone Nostra madre
smorfirave meza impiraùra d’urti, e co un pèr de sgionfose de ciaretto ve
farave do crichi.[358]
arlichino Intagio el vostro
castagnar, ma stanzia niberta.[359]
pantalone Fago ciassetti
con ardor e ’l scalfetto de lenza.[360]
arlichino Ah, sior patron,
sior patron.
10 pantalone Arlichin, ti ti è? Coss’è? Cossa
fastu?
arlichino Ah, sior patron,
sior patron, ehu, ehu, ehu.
pantalone Eh, no pianzer,
caro ti, no me conturbar.
arlichino Cossa féu, sior
patron? Ehu, ehu, ehu.
pantalone Mi stago ben,
veh, ma si gh’avesse da magnar starave megio.
15 arlichino Tolì, tolì, ho qua d’i pezzi de pan
che ho trovad çercand, tolì, tolì.[361]
pantalone Da’ qua, da’ qua;
cancaro ’l gh’ha la muffa, eh, n’importa, no, ’l sarà bon, sì.
arlichino Ah, caro signor
patron, de tutt quel che troverò ve ne porterò çert, ehu, ehu, ehu.
pantalone Ohimèi, mo no
pianzer, caro ti.
arlichino No poss far de
manch, ehu, ehu, ehu.
20 pantalone Va’ a çerca, va’ a çerca e pòrteme
qualcossa, va’ là.
arlichino A’ vagh, a’ vagh;
e ve porterò cert; ehu, ehu, ehu.
pantalone Poverazzo! Varé
tanti amighi che ho ’bùo, che m’ha magnào tanti bezzi, che se vedesse un can,
noma sto gramo servitor! Si mai ’l Çielo me agiutasse, adesso ’l cognosso sto mondazzo
desgraziào.[362]
diana Cospetto de
Diana, che no vòi dir altro.[363]
pantalone Òe putto, ció,
vie’ qua, varenta ti.
25 diana Eh, secchéme la mare anca vu. ’I hòi mo persi tutti fina uno?[364]
pantalone Vie’ qua, fame un
servizio, te pagherò.
diana Coss’è? Cossa ve
casca?
pantalone Òe, ti ti è,
Diana? Ció sta pignatta, caro ti, va’ da sier Piero Orese, fate dar una
grolletta de zambelotto amarizò e un boro de pan traverso; e da capo Almorò, da
parte mia, do soldi de vin, ma préghelo che ’l me lo daga,
che ’l possa batizar.[365]
diana Dé qua, dé qua; varé: un omo de quella sorte cossa che ‘l fa comprar; puh.
30 pantalone Via, via, frasca, stà sui to costrài.[366]
diana Coss’è sto
frasca, sier veccio matto, disé?
pantalone Ah, fio d’una
caldiera, vienme appresso![367]
diana Sì? Aspetteme
donca.
pantalone Òe, no me far el
matto, sa’!
35 diana Òe, che me casca la testa si
ve porto gnente; correme drìo, si se’ bon!
pantalone No ghe mancherave
altro ca questa, ala fe’, e sì ’l sarà omo de farla, vedé. Oh poveretto mi!
Debotto mo, debotto me passa le zanze.[368]
SCENA XIII
Tutti.
celio Allegrezza,
signor padre, allegrezza![369]
pantalone Coss’è, coss’è?
celio È morto Tirondello
vostro fratello in Bologna, ci ha lasciato tutto; mi son agiustato col signor
Dottore, adesso vi tiraranno fuori e per l’avenire viveremo più cauti.
pantalone Oh, cossa me cóntistu!
Èlla po vera?
5 dottore Çert, çert, ve faz la fede mi.
celio Orsù, adesso
veniremo a mudarvi d’abiti, e venirete e agiustaremo tutti i nostri intrighi.
Intanto, uditori benigni, compatite la nostra debolezza e apprendete il vivere
da questo verissimo esemplare.[370]
Bibliografia
Bibliografia
citata in modo abbreviato
Alberti = Alberti, Carmelo, La scena veneziana nell’età
di Goldoni, Roma, Bulzoni editore, 1990.
Battisti-Alessio = Battisti, Carlo - Alessio,
Giovanni, Dizionario
etimologico italiano, Firenze, Barbera Editore, 1975.
Beccaria = Beccaria, Gian Luigi, Sicuterat. Il latino di
chi non lo sa, Garzanti Editore, 1999.
Belloni 2003 = Calmo, Andrea, Le
bizzarre, faconde et ingegnose rime pescatorie,
a cura di Gino Belloni, Venezia, Marsilio Editore, 2003.
Boerio = Boerio, Giuseppe, Dizionario del dialetto
veneziano, Venezia, Giovanni Cecchini, 1856.
Calimani = Calimani, Riccardo, Storia del Ghetto di
Venezia, Milano, Rusconi Libri, 1985.
Cappelli = Dizionario di
abbreviature latine ed italiane, per cura di
Adriano Cappelli, Milano, Hoepli, 1990.
Capello lfc = Capello, Giovan Battista, Lessico
farmaceutico-chimico, Venezia, Lovisa, 1754.
Cortelazzo = Cortelazzo,
Manlio, L’influsso linguistico
graco a Venezia, Bologna, Patron, 1970.
D’onghia = Ruzante, Moschetta,
Edizione critica e commento a cura di Luca D’Onghia, Venezia, Marsilio
Editori, 2010.
Dian = Dian, Girolamo, Memoria sulle condizioni,
sugli statuti e sugli ordinamenti dei farmacisti sotto la Repubblica Veneta,
Firenze, Tip. Della Pia Casa di Patronato, 1891.
Du Cange = Du Cange et. al., Glossarium
mediæ et infimæ latinitatis, Niort, L. Favre, 1883-1887.
Ferrone 1997 = Ferrone, Siro, Il
teatro, in Storia della letteratura italiana, V. Il secondo Cinquecento e
il Seicento, Roma, Salerno Editrice,
1997, pp. 1057-1110.
Ferrone 2011 = Ferrone, Siro, La
vita e il teatro di Carlo Goldoni, Venezia, Marsilio Editore, 2011.
Folena = Folena, Gianfranco, Vocabolario del veneziano
di Carlo Goldoni, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da
Giovanni Treccani., 1993.
Formentin = Formentin Vittorio, Un esercizio
ricostruttivo: veneziano antico fondi ‘fondo’, ladi ‘lato’, peti ‘petto’, in
«Le sorte delle parole», Testi veneti dalle origini all’Ottocento,
Padova, Esedra editrice, 2004, pp. 99-116.
Fortis-Zolli = Fortis ,
Umberto - Zolli, Paolo,
La parlata giudeo-veneziana, Assisi-Roma, B. Carucci, 1979.
Gdli = Grande dizionario
della lingua italiana, a cura di Salvatore
Battaglia e Giorgio Bàrberi Squarotti, Torino, Utet, 1961-2002.
Guccini = Guccini, Gerardo, Goldoni scenografo. Con
alcune considerazioni di carattere storico sulle componenti e le funzioni degli
spazi comici, «Studi Goldoniani», 2, Pisa-Roma, Serra Editore, 2013, pp.
11-42.
It = Itinerario farmaceutico
di Venezia, presentato dalla Bacco Industria
chimica, prefazione: Giovanni Mariacher, testo: Mario Trinchieri di Venanson,
Milano, I.E.I., 1971.
Klein = Klein, Robert, La forma e l’intelligibile, Torino,
Einaudi, 1975.
Lazzerini = Calmo, Andrea, La
Spagnolas, a cura di Lucia Lazzerini, Milano, Bompiani, 1978.
Lazzerini-Giancarli = Giancarli,
Gigio Artemio, Commedie, a cura di Lucia Lazzerini, Padova,
Antenore, 1991.
Lombardi = Lombardi, Carmela, Danza e buone maniere nella
società dell’Antico Regime, trattatelli e altri testi italiani tra il 1580 e il
1780, Arezzo, Mediateca del Barocco, 2000.
Mariti = Mariti, Luciano, Commedia
ridicolosa: comici di professione, dilettanti, editoria teatrale nel Seicento:
storia e testi, Roma, Bulzoni, 1978.
Mazzucchelli =
Mazzucchelli, Giovanni Maria, Gli scrittori d’Italia, vol. II,
Brescia, 1758.
Migliorini = Migliorini, Bruno, Dal nome proprio al nome comune: studi semantici
sul mutamento dei nomi propri di persona in nomi comuni negl’idiomi romanzi,
Genève, Olschki, 1927.
Milan = Guida alle
Magistrature, a cura di Catia Milan, Antonio Politi,
Bruno Vianello, Verona, Cierre Edizioni, 2003.
Muazzo = Muazzo, Francesco Zorzi, Raccolta de’ proverbii, detti, sentenze, parole e
frasi veneziane, arricchita d’alcuni esempii ed istorielle, a cura di
Franco Crevatin, Angelo Colla, 2008.
Mussafia = Mussafia, Adolfo, Beitrag zur Kunde der
norditalienischen Mundarten im XV. Jahrhunderte, «Denkschriften der Wiener
Akademie der Wissenschaften. Philosophisch-historische Klasse», XXIII 1873
(ristampa anastatica con presentazione di Carlo Tagliavini, Bologna, Forni,
1964).
Mutinelli = Mutinelli, Fabio, Lessico Veneto, Venezia,
Aldo Forni Editore, 1851.
Ninni = Ninni, Emilio, Pesci Molluschi Crostacei nel
vernacolo veneziano, Treviso, Edizioni Canova Treviso, 1976 (Riproduzione
fotomeccanica della edizione stampata a Venezia nel 1920).
Nuovo modo = Cappello, Teresa, Saggio di un’edizione critica
del “Nuovo modo de intendere la lingua zerga”, «Studi di Filologia
italiana», Firenze, Sansoni Editore, 1957, (estratto dal volume XV, pp.
303-399).
Padoan = Padoan, Giorgio, Putte,
zanni, rusteghi: scena e testo nella commedia goldoniana, a cura di Ilaria
Crotti, Gilberto Pizzamiglio, Piermario Vescovo, Ravenna, Longo, 2001 (Scritti
già pubblicati in: «Lettere italiane», «Quaderni veneti», «Problemi di critica
goldoniana»).
Prati = Prati, Angelico, Voci di gerganti, vagabondi
e malviventi studiate nell’origine e nella storia, Pisa, Giardini, 1978.
Prati EV = Prati, Angelico, Etimologie venete, a
cura di Gianfranco Folena e Giambattista Pellegrini, Venezia-Roma, Istituto per
la collaborazione culturale, 1968.
Re = Re, Emilio, La Commedia Veneziana
e il Goldoni, «Giornale storico della letteratura italiana», vol. LVIII,
Torino, Loescher, 1911, pp. 367-378.
Salvioni = Le
Rime di Bartolomeo Cavassico, introduzione e note di Vittorio Cian,
illustrazioni linguistiche e lessico a cura di Carlo Salvioni, Bologna,
Romagnoli Dall’Acqua, 1893-1894.
Spezzani = Spezzani, Pietro, Dalla commedia dell’arte a Goldoni, Padova,
Esedra editrice, 1997.
Scannapieco 2001 = Goldoni, Carlo,
La buona madre, a cura di Anna Scannapieco, Venezia, Marsilio, 2001.
Sella = Sella, Pietro, Glossario Latino Italiano,
Stato della Chiesa-Veneto Abruzzi, Città del Vaticano, Biblioteca
Apostolica Vaticana, MDCCCCXLIV (ristampa anastatica 1965).
Tassini = Tassini, Giuseppe, Curiosità veneziane, Venezia,
Filippi Editore, 1863.
Vescovo 1985 = Calmo, Andrea, Rodiana, a cura di Piermario Vescovo, Padova, Antenore,
1985.
Vescovo 1987 = Vescovo, Piermario,
Per la storia della commedia cittadina veneziana pregoldoniana,
«Quaderni Veneti», 5, 1987, pp. 37-80.
Vescovo 1993 = Goldoni, Carlo, Le baruffe chiozzotte, a
cura di Piermario Vescovo, introduzione di Giorgio Strehler, Venezia, Marsilio
Editori, 1993.
Vescovo 1994 = Calmo, Andrea, Il Travaglia, a cura di
Piermario Vescovo, Padova, Editrice Antenore, 1994.
Vescovo 1996 = Vescovo, Piermario, Da Ruzante a Calmo, Padova,
Antenore, 1996.
Vescovo 2000 = Vescovo, Piermario,
Parigi e Siviglia. Spazio e tempo in commedia tra Sei e Setteconto in
Goldoni. Primi appunti, «Problemi di critica goldoniana», 7, 2000, pp.
243-287.
Vescovo 2002 = Mondini, Tomaso,
El Goffredo del Tasso cantà alla barcariola, versione in veneziano de La
Gerusalemme liberata, anastatica dell’edizione del 1693 a cura di Piermario Vescovo, Venezia, Marsilio, 2002.
Vescovo 2011 = Gozzi, Carlo, Commedie in commedia,
a cura di Piermario Vescovo e Fabio Soldini, Venezia, Marsilio, 2011.
Vitali = Vitali, Achille, La moda a Venezia attraverso
i secoli, lessico ragionato, Venezia, Filippi, 1992.
Zanelli = Zanelli, Guglielmo, Traghetti veneziani,
Venezia, Il Cardo, 1997.
Zolli 1971= Zolli, Paolo,
L’influsso del francese sul veneziano del XVIII secolo, Venezia,
Istituto Veneto, 1971.
Zorzi = Zorzi, Elio, Osterie
veneziane, Venezia, Filippi, 1967.
Altra
bibliografia
Accorsi, Maria Grazia, Scena e lettura: problemi di scrittura e
recitazione dei testi teatrali, Modena, Mucchi, 2002.
Carpinato, Caterina, Il lamento del Peloponneso di Petros Katsaitis,
in Venezia e la guerra di Morea, a cura di Mario Infelise e Anastasia
Souraiti, Milano, Franco Angeli, 2005, pp. 187-208.
Cicogna, Emanuele Antonio, Delle iscrizioni veneziane, III,
Venezia, Giuseppe Picotti, 1830.
Cotticelli, Francesco - Schindler, Otto G., Per
la storia della Commedia dell’Arte: Il Basalisco del Bernagasso, ne I
percorsi della scena. Cultura e comunicazione del teatro nell’Europa del
Settecento, a cura di Franco C. Greco, Napoli, Luciano, 2001, pp. 13-341.
Cotticelli, Francesco, La
tradizione del Basilisco e La prodigalità di Arlichino di
Giovanni Bonicelli, «Maske und Kothurn», 50/3 (2004), pp. 65-136.
Goldoni, Carlo, La finta ammalata: L’autore a chi legge,
in Id., Tutte le opere, a
cura di Giuseppe Ortolani, Milano, Mondadori, 1939, vol. III, pp. 641-708.
Carlo
Goldoni,
L’uomo di mondo, Il prodigo, La bancarotta o
sia Il mercante fallito, in Id.,
Tutte le opere, a cura di Giuseppe
Ortolani, Milano, Mondadori, 1941, vol. I.
Gutiérrez Carou, Javier, Alcune notizie sulla vita e
sull’opera di Maria Isabella Dosi Grati, ‘Dorigista’: lavori conclusi, lavori
in corso, in España e Italia: el Siglo de las Luces. Homenaje a Giulio
Ferroni, a cura di Irene Romera Pintor, Madrid, Updea, 2017, pp. 91-108.
——————————, Verso un
catalogo definitivo della produzione di Dorigista (Isabella Dosi Grati):
edizioni e manoscritti, in Desafiando al olvido: escritoras italianas
inéditas, a cura di Milagros Martín Clavijo - Mattia Bianchi, Salamanca,
Ediciones Universidad de Salamanca, 2018, pp. 115-126.
Miggiani, Maria Giovann - Vescovo, Piermario,
Uno scenario inedito di Pantalone bullo e Goldoni a Bagnoli,
«Problemi di critica goldoniana», I, 1993, pp. 9-51.
Sansa, Anna, «Un zorno bisognerà pagar», «Studi goldoniani», XIII, 5 n.s., 2016,
pp. 11-32.
Spezzani, Pietro Dalla commedia dell’arte a Goldoni, Padova,
Esedra, 1997.
Toldo, Pietro, L’Oeuvre de Molière et sa fortune en Italie,
Torino, Loescher, 1910, p. 269.
Vescovo, Piermario, Per la
storia della commedia cittadina veneziana pregoldoniana, «Quaderni Veneti»,
5, 1987, pp. 37-80.
—————————, Momolo a Varsavia
(Postilla a una postilla goldoniana), «Problemi di
critica goldoniana», VII, 1999, pp. 8-25.
—————————, Prefazione, in Giovanni
Bonicelli,
Pantalon spezier, a cura di Maria
Ghelfi con un’introduzione di Piermario Vescovo, Venezia - Santiago di
Compostela, lineadacqua, 2018, pp. 9-17 (www.usc.es/goldoni).
—————————, The Life of the Day. Music and theater between reality
and representation , in A Life of Seduction. Venice in
1700s, catalogue of exhibition, New Orleans Museum of Art, New Orleans,
2017, pp. 28-41.
[1] cognossùo,
“conosciuto”. ♦ me trarave in fuogo, “mi
getterei nel fuoco”.
[2] a’
i’ so mi, “li conosco bene”.
[3] siéu, “siate”. ♦ varé, “guardate”. ♦ dagnora,
“sempre”. ♦ sfazzào, “sfacciato”. ♦ ciorme, “prendermi”
(secondo la forma cior, in luogo di tior).
[4] v’lio, “volete”; la caratteristica caduta di vocale
all’interno di parola della parlata pseudo bolognese del Dottore, ma con calco
sul veneziano voléu.
[5] Cazza,
interiezione; probabilmente eufemistico per cazzo,
cfr. Boerio s. v. cazza o cazze e cazzo o cazza da l’aqua; e ancora «oh
cazza! oh cazzo! oh caspita! oh caspitttina! [...] Oh cazza! Questa sì che l’è
bella e gustosa a contar anca a chi no la sa!» (Muazzo
p. 751).
[6] contentév, “accontentatevi”, qui formula di cortesia.
[7] Za
za, “già, davvero”. ♦ me cazzeressi in
sacchetto de posta, locuzione: “mettere nel sacco” come metere in saco
uno, «farlo stare, abbatterlo, confonderlo in guisa che non sappia che
rispondere» (Boerio s. v. saco). ♦ de posta, “apposta”.
[8] donca,
“dunque”. ♦ d’sì su s’ciett, “dite
avanti schiettamente”.
[9] compreda de stab’li, “acquisto di immobili”.
[10] gnanca,
“neanche”.
[11] Seh
bondì, interiezione: il dialogo evidenzia l’incapacità
di Pantalone di esprimere chiaramente la sua richiesta, perché il Dottore non
lo lascia parlare, come da tradizione per i due personaggi, fino al goldoniano Servitore
di due padroni (per cui cfr. ad esempio II.2); una scena analoga si trova
anche in Spezier I.1.11. ♦ delongo, “subito, senza
indugio”.
[12] che
m’ travaia, “che mi da disturbo”; quando il Dottore
capisce che Pantalone ha bisogno di un prestito di denaro, finge in prima
battuta di sentirsi male.
[13] doia, “dolore”.
[14] saldi,
«specie di avverbio famigliare (che anche dicesi saldi
in pope) e vale sta saldo; sta in piedi; sta forte; sta sulle gambe; non
cadere, modo di richiamare od avvertire colui che camminando inciampa - in
altro senso vale persisti; sta forte; non cedere e simili per animare altrui a perseverare
nella presa risoluzione - in altro significato ancora, non ti perdere; non
ismarrirti; richiamati e simili», (Boerio,
s. v.). ♦ che pur troppo ’l vien, “che capita anche
troppo sovente”.
[15] Palaz, “luogo dei tribunali”. ♦ negozi,
“affare”: il Dottore, come seconda scusa, adduce quella di essere impegnato in
un appuntamento urgente di affari.
[16] ciappa,
“prende”.
[17] contanti
a burchi, espressione avverbiale: “a bizzeffe,
abbondantemente”; il burchio è una barca da carico (cfr.
Boerio s. v.). ♦ a
sutto, “a secco”, “al verde”. ♦ letterina, “lettera di
cambio”. ♦ sangue da un muro no ‘l se puol cavar, proverbio che
significa: “è inutile cercare di ottenere cose impossibili”.
[18] amigo
sviscerào, “amico intimo”, sull’onda di espressioni
comuni come viscere mie, “caro”, o esser ligài par el budello, “essere
strettamente legati”, cfr. I.8.8 e Spezier II.8.4.
[19] Dargh’li,
“darglieli”; il Dottore finalmente si arrende
alla concessione del prestito.
[20] fa niòlo, «specie di aggettivo che dicesi familiarmente dalle
nostre donne per vezzo o per tenerezza, ad un ragazzino nel significato di
piccolo ma vezzoso» (Boerio s. v.), da nio, nido, nel senso
di “dare ricetto, accontentare”, come specifica il seguente no me dir de no
varenta casa toa. ♦ varenta, voce del verbo garantire e
vale: “su casa tua”, “che Dio ti salvi la casa” (cfr. quanto riportato da Muazzo, p. 1085: «zé come un avverbio
che significa in nome, in grazia o per amor della tal data cosa che se vol
rappresentar: “varenta el mio spandiacqua che la zé così!”; “varenta ti se ti
me vol ben, paghime el caffè e manda a farse benedir chi digo mi, per non dir
altro”», e ancora, p. 1090: «varenta el Dio ch’adoro, varenta le mie creature,
varenta mia siora nona, varenta el mio spandiacqua che la zé stada così la
faccenda»).
[21] me xe de vantazo, “mi avvantaggia”. ♦ altrotanto, forma
arcaica di “altrettanto”.
[22] v’dì,
“vedete”, cfr. I.1.4 e I.1.30.
[23] lu,
pronome personale “egli”; qui in costruzione impersonale
con valore affermativo.
[24] bagatella, “inezia, cosa di poco conto”, cfr. Bullo
I.5.1, p. 72.
[25] Nana,
espressione di meraviglia, dicesi per ironia di
cosa rilevante; cfr. Bullo I.1.4, p. 67: far de so nona nina nana.
♦ stronzaùra, (stronzadura) diminuzione del peso delle monete, qui
nel senso di “strozzinaggio”, “usura”, da stronzar: «operazione criminosa
che fassi da chi col mezzo della forbice o della lima o altrimenti, ritonda o
talgia sull’estremità in giro le monete, diminuendo il loro valore intrinseco,
il che dicesi anche tosare» (Boerio,
s. v.).
[26] minga, “mica”, cfr. Bullo II.5.7, p.
. ♦ manch, “meno”.
[27] cóstelo
tanto a bottega, locuzione commerciale sul
prezzo della merce all’ingrosso, qui riferita a una merce che non si compra
come il denaro.
[28] Façiliterò, segue una lunga sequenza di minuto paragone delle
monete e dei sistemi di cambio, offerti dal Dottore con tassi evidenti di
strozzinaggio.
[29] serrerò
un ocio, “chiuderò un occhio”, “farò finta di non
vedere”. ♦ al scorlar delle stiore se toccheremo la zatta, doppia
locuzione nell’a parte di Pantalone: “allo scuotere delle stuoie”,
ovvero al momento del dunque; stiora, “coperta”, «specie di coperta
tessuta o di giunchi o d’erba tifa che serve a varii usi» (Boerio s. v.); “ci toccheremo
la zampa”, “ci toccheremo la mano”, (cfr. Bullo I.9.6, p. 79); ma si
tenga presente il senso figurato di tocar qualcun, “percuotere” e
l’identico menar le zatte, “menare le mani”.
[30] bezzi, “soldi”, cfr. Bullo I.1.5, p. 68.
[31] piz’nin,
“soldino, moneta di infimo valore” (cfr. Gdli s.
v. piccolo), che indica anche la moneta diminuita di peso e
fuori valore, cfr. I.1.39.
[32] gonzo,
“minchione, sempliciotto”. ♦ el lazzo
della necessitae me strenze, “il cappio della necessità mi stringe”.
♦ a gaglia a gaglia, locuzione avverbiale, diffusa nel veneziano,
qui con una separazione impropria, forse in uso, in due elementi, dal greco agàli
agàli: “pian piano”, “adagio adagio” (cfr. Cortelazzo
s. v. agàli agàli), che
registra anche una nutrita serie di luoghi soprattutto cinquecenteschi e
riferiti a parlanti greci nella forma corretta ma anche in forme quali a
galli a galli (Caravia e
simili); curiosa la citazione che ne fa il Muazzo,
p. 528: prima afferma che il termine designa un insetto, che potrebbe
essere il millepiedi, in seguito appunta a memoria il testo di una canzone
greca: «me contava mio pare che a Corfù fra le canzon greghe ghe ne giera una
che scomenzava: a galià a galià pomogy tofroristi mo’ ciambeli et.a.».
[33] polacchetto, cfr. Bullo I.1.5, p. 68. ♦ figurina,
“personaggino”, qui si riferisce all’aspetto fisico di Celio, comunque di
aspetto gradevole.
[34] battino,
per “battano”, forma arcaica di congiuntivo.
[35] mattarella,
“pazzerella”, qui in tono ironico e affettuoso
(cfr. Boerio, s. v. matarela). In tutta la scena si noti il
contrasto tra l’atteggiarsi aulico e ingessato degli amorosi che parlano in
italiano e il registro domestico dei servi; cfr. per i primi le forme colte
quali absente, o espressioni quali s’uniformano ai sentimenti, di
contro a cadrega da poz, col ciaf par tera, e al se desfriz di
Arlichino, per cui si veda sotto.
[36] tègnet
in cadrega da poz o col ciaf per tera, “tieni in trono o
colla faccia in terra”, carega da pozo: «scranna; ciscranna; sedia a
bracciuoli ― stare in carega da pozo, locuzione famigliare e figurata,
stare a o in panciolle, star con tutti i suoi agi, con ogni comodità ―
stare in sella, vale figurato essere a vantaggio o in buono stato» (cfr. Boerio, s. v. carega); ciaf,
“testa, muso”; Boerio riporta cefa
e cefo; come sempre più spinta la spiegazione di Muazzo, p. 415: «dar sul giaf. Questa zé
una frase furlana che significa dar sulla testa, ovvero quando la donna con man
morbida e delicata dà come delle sleppe sulla testa dell’osello» (il doppio
senso, forse di uso comune, in questo caso potrebbe servire ad evidenziare la
sfrontatezza di Arlichino nel corteggiamento). ♦ se desfriz, metafora
culinaria, “si soffrigge”, per “si consuma” (d’amore); «el desfritto per lo più
se fa con l’ogio e con la ceola. Aveu fatto in antian el desfritto? El me par
santa Lucia desfritta in ogio. Mi me desfrisso nel mio ogio, nel mio grasso:
cioè me contento de quel che Dio m’à dà», (cfr. Muazzo
p. 359).
[37] vengo
tanto fatta, “mi maturo”, “mi faccio proprio donna”:
«donna fatta, che ha passato l’adolescenza» (Boerio
s. v.), nel senso di “esser in età da
marito” con allusione ammiccante.
[38] dit
po davira, “dici tu poi davvero”.
[39] e
no altro, “senz’altro”. ♦ padre, nel
parlar famigliare, pare, detto per
sincope vale compare, e anche caro pare, espressione che si usa per
amicizia verso qualcuno, come se gli dicesse “caro amico” (cfr. folena p.415);
si veda anche Spezier III.9.27.
[40] mantò,
«esso era una sopravveste, rialzata dietro con
grazioso panneggio in modo da lasciar intravedere la veste sottostante, dando
così slancio alla figura» (Vitali s. v.); indumento tipico del Seicento,
verrà in seguito sostituito dall’andrienne (ivi).
[41] l’è
la porta in strada che batte, la prima delle
caratterizzanti espressioni demenziali e strampalate del personaggio.
[42] mistro,
«mastro o maestro, dicesi al lavoratore o padrone
di bottega» (cfr. Boerio s. v.), anche nel senso specifico di
sarto.
[43] èllo
’l boia sto mistro, battuta demenziale che
prende spunto dall’ambivalenza della parola: oltre al significato sopra
descritto Boerio riporta anche una
voce gergale che intende mistro come “boia”, “carnefice”; a questo si
aggiunga il metro che esibisce il sarto venuto a prendere le misure (cfr. la
didascalia alla battuta dodicesima), usato di solito da chi viene a prendere le
misure per la cassa da morto.
[44] zentilorgana,
storpiamento di “gentildonna”: «vale signor da
burla. Talora però dicevasi scherzevolmente per gentiluomo» (Boerio s. v.).
[45] Èllo
ladin?, da latino; correntemente
impiegato in traslato nel veneziano nel senso di “facile”; si vedano anche
espressioni come ladin de boca, “facile a parlare” (cfr. Boerio s. v. ladìn); qui
evidentemente il riferimento, come intesa furbesca, va alla prodigalità, alla
facilità di spesa di Celio. La concertazione avviene tra Angela e il sarto, di
modo che non sia direttamente Angela a chiedere il mantò, oltre alla sottana,
di conseguenza anche le battute 13-18 sono da considerarsi a parte e
sono state così indicate in questa edizione critica (cfr. parte seconda scena
quarta de La Pelarina in cui Volpiciona travestita convince
Tascadoro a comprare l’abito alla figlia).
[46] pelar, “pelare, spennare”, detto dei polli in senso traslato;
per pelarina, detto per persona, (come la protagonista dell’intermezzo
di Goldoni sopra citato), cfr. Boerio:
«donna che pela, che sa tosar le ale o cavare le penne maestre, che sa trarre
da ciascheduno il più che può e senza riguardo»; si veda anche Muazzo, p.848 s. v. pelar: «[...] Pelarina ghe disemo a quella donna, sia
nobile sia plebea, che non solo se contenta de cavarve tutto el latte che gavé
ai cogioni, ma che ve suga le scarselle e varda a forza de lusinghe e de
carezze de levarve quanti bezzi e robba che gavé, tanto che se la podesse anca
i abiti e la camisa che gavé attorno».
[47] brazza,
«dimensioni di quattro palme o quarte, che serve
per misurar la tela» (Boerio, s. v. brazzo); vedi anche la voce brazzoler, “canna
da misura”: la misura di ventiquattro braccia è ovviamente enorme in rapporto
alla sottana.
[48] fornimento,
qui nel senso di “passamaneria”, “ornamento”;
cfr. nota I.4.42 per il dettaglio dello stesso.
[49] schieta,
“senza guarnizioni”.
[50] merlo, alamari, franza, merlo «merletto; merluzzo; merlo o
trina, una certa fornitura o trina fatta di refe finissimo o d’oro o altro» (Boerio s. v.); l’arte del merletto a Venezia è molto diffusa e proprio nel
XVII secolo si specializza sempre più nei disegni e nelle realizzazioni
producendo manufatti originali e preziosi (cfr. Vitali
s. v.); alamaro, «allacciatura
di abiti formata da un cordoncino a cappio applicato su una parte e da un
bottone (per lo più a forma di ghianda) sull’altro; i cordoncini ricamati e
colorati costituivano un motivo ornamentale sull’abbottonatura di uniformi e
divise» (cfr. Gdli s. v. alamaro); franza «sorta
di lavoro e ornamento noto», «fornir de franza, frangiare e frangionare. Far
franza, sfrangiare, sfilacciare il tessuto e ridurlo a guisa di frangia -
quindi dicesi sfrangiato e sfrangiatura» (Boerio
s. v.).
[51] al
Diamante, sembra alludere all’insegna di una nota
bottega di merciaio.
[52] L’è cascà, “è caduto” (nella rete): Celio ha ceduto alle
richieste di Angela; come altrove nel testo il servo ha il compito di chiudere
in modo comico la scena.
[53] Calegher,
“calzolaio”.
[54] pelle
ricamata, ricamà indica normalmente i
lavori di ricamo fatti con l’ago, qui più facilmente indica pelle stampata a
motivi di ricamo.
[55] Ruga, «dal francese rue, è una strada fiancheggiata
quinci e quindi d’abitazioni e botteghe. Siccome poi al presente sono in tal
guisa conformate quasi tutte le nostre strade, così deve ritenersi che,
allorquando Venezia era soltanto in parte abitata, acquistassero tale
denominazione quei siti in cui cominciossi a fabbricare nel modo indicato, e la
ritenessero anche allorquando, aumentatasi la popolazione, si fecero delle
case, e rughe da ogni parte. A S. Pietro di Castello abbiamo anche il Campo e
la Calle di Ruga» (Tassini s. v. ruga), ma qui forse il
luogo più probabilmente indicato è più centrale e potrebbe essere la lunga ruga
al di là del ponte di Rialto, anche se Boerio
afferma che il termine veniva usato anche come sostitutivo di calle. ♦ far
el servizio de brocca, “di fino” servizio ottimo, appropriato; da brocca,
“chiodo o borchia” (in questo caso termini perfettamente aderenti in senso
letterale al lavoro del calzolaio); inoltre l’espressione dare in brocca
significa “colpire nel segno”, qui potrebbe esprimere una sorta di commento da
ruffiano del calzolaio, quasi a dire a Celio: “vedrà che con le mie scarpe come
regalo, la donna cederà alle sue lusinghe, la cosa andrà in porto”.
[56] Che
la bucchia, che la bucchia, come il precedente pelar,
letteralmente “sbucciare, togliere la buccia”, ancora nel senso metaforico
di trarre denari.
[57] cavezzetto,
diminutivo di cavezzo “scampolo”, «avanzo di una pezza di panno o tela,
rimasuglio» (cfr. Boerio s. v.),
qui riferito allo scampolo di pelle conciata.
[58] vi concedi, congiuntivo arcaico.
[59] manàtole,
“gioco con le mani”, si fa riferimento a un gioco
tradizionale da fanciulli con evidente allusione amorosa; «Giuocare a
scaldamani o Fare a scaldamane» (Boerio
s. v.); «manàttola o zogar alle
manàttole zé quella percossa che se dà colla palma della man destesa sul
roverso de quella del compagno e zogar alle manàttole zé metter le man de do o
più persone a vicenda, cioè prima uno e po’ l’altro e po’, co’ le zé unite
tutte, darse de sora, a grado a grado, delle pestae busarone. Quando se tratta
de cose serie e che se vede che i compagni o i amici
ride e no ghe bada, se dise: “Òe fioli zoghémio alle manattole?”» (Muazzo p. 711); cfr. I.6.1 e Bullo
I.6.13, p.76.
[60] Cape,
«ovvero cape dona mare! Voci d’ammirazione. Pape;
capperi; cazzica; casasego; cacalocchio» (Boerio
s. v.); cfr. anche Muazzo, p. 172: «cappe! L’è bella questa
qua», e «cappe, se la zé così, come che ve la conto» (ivi p. 194).
[61] rucola,
tipo di insalata, ma si veda il significato in uso:
«nel parlar famigliare e metaforico dicesi per aggettivo a donna, e vale
ruffiana; mezzana d’amore, detta anche fa servizii» (Boerio s. v.). ♦ delongo, “subito”, cfr. I.1.13.
[62] sat’,
“sai”.
[63] colla
ponta davanti, battuta di scherno ad
imitazione della balordaggine surreale di Arlecchino: che la punta sia davanti
non v’è alcun dubbio.
[64] susurro, “mormorio”, “rumore”; vale per il pettegolezzo e
come in questo caso per il baccano: «dicesi per il rumore accompagnato da confusione » (Boerio s. v. sussuro).
[65] I.5.31 e seguenti: La lunga scena, quasi un duetto da opera per
musica (ed è da chiedersi, infatti, se si tratta di pezzo cantato o intonato su
musica), che secondo il cliché sperimentato (cfr. Bullo
III.3.3-9, p. 94), riprende in termini patetici la dipartita degli amanti,
chiusa dalla pointe della maschera come da tradizione: e tant ghe
volìva a dir bondì, “e ci voleva così tanto per dire arrivederci”.
[66] macca, “abbondanza”, qui usato in senso antifrastico (cfr. Bullo II.6.18, p. 85). ♦ ghe n’ho ‘bùo,
“ne ho avuti”. ♦ noma, avverbio: “appena”. ♦ baza, “colpo
di buona fortuna”, sempre ironico: Pantalone non è per niente contento degli
accordi imposti dal dottore per il prestito. ♦ méa, “meta” (di
gioco); vegnìr a méa significa “venir a conclusione”, “venire a
vantaggio”; cfr. anche Muazzo, p.
1027: «l’amigo co’l pol el tira quel dei altri a mea, sia per storto sia per
dretto, no’l varda tanto per sottilo». ♦ ciarabaldàn, registrato
dal Boerio al femminile, chiarabaldana,
«cosa di nessun valore»; Muazzo, p.
543, ne registra un esempio d’uso al maschile: «no la val sta robba un
giarabbaldan». ♦ lambicarse ’l çervello, “applicarsi a cose che
affatichino la testa inutilmente” (cfr. Boerio,
s. v. lambicar). ♦
’i fago passar traghetto delongo delongo, “li
voglio spender subito subito”; letteralmente far traghetto significa
“passare da una riva all’altra”, “traghettare”, qui allude al passaggio del
denaro da una mano all’altra, traslato per “spendere”. ♦ me ispirito, “muoio”
(per la fame d’amore); cfr. Muazzo, p.
534: «gò una fame del diavolo, gò una fame che me ispirito»; si veda anche Spezier
III.6.5. ♦ tien fermo in pugno el to cào, modo di dire, che ribadisce
il precedente saldi e il successivo sii seguro: “tieni duro,
persisti”. ♦ finché ti averà el martello d’oro ti trarà zoso (“tirerai
giù”, “abbatterai”) anca le porte de ferro, modo proverbiale: Pantalone
è cosciente del fatto che la liquidità di denaro lo aiuterà a conquistare l’amore
di Beatrice. ♦ ancuodoman, “prossimamente”, “un giorno o l’altro”.
♦ torno in secco, “tornerò in secca”, nel senso traslato di “senza
denari”. ♦ darò vogàe de schena, “remerò a tutta forza”, qui come
metafora tipicamente veneziana legata al mondo delle imbarcazioni; il
significato è “mi impegnerò al meglio”. ♦ impiantar un’altra gazìa, non
attestato dal Boerio; il verbo piantare,
oltre che il senso comune presenta spesso nelle locuzioni registrate dal Boerio quello di “truffare”: nel senso
letterale impiantar gazìa sembrerebbe avere a che fare con la “gaggìa”,
una pianta, e la locuzione sembra nel contesto avere il significato di
“escogitare un’altra truffa in un luogo (cattarò ben liogo) più distante
(via della comunitàe)”; cfr. l’uso che Muazzo
dà di impianto: «l’è molto bravo per impianti, invenzion o partii,
l’è molto pronto a inventarli ma stimo che el le conta su, senza scomporse che
par che el fatto non sia soo. Mi certo no so’ bon, i me fa cascar zo come i
merlotti». ♦ un pèr, “un paio, una coppia”. ♦ manàtole, per
il significato del termine applicato alla sfera amorosa cfr. sopra la battuta
di Arlichino, I.5.15. ♦ Segue una sequenza di metafore espressive del
sentimento amoroso, come del resto nella tradizione da commedia per Pantalone: s’cioppo,
“scoppio”. ♦ el figào m’arde, “il fegato mi brucia”. ♦ la
spienza me bùlega, “la milza mi si muove”, da bulegar: «muoversi
ma non di moto violento, muoversi internamente» (cfr. Boerio, s. v.). ♦ le buelle fa tombole, “le
budella fanno capriole (tombole), vanno sotto sopra”. ♦ vegno
vegno, la conclusione della battuta potrebbe avere sia un significato
traslato che conclude la lunga serie di metafore concretissime giungendo ad un
immaginario coronamento del desiderio amoroso; sia un significato scenico,
volto ad attuare una sorta di didascalia parlata (si veda Guccini pp.16-18) che sottolinei il
cambio della scena, da casa di Angela a casa di Beatrice, probabilmente
realizzata attraverso il cambiamento del prospetto, come si vede anche
in Bullo II.5did, p. 82 e III.3.12did, p. 94.
[67] zanze,
“ciance”. ♦ congiungimini, voce
pseudo latina per “congiungimento amoroso”, “amplesso”.
[68] déssimo
fogo al pezzo, “accendessimo la miccia” pezzo,
pezzo d’artiglieria (Boerio s. v. pezzo), connesso al
successivo, si no ti batti l’ azzalin, “se non percuoti l’
acciarino per accendere il fuoco, se non mi aiuti”, secondo anche il
modo di dire in veneziano per “fai il ruffiano”; l’espressione è registrata
anche da Muazzo, p. 397: «dar fogo
al pezzo: zé l’istesso che, in tempo de solennità e allegrezza, metter fora el
megio, el bon che se trovi aver in casa e far gran trattamento ai so amici a
tola. Se pol intender anca sbarrar un cannon o una bomba e anca scorezzar in
senso basso e figurà»; e anche: «ghe batte l’azzalin el canaffio» (p. 526); qui
Pantalone chiede che venga messo in tavola il meglio, alludendo in senso osceno
alle grazie di Beatrice, da poter finalmente godere.
[69] mi son za lest, “sono pronto”. ♦ mené ’l deo grosso, “sganciate denaro”,
modo di dire che si riferisce all’uso del pollice mentre si conta il denaro
(cfr. anche no ghe fè de deolìn, Bullo I.3.2, p. 70).
[70] tegnaìzzo, (tegnizzo) “avaro, stitico”. ♦ destaccarme
dall’osso, come la locuzione lassarse dall’osso (registrata da Boerio s. v. lassar), «pigliare ardire prender baldanza,
uscire dall’usanza sua, far più che non si puole», qui ovviamente riferito alla
disponibilità economica, già impegnata ben oltre alle proprie possibilità; si
veda anche Muazzo, p. 641:
«lassarse dall’osso zé el medesimo che essere generoso, come zé i perseghi che
se lassa dall’osso». ♦ ogni volta che avé volesto parar avanti v’ho
onto la rioda: “ogni volta che ho potuto aiutarvi con del denaro l’ho
fatto”, Pantalone vuol far valere la propria prodigalità su Bagolino, che
domanda di continuo denari facendo promesse amorose riguardo la sua padrona; onzer
la rioda, “ungere la ruota”, «ugnere o insaponar le carrucole, cioè
corromper altrui con denari» (Boerio, s. v. onzer); parar avanti,
“spingere”, probabilmente qui nel senso di un’operazione meccanica connessa
alla ruota della carrucola da ungere.
[71] no
me spué sul piatto, locuzione antiquata,
metaforica, che vale «saper mal grado; misgradire, non aggradire, incarare»
(cfr. boerio s. v. spuar). ♦ sier fio d’un miedego, fantasiosa
coniazione della serie di espressioni spregiative con sier e fio de (cfr.
ad esempio Bullo I.2.3, p. 68 e I.2.5, p. 69).
[72] bulegàe de sangue, “movimenti del sangue”; cfr. I.6.1.
[73] che
’l vegna gobbo, “che venga con del
denaro”, vegnìr via gobo, «venire colle mani piene, venire carico» (Boerio, s. v. gobo); cfr anche Muazzo,
p. 1100: «vegnir col con zé l’istesso
che vegnir gobbo e portar insieme con la persona qualche agiuto de costa, sia
in bezzi sia in robba».
[74] care
vìssere mie, figurato per «oggetto di grande amore», anche nell’espressione
«oh care le mie viscere: caro il mio cuore, il mio bene» (Folena s. v. vissere); Muazzo,
p. 1087: riporta una lunga serie di espressioni analoghe: «viscere mie;
visceronazze; cara colonna; ben mio; vita mia; mio restoro; mio riposo; mia
consolazion; mia quiete; mio tesoro; nina mia; unica mia speranza; mia
costanza; mio sollievo; mia dolcezza; mio tutto; luci vezzose e amabili; labra
vermiglie e tenere; bocca santa; oggi bagolosi; oggi tiranni del mio cuor; sen
amabile, viso de paradiso; viso gentil; viso d’anzolo. La gà un visetto che par una madonnina; bocchin da basi;
lavro de rubbin; bellissima cagion de’ miei sospiri; sangue mio; anima mia;
cuor mio; zoggia mia; care quelle manine; quei bei pennini». ♦ marziliana
per Pùgia, marciliana: «veliero mercantile da carico di modeste dimensioni,
usato soprattutto nell’adriatico nei secoli sedicesimo e diciassettesimo» (Gdli); cfr. anche il Muazzo, p. 710: «zé una spezie de trabacolo grosso, che navega quanto i
vascelli e le nave. Co’ se incontra qualche donna
grassa, se dise: ‘che boccon de marziliana che zé quella’, e co’ se dà el caso
d’andar in busi cattivi se dise: “ò dà drento in una marciliana marza”».
♦ Pùgia: Puglia.
[75] palpiere,
“palpebre”. ♦ la rogna, la tegna e la
freve quartana, il corteggiamento di Pantalone si basa sempre su termini
molto concreti che poco hanno a che fare con il romanticismo: con elenco in
ordine crescente di gravità nomina prima una comune malattia cutanea che genera
prurito, poi, probabilmente in seguito al troppo grattarsi, la formazione di
«ulcere sulla cotenna del capo» (Boerio s. v. tegna); si veda anche l’espressione
«gratar la rogna o la tigna, offendere far male per lo più con battiture o
percosse» (ivi) ; per poi finire con la febbre quartana, evidentemente
più grave della terzana, (per cui cfr. Folena
p. 248); infatti Muazzo, p.
493, riporta: «freve, frevetta, freve terzana, freve quartana, freve maligna [...]
ognun che muor, qualunque el mal el sia, mor dalla freve»; aver la freve
significa anche «mettersi in agitazione, sentirsi a disagio» (Folena), «quando se teme che una cosa
non abbi da succeder se dise: “tremo de freve”» (Muazzo p. 502); ma in questo contesto è da preferire il
significato di “male quasi mortale”.
[76] daseno, “da senno, davvero”. ♦ ruspìi, “coniati
da poco”: «ruspio, parlando di monete, e specialmente dei zecchini, vuol dire appena
coniato, perché le monete appena battute sono più ruvide» (Boerio s. v.). ♦ de paèla, “appena sfornati”, “tirati fuori
dalla padella” (in cui il metallo è stato fuso), “coniati di fresco” (parallelo
al precedente ruspii); tenendo conto che la padella è quella dei
vetrai: «quel vaso tondo di terracotta, che sta dentro alla fornace, ove si
getta il vetro a liquefarsi» (Boerio s. v. paèla); si veda anche Muazzo, p. 1124 s. v. zecca, zecchin: «l’è ruspio che scotta sto zecchin, l’è
de paella, el par nome vegnu fora de zecca, l’è de peso traboccante». ♦ parasù,
«girello di capelli posticci» (Boerio
s. v.); la voce non è altrimenti attestata ma, per la sua
composizione lessicale fatta da parar e su, ovvero “spingere in
alto”, può essere assimilata al più comune tupé: «ciuffo di capelli
che veniva acconciato sulla fronte, nel modo quanto più alto possibile» (cfr. Vitali s. v. tupé, tuppé).
[77] andar a remengo, “andare in malora”; «andar ramingo, vale
andar pel mondo errando» (Boerio s. v. ramengo); «zé proprio della
servitù quando i va frustando una casa e l’altra per trovar da servir e mai i
trova albero che li impicca» (Muazzo p.
85). ♦ debotto, avverbio: “fra poco, a momenti, quanto prima”.
♦ morto sbasìo, “morto ammazzato”, «basito e vale ammazzato»;
probabilmente nell’accezione di «sbasìo da la fame, scannato o morto di fame,
vale grandemente affamato» (Boerio s. v. sbasìo) (ma si veda anche l’espressione
calzante «sbasio po’ zé quello che no ghe n’à gnanca un», in Muazzo p. 988). Per il riferimento all’appetito
sessuale di Pantalone, ancora insoddisfatto, nei confronti di Beatrice, si veda
Calmo, epit. XXXVI, 4, che ogni persona ghe sbasiva drio (Belloni 2003, p. 166), connesso al
seguente femo fuora robba. ♦ per vegnir al quia, “per venire al dunque”,
“per occuparci di ciò che ci compete” (la soddisfazione del desiderio sessuale)
con latinismo lessicalizzato, per cui cfr. il Muazzo,
p. 965: «star al quia, star al segno. Stemmo al quia, amigo, no me fé
delle vostre cortesanerie e delle vostre cavallette se vollé che siemo boni
amici. Sté a segno a quel che disé; no sté a dir una cosa per un’altra. Tollemo
le cose come che le va tolte» (si veda anche Beccaria,
p. 9). ♦ femo fuora robba (per cui cfr. anche
Bullo II.9.23, p. 88) “mangiamo, consumiamo tutto”, con evidente allusione
oscena alla possibilità di un reale congiungimento amoroso; tale allusione può
forse trovarsi anche in Muazzo, p.
497, che riporta per la voce far fora: «son andà all’osteria e l’ò fatta
fora coi amighi. I padri della Vigna, conventuali riformati capuccini, co’ i pratica in qualche cosa el primo saludo che i dà, gnente
de libertà che i gabbia, zé far fora robba: zà tutti m’intende cosa voi dir e
significar».
[78] Si
no ve la posso sonar, ve la vogio almanco cantar, la
battuta passa dal significato letterale, suonare con sfumatura
pesantemente equivoca (cfr. Bullo III.22.13, a farghe una sonadina,
p. 101), all’introduzione del pezzo cantato, tipica risorsa di questo genere di
commedia (cfr. Bullo II.13.1 p. 89) e prerogativa del personaggio di
Pantalone (elemento discusso anche da Goldoni in una nota scena del Teatro
comico, I.4). Segue una sorta di serenata o aria da battello, nella forma
di aria con da capo, prima dell’uscita di scena di Beatrice (cfr. II.5.5
dove Pantalone intonerà una canzone dalla struttura identica; per la presenza
dei suonatori sulla scena si veda Bullo III.4 e III. 5, le scene del
ballo, e III.20.1, i m’ha ditto i sonaóri, p. 100).
[79] flema, in senso ampio: “pazienza”; ma qui appare assai più
calzante l’annotazione di Muazzo, p. 523, per flemma, flemmatico: «zé l’istesso che aver un temperamento che non
sia facile andar in collera, ma
che se adatti a soffrir con pazienza le cose avverse, i disgusti, i dissapori».
[80] Nella
canzonetta di Pantalone si assiste all’usuale climax che parte dai baci e
arriva all’estasi del congiungimento amoroso immaginato. La struttura è quella
di un’aria con da capo, presumibilmente la stessa che si presenta in
II.5.5, forse un’aria da battello conosciuta. ♦ basi, “baci”.
♦ destirar, “allungare”. ♦ tombole, “capriole, rotoloni,
giri col capo in sù”. ♦ lavri, “labbra”. ♦ strette de
cola, “incollature” qui vale per abbracci che durano a lungo. ♦ me
vogio sbabazzar, “mi voglio soddisfare”: sbabazzarse, «crogiolarsi;
sbramarsi; sbizzarrirsi; sfogarsi, cavarsi la voglia, prendersi piena
soddisfazione»; connesso all’etimo di bava: «venir le bave pel desiderio
ardente che s’abbia d’alcuna cosa» (cfr. Boerio
s. v. sbabazzarse).
♦ serar, “stringere”. ♦ e debotto me trago a una man e
lassa, “per poco non faccio una capriola”, man e lassa indica l’alternarsi
della mano che compagna il movimento.
[81] no
stizzé sotto che purtroppo ardo che bruso, modo proverbiale:
Pantalone è cotto a puntino e non resiste più alle lusinghe di Beatrice.
♦ varenta vu, cfr. I.1.31. ♦ drìo disnar, “dopo
pranzo”. ♦ v’ho apparecciào
un tagio de raso, “vi ho messo da parte una pezza di raso”, dalla merce di
bottega.
[82] Cape, cfr. I.5.18. ♦ brazzar l’occasion, “abbracciare
l’occasione”, “approfittare”.
[83] co’
volentiera che ghe vegnirave anca mi, Pantalone non
riesce mai a entrare a casa di Beatrice. ♦ bisogna far un scalin alla
volta chi vuol andar in Apodene, modo proverbiale per indicare che il
cammino per raggiungere la meta è sempre in salita, con uso di chi con
valore ipotetico: “se uno”; la voce Apodene (forse riconducibile ad apoteosi?)
non è altrimenti attestata; tuttavia Muazzo,
p. 970, registra un’espressione simile: star in Apolline, «ancuo
posso dir d’aver magnà robba ben governada e d’ottimo gusto: stago in Apolline,
stago per eccellenza, stago per divinitae. No me barateravve con el gran Turco,
no me scambieria col re de Franza; de più, anca se volesse, no posso desiderar.
Me par d’esser un paladin». ♦ baron, “poco di buono”, cfr.
Bullo I.1.5.did, p. 68 ♦ bassetta, “gioco di carte”, cfr.
Bullo I.2.6, p. 68; qui nel senso generico di “qualche gioco”, “qualche
brutto tiro”.
[84] che
arsure, “che falliti”, “che insulsi”, “che squattrinati”,
cfr. Bullo III.5.30, p. 97: Leandro e Lucindo, vivono alle spalle di
Pantalone. Non sono che due spiantati che si danno arie da gran signori.
[85] Piazza,
ovviamente Piazza San Marco, luogo più
centrale e rilevante di Venezia, per cui cfr. la lunga descrizione del Tassini (s. v.). ♦ Procuratie Vecchie, la composizione di Piazza
San Marco attraversò varie fasi e vari momenti di fabbricazione, «volle lo
Ziani cingere la Piazza medesima d’alcuni edifici formati a foggia di
galleria, i quali, perché poscia destinati all’abilitazione dei procuratori di
S. Marco, si dissero Procuratie»; l’aggiunta di nuove costruzioni rese
necessaria la distinzione tra vecchie e nuove (cfr. sempre Tassini s. v. S. Marco).
[86] No
gh’è altro, la va così, qui Bagolino si lamenta
del fatto che Leandro e Lucindo non gli danno nulla di mancia.
[87] foglietti,
«foglietti
contenenti le novità e le notizie del giorno»
(cfr. Folena s. v. foggietto/foggetto);
«bollettino, giornale, pubblicazione periodica» (gdli s. v. foglietto
2); «ho letto i fogietti, ma no ghe
giera gnente de curioso per la qual, né che meritasse el lezerli. Anca là,
tanto che i impinissa el fogio, i ghe mette su d’ogni erba fazzo» (Muazzo p.
476); guerra, qui appare come indicazione generica, probabilmente potrebbe
riferirsi alle numerose e continue guerre che Venezia sosteneva per assicurarsi
il dominio sul Mediterraneo, per lo più contro i Turchi.
[88] la
didascalia indica che la scena si è spostata all’interno della bottega di
Pantalone (in cui resteremo fino alla fine dell’atto per iniziare dall’atto
secondo di nuovo dal classico ‘esterno con case’ dell’inizio); presumibilmente
la realizzazione del cambio scena avviene tramite la salita di un prospetto
come già riscontrato in Bullo, II.5.did, p. 82
e
Spezier, II.8.did.
[89] vi
fa scordare il vostro essere, Celio richiama
Arlichino al suo ruolo di servo e al suo lavoro. ♦ aggiustate quelle
scanzie, “mettete a posto quelle scansie”, la battuta descrive il nuovo
spazio della bottega in cui la scena si è spostata. ♦ scoppatele
“spolveratele”. ♦ fate quello bisogna, “fate quello di cui c’è
bisogno”, forma sintetica col pronome sottinteso.
[90] la
ghe saltasse la barila, modo di dire con
costruzione impersonale: “gli dia di volta il cervello”, nel senso di “che non
perdesse la pazienza”; «voltar la barilla: zé perder el cervello» (Muazzo p. 107).
[91] Falalalalalela,
Boerio riporta per questa voce, falilèla:
«cantilena sciocca e senza significato, che s’usa fare dal volgo» con l’aggiunta,
che in questo caso potrebbe rappresentare un’anticipazione o una
sovrapposizione di significato: «cantar la falilèla, detto metaforicamente
fallire, ovvero non aver denari»; evidentemente, come testimonia anche il
ritorno del nome Nicolò, presente in altre canzoncine nelle commedie di
Bonicelli (cfr. Bullo III.5.20, p. 96 e Spezier I.10.9), questa
era una melodia molto diffusa su cui improvvisare cantando, come il flon (cfr.
III.10.1 e Spezier II.8.3 e III.15.1). ♦ tocca de pifaro, “suona
il piffero” (cfr. Spezier I.10.3). ♦ barba, “zio”.
[92] Falalalalalina,
variazione per seguitare l’improvvisata. ♦ dai
mustacci e la barba no, gioco di parole con l’ambivalenza di barba
nella strofa precedente.
[93] vagh nettand pulit i busi vodi, conclusione strampalata di Alrichino, con
effetto comico dovuto all’idiozia di un’azione inutile; forse con sfumatura
oscena, o forse con riferimento al fatto che le scansie della bottega
scarseggiano di merce, a causa dell’imminente fallimento (cfr. I.10.8).
[94] se
dà bona misura, “si serve con
generosità”, la misura è quella della canna del brazzoler, cfr. I.4.27.
[95] besogna
che la sia robba de casa, nel senso che dimostrano
famigliarità: lo sciocco Arlichino riconosce Angela e Spinetta travestite prima
di Celio.
[96] Gratté,
gratté, che me pizza, gioco di parole a sfondo
osceno come descritto da Muazzo, p.
557 s. v. gratar: «[...]
quando uno curioso vol saver cosa se fa e ogni tanto el dimanda el vostro stato,
se ghe risponde: “me grato in dove che me pissa” vollendo significar de
gratterse i cogioni, perché per lo più la zé l’unica parte che all’omo ghe
pissa e che ogni tanto in mancanza de donne bisogna star colle man in
braghesse».
[97] morete, maschere, cfr. Bullo III.2.5, p. 94.
[98] lova,
la battuta pesante (per lupa nel senso
della “prostituta”, della “donna vorace” cfr. Boerio
s. v. lovo) e Muazzo, p.
648: «per lupa intendemmo una gran fame. Quel signor gà el mal della
lupa: per quanto che el magna, nol se trova mai sazio»; qui è ovviamente
pronunciata con tono affettuoso canzonatorio.
[99] va’
a prendi, costruzione con doppio imperativo. ♦ proseco,
«vitigno d’uva bianca coltivato nelle province orientali del Veneto; il
vino che si produce con le uve di tale vitigno, caratterizzato da un colore
bianco paglierini, da un profumo fruttato e da un gusto leggermente amabile», Gdli (che offre come prima attestazione
un passo di Brusoni, forse in relazione al latino pucsinum); cfr. anche Muazzo, p. 781: «“Mo’ co’ bon che zé stà
sto Prosecco!” e zé istesso che vin dolce o marzemin»; nella scena è indicato
come un vino pregiato, in confronto al più corrente vino rosso, citato più in
I.12.16.
[100] a tombolón, “affrettatamente, a precipizio”.
[101] sopracoppa, “vassoio”, «arnese d’argento o d’altro metallo,
notissimo, che serve all’uso domestico, per mettervi le tazze, le chicchere
etc.» (Boerio s. v.).
[102] la
scena termina con un brindisi, come di prassi cantato (cfr. Bullo
II.9.2, p. 86), in questo caso da Arlichino alla moda che parla i veneziani,
“cioè al modo in cui parlano i veneziani”, “nel loro dialetto”: infatti
Arlichino tralascia il bergamasco e come omaggio alla città di Venezia
(rappresentata qui dal pubblico, a cui il brindisi è probabilmente diretto)
passa in rassegna tutti i livelli sociali, dai nobili (i più sorani,
“sovrani”, ma anche “quelli che stanno in alto”, forse nei palchi), ai
mercanti, ai cittadini, per finire coi gondolieri che abituati al canto in
gondola, avendo buona voce, bona piva, sono invitati a unirsi al canto
finale (si cfr. anche l’uso allusivo dell’espressione descritto da Muazzo, p. 839: «sonar la piva zé l’istesso
che che beverghene un boccal o una bozza drio man», in questo caso comunque
calzante).
[103] Pantalone comincia a parlare fuori scena, come dice la didascalia,
lamentandosi tra sé e sé di denari riscossi per lui da Celio ma non annotati
nel libro mastro (la partìa in libro maestro xe averta). ♦ sier
Tofolo d’i Mezani, fa riferimento a un tipo di nomenclatura burlesca alla
veneziana che trae sua origine dalla tradizione che sembra fondata dalle Lettere
di Andrea Calmo. ♦ poppier del Finsi da Mantoa, poppier propriamente
è “il barcaiolo che dirige la barca vogando a poppa”, Boerio riporta però anche
un altro significato «voce di gergo dei barcariuoli, detta per agg. a
uomo nel sign. di sodomito» (Boerio
s. v.); Finsi, Finzi è un
cognome di origine ebraica presente a Mantova fin da tempi antichi; non è
possibile qui determinare se il personaggio fosse qualcuno di riconoscibile per
il pubblico della commedia. ♦ çendao, normalmente sta a indicare
lo «zendale, manto o scialle di taffetà nero portato dalle donne veneziane»
(cfr. Folena s. v. zendà); ma qui è utilizzato genericamente per il
tessuto, che può essere di varia natura e consistenza e di diversi colori,
riconducibile con maggiore probabilità al “taffetà” e alla “seta cruda” (cfr. Vitali s. v. zendà, zendado); segnala il Muazzo, p. 1144: anche una fonte illustre che usa la parola zendà
per indicare un “pezzo di stoffa”: «el Tasso nel canto ottavo, st.55,
dopera sta parola in logo d’un tocco de manto o de drappi de sea, a proposito
che giera sparsa ose nel campo de Goffredo che fosse stada trovada involta in
un zendà la testa de Rinaldo, che giera come esilià dal campo cristian: “e che ‘l
medesmo poco poi l’avvolse / in un zendado dall’arcion pendente. / Soggiunse
ancor che all’abito raccolse / ch’erano i cavallier di nostra gente. / Io
spogliar feci il corpo, e sì men dolse / che piansi nel sospetto amaramente, /
e portai meco l’arme e lasciai cura / che avesse degno onor di sepoltura”».
♦ che l’ha contà i bezzi, “che ha contato i soldi”, per pagare.
♦ l’è intrigada la manestra, locuzione che indica una faccenda
complicata: “la minestra è torbida”, vale “c’è sotto un imbroglio”, per cui
cfr. Muazzo, p. 606 s. v. intrigar: «[...] a un affar
che sia difficile da maturarse e da scioglierse se dise “la faccenda zé
intrigada”». ♦ Si noti che la scena muta dopo il brindisi di Arlichino,
spostandosi dall’interno della bottega alla strada: Angela e Spinetta escono
infatti su questa alla fine della battuta di Pantalone, che assume qui come
altrove la funzione di riempimento di una probabile azione di cambio di
scenografia o di prospetto.
[104] I.12.2-3 Celio e Arlecchino fingono di trattare le maschere come
clienti ordinarie, con cui non si è concluso l’affare.
[105] Cazza,
cfr. I.1.5. ♦ le me par gagiose, “mi sembrano gaie, allegre”, (Boerio s. v. gagioso); ma
da connettere presumibilmente a sgagio, vivo nel veneziano come “furbo”
probabilmente in relazione a scagio, ascella (per cui cfr. Cortelazzo); Muazzo ne riporta la seguente spiegazione: «gagioso zé l’istesso
che vistoso e de gran comparsa» (p. 555 s.
v. gaggioffa) e questo esempio d’uso: «me sé ancuo gaggioso fora dei
modi, bisogna che ve la sié passada ben co la muggieretta sta notte passada» (p. 538); il suffisso -oso è
tipico del gergo.
[106] a
çercando cola candeletta, “cercando con cura”,
accendendo il lume per vedere meglio.
[107] no
gh’è ordene, no, de cape longhe, modo gergale che
chiama in causa un tipo di mollusco per indicare evidentemente un nulla di fatto.
♦ bozza, “bottiglia”: Pantalone si accorge della bottiglia di
prosecco.
[108] frasca,
«giovane leggero e di poco giudizio» (Boerio s. v.), si vedano le espressioni: «che frasca che sé! Che
fraschetta! Che frascon! Che frasconazzo!», (Muazzo
p. 474); come il seguente spuzzetta, «zerbino, cacazibetto,
profumino [...] giovane orgogliosetto e di comparsa, che si pavoneggia e
si tien per bello» (Boerio s. v.); si veda anche Muazzo, p. 1000 s. v. spuzzar, spuzza: «spuzzetta po’ ghe disemo a quei
cortesanelli che stà sull’aria de cogionar e putte e omeni, senza che i ghe ne
spenda mai un dei soi, i quai per lo più vien refilai con quattro peae intel
culo o con altri avvisi simili».
[109] sier
mùtria negra, “signor muso nero”, evidente riferimento alla mezza
maschera di Arlecchino, vale “brutto ceffo”.
[110] màmara
d’Inghilterra, letteralmente “muso da inglese”, curiosa
coniazione nel senso di “coglione, sciocco”; per màmera cfr. Bullo
I.2.5, p. 69; per una possibile sovrapposizione di significato, dovuta al fatto
che Arlichino ha appena bevuto del prosecco, cfr. Bullo II.9.8, p. 86 e
la confusione tra Inghilterra e inghistera, “fiasco”, “bottiglia”.
♦ vin negro, di’, carogna, Pantalone rimprovera il servo per aver
bevuto il vino più pregiato rispetto a un più comune vino rosso. ♦ imbalsamarte
’l buel zentil, “ungere di balsamo l’intestino retto”; vale mangiare bene,
riempirti di roba buona cfr. l’espressione ve parerà de magnar un balsamo,
Bullo II.6.21, p. 85.
[111] varé,
“guardate”.
[112] manco
ciàcole, “meno chiacchiere”.
[113] mandria,
“bestia”, «detto per aggettivo a persona, asino; mal creato; incivile; villano»
(Boerio s. v.). ♦ a tirar la caretta, nel senso di “faticare”,
“lavorare”; immediatamente degradata al significato letterale da Arlichino: èl
deventad un bò, “è diventato un bue”.
[114] te
torna conto a tàser, “sarà meglio per te se
stai zitto”.
[115] squarzo, “quaderno di annotazione provvisoria tenuto dai mercanti”.
[116] vecc
cuch, “vecchio cucco”, “balordo”.
[117] caritàe pelosa, modo proverbiale per indicare la finta e ingenerosa carità degli
ipocriti; «che carità pelosa che el gà per mi!», «che carità pelosa che la gà!
Mo’ ghe son ben obbligà! Co’ no la gà de megio, la pol tegnirse anca questa, la
pol far de manco anca de questa che no la me serve per niente», (Muazzo p.174 e 196). ♦ va’ a tendi, costruzione
con doppio imperativo.
[118] nefanda,
“sporca”, da cui nefando per “culo”, qui nel senso dell’amante.
[119] me tien lumào, “mi osservano attentamente”, nel senso
furbesco di lumar (Prati 199).
[120] va’ a metti, costruzione con doppio imperativo. ♦ la
xe sottosora, “è in disordine”.
[121] vaghe
agiuta, costruzione con doppio imperativo.
[122] che
te mola una papina, “che ti dia uno
schiaffo”; papina «sorta di sorbetto fatto di latte cotto con altri
ingredienti, per traslato piccolo colpo di mano sulle guance, ceffone» (Boerio s. v.); Muazzo registra,
p. 808: «pappina per slepa o sgiaffo» e pappin, p. 791: «bussolà;
pappin: per slepa. Ve dago debotto
un pappin».
[123] vìssere
mie, cfr. I.8.8.
[124] fondi
bianco, andamento blò e sguardo a stricche: la descrizione
di un drappo della bottega, con righe blu su fondo (la parola con -i
finale rappresenta un tratto caratteristico del veneziano antico come indicato
in Formentin) bianco; curiosa la
possibile allusione all’espressione riportata dal Boerio (s. v. strica):
«quel giovane el ghe n’ha una strica, quel giovane è cotto spolpato, è
innamorato»; in ogni caso la battuta di Celio, come la successiva di Arlichino,
non è che una scusa per tornare a controllare il comportamento di Pantalone.
[125] tien sconto, “tieni nascosto”.
[126] veludo
tabinà, “velluto di seta ricamato”; tabì è una
«seta pesante di origine orientale simile al damasco, ricamata a grandi disegni
e usata per abiti o per fodere di vesti pregiate» (Gdli s. v.);
«denominazione di un quartiere di Bagdad dove questa stoffa era fabbricata» (Battisti-Alessio s. v.).
[127] destriga, “riordina”, “termina il tuo lavoro” (Boerio s. v. destrigar).
[128] mascarot,
“mascherotto”, per distinzione al maschile dalle due maschere donne. ♦ che
l’ha sotto ’l mort, “che tiene qualcosa di nascosto”.
[129] a un’altra buttada, “a un’altra volta” (forse come parada,
“passaggio di canale”): Pantalone finge che non sia avvenuta alcuna
vendita, come già Celio e Arlichino in I.12.2-3.
[130] I.13.34-44 Celio affronta apertamente il padre. Lo scontro
generazionale, che qui trova luogo in una parentesi violenta lontana dal genere
comico (cfr. Vescovo 1987, p. 53),
apre un parallelo tra le condotte di Pantalone e del figlio sulla linea dell’esempio;
in più luoghi in seguito, Celio si giustificherà dicendo di non fare altro che
seguire l’esempio del genitore.
[131] ve
ne mentì per el gargato, “mentite per la gola”,
“dite falsità”; Muazzo, p. 663, riporta
l’espressione in una forma di esempio d’uso: «el mentisce per la gola, no zé
vero gnente e me fasso de maraveggia che vu sié capace de creder ste calunnie e
ste imposture. Che el me la vegna mo’ a dir a mi se l’è capace, che ghe risponderò
de trionfo». ♦ sier scartozzo, cfr. Bullo I.3.3, p. 70.
[132] non son più bambozzo da farmi paura col mo mo, Celio si
ribella alle minacce del padre; l’espressione mo mo è registrata
dal Boerio come forma antica di momò, “minaccia”, “bravata”, “sgridamento”
(Boerio s. v.); si veda anche far el mommò «mo’ la fassa quanti
mommò che la vol, che la me fa tanta paura quanto zè quel scagno» (Muazzo, p. 471).
[133] cusì
ti me metti al ponto, “così mi rispondi”.
♦ mo ció donca e nasa da che saór che le sa, Pantalone
perde la pazienza e comincia a picchiare Celio, come se fosse il bambino che
egli non accetta più d’essere (cfr. sopra bambozzo); saór per
“odore, sapore” riferito agli schiaffi e ai pugni in arrivo.
[134] abbi
l’angossa, «angoscia, travaglio, affanno,
afflizione. Angossa, da noi si dice anche per spavento, terrore, paura
terribile» (Boerio s. v.).
[135] m’abbia mess la vesta, “mi abbia ingannato”: «metter la vesta
o el gaban o el tabarro a qualcun, detto famigliarmente o pelare o scorticare
qualcuno vale trargli delle cose il più che si può, pregiudicarlo, giuntarlo» (Boerio s. v. vesta). ♦ damasch, “damasco”,
«particolare tessuto di seta» (Folena s. v.). ♦ per bisogn de far
moneda, “per bisogno immediato di liquidità”. ♦ copar sta
bagatella, “vendere questa inezia a prezzo di bisogno” (cfr. «copar la
roba, le mercanzie, gettar via, accoppare le cose sue, venderle per manco ch’esse
non valgono» Boerio s. v. copar). ♦ imbarbaiada,
“confusa”, termine sempre riferito alla vista: «abbagliare, si dice del non
reggere la vista al vedere distintamente le cose in leggendo o in far altro,
non veder bene ed anche di chi, essendo svegliato di poco, è ancor
sonnacchioso» (Boerio s. v. imbarbagiar). ♦ iacula
quae praevidentur minus feriunt, proverbio latino: “le frecce che si vedono
arrivare feriscono meno” (la frase risale probabilmente al commento di San
Tommaso al Vangelo di Matteo). ♦ sguolar per aria, “volare per
aria”, dal veneziano svolar. ♦ temo di febre, il Dottore ha
paura di non rivedere più i denari che ha prestato a Pantalone, cfr. sopra
I.8.10. ♦ toccar el pols al scudelot, “vuotare il salvadanaio” (toccar
el pols a qualcuno vale “metterlo alla prova”; scueloto è “la coppa
di legno in cui i mercanti tengono il denaro”). ♦ andar a covert, “mettere
al sicuro il proprio interesse”, ma qui nel senso letterale di “mettersi al
coperto, ripararsi”, poste le metafore che seguono: scaravaz (veneziano scravazzo),
“scroscio di pioggia”: il rumore che fa l’acqua quando cade rovinosamente.
♦ grongar, “il cadere violento di uno scroscio d’acqua”; sgrongàda,
“croscio d’acqua, gorgoglio” (Boerio s. v.).
[136] mozze
che va çercand nolo, “vecchie barche in cerca
di locazione”, metaforicamente “puttane”; «mozza, gondola senza il
copertino, senza il ferro davanti e ridotta vecchia che rattoppata in qualche modo
fa il servizio da battello» (Boerio s. v.).
[137] Cancaraz,
interiezione tipica del bergamasco, cfr. Bullo
I.4.1, p. 71.
[138] casoto,
“capanna” fatta di paglia o legname; forse uno
dei casoti di piazza San Marco, attestatissimo nell’iconografia e nella
letteratura di costume; Boerio (s. v.) ne riporta alcune tipologie:
«casoto da buratini, casoti da carneval, [...] dove si mostrano delle rarità o
si fanno divertimenti»; «baraccone della fiera» (Folena s. v. casoto/casotto),
cfr. Spezier III.11.16.
[139] A’
’l busogna, impersonale “bisogna” con deformazione e
sovrimpressione di bus, “buco”, forse con intento osceno. ♦ far
un servizi che m’ prem a fort, “fare una
commissione urgente”. ♦ in Piazza alla Çecca, l’edificio della
Zecca, in piazza San Marco, sul Molo, cfr. Bullo I.5.2, p. 72.
[140] a
chi arriva prima aspetta la camarada, modo proverbiale,
“chi arriva prima aspetta gli amici”, cfr. Spezier III.6.4.
[141] giazzo
giazzo, “ghiaccio”, nel senso traslato di «essere al
giazzo o avere el giazzo in te le scarselle, essere alla macina; esser ridotto
al verde, miserabile; esser arso, povero in canna» (Boerio s. v. giazzo);
Bagolino vede che dal Dottore non c’è da guadagnar niente per la sua
tirchieria, cfr. Spezier I.24.1 e I.3.12.
[142] sbasisso, letteralmente “agghiaccio”, qui vale, come sopra in
I.8.15, “muoio di voglia”. ♦ pì d’una quarta, «quarto, quarta
parte di che che sia; misura che tiene la quarta parte di un quartiere
veneziano» (Boerio s. v.).
♦ dagnora, “sempre”. ♦ in anda, «anda, andamento,
guisa di portarsi» indica essere in anda e quindi esser tenuto in
anda indica l’azione o la costrizione alla stessa, il contrario della
quiete (Boerio s. v. anda traduce col ricorso al
francese etre en train). ♦ ti me fa licar le zatte co’
fa l’orseta, modo proverbiale che indica, conformemente a tutte le altre
espressioni pronunciate similmente da Pantalone, la sofferenza per l’impossibilità
di soddisfare l’appetito (in questo caso amoroso); l’immagine è curiosa e di
non facile interpretazione; può trarsi un suggerimento dalla citazione che Muazzo, p. 770, fa del Guarini e del suo
Pastor fido, (III.6): «caro Mirtillo e come l’orsa suole / con la lingua
dar forma / all’informe suo parto, / che per sé fora inutilmente nato, / così l’amante
al semplice desire, / che nel suo nascimento / era infermo ed informe, / dando
forma e vigore / ne fa nascere amore» : il parallelo tra l’orsa che dà vita ai
suoi cuccioli e l’amante che si cura della nascita del suo amore con dedizione
e con pazienza sembra possa essere calzante per una visione che fa prevalere l’aspetto
sentimentale della metafora; a questo si aggiunga il parallelismo iterato (cfr.
Bullo I.9.6, p. 79) di zatta / mano (e quindi anche déi)
nell’espressione liccar i dei, (ivi
p. 629), «ve podé liccar i dei sta volta, che no ghe ne sfinfé con quel
muso. Ve podé forbir la bocca co’ vollé, che no magné de sta robba gnanca se
vegnì tanto alto», o ancora (ivi p. 647) «ve podé liccar i dei quanto che vollé
che no ve ne tocca de sta roba che gò qua». Da considerare, come icona presente
nell’immaginario cittadino, l’insegna della Farmacia dell’Orso, in campo
Santa Maria Formosa: l’animale è appunto rappresentato mentre si lecca una
zampa. Questa immagine doveva essere ben nota ai veneziani, che avrebbero
potuto trarne di certo modi di dire. Adattandola al testo, forse l’idea dell’insegna
della farmacia, con l’orso nell’atto di “leccarsi le ferite”, in questo caso d’amore,
potrebbe finalmente anche incorrere nel significato allusivo osceno di “doversi
curare da solo”, “arrangiarsi”. ♦ si te zonzo si te zonzo, “se ti
acchiappo”. ♦ refarme, “riscattarmi, vendicarmi”. ♦ no la
vogio lassar de pesto, “non voglio perderla di vista”, nel senso di non
volerne smarrir le tracce; oltre al senso di pesto, “tritume”,
registrato dal Boerio si veda
quello di pestar, “calpestare, lasciar impronta”. ♦ menarla a tórzio,
“portarla in giro, a spasso”, cfr. Boerio
«andare a torzio o a torzion, andar a girone, a zonzo, a ronda, vale
andar attorno e non saper dove», qui nel senso non negativo; ma si veda anche
«menar a torzio uno, detto figurato aggirare; abbindolare», inteso qui non nel
senso dell’inganno, ma della possibilità di far cedere la resistenza della
donna. ♦ sbrissar su un scorzo de melon, “scivolare su una buccia
di melone”, modo proverbiale; qui nel senso di sbrissada, (cfr. Boerio s. v.) «fare una scappata o una scappattella, commettere alcuno
errore o una leggerezza», in senso antifrastico: cfr. il
successivo tombola maligna, nel senso di “maledetta”,
perché non succede mai (sempre con allusione oscena). ♦ tardoto,
“piuttosto tardi”. ♦ far fuora robba, cfr. I.8.15.
[143] zogiello,
“gioiello”, “gioia”. ♦ desconìo, «aggettivo
a persona, disparuto; consumato; estenuato; magrissimo; spento; spunto;
scanicato, detto figurato, voce tratta dallo spiccarsi delle mura e cadere a
terra degli intonachi» (Boerio s. v.); in Muazzo, p. 463, si ritrova l’espressione esser desconio:
«zé l’istesso che esser zo de ciera e poco in carne».
[144] imbertonà,
“infoiato”, “voglioso”, “follemente innamorato”
in connessione con berta, probabilmente nel senso del gergale “tasca”,
“scarsella”, “saccoccia”, di cui risulta evidente il traslato osceno (ma si
veda anche l’espressione star in berta per “essere in compagnia
amorosa”, Belloni 2003, p. 201, e
ivi nota 13-15 p. 184 per imbertonào) e berton, «drudo di
puttana, cioè colui che vive alle di lei spalle», Boerio. Il Pantalon imbertonào, già topico, è il
titolo di una commedia ridicolosa del romano Giovanni Briccio (1617),
più volte in seguito ristampata.
[145] star
in stroppa, come tegnir in stropa, “tenere in
freno o a freno”, “raffrenare”, “contenersi” (cfr. Boerio s. v. stropa),
letteralmente la stroppa è «vermena di stralcio con cui si legano le
viti, le innestature e altro»; Muazzo ne
dà un esempio d’uso più calzante per i significati legati al desiderio amoroso:
«gò un prurito, una vogia de maridarme, la carne me stimola, no posso più star
in stroppa» (p. 786 s. v. prurito).
[146] a
bell’agio, “con pazienza”, da cui il gioco di parole
di Pantalone nella battuta successiva con agio, per “aglio”, usato per
riprendersi dallo svenimento, perché deboto vado in fastidio.
[147] che
cade, “che succede”.
[148] vignerò
a levarve per canal, “verrò a prendervi dalla
porta d’acqua”, cfr. Bullo I.6.11, p. 75.
[149] ’l
scuro xe puoco al largo, “lo scuro è poco lontano”
con metafora acquatica, “la sera sta scendendo”.
[150] a tegnirve su la còa, “a reggervi lo strascico”, qui osceno.
[151] ti ghe va de vita alla monèa, “non pensi ad altro che ai
soldi”. ♦ che no t’ingosserò, “che non ti riempirò il gozzo”.
♦ de vuoga battùa, “a tutta voga, vogando di tutta forza”. ♦
tirarme in squero, completa la metafora precedente con il referente del
cantiere per le barche; per il traslato tirarse in squero, «rassettarsi:
abbellirsi» (cfr. Boerio s. v. tirar); si veda per l’uso Muazzo, p. 1027, dove, alludendo
evidentemente a una donna, riporta: «mo’ la zé tirada in squerro sta mattina
che la fa la bella voggia, la innamora nome a vardarla». ♦ manàtole,
cfr. I.5.15 e Bullo I.6.13, p.76. ♦ grìzzoli, «capricci,
umore o pensierio stravagante o fantastico, ma nel senso letterale tremore,
brivido» (Boerio s. v.). ♦ cattarìgole,
«gatarìgole, gatùssole, gatèle, gaterìgole, gatìzzole (poles.), catarìgole,
catorìgole, gatorìgole (venez.), gatarìgole (trevis.), catùzzole, gate
(valsug.), gàtole (Fracena, Tezze), gatùssole, gatùzzule (Pieris), catùzzole
(Folignano), gatarìgole, gatìzzole (rover.) “solletico” (Prati EV).
[152] la
battuta denota il carattere del personaggio che ragiona solamente sul
significato letterale e sulla concretezza dei termini, come si trova anche in Spezier
I.3.1 e seguenti.
[153] damaschi,
cfr. II.1.1. ♦ senza non occorre
andarvi, Celio, come già visto nella scena del sartore e del calegher,
è ben consapevole che il corteggiamento di Angela richiede regali continui.
[154] cortesan, il termine ha qui valore generico di “cittadino”;
le connotazioni successive, dovute all’uso del termine che ne fa Carlo Goldoni,
vogliono indicare un “uomo di mondo”, “uno scaltro che sa il fatto suo”; cfr. Folena s. v.: «intendesi da noi per cortesan un uomo di mondo, franco in
ogni occasione, che non si lascia gabbare sì facilmente, che sa conoscere i
suoi vantaggi, onorato e civile, ma soggetto però alle passioni, e amante
anziché no del divertimento. Tale è il protagonista della mia commedia Cortesan
in Venezia: Uomo di mondo altrove considerato»; anche Boerio viene influenzato dalla
tradizione goldoniana del termine. Un’altra accezione del termine, sempre
deducibile dal contesto, si vedrà nella scena seguente, in cui i cortesani che
vengono in gondola a contrastare Pantalone sono evidentemente due quasi bulli,
due poco di buono.
[155] Ruga, cfr. I.5.8, il riferimento può essere in questo caso
relativo al luogo in cui si potevano avere dei denari, probabilmente sede di
banche o banchi di cambio come il Banco Giro, nei pressi di Rialto: «cinge da
due lati la piazzetta di S. Giacomo, ed è sormontato da una parte delle
Fabbriche Vecchie. Acquistò il nome dall’essere stato sede del pubblico banco
mercantile, detto Bancogiro. I banchi di Venezia s’istituirono nel 1157, ed
erano da prima affatto privati. Quasi sempre venivano tenuti dai nobili, i
quali, per altro, dovevano presentare all’ufficio dei Consoli sopra Mercanti un
fideiussore fino alla concorrenza di certa somma. Nel 1524 si formò pure il
Magistrato dei Provveditori sopra Banchi, e si presero altre cautele in
proposito. Tuttavia, siccome parecchi banchieri fallivano, così nel 1584 venne
istituito, per consiglio di Jacopo Foscarini, il banco di cui teniamo parola
sotto la guarentigia del governo [...] La scrittura di banco tenevasi per lire,
soldi, danari. La lira corrispondeva a dieci ducati d’argento; ma siccome la
moneta di banco godeva l’aggio del venti per cento, così valeva dodici ducati.
Il soldo corrispondeva a lire 4, soldi 16, della moneta corrente, ed il danaro
a soldi 8 comuni. Per rendere più difficili alterazioni nei giri del banco, si
facevano con apposite cifre, dette dagli scrittori d’allora figure imperiali, e
trattandosi d’un giro a debito dello Stato, nol si poteva eseguire se non
dietro speciale decreto dei Pregadi» (Tassini
s. v.). ♦ a tre ore,
“tre ore dopo il tramonto”: la scena si colloca evidentemente alla fine di
giornata, e in relazione alla scena successiva: il breve dialogo tra Celio e
Arlichino sembra lasciare modo alla scena di cambiare per preparare il notturno
in gondola di Pantalone e Beatrice, cfr. Bullo III.7.did, p. 97.
[156] la
didascalia descrive un esterno con gondola e suonatori; come già in I.10.did
e
in Bullo, II.5.did, p. 82
e
Spezier, II.8.did,
si può qui desumere la realizzazione del cambio scena tramite la salita di
un prospetto.
[157] sonéghela de vena, come indicato dalla didascalia di inzio
scena si tratta di suonatori realmente presenti sulla scena, presenza che si
può dare come accertata in tutti i punti del testo in cui si canta, ai quali
Pantalone chiede di “suonar di cuore”.
[158] le
parole xe femene e i fatti xe mas’ci, modo
proverbiale per indicare la volontà di trasformare le parole (di Beatrice) in
fatti (come Pantalone desidera), connesso anche al desiderio di esser
ricambiato delle attenzioni concrete e di spesa, anca mi fago fatti.
♦ che me respondessi del ziogo, con traslato del gioco di carte,
“assecondare i punti o il colore”, e del gioco in genere: la metafora prepara
in qualche misura la sequenza principale della commedia che si svolgerà in Ridotto
con la rovina di Pantalone nell’atto terzo.
[159] dopo l’introduzione musicale che probabilmente accompagnava il
dialogo precedente tra Pantalone e Beatrice, Pantalone si cimenta come di
prassi in questo repertorio, in un episodio canoro, probabilmente in questo
caso su un’aria da battello, la mia arietta, forse la stessa annotata in
I.8.21. ♦ bochin, “piccola bocca, bocchetta”. ♦ poderòi,
“potrò”, forma interrogativa del futuro. ♦ far crosette, «far
delle croci o delle crocette, modo basso che significa non aver da mangiare,
non avere pane per i sabbati» (Boerio s. v. crosette); si veda anche: «son sta a disnar da
quel cavalier francese, ma posso dir d’aver fatte le crosette» (Muazzo p. 495). ♦ gagiosetta, cfr.
I.12.4. ♦ se dago ancora do bogi vago in aqua de viole, “se
continuo a riscaldarmi comincio a disfarmi”, “vado in visibilio” per acqua
de viole cfr. Bullo I.1.1, p. 67 (cfr. anche Calmo, sonetto
[XVIII], Amor, che drento al mio corpo bogiva, Belloni 2003, pp. 67-68).
[160] una femena sia parona assoluta de mi, in questo caso la frase
tipica del corteggiamento diventa un grottesco riferimento al reale, dal
momento che Beatrice dispone a piacimento delle sostanze di Pantalone. ♦ che
xe al mondo de qui pochi che m’ha tagiào l’aqua, locuzione: Pantalone si
vanta, nel momento in cui si dichiara totalmente vinto da Beatrice, di non
essere mai stato sopraffatto da nessun altro; tagiar l’acqua, significa
andare a disturbare la rotta altrui mettendosi davanti con la barca: questo per
altro anticipa cosa succederà più avanti col battello dei cortesani.
♦ si no me dé però incenso, «chiamasi figuratamente incenso la
lode eccessiva che vien data a taluno, di cui si briga la protezione, o dal
quale s’implora un favore o un benefizio» (Boerio
s. v.), qui l’espressione è usata per finta modestia. L’esibizione
che segue, terzo numero canoro che segue l’aria da battello, utilizza e
reclamizza la maggior fatica dell’autore della commedia: la traduzione della Gerusalemme
liberata del Tasso cantata alla barcariola, e apparsa per i tipi di
Domenico Lovisa, nel 1693. ♦ mirasi qui tra le meonie ancelle: Pantalone
ha scelto la terza ottava del canto sedicesimo; la citazione del verso tassiano
non solo rende l’esibizione più prestigiosa, ma rimanda anche alla stampa del
Lovisa, in cui il testo originale e la traduzione veneziana vengono affiancate.
♦ int’el mio lenguazo, il veneziano, la lingua di tutti i giorni:
espressione realistica della contemporaneità del parlante, come peraltro la
lingua di Pantalone. ♦ l’altro zorno: tra le connotazioni
concretissime di questa réclame che l’autore dedica a se
stesso vi è anche l’indicazione precisa del momento di uscita dell’opera: la
traduzione tassiana e la commedia sono infatti dello stesso anno. ♦ Drapparia,
come altrove il luogo prende il nome dalle botteghe o dalle professioni che vi
si esercitano; qui certamente si tratta dei portici ai piedi del ponte di
Rialto. ♦ Lovisa stampador e librèr, l’editore che ha stampato e
messo in vendita sia la presente commedia che l’adattamento del Tasso. ♦ El
Goffredo del Tasso cantà alla barcariola, ecco finalmente enunciato il
titolo esatto dell’opera: a conferma della specifica del titolo, nonché di
tutti i riferimenti al canto improvvisato e alle arie da battello, Pantalone
sta in effetti per cantare in gondola (per la diffusione del Tasso a Venezia
cfr. Vescovo 2002, pp. VIII-XXI).
♦ me dà in genio, “mi piace”. ♦ sonaori seguiteme, l’invito
ai suonatori in questo caso sta ad indicare che probabilmente l’aria cambia;
ciò risulta per altro coerente con l’idea di anteprima assoluta: tutti gli
astanti sembrano essere i primi a venire a conoscenza della traduzione tassiana
ad opera del Mondini, tanto più che Beatrice, nella battuta successiva, si
sente di commentare l’impresa con entusiasmo e la definisce una fatica
bizzarra e studiosa; e ancora aggiunge: per esser così vaga darà nel
genio a’ dilettanti, “questa rarità sarà apprezzata da coloro che si
dilettano nel canto” (per l’usanza di cantare il Tasso a Venezia si veda ancora
il Teatro comico di Goldoni, I.4).
[161] II.5.10 e seguenti: la parentesi letteraria, che ha talmente colpito
Beatrice dal farla esprimere una tantum una lusinga sincera, termina
bruscamente con un altro tratto tipico della gita in barca: il litigio su chi
passa per primo, che finisce in rissa. Topica da commedia come descritto in Vescovo 1987 (pp. 69-72), che staglia una
linea da La Venetiana dell’Andreini, passando per Mondini, fino alle
goldoniane La putta onorata e La buona moglie.
[162] a
stagando, “volgere la barca a destra con un movimento
del remo” (cfr. Pantalone Bullo II.13.1, p. 90).
[163] A
premando, da premer, “volgere la barca a sinistra
con un movimento del remo” (cfr. Bullo II.13.1, p. 90).
[164] umoreto, “persona irriverente”, “intrattabile” (cfr. Bullo
I.3.6, p. 71).
[165] stomego, “stomaco”, “pancia”.
[166] ziron,
“remo”. ♦ babio, “muso”, cfr. Bullo I.2.7, p. 69. Questi
sono tutti termini gergali che connotano i cortesani come malviventi,
secondo quanto dichiarato in II.4.10. ♦ sier paronzin dalle canole, espressione
spregiativa: “signor bell’imbusto da niente” (canole, qui vale “canoe”:
da supporsi un’errata grafia di l, probabilmente considerata
evanescente); il paronzin, che ricorre anche in titoli di commedia dell’epoca
è in commedia il figlio di Pantalone, si veda lo scenario Pantalon paronzin da
cui Goldoni, su richiesta del Pantalone Cesare Darbes, uso a recitare anche a
volto scoperto, trasse il Tonin bellagrazia; qui nel senso di
bellimbusto, o giovane cortesano; per l’uso goldoniano cfr. Folena s. v. paronzin; si veda anche la nota di Anna Scannapieco ne
La buona madre, pp. 262-263; cfr. III.2.5 e si veda infine Muazzo, p. 804: «paroncin ghe disemo
nualtri ai cortesani. El fa da paroncin, da vasco, da bullo e per lo più a
questi le ghe vien pettae bone, de buona misura e de giusto peso. Paroncina se
ghe dise qualche volta alla so morosa».
[167] sier mandolato grançìo, “mandorlato rancido”, offensivo; cfr. Bullo
I.3.2, p. 70, e I.3.6, p. 71.
[168] suso,
“su, avanti”.
[169] viene
in prova, “si sposta a prua”: il movimento maldestro di
Pantalone sulla gondola, per avviare il duello con i cortesani è probabilmente
causa principale della sua caduta in acqua. ♦ pugnal e targa, per
le armi tipiche del personaggio cfr. Bullo II.9.23, p. 88 (pistolese)
e III.5.26, p. 96.
[170] scartozzi
gazarài, “buoni a nulla”; per scartozzi cfr.
Bullo I.3.2, p. 70; per gazarài cfr. Boerio
s. v. gazarà, «dicesi altrui per ingiuria» da gazarada, «cosa
di niuna importanza, un nonnulla, cosa da nulla».
[171] pignatella,
da intendersi non nel senso dello “scaldino” come
nella voce scaldadìn del Boerio,
«vaso di terracotta o di rame o di ferro, con manico, nel quale si mette
fuoco per scaldarsi le mani», ma del “fanalino da notte”, come risulta dalla didascalia
della battuta settima (Arlichino alza la pignatella per vederlo nel viso).
[172] commandador
de notte, “signore di notte”, ufficiale col compito di
assicurare la quiete pubblica, figura istituita già dal XIII secolo; «[...] il
loro compito era quello, accompagnati da guardie, di vigilare di notte sulla
pace pubblica, compito al quale se ne aggiunsero diversi altri» (Milan, pp. 89-91); la ronda notturna che
interrompe le azioni dei bulli, anche col sequestro delle armi, è uno dei
luoghi topici della comedia bulesca, da La Spagnolas di
Calmo (cfr. Vescovo 1996, pp.
137 e seguenti).
[173] fio
de çent’ongie, presumibilmente nel senso di “figlio di
bestia o di diavolo”, cfr. Boerio s. v. ongia, “unghia”, il termine
indica anche gli zoccoli degli animali ed è presente in locuzioni come «ongia
de la gran bestia»; mentre l’espressione «esser carne e ongia con uno» (Boerio s. v. carne) per «esser anima e corpo d’uno» potrebbe qui
nell’uso suggerire un significato antifrastico: “uno che non lega con nessuno”,
inteso in modo offensivo per uno di cui non ci si può fidare. Per la serie di
espressioni con fio / sier fio de cfr. Bullo I.2.5, p. 69.
[174] i m’ha rott la pignatta, dal senso referenziale in merito alla rottura della pignatella
da parte dei cortesani, passa al senso della comune locuzione in cui
pignatta sta per “di dietro, deretano”.
[175] stilo, “spadino”, “coltello”, “arma da taglio”.
[176] baroni,
“poco di buono”, “furfanti”, cfr. Bullo
I.1.5.did, p. 68.
[177] il
tono cerimonioso della battuta del cortesan, si veda in particolare a
istanzia vostra, rammenta nel repertorio citato alla nota II.6.8, la figura
del malvivente che interviene a dirimere le risse; cfr. ancora le pagine di Vescovo sopra citate a proposito della
figura del messier, presente dall’anonima Bulesca in poi, in
molti altri testi della tradizione veneta dal Cinquecento; la mancia di Celio
per la bevuta in sua salute è testimoniata in molti di questi testi (per
esempio ne La Spagnolas di Calmo).
[178] grìzzoli, brividi (cfr. II.3.20) ♦ nuàr, nuotare.
Pantalone caduto in acqua nella scena quinta, riappare sul suolo della strada
dopo l’uscita dei personaggi della scena precedente.
[179] agiut, aiuto; Bagolino dà spiegazione di come Pantalone sia
uscito dall’acqua.
[180] Ve
n’amarzé, “ve ne ringrazio”, cfr. II.13.9 e
Spezier I.17.18. ♦ sier birba, “furbo, imbroglione”; Pantalone
sa bene che l’aiuto di Bagolino non può essere disinteressato.
[181] romper le maroèle, “seccare”, da maroèle, “emorroidi” (cfr. Boerio s. v.). ♦ dopo disnar, il nuovo appuntamento è
evidentemente per il giorno successivo dopo pranzo. ♦ a Muran in
Casin, “ritrovo”, “piccola casa da diporto” tipica dell’isola di Murano; le
isole della laguna erano le principali mete dei veneziani per gite o piccole villeggiature
(cfr. Spezier I.1.7 e III.18.3).
[182] Cape,
cfr. I.5.18. ♦ no fasse un disnar
co sesto, “non consumasse un pranzo come si deve”, da sesto, «ordine,
misura, modo» (per le espressioni d’uso cfr. Boerio
s.v).
[183] de ponto in bianco, de vuoga battùa, “rapidamente”, “in men
che non si dica”, cfr. I.6.1 e II.3.20. ♦ basa-la man, forma
codificata di saluto reverenziale.
[184] sguolo, “volo”, cfr. II.1.1. ♦ de cossediè, «modo
avverbiale antichissimo, e vale come si dee, cioè di garbo; a dovere; bene,
serve di aggiunto riferito tanto a persona quanto a cosa», Boerio s. v. (cfr. anche il francese comme il faut).
[185] la casa se brusa; no èl po mèi che me scalda anca mi un
pochettin, modo proverbiale ricalcato sul detto quando la casa se brusa
tuti se scalda: «quando la casa abbrucia ognun si riscalda, cioè il mal
esempio fa de’ seguaci» (cfr. Boerio s. v. brusàr); qui Arlichino fa
il punto della situazione: nonostante il patrimonio e la bottega siano
completamente in rovina, vede che né Pantalone né Celio sembrano curarsene;
tantomeno vorrà fare lui (la battuta si trova anche in Carlo Goldoni, La
famiglia dell’antiquario, I.16, come viene indicato in Padoan, p.26, nota 34). ♦ El
patron vecc mattaz a tórzio; el zuenott matton a spass, sottinteso per
entrambe le espressioni il verbo va, “il padrone vecchio brutto matto va
in giro; il giovanotto gran matto va a spasso”; si veda il parallelo mattaz /
mattón, entrambi accrescitivi di matto, e a torzio / a spas, detto
dei padroni: secondo il proverbio citato all’inizio della battuta tutti
approfittano della rovina per godersi gli ultimi momenti in libertà di fare
quel che più aggrada, dedicandosi agli spassi invece di provvedere al recupero
degli affari. ♦ e mi a baronand (sottinteso in giro) “a
far bricconate”, (da barone, “poco di buono”, per cui cfr. Pantalone
Bullo I.1.5); cioè segue il cattivo esempio dei padroni di casa. ♦ otto
o des serradure de carta, “otto o dieci sigilli”, si deduce che la bottega
è stata nel frattempo bollata (cfr. sotto battute 5-6), ovvero messa in stato
di sequestro. ♦ che la buccia fin che la va, “che si prenda finché
si può”, per bucciare, cfr. sopra I.5.10. ♦ ghe pensa i astrologhi, modo di dire: “io non ne voglio sapere
proprio niente”, “ci penserà chi può farlo”, cfr. Muazzo, p. 782: «el sta come un piffaro, no’l vol disgrazie,
el magna ben, el beve megio, el lassa pensarghe ai astrologhi».
[186] Nana, cfr. I.1.39. ♦ gh’ho visto suso una dozena de
pìttime, qui la pìttima, detto anche in traslato per la persona
incaricata di ricordare al debitore il suo stato, va intesa nel senso letterale
di “impiastro”, “cataplasma”, «decozione d’aromati in vino ch’applicata alla
region del cuore conforta la virtù vitale» (Boerio
s. v.); Muazzo, p. 446, riporta per empiastro o impiastro:
«zé quell’unguento trivial che se mette su sti poer’omeni su qulache feria
o piaga nascente. Per altro quando se confonde e cose e le se miscia, sia nel
parlar sia nell’operar, se dise “che impiastro, che pastroggio indiavolà zé mai
questo, che no se ghe trova né dretto né roverso”» (per l’etimologia medica e dal greco cfr. Cortelazzo, s. v.); in questo caso gli impiastri o cataplasmi appiccicati al corpo
sono da riferirsi, dunque con una rilevante metafora, alle serradure
della bottega ♦ no vogio saverghene un fio d’una curarisi, “non
voglio saperne nulla”, per fio d’una curarsi cfr. Bullo I.2.5, p.
69.
[187] e
vaga come la sa andar, “che vada come deve
andare”: Pantalone intende spendere (vogio che i sguola) prima che possano
chiederglieli per pagare i debiti (e presto) gli ultimi soldi rimastigli
(ghe n’ho ancora un puochi).
[188] mògia
mògia, “via via”, vedi Vescovo
1994, I.278: «da un etimo mollia, “nulla” «in origine adibito a designare
il pudendum muliebre, e progressivamente neutralizzato nelle sue valenze
oscene dall’abuso interiettivo, in sostanza un equivalente attenuato dell’altrettanto
comune pot(t)a, Lazzerini-Giancarli, pp. 465-466. ♦ lassa
che i se destriga lori, con la stessa valenza del precedente ghe pensa i astrologhi, II.8.1.
[189] uno
maledetto, “nessuno” (cfr. l’espressione veneziana una
maledetta, “nulla”); in questa scena Leandro e Lucindo appaiono in tutta la
loro grettezza d’animo.
[190] facci,
congiuntivo arcaico. ♦ medema, medesima.
[191] l’ora
è vicina, il colloquio di Leandro e Lucindo fa
capire che siamo in prossimità del pranzo di Beatrice e dunque tra la scena
settima e la scena ottava, vale a dire tra l’uscita di Pantalone che si congeda
da Beatrice e Bagolino e la sua riapparizione quasi immediata davanti alla
bottega “bollata”, va collocata una consistente ellissi temporale, che
comprende il tempo tra l’azione serale della serenata e della caduta in acqua e
l’azione diurna al giorno successivo in prossimità del suddetto pranzo.
[192] ho
mandào la spesa, Pantalone informa gli
spettatori di avere in realtà già da tempo inviato le provviste per il pranzo
di Beatrice e delle sue amiche: in realtà secondo una successione di
detto-fatto l’annuncio condensa nel tempo della dichiarazione l’intero
svolgimento del pranzo; qui si riferisce che il pranzo è già stato digerito (paìo,
“patito”), mentre esso veniva annunciato come imminente nel
precedente dialogo di Leandro e Lucindo, e l’ordine per Murano già andato (l’ordene
per Muran xe alestìo ).
♦ anemetta, «preso
per diminutivo di anima, si dice per vezzo o compassione, di picciol
fanciullino, come creaturina» (Boerio s. v. anemeta). ♦ sarà
restàe in asso, “saranno state senza parole, meravigliate”; il Boerio registra (s. v. asso) il significato completamente diverso di
«restare abbandonato senza aiuto e senza consiglio», ma se si vede Muazzo, p. 73, i significati appaiono in
sovrapposizione, se «restar in asso zé anca quando sia in un discorso, sia in
una predica, sia in una operazion, se se perde e no se sa andar avanti: se dise
“l’amigo s’à perso, l’è restà in asso”», vale “senza parole”, “interdetto” e
dunque “incredulo per la situazione”. ♦ l’ho cazzada de cola, cazzar
de cola, letteralmente “caricare di colla”, (Boerio s. v. cazzar),
nel senso di «cacciata, avviata, nel migliore dei modi» (cfr. Spezier
II.8.2). ♦ in cào la fondamenta, “in capo della fondamenta”, «Le Fondamenta
sono strade marginali che si stendono lungo i rivi della città. Vengono
così dette perché servono di base, o di fondamento agli edifici. Dapprima si
fecero di terra legata con graticci e sterpi, poscia di legname, e finalmente
di pietra. Alcune fondamente, che danno sul Canal Grande, o sulla
laguna, prendono il nome di Rive» (Tassini).
[193] vienla
zoso, “viene giù”.
[194] se gh’ha mosso la mare, se gh’ha voltà ’l buèllo, allusione
piuttosto pesante alle possibili cause che hanno costretto Beatrice a letto
dopo il pranzo, relative a dolori uterini (mal de mare, «mal di matrice;
mal della donna o di madre; male isterico o uterino» Boerio s. v. mare),
o di digestione (voltà el buello); si tratta ovviamente di una scusa
inventata sul momento da Bagolino, per non fare entrare in casa Pantalone che
scoprirebbe Leandro e Lucindo.
[195] Varte,
forma contratta lessicalizzata per “guardati,
stai attento”; «imperativo di vardar» (Boerio
s. v.).
[196] Si
gh’è colori de sora, “se di sopra ci sono
coloro”, riferito ai bravi Leandro e Lucindo, entrati in casa alla fine della
scena precedente (cfr. II.10.5).
[197] coss’è
sta cronica, “cos’è questa storia” coll’uso allusivo di
cronica; cfr. la locuzione che cronica per «discorso lungo e
scipito» (Boerio s. v. cronica).
[198] Gran
caso, siora Bernardina, locuzione proverbiale
di stupore, non attestata; probabilmente con accezione bassa, dal momento che siora
indica anche la “prostituta”; forse anche possibile un’allusione oscena
costruita su l’utilizzo di un nome proprio femminile.
[199] la
v’ha sentì a tuffo, locuzione: “vi ha sentito
dall’odore”; il tuffo, poi glossato col neutro odor, indica in
realtà il “cattivo odore”, soprattutto quello di muffa, come indica Muazzo, p. 1068: «tuffo nualtri intendemo
come muffa. “Sta robba à giappà el tuffo, la sa de tuffo” [...] Sentir a vegnir
uno a tuffo s’intende sentir a vegnirlo da lontan, e significa come per odor».
[200] odor,
saòr, gioco di parole tra odore (della battuta
precedente) e sapore, riferito al metaforico pasto ancora da consumare, ovviamente
con declinazione del tempo verbale al futuro (me variràlla mi, “la mi
guarirà”); rimane costante la metafora dell’appetito sessuale come desiderio di
cibo (cfr. per esempio I.8.15 e II.3.1).
[201] flemma
e moneda, Bagolino spegne con due parole il sogno d’amore
di Pantalone, ricordandogli quello che serve (ancora e ancora) per raggiungere
il suo scopo: “pazienza” e “denaro”; cfr. I.8.20.
[202] deme
la zatta, “datemi la mano”, affettuoso; cfr.
Bullo I.9.6, p. 79. ♦ all’erta, “pronta, preparata”.
[203] meglio
posso starvi io giovane, come sopra Arlichino
(II.8.1), ora è Celio a addurre il cattivo esempio del padre come giustificazione
del proprio insano comportamento. ♦ mi levi manizo, “mi impedisca
il maneggio”, “mi proibisca di toccare”. ♦ Ridutto, “Ridotto” cfr.
II.3.1. ♦ del resto non voglio travagliarmi niente niente, cfr.
gli atteggiamenti di Arlichino in II.8.1 e di Pantalone in II.8.2. ♦ ma
le scarselle erano vuote, Celio, come già dichiarato in II.4.9, è ben
consapevole di quanto la moneta sia necessaria nel corteggiamento, tanto che
non serve presentarsi all’amata con le tasche vuote. ♦ direttivo, con
significato avverbiale “direttamente”.
[204] saltar
la scala, locuzione dello stesso senso del (far)
cascar so de tutta la scala (Boerio s. v. scala), “far
rovinare, buttare giù dalla scala”, qui in senso metaforico relativo all’improvviso
cambio di fortuna; cfr. la brutale scena della cacciata degli amanti (III.8).
[205] se viene gobbo, “se porta del denaro”, cfr. I.8.4. ♦ fateli
accetto, “fategli accoglienza”.
[206] saprò
tutto fin in un et,
“saprò tutto fino all’ultimo dettaglio”, nel
tempo espresso dalla minima concisione della congiunzione et; cfr. Boerio s. v. ete, nel senso di «nulla»,
“minima quantità”; e si veda anche Muazzo,
p. 677 s. v. mancar un et:
«el gà tutto el so bisogno, quel che el sa desiderar, no ghe manca un et. No g’à
mancà un et che nol casca e che nol se rompa la testa».
[207] L’azione si trasferisce rapidamente con una intensa condensazione
del tempo, caratteristica dell’intero secondo atto, nel casino di Murano: le
scene undicesima e dodicesima, in vero assai brevi, coprono il tempo di
trasferimento in gondola di Pantalone, Arlichino, Beatrice e Bagolino, nell’isola
di Murano in cui arriveranno subito dopo anche Leandro, Lucindo. Al centro
della scena, secondo il genere della commedia cittadina veneziana, è una
figurina caratterizzante, in questo caso quella dell’Improvvisante è
probabile che anche i versi “improvvisati” dal personaggio prevedessero un
accompagnamento musicale dal vivo (per questo cfr. tutte le arie di Pantalone e
la scena del ballo nel Bullo, p. 41, pp. 44-45, pp. 51-53, p. 55, p. 61;
per i cambi scena cfr. I.10.did, II.5.did, Bullo, II.5.did,
p. 82 e Spezier, II.8.did).
[208] I
versi dell’improvvisante descrivono allo spettatore il cambio di scena dichiarando
apertamente che in questo momento i personaggi si trovano a Murano (cfr. Guccini pp. 16-18); il fatto che egli
conosca per nome Pantalone e la sua dama, nonché la relazione prettamente
economica (quel caro sior che ve mantien)
che li lega, denota un’evidente abitudine di recarsi in quel luogo,
forse addirittura di proprietà di Pantalone. Il
metro dell’improvvisazione è ovviamente come da tradizione l’ottava rima; l’Improvvisante
si trova in strada mentre Pantalone, Beatrice e Bagolino appaiono dalle
finestre del Casino, che dunque gli spettatori vedono dall’esterno sulla
strada; ne consegue che la battuta di Pantalone che apre la scena dall’interno;
a pepiàn, “a piano terra”, indica il livello della stanza da cui i
personaggi si affacciano.
[209] Cape, cfr. I.5.18.
[210] bozza,
“bottiglia”. ♦ gotto, “bicchiere”.
[211] un
occio che ’l me cava si l’è un spin, locuzione
proverbiale, girata secondo la scansione del verso, cfr. levarse o cavarse
un spin dai occi, «liberarsi da che che sia da se molto molesto» (Boerio s. v. spin), indicando
che, al contrario di Bagolino, (“che lo caverebbe di torno come si cava uno
spino dall’occhio”) Pantalone è molto generoso, il che gli fa ottenere oltre al
vino anche la successiva mancia.
[212] l’è
ben gagioso, cfr. I.12.4.
[213] sìela
pur quella zatta benedìa, “sia pur benedetta quella
mano”, (cfr. Bullo I.9.6, p. 79): l’improvvisante prende il denaro da
Bagolino (dé qua), e ringrazia (v’amarzé: cfr. II.7.6).
♦ fradelli andémo che ho tirà su ’l seccio, la chiusa, mentre
dichiara l’avvenuta corresponsione della mancia, conferma la presenza dei
suonatori che accompagnano l’esibizione dell’improvvisante (cfr.
II.13.2).
[214] bona
parada, con riferimento al significato di parada, «dicono
i nostri barcaioli del passaggio che fanno dal canale tragittando alcuni
passeggeri da una sponda all’atra» (Boerio
s. v.); si fa allusione all’obolo guadagnato con la stessa, (cfr.
II.5.did).
[215] destrìghete,
“spicciati”.
[216] per
quanto Bagolino mi ha motivato, “secondo quanto
mi ha detto Bagolino”: Leandro e Lucindo arrivano sotto le finestre del casino,
d’accordo con Bagolino, in modo di interrompere bruscamente l’intrattenimento
amoroso; la scena si svolge, come prima, ascoltando le voci di Pantalone,
Beatrice e Bagolino dall’interno, fino alla loro uscita in seguito alle
provocazioni dei due bulli.
[217] Èllo
cotto quel figào gnancora, “non è ancora cotto quel
fegato”; non si capisce se la domanda sia realistica (qualcuno sta cucinando?),
oppure se si riferisce in maniera molto bassa (come da prassi per Pantalone, si
veda ancora I.6.1) all’innamoramento di Beatrice, che non è ancora giunto al
punto desiderato di “cottura”.
[218] Ti ti
è cotto, è la formula di gioco che
indica “sei stato preso”, “sei in trappola”, «Ghe giera po’ un zogo in carte e
che i ghe diseva el zogo dei sgiavi e giera metterse tanti per parte della
corte e chi sortiva nel correr a darghe una pacca sulla schena al compagno,
quello i lo giamava ‘cotto’, o sia ‘sgiavo’ e dovea star fermo e come in prezon
in quella parte della corte che el giera stà cusinà [...]» (Muazzo, p. 700), «Per scaldarse po’ l’inverno
ai schiavi, che zè correrse l’un drio l’altro e quando se ghe ne giappa uno se
dise “Ti zè cotto”» (Muazzo, p.
1134).
[219] ose, “voce”;
a conferma dello svolgimento della scena tra interno ed esterno del casino.
[220] qualch
baron, Bagolino fa risalire la voce a qualche mascalzone
che passa di lì per caso, quando sa esattamente di chi si tratti, avendo
organizzato egli stesso il tiro al vecchio; per baron cfr. Bullo
I.1.5did, p. 68.
[221] Avìu, per avéu.
♦ baronagia, “gentaglia”, “manipolo di baroni” (vedi di
nuovo Bullo I.1.5.did, p. 68). ♦ che ve sguoda un
bocal de pisso in cào, “che vi svuoti un pitale di urina in testa”, con
forma sguodar per svodar; la risposta di Pantalone anche se
rappresenta un’azione tipica da chi è disturbato all’interno delle mura di
casa, perde un tantino di efficacia minacciosa, dal momento che lo sappiamo
trovarsi al piano terra.
[222] La
risposta dei molestatori è decisamente offensiva.
[223] vegnìu
a tender rede, l’espressione
evidentemente proverbiale, rinvia all’azione di gettare le reti da pesca, ed ha
significato di traslato sul tipo di ciapar in rede, “ingannare” (cfr. Boerio s. v. rede); qui nel senso di “volete mettermi alle strette”.
♦ sier canapiolo, “signorino ridicolo”, “da nulla”, cfr. Bullo
I.3.4, p. 70. ♦ No faré gnente, “non cederò ai vostri affronti”.
[224] questa battuta, come la numero quaranta, sebbene non contrassegnata
da una didascalia che lo specifichi, sembrerebbe rivolta verso l’interno del
casino, cioè detta da Pantalone a Bagolino e Arlichino, allo scopo di misurare
e preparare l’imminente scontro.
[225] è
finita ancora la prima tavola: “è finita la
prima portata del pranzo” (forse qui si ammette anche il significato letterale
per II.13.20).
[226] scartozzi,
cfr. Bullo I.3.3, p. 70. ♦ destruzzeressi
un piatto de lasagne, “fareste fuori un piatto di lasagne”, detto per
indicare l’impresa di forza di un bullo da quattro soldi. I diverbi che seguono
procedono per metafore di portata culinaria.
[227] macaroni,
per gnoco, «detto per aggettivo a uomo, gnocco; ignocco; balordo;
sempliciotto; merlotto; più grosso che l’acqua de’ maccheroni» (Boerio s. v.), cfr. anche Bullo II.6.12, p. 85, e Muazzo, p. 524: «gnocco: maccacco».
[228] mangnéu
de grasso, “mangiate in abbondanza”: il botta e
risposta vede da una parte Leandro e Lucindo che vogliono mangiare tanto, e
dall’altra Pantalone che tende a dargliele corte, offrendo scarti, come i
seguenti: osseti da rosegar, “ossicini da rosicchiare”, ma anche «osso
duro da rosegàr, detto figurato vale impresa di riuscita difficile o
pericolosa» e anche, (calzante come minaccia da parte di Pantalone in questo
caso), «egli ha a che fare con persona potente, contro cui difficilmente
riuscirà» (Boerio s. v. osso).
[229] questa
battuta comprova il significato dell’espressione proverbiale, ti me fa licar
le zatte co fa l’orseta, annotata in II.3.1.
[230] so
che destué i pavéri alla moda, “so che spegnete
gli stoppini alla moda”: Pantalone reagisce bruscamente e dà, con questa
battuta dai modi pesanti, dei sodomiti passivi ai baroni; cfr. anche l’attestazione
oscena in Muazzo, p. 659: «de
tanto in tanto me piase, nella cristianella de Dio, moggiar el pavero».
[231] quando
il tuo naso non c’impedisse, la risposta pronta del
bravo si rifà ad espressioni correnti come: «dar del naso s’intende volerse
intrigar nei fatti dei altri» (Muazzo p.
722), anche nella versione: «tettar de nazo, tettar intel culo o intel cesto zé
l’istesso che infastidir e dar noia alle persone che diressimo anca parlando
più schiettamente seccar i cogioni» (ivi p. 1065); «dar de naso a uno, fiutare
uno, detto figurato vale seccare, importunare, molestar uno disturbarlo» (Boerio s. v. naso); «dar di naso in culo a qualcuno: intromettersi
nelle sue faccende, andarvi a curiosare; recare molestia, fastidio» (Gdli s.v naso); (con lo stesso
significato si veda anche l’uso di Calmo, in Belloni
2003, nota 3, p. 52); ma in questo caso l’espressione è ancora più bassa
e materiale, cominciando un grave appesantimento delle offese, e indica che il
naso di Pantalone messo nel culo impedisce l’operazione descritta nella battuta
precedente, di destuar i pavéri.
[232] Hàla
fenisto sta musica, “è finita questa musica”,
nel senso di “vogliamo finirla”. ♦ cannoni, più che al senso
metaforico comune di cannone, peraltro non registrato da Boerio, che si potrebbe connettere allo
sparare delle insolenze da parte dei bravi, l’epiteto potrebbe intendersi nel
senso del canon del servizial (cfr. Boerio
s. v. servizial), «quella
parte dello schizzatoio che viene riempiuta del liquore in cui entra lo
stantufo», per cui la metafora, seguendo quanto espresso nelle battute
precedenti, riguarda il clistere.
[233] fumo
de raffiòi, “il fumo della pentola in cui bollono i
ravioli”: aver paura di nulla.
[234] che ti batteressimo via le piàtole, “che ti facessimo saltar via le piattole” (a suon di
bastonate).
[235] che
si fago vista d’averzer la porta batté delongo ’l taccón, “che
se mostro di voler aprire la porta state pronti subito a scappare”: la battuta,
(come II.13.28), nonostante non vi sia indicazione didascalica, sembra essere
rivolta a Bagolino e Arlichino all’interno del casino, allo scopo di allestire
una strategia per non farsi gabbare all’apertura della porta da parte dei bulli.
[236] fio
de donna Betta, fio de caldiera, espressioni
spregiative, insulti; per la serie con fio de cfr. Bullo I.2.5,
p. 69; in questo caso si può far notare il detto siora Betta dalla lengua
schieta (Boerio s. v. ) per “parlare senza riguardo”, ma
bisogna ricordare che Betta ricorre come nome tipico da prostituta,
(cfr. Bettina e Betta Pottón in Bullo I.6.9, p. 74); per caldiera,
propriamente il “paiolo”, (cfr. Boerio
s. v.), è facile intuire l’allusione
oscena; Muazzo, p. 197, riporta
anche un toponimo: «son stà una volta svalizà alle Basse de Caldiera» (oggi
Caldiero), come annota il curatore «zona tra Vicenza e Verona, all’epoca
infestate dai malviventi»; probabile allusione inoltre al mestiere umile della
caldirana.
[237] Pantalone, Bagolino e Arlichino escono armati con quanto hanno
potuto trovare all’interno del casino: con spenton, probabilmente forma
impropria per speón «spiedone; spiedo grande» (Boerio s. v.);
oppure pezzo di legno che si usa per chiudere la porta, (anche se questa seconda
accezione sembra da escludere perché indicata più precisamente dalla voce
seguente), per cui si veda anche D’Onghia
V, 58. ♦ stanga, pertica, sbarra «quel lungo e grosso pezzo
di legno che si mette dietro all’uscio per serrarlo» (Boerio s. v.).
[238] tràpanalavezi, letteralmente “trapanapentole”, trapanar “forare
col trapano”, “chi scava nella pietra per farne pentole” (lavezi); il
tutto si intende come una delle solite metafore oscene, in relazione semantica
con caldiera della battuta 42; il lavezo è un «vaso di pietra
viva fatto al tornio, per cuocervi dentro la vivanda in cambio di pentola; esso
ha il manico come il paiuolo» (Boerio s. v.); si veda anche Muazzo, p. 648 s. v. lavezo: «nualtri intendemmo piadenne,
boccai, caini, piatti, squelle, antianni e cose simili fatte de terra, tanto
che co’ i creppa e che i se rompe ghe zé el consalavezi che li ponta insieme con
el fil de ferro e unisse le creppe e le sfeze e che zé uno che va attorno
criando per le strade “chi vol consalavezi” e che vive de questo»; si veda
anche Calmo, Sonetto [I] l’è pezzo haver el lavezzo scachìo, Belloni 2003, p. 51.
[239] Alon,
voce tratta dal francese allons: “animo!
su!”, “andiamo”, (cfr. Zolli 1971, pp.
164-165).
[240] vos
commun no falla, modo proverbiale, “la
voce diffusa non sbaglia”, col significato di “quello che si sente dire è
vero”. ♦ a’ ’l rompess la fortàia, “facesse la frittata”,
diffuso traslato per “andare in malora”. ♦ busogna, cfr. sopra
II.2.7. ♦ aver pazienza a du vie, “aver pazienza doppia”. ♦ ho
sentenziat el scritt a leze, “ho presentato denuncia scritta”; indica più
precisamente la presentazione del contratto di prestito firmato da Pantalone
all’autorità giudiziaria, cfr. sotto battuta 4. ♦ estrazion in
bergamina in man ai sbir, “mandato d’arresto ufficiale” (bergamina, “carta
pergamena” ad indicare il documento bollato). ♦ vog tirarme in segura,
“voglio assicurarmi, mettermi al riparo”.
[241] non avevo volto, “non avevo maschera da coprirmi”.
[242] fiol
de quell’omo da ben, ironico.
[243] salla,
ridondanza interrogativa: “sa”.
[244] l’averà
d’i lunari in capite, “avrà altro per la testa”
(alla lettera “lunari”).
[245] La
s’ covra, “si copra”: Celio in atto di deferenza si è
tolto il cappello dal capo.
[246] anca
lié, “anche lei”.
[247] Se
i pagass così ben i so debiti come far ciàciari,
“se pagassero così bene i loro debiti come sanno chiacchierare”.
[248] Brevibus
verbis, “in breve”.
[249] ’l
togh, “lo prendo”.
[250] È
vero da Bologna, con ironia: anche il
Dottore è di Bologna.
[251] l’odor l’è d’ gazìa, “è molto profumato”, con riferimento per
traslato all’odore della gazìa, “gaggìa”, fiore particolarmente
profumato.
[252] che
farò d’le resoluzion, “che andrò fino in
fondo”.
[253] vi
potrà valere ne’ vostri bisogni, Celio, dopo aver
tenuto col Dottore un contegno assai cerimonioso, chiude la scena con una
battuta bassa e volgare, dimostrando così la falsità della galanteria ostentata
in precedenza.
[254] toch d’arsura giazzada, “pezzo di poveraccio immiserito”, per
arsure cfr. sopra III.5.30. ♦ Anca sonarm’la d’soravie, “anche
canzonarmi in aggiunta”, riferito appunto alla chiusa volgare di Celio. ♦
zafaut, ricorre anche sotto in III.5.32, e potrebbe trattarsi di una
caratterizzazione alla bolognese del veneziano zaffar, “prendere,
zaffare”, da cui zaffi, “sbirri”, quindi epiteto riferito a Celio come
“degno o prossimo all’arresto” (si veda anche gamauto, come “birro,
sgherro” Boerio s. v.; e cfr. sopra II.13.1; citato in
questo senso anche da Muazzo, p.
746 s. v. osellar, «zé diverse
sere che vedo i gamautti a far la ronda qua dattorno, bisogna che i voggia tor
su qualchedun e i lo va osellando, tanto che i lo cuccherà su e i farà de lu capiatur»).
[255] matti int’el cào chi sparagna per dir po item lasso, “fuori
di cervello chi risparmia per poi lasciare in testamento”; «[...] item po’ zé
una clausula o una spezie de repitizion che se dopera nei testamenti. Item
lasso una mansionaria libera. Item lasso a quell’altro la strada d’andarse a
far ben busarar e così discorrendo» (Muazzo
p. 608). ♦ Chiribin, nome proverbiale del diavolo, da cui il metterghe
la cóa, “metterci la coda, intromettersi”. ♦ dagnora me tocca ’l
lotto a mi, varé, “sempre tocca a me il lotto, guardate”, in riferimento
antifrastico all’estrazione del gioco del lotto, chiapar sto lotto, «detto
ironicamente, aver sì fatta sorte o fortuna; e s’intende in senso opposto, cioè
aver questo discapito, questa sfortuna» (Boerio
s. v.). ♦ in ton, “in
tono”, essere in ton «stare in tuono; essere in carne; essere
grassicciuolo; esser fresco e in buon stato, stare bene» (Boerio s. v. ton). ♦ se va strenzendo, “si vanno
stringendo, si vanno complicando, aggravando”. ♦ ha levào la
cartolina, «termine del foro ex Veneto ed era il mandato esecutorio che si
otteneva per l’esecuzione forzata reale e personale contro i debitori civili» (Boerio s. v.); levare, “rilevare”. ♦ ferma là sula bottega
dagnora i cresse, “i fermi (cioè i segnali del sequestro) sulla bottega
continuano a crescere”. ♦ no vòi saverghene una patacca, “non
voglio saperne nulla”, cfr. stimar o valer una patacca, «stimar o non
valere un nulla, una patacca o una foglia di porro», (patacca, “moneta
di infimo valore”): Pantalone enuncia tutti i problemi che gli si accollano
intorno per poi dichiarare la sua totale indifferenza al fallimento (come già
in II.8.2; e come lui Arlichino in II.8.1 e Celio in II.11.1). ♦ m’ha
fidào, “mi ha affidato”. ♦ vòi ciamar la mia raìse, “voglio
chiamare la mia cara”, raìsa, «radice; appellativo affettivo col quale
ci si rivolge ad un bambino, vita mia, radice, sostegno della vita» (cfr. Folena); Muazzo,
p. 926, aggiunge: «per dirghe a una bella ragazza “ti zé el mio ben, la
mia colonna”, se ghe dise: “ti zé le mie raise”».
♦ Redutto, cfr. sopra Pantalone Bullo II.3.1. ♦ a
risegarli e tagiàr, “ a rischiarli e tagliare”, nel senso della parola taglio
nel gioco; cfr. Boerio s. v. tagiar e tagiador, e più
sopra nota II.3.1; è interessante che la battuta, aperta e chiusa da vogio, presenti
una struttura di frase a cornice, di vivacità effusiva (cfr. la
definizione di Spitzer di stilema
“affettivo”, e il diffuso uso che ne fa Goldoni per riprodurre le strutture del
linguaggio popolare, in Vescovo 1993, pp.
68-70). ♦ chi sa che no faga tre fià sette, “chissà che non possa
vincere al gioco, che non possa moltiplicare i denari”; proprio riguardo la
dicitura della moltiplicazione si può vedere Muazzo,
p. 479: «un fia un, fa un; do fia do, fa quattro; tre fia tre, fa nove»,
mentre in un altro punto, p. 1031, riporta una specie di filastrocca,
probabilmente riferita al festeggiamento della vincita al gioco o a un colpo di
fortuna: «tre fià sette vintiun, bazemme el cul e no disé gnente a nessun».
[256] varé,
“guardate”. ♦ senza de vu no gh’è
remedio che possa star un colo, nel senso traslato da cólo, “gocciolatura”,
quantità minima (cfr. cólo d’ogio, nel Boerio);
“senza di voi non posso fare nulla”.
[257] paronzinetti, “padroncini”, piccoli padroni o figli del padrone, per «bell’imbusti»,
cfr. II.5.17.
[258] frasconi
insolenti, cfr. I.12.12.
[259] son
sbrizzào zó del ponte, “sono scivolato giù dal
ponte” (in acqua). ♦ daresto i impirava un drìo l’altro co’ fa i
beccafighi, “altrimenti li avrei infilzati come tanti uccellini” (sullo
spiedo; a conferma dell’armamento improvvisato in II.13.44did); cfr. Muazzo, p. 572 s. v. impirar: «[...] el l’à impirà con la spada come se
faravve d’un beccafigo».
[260] sarave intrigào, “sarei in difficoltà”, per le conseguenze
dell’atto.
[261] nelle
parole di Beatrice dietro una finta gentilezza, cioè il preoccuparsi della
sorte dell’amato, si nasconde il timore di non aver più di che sostentarsi,
(come confermato anche in III.2.12).
[262] ancùo
ho da vénzer, “oggi devo vincere”.
[263] co
vu me se’ a lài, “se voi mi siete di
fianco” (la parola con -i finale rappresenta un
tratto caratteristico del veneziano antico come indicato in Formentin, cfr. I.13.23).
[264] Quel
dalle carte, “chi tiene il banco”, cfr. le scene
iniziali del gioco nel Bullo, pp. 23-24. La scena si è spostata nella
sala da gioco (per i cambi scena si veda I.10.did, II.5.did, II.13.didBullo, II.5.did, p. 82 e
Spezier, II.8.did).
[265] la vaga in le camere che se laóra, “vada nelle camere che si
gioca”: la sala grande del Ridotto è ancora priva di pubblico e Celio viene invitato
ad andare nelle stanze laterali.
[266] ciaperò
’l tolin, la battuta indica l’ingresso di Pantalone nello
stanzino: “voglio proprio mettermi al tavolino” (da gioco), nel senso di
“tenere il banco”; «piccola tavola per lo più quadrata che serve a vari usi;
tavolino da gioco» (Boerio s. v. tolìn).
[267] teleri,
propriamente sono i “telai”, ma qui, in relazione
al gioco, “tavoliere”: «tavolino sul cui ripiano sono disegnati i riquadri per
il gioco della dama, degli scacchi, dei dadi, del tric trac; per estensione
tabellone su cui sono riportati suddivisioni, simboli, figure, usato in
particolari giochi di società o di ruolo. In senso generico: tavolo da gioco» (gdli s.
v. tavoliere), in questo caso, per quanto alla precedente battuta 6,
il “tavoliere” non è direttamente disegnato sul tavolino.
[268] senteve qua, zògia, steme a lài, “sedetevi qua gioia, statemi
a fianco”, per lài cfr. III.2.16.
[269] e
mi me dà tanto ’l cuor de vadagnar che no poderessi creder, “e
io ho tanto in cuore di guadagnare che non potreste credere”.
[270] no
crieremo no, “non litigheremo”. ♦ e varé
quanti, ’i vadagno, tutti i xe vostri, “quelli che guadagno saranno
vostri”. ♦ tutti fina uno, “tutti fino all’ultimo”.
[271] Taglia
certa gente che non ha genio di metter, “sta giocando /
tenendo banco certa gente che non ha intenzione di puntare”, per i termini del
gioco si vedano ancora le scene iniziali del Bullo, in particolare per tagliare,
I.2.4, p. 68. ♦ signor padre che fa banco, “il signor padre che
tiene il gioco”. ♦ andiamo a metter, “andiamo a puntare”.
[272] le mette ben la so segonda, sottinteso “puntata”. ♦ avé
venzo, “avete vinto”. ♦ Ve diol el gargato, “vi duole la
gola”, riferito a Celio che fa solo cenni col capo e non parla per non farsi
scoprire dal padre, mentre la maschera ne copre i connotati. ♦ saldi a
sto resto, locuzione da gioco che precede il taglio o la puntata sul tipo
di rien ne va plus. ♦ mo cospetto, mo debotto, dirave de
qualcossa, formula eufemistica per bestemmia evitata, “per poco avrei
detto”. ♦ pagài, come l’italiano far pace della didascalia
che precede, “andare a pari”, “pareggiare”. ♦ zó ’l lico è
furbesco per “giù i soldi”; lico, «gergale per denaro in rapporto a lico
e licheto, cosa ghiotta» (boerio s. v. licheto), dove è registrata
anche l’espressione lico de’ bezzi. ♦ hallo cattào sonica
delongo, va qui riportata primariamente la voce registrata da Muazzo, p. 973 e 986, perché indica l’uso
della parola associato precisamente al gioco delle carte, purtroppo però senza spiegazione:
«co’ zogo a zoghetti, fasso sempre sonica colle carte», e «co’ zogo, fasso
sempre sonica»; sembrerebbe qui una sorta di mossa; mentre in
riferimento all’atteggiamento assente del giocatore misterioso possiamo basarci
sulle più generiche indicazioni di Boerio,
basate su sonica per “nenia”, “solfa”, qui nel senso di “si è incantata
la musica della vittoria”: «al longo andar sta sonica no me piase gnente», e «le
gran soniche che fé sempre per una strazzeria de gnente». ♦ fionazze
de chi digo mi, insulto riferito alle carte. ♦ giusto a filo, “a
puntino”, rafforzativo di giusto; confrontare le varie locuzioni del Boerio s. v. filo. ♦ fatto su ’l conto, “ha aumentato
il conto, guadagnato”; è la battuta con la quale Pantalone sigla la perdita
totale del denaro. ♦ venzi, “vinti”, con crudo dialettismo che si
riflette nella didascalia in italiano. ♦ m’avé curào pulito, giusto a
cico, “mi avete pelato a puntino”; nel testo originale con grafia chico;
Boerio riporta sia la grafia a
chico, che a cico, come modi avverbiali: “a puntino”; Muazzo riporta la grafia gicco per
l’espressione «a gicco (xè l’istesso che appena)». ♦ a revéderse
a una pì bella, “arrivederci a un’occasione migliore”. ♦ faghe de
atto, “fagli una riverenza”, “salutalo”. ♦ che ’l trotolo è
andato, “che la trottola è andata”, locuzione per indicare la fine di una
cosa; il contrario di «inviar el trottolo, la qual frase doperemo e se servimo
nel discorso per denotar co’ se principia una qualche azion», Muazzo p. 1062 s. v. trottolo, trottoletto. ♦ chi vuol sponze, letteralmente
“chi vuole spugne”; forse richiamo da venditore (cfr. Bullo II.13.1, p.
89), tra ironia e disperazione, mentre Pantalone esibisce la borsa vuota. Curioso come la scena della rovina definitiva,
pur coinvolgendo almeno tre personaggi, risulti come un monologo: sembra voler
sottolineare che Pantalone è da se stesso unica vera
causa dei propri guai.
[273] la
risposta di Beatrice rivela di colpo il suo unico interesse: il denaro.
[274] sora
marcào, “oltre il prezzo”, “oltre la misura giusta”, “in
aggiunta” (cfr. espressioni simili in III.1.31, e Bullo II.9.15, p. 87).
[275] gh’ho bù desdita, “ho avuto sfortuna”.
[276] cusì ’i gh’avéssio mi in scarsella, “così li avessi io in
tasca”.
[277] de
vantazo, come III.3.18, “in aggiunta”.
[278] Mo
no fé che la ve salta cusì presto, “non perdete la
pazienza per così poco”, cfr. saltar la barila in I.10.6. ♦ in
cosa imbàttela sta musica, locuzione, “cosa intendete dire”, “qual è la
vostra intenzione”.
[279] mi
porterà un corno che lo marida, espressione
spregiativa; alla lettera “un corno che lo mariti”, nel senso di “che lo
incorni”, forse con risvolto osceno.
[280] in
veritàe benedetta, “in santa verità”,
formula di giuramento. ♦ quella zattina, “quella manina”, come
epiteto affettuoso (cfr. i numerosi luoghi in cui viene usata questa
espressione come in Bullo I.9.6, p. 79).
[281] se
mi fallate, “se mi ingannate”.
[282] Baroni,
cfr. Bullo I.1.5.did, p.68.
[283] se zioga alla bona bassetta, gioco di carte, cfr. Bullo
I.2.4, p. 68. ♦ si volé metter, sior, monéa la vol esser, il baro
si certifica che Arlichino abbia i soldi per la puntata.
[284] III.4.3-7 Va’ do soldi, aseno, Arlichino comincia dando dell’asino
al baro; si innesca così un pericoloso equivoco che corre fino alla battuta 7,
in cui, temendo la reazione violenta del giocatore, il servo finge di essere
più sciocco di quanto non sia, chiamando “asino” il cavallo delle carte, aseno
a do soldi.
[285] da
Lodi, il toponimo qui è usato in senso offensivo per
dire “sciocco”; si confrontino le scene del Bullo col galliner
che viene insultato in quanto non veneziano, attraverso un elenco di toponimi
di terraferma (I.11, pp. 32-33). Forse qui potrebbe trovarsi la sfumatura dell’uso
gergale registrato in III.12.4 (da lodo “brutto”), per dire: “con costui
siamo messi male”.
[286] destrighémose,
“sbrighiamoci”.
[287] sier carogna, altra variazione della variopinta serie con sier
/ fio de.
[288] Mo
caro vu, la ghe va de sbalzo, bisogna molarla per forza, la battute del barone
sembra contenere tra virgole una sorta di a parte: come a dire: “l’ha
passata liscia per un pelo”, “l’ha sbalzata”, riferendosi all’aggiustamento di
Arlichino visto alla battuta 7; per la chiusura bisogna molarla per forza, il
significato è “bisogna mollare”, “dargli ragione”, perché è uno sciocco.
[289] Grassi
co’ fa’ ciodi, locuzione gergale per
antifrasi “grassi come chiodi”, riferita alla somma infima della puntata di
Arlichino. ♦ co sto ruinazzo, come rovinasso,
“calcinaccio”, presumibilmente riferito al rumore della prosopopea di Arlichino
in rapporto all’infima miseria della puntata.
[290] Falalalalalalela,
Arlichino per la gioia della vincita canta il suo
motivetto (cfr. I.10.8 e I.10.10), e rilancia la posta.
[291] Bravo,
metté ben la segonda, me piasé: il baro si
compiace del fatto che Arlecchino tenti una seconda puntata.
[292] sonarghela,
secondo l’espressione suonarla a uno: “dirgli
il fatto suo”, anche con violenza; cfr. Bullo I.3.4, p. 70, gué quel
vostro subiotto.
[293] gabbà,
“ingannato”.
[294] il
barone utilizza il ricorrente comportamento del bullo che prende le
ultime parole del malcapitato per incalzare il dialogo con una minaccia (cfr. Bullo
III.5.29, p. 96 e Spezier II.8.5); Arlichino, come si evince dalla
battuta seguente, è uso alla medesima tecnica.
[295] davagnào,
“guadagnato” per metatesi di vadagnào.
[296] Anche
qui senza alcuna avvertenza l’azione passa dal Ridotto alla scena di strada;
nel tempo in cui si è svolta la scenetta comica con Arlichino e i bari,
Pantalone ha riaccompagnato a casa Beatrice e la scena è ritornata quella dell’esterno
con case. ♦ Çito, ghe xe no so chi, che forse chi sa, la frase
appare una sorta di ragionamento ad alta voce, come se Pantalone passasse
velocemente in rassegna le persone che conosce per capire se può andare di
nuovo in prestito di denari, e potrebbe essere svolta così: “zitto forse c’è
qualcuno che mi può aiutare, ma non saprei chi”. ♦ la me n’ha
deslubiào, come desluviào “diluviato”, riferito ai denari, la forma deslubiar
con rinvio a desluviar è registrata anche da Boerio; per il significato cfr. anche Muazzo, p. 413: «desluviar zé l’istesso
che magnar senza mastegar e ingiottir i bocconi come i vien su». ♦ Daresto
deboto son dove che posso esser, “d’altra parte tra un po’ sarò dove devo
essere”, con probabile riferimento già alla prigione. ♦ bolli,
intimazion, citazion, elenco di provvedimenti giudiziari a suo carico.
♦ psì, bona notte, interiezione, modo di dire che vale “non c’è
più niente da fare”. ♦ a dozene i vien, “vengono a dozzine”, nel
senso proverbiale di “le disgrazie non vengono mai da sole”. ♦ l’è
intrigada la manestra, modo di dire per cui cfr. I.12.1. Le battute dalla
seconda alla settima, nonostante l’assenza di didascalie, sono da considerarsi
una sorta di a parte: il Dottore sopraggiunge, Pantalone sembra sentire
quello che dice, perché esprime dei commenti ironici a riguardo; ma la vera interazione
dialogica comincia alla battuta ottava, quando il Dottore saluta Pantalone.
[297] do
volte mezi, in risposta alla battuta immediatamente
precedente in cui il Dottore si lamenta della paura di perdere tutti i suoi
cinquecento ducati, Pantalone cerca di indorare ironicamente la pillola
dicendogli che non li perderà tutti, ma solo metà, per due volte. ♦ ’l
se va a picar, “si va a impiccare”; nonostante la garanzia e lo stato di
maggior sicurezza per esser uno che ha da aver, invece di uno che ha
da dar, il Dottore vive la situazione in modo tragico, dato il suo
attaccamento al denaro.
[298] Si
no l’è un strigon, che ’l me ne fassa nasser, “se
non è un mago (un negromante), che me ne faccia nascere” (dei denari): ultima
ipotesi strampalata di Pantalone, tra lo scherzo e la disperazione, per
risollevarsi dal mare di debiti in cui si è cacciato.
[299] basa-la
man, formula di cortesia, cfr. II.7.14.
[300] notéi sul libro d’i scossi, “annotateli sul libro delle
riscossioni”, libro delle uscite; metter sul libro dei
scossi significa «porre al libro dell’uscita alcuna cosa, vale far conto di
averla perduta» (Boerio s. v. scosso).
[301] pampalugo, “scioccone, stolido”; «zé l’istesso che cogion» (Muazzo p. 829).
[302] strapazzar,
“maltrattare”.
[303] no
me stornì, “non mi seccate”, stornir significa
«stordire; sbalordire; imbalordire, torre il capo» (Boerio s. v.).
[304] Quel
che ti ha tra i occi e la bocca, “il naso”, modo
di dire come nell’espressione “un palmo di naso”, niente; ma cfr. anche dar
del naso a uno, II.13.35, per “seccare”, con la sfumatura assai più volgare
di dar del naso in culo.
[305] sier Iacodin, nome di ebreo da commedia, cfr. La Pelarina di
Goldoni, (per cui si veda Bullo II.13.1, p. 89); e Muazzo, p. 532: «son andà sta mattina in
Ghetto novo da Giaccodin a scoder el mio tabarro che l’aveva messo in studio»;
il nome qui è utilizzato come fosse un insulto, evidentemente connesso all’attività
di usuraio; sempre Muazzo riporta
il vocabolo in altro luogo (p. 986 s. v.
scoder) con la lettera minuscola, il che fa pensare a una conferma di un
uso di nome comune, derivato dal nome proprio, con significato generico per ebreo:
«son andà a scoder da un giacodin in ghetto el mio tabarro d’inverno». ♦ ve
la querelarò, quella scrittura, al Piovego, “andrò a querelarvi per usura
esibendo il contratto alla magisratura del Piovego”, «Magistratura della
repubblica veneta che giudicava nelle materie d’usura e dei contratti lesivi» (Boerio s. v.).
[306] gnoch,
“gnocco”, qui inteso, a differenza di II.13.30
dove è riferito come aggettivo a persona, nel senso di «bernoccolo o bernoccio
e corno: cioè enfiato che fa la percossa» (Boerio
s. v. gnoco), vale come
minaccia.
[307] peàda,
“pedata, calcio”. ♦ dottor senza
dottrina, modo di dire irriverente che rimanda con ogni probabilità al
detto registrato da Muazzo, p.
359: «dottor senza dottrina che non conosce la merda dall’orina».
[308] pezzada,
storpiatura bolognese di peada, termine
usato da Pantalone nella battuta precedente. ♦ Adess al zafaut, al
zafaut, “presto, arrestatelo, arrestatelo” cfr. III.1.31.
[309] no
ghe ne vòi saver de gnente, continua l’atteggiamento
incosciente di Pantalone. ♦ vorave querelar el scritto daseno, “vorrei
davvero denunciare il contratto” (per il tasso d’usura). ♦ impiantar
st’altra gazìa, cfr. I.6.1. ♦ e che la vaga, “che vada come
deve andare”.
[310] quella
ciera, “quell’accoglienza”.
[311] che sem’ al bass, “che siamo a terra, messi male” (con i
soldi).
[312] non voglio travagliarmi niente niente, continua il
parallelismo tra l’atteggiamento di Pantalone, III.5.33, quello del figlio, e
quello del servo, neanche mi, nella battuta seguente.
[313] Angela
vedendo Celio parlare con Beatrice lo crede infedele, secondo i sospetti già
dichiarati in II.12.3-4.
[314] da quel che l’è, il giudizio di Arlichino su Angela è
piuttosto deciso.
[315] Anche
in questa scena, nonostante l’assenza di didascalie, è da presupporre un finto
dialogo: il Dottore e Pantalone sono in scena entrambi, ma non si vedono, e non
parlano tra loro, se non dalla battuta settima, in cui il Dottore fischia per
chiamare gli zaffi, che egli ha preventivamente allertato. Il Dottore
comincia elencando tutti gli insulti ricevuti da Pantalone nella scena quinta
del terzo atto, esplicitando così, come per gradi, il crescendo della sua
arrabbiatura. ♦ E no ’l gh’anderà al cald, “e non ci andrà in
prigione”, antonomastico di “andare al fresco”. ♦ i zaff i è là da
dré, “le guardie sono lì dietro”. ♦ starò za spettandol, “starò
qui ad aspettarlo”.
[316] Madé,
particella discorsiva (dal greco ma dia):
“no, mai no”, cfr. Boerio s. v.. ♦ l’è andada sbusa, “l’affare
è andato in fumo”.
[317] La
me’ gi’ esser, “la meglio deve essere”, gi’
esser è volgarizzamento del latino per “debet esse”, “el diè esse”, cfr. Bullo
II.17.1, p. 93. ♦ gh’ho mo vogia da andarghe che crepo, s’intende
da Beatrice: Pantalone non può andare a trovare l’amata se non ha con se del denaro.
[318] corp de mi, interiezione d’ira. ♦ sùbia, “fischia”:
agli zaffi per chiamarli: anche nell’italiano della didascalia iniziale
della scena seguente (forse per distrazione).
[319] t’
farò la sguàita, “ti spierò”, “ti terrò d’occhio”;
«far la sguàita [...] spiare o codiare alcuno» (Boerio s.
v.);
«el
nostro gatto l’à fatto tanto la sguaita che l’à brincà alla fin el sorse» (Muazzo, p. 481).
[320] braghessine,
camisa, cioè con l’abito da sotto, spogliati dei loro
vestiti, rimasti in biancheria intima; gli zaffi chiamati dal Dottore
arrivano nell’esatto momento in cui Celio e Arlichino sono cacciati a bastonate
dalla casa di Angela, (cfr. Bullo III.22.did, p. 101), e mentre
Pantalone viene allo stesso modo bastonato da Beatrice, da cui aveva tentato di
rifugiarsi (come indicato in III.7.8did).
[321] e
scuffa, dal verbo scuffiare, “mangiare velocemente
e con ingordigia” (Gdli); qui per
“prendere”, in relazione anche ai precedenti to’, to’, to’ e to’ (battuta
2) e al seguente to’ suso, di Beatrice (battuta 9), che sottolineano la
bastonatura.
[322] donne perverse, femene malegnaze, scrovazze desfamàe, il
crescendo di insulti per il genere femminile è commisurato al contegno
lessicale che i personaggi hanno tenuto durante lo svolgimento della commedia:
Celio fa il punto sulla perversione, ossia il gusto di far fare agli uomini
quello che esse vogliono; Pantalone vede in questo un carattere malvagio; e
infine Arlichino insiste sull’appetito da bestie delle femmine, definendole
“scrofe infami”; infamar uno significa “togliergli la fama”: qui è assai
probabile un lapsus di Arlichino che confonde fama con fame.
[323] III.8.22-24 come sopra si presenta un altro crescendo, questa volta
riferito alla condizione degli uomini caduti nella trappola (chi casca in
rede), che termina con mincion e pampalugo, entrambi valgono
“sciocco, stupido, stolido”.
[324] spesazze,
“spese consistenti”.
[325] sangue
spanto, “sangue versato”.
[326] guarse ’l becco, “aguzzare, appuntirsi il becco”, osceno: si riferisce
al fine materiale del corteggiamento; (arrotare, dicesi degli strumenti da
taglio, come indicato in Bullo I.3.5, p. 70).
[327] andào dagnora cola gobba, cfr. I.8.4 il significato di andar
gobbo.
[328] son
tropp andà dré quella robba, la rima di Arlichino si
concede un’allusione più prosastica, come è suo costume.
[329] serro la cheba ma è scampào l’osello, “chiudo la gabbia
quando l’uccello è già scappato”, qui riferito al fatto di essersi accorto di
aver speso inutilmente troppo tardi.
[330] la
rima di Arlichino, come sopra, è assai esplicita.
[331] III.8.46-48 gli insulti prendono forma sempre più concreta e
offensiva: prima “traditrice senza scrupoli”, poi “assassina e cagna” e infine
“brutta puttana”.
[332] III.8.49-54 i tre amanti in rovina cercano conforto nell’idea di una
possibile vendetta del destino sulle donne, che non saranno più mantenute da
loro. ♦ le pacche della scóa, “i colpi della scopa”. ♦ ti
anderà a pepiàn in Carampana, “andrai a lavorare al piano terra del
bordello” (per Carampane confronta Bullo I.6.9, p. 74), sarai
ridotta all’infimo livello della prostituzione. ♦ ti deventerà una
marziliana, cfr. I.8.8: “barca da trasporto”, qui vale
“prostituta”, “nave scuola”, “prostituta grassa”.
[333] mal
del flusso, il Boerio
registra “dissenteria” (a cui è assimilabile tra l’altro il pesantissimo flusso
e riflusso da la porta da drìo del La bottega del caffé di
Goldoni); molto sforzata la rima col precedente scusso, per “scuso”; ma
potrebbe indicare anche la “gonorrea” o scolo, non registrato dal Boerio in quanto sempre restìo nel
trattare argomenti scabrosi; si veda di contro il più disinibito Muazzo, p. 321: «i mali zé molti che
vien al padre cazzo, col va massime in busi francesi o spagnoli, che per lo più
se va coonestando la cosa col nome generico de mal de donne, e zé fra i molti
el sporofigo, el scolamento (che i ghe dise che dal primo no se varrisce mai),
e la pannogia. Per lo più i nostri zentilomeni e altre persone nobili, co’ i zé
ben impestai sin alle reggie e ai oggi, i la giama gotta; i preti, frati,
vescovi, gardenali e chi songiomi flussion»; e ancora per gonorrea, ivi,
p. 562: «zé l’istesso che rilassazion de’ reni troppa frequenza d’orina; la zé
una parola doperata dai medici per significar quel che ò dito».
[334] III.8.10-60 il lamento a tre voci di Pantalone, Arlichino e Celio,
cacciati in sottoveste dalle donne e picchiati, è con ogni probabilità, vista
la scansione ritmica, da pensarsi intonato se non cantato su musica: si confronti
la scansione dei duetti d’addio degli innamorati.
[335] ancora
una volta un cambio di scena che introduce luoghi diversi dall’esterno con
case: questa volta la cella della prigione (cfr. I.10.did, II.5.did, II.13.didBullo, II.5.did, III.3.did, p.
82 e Spezier, II.8.did).
[336] III.10.1 Nella scena di Pantalone in prigione prende corpo, anche
con l’aiuto della musica del violino suonato dal compagno di cella, la melodia
del flon, evidentemente nota al pubblico, come testimonia anche Muazzo, p. 475, che riporta: «fin flon
zé un nome d’un balletto». L’aria del flon su cui Pantalone improvvisa
il suo lamento da prigioniero, per quanto sappiamo dalle attestazioni sembra
essere un motivo musicale e una danza. La ricorrenza del motivo del flon all’interno
delle commedie di Mondini e Bonicelli ne prova la diffusione. La struttura prevede
una divisione in strofa e ritornello e si presta perciò alle improvvisazioni
secondo la tradizione del contrafactum: le variazioni
intervengono soltanto sulla parte narrativa della strofa, mantenendo invariato
il ritornello. Qui Pantalone utilizza la melodia del flon per
ricordare i propri errori e il proprio comportamento sconsiderato; attraverso
il canto ripropone al pubblico la sua storia come ammonimento a non fare lo
stesso, secondo l’idea dell’exemplum vitae. Si svolge così il nodo
narrativo della commedia nel pentimento e nel ravvedimento del vecchio, che si
prepara alla fortunata sorpresa dell’epilogo, e alla conseguente possibilità di
cambiare vita, forte del fatto che la cattiva esperienza non gli consentirà di
ripetere gli stessi sbagli. Il flon ritornerà anche nel Pantalon
pezier, con altre improvvisazioni (Spezier II.8.3, II.9.6 e
III.15.1). ♦ se m’ha fatto nìi per le cusiùre, “mi si sono fatti
nidi (di ragno) per le cuciture”, modo proverbiale per indicare l’estremo stato
di miseria. ♦ un sior carissimo che andava col capotto de velùo, “una
persona d’alto bordo che andava col cappotto di velluto”, cioè vestito molto
elegante. ♦ consoléssimo, “consoliamoci”. ♦ no i vegnerà
a batter per el fitto, “non verranno a bussare alla porta per riscuotere l’affitto”.
♦ trar zó le serraùre, “scassinare le serrature”. ♦ guardian,
“secondino, guardiano”. ♦ che daga la testa in sti ferri, “che
prenda a testate le sbarre”. ♦ soné, soné, il comando è in questo
caso al compagno di prigione che si è fatto prestare un violino dal guardiano
della cella (ma è da considerare, qui come altrove, la presenza di musicisti a
disposizione della rappresentazione). ♦ 1 colombera, “stanza per i
colombi”, qui vale prigione. ♦ 2 ve vogio cantar, la passione di
Pantalone per il canto è assodata. ♦ 4 siori, Pantalone si rivolge
direttamente alla platea. ♦ 5 sta niova canzonetta sull’agiare (cfr.
Bullo I.4.2, p. 72) del flon, queste parole mettono in evidenza la
tecnica di improvvisazione illustrata sopra, come se Pantalone avvisasse il
pubblico dicendo “l’aria la conoscete, ma state attenti alle parole perché sono
nuove e adatte all’occasione”. ♦ 7-8 Flon flon marié vu belle, flon
flon marié vui don, il ritornello, a differenza della strofa, non sembra
mutare. ♦ 9 La xe sora de quelli, Pantalone enuncia l’argomento
della canzone. ♦ 11 bordelli, qui nel senso generico di “strepiti,
divertimenti”. ♦ 14 i butta via a
orbón, “spendono e spandono alla cieca” (senza guardar gnente).
♦ 15 che che non è, “in men che non si dica”. ♦ 16 se
scoverze ’l mal, “si scopre il problema grave”. ♦ 17 co se
scorla la stiora, cfr. I.1.55. ♦ 18 cavedal, “capitale”.
♦ 19-20 no scorre pì le riode si no ghe dé l’onzión, cfr. I.7.10.
♦ 21 carissimetti, “cari” con doppio suffisso -issimi ed -etti,
espressione affettuosa che imita il modo delle donne per lusingare gli amanti
allo scopo di ottenerne (e porta zó) regali. ♦ 23 scùffie coi
cornetti, “cuffie con ornamenti”: le cuffie erano molto usate dalle donne
veneziane, spesso erano voluminose e abbellite da ricami o perle; i cornetti,
non attestati, potrebbero riferirsi alla forma di corno, tipica del
copricapo del doge. ♦ 24 còttoli, “sottane”; mantò, “copriabiti”
(cfr. I.3.22). ♦ 25 parasù, “ciuffi
posticci per acconciature” (cfr. I.8.12); galani, “nastri di ornamento”,
«che venivano appuntati al vestito in alternativa od in combinazione con
fiori veri od artificiali» (il termine ricorre ne Le morbinose e ne I
rusteghi di Goldoni, cfr. Vitali s. v.). ♦
26 e bezzi a tombolón, “e i denari se ne vanno a capitombolo”, come
risultato della serie di regali. ♦ 28 con inzegno fin, ironico per
“senza testa, senza pensiero”. ♦ 29-30 i dà i so scopelotti al gramo
scuelottìn, cfr. II.1.1. ♦ 31-32 e quelle moneòle i ciappa su a
palpón, “e prendono a manate di quelle monetine”. ♦ 33 pizzegài, “pizzicati”,
nel senso di feriti, colpiti dalla freccia di Cupido, definito niente meno che
un barone (cfr. Bullo I.1.5.did, p. 68): da quel baron
d’Amor (34). ♦ 35-36 che zó per ogni lài i spande ’l so suór,
“che disperdono il loro sudore (cioè il guadagno del loro lavoro) da ogni
parte”, per lài cfr. III.2.16. ♦ 37 sangue e bezzi e robba, le
spese sono tali che dissanguano; cfr. anche l’espressione riportata da Muazzo, p. 574: «i dise che i bezzi zé
el primo sangue». ♦ 38 per qualche buon boccon, “per qualche buon
bocconcino” nel senso di “bella ragazza”. ♦ 39 in malora, “in
rovina”, inteso, come è successo già a Pantalone, “anche se già in malora”.
♦ 41-42 i se la vuol far fuora dagnora col ziogar, “vogliono
consumare tutto col giocare sempre”. ♦ 43-44 bestemmie, rabbia, dogia,
passión, il comportamento di chi gioca non per reale divertimento, quanto
più per disperazione: maledicono con rabbia la loro situazione di dolore e
patimenti. ♦ 45-46 mincioni, pàmpani, “stupidi, stolidi”, «se ghe
dise a un omo scimunito e de poco spirito» (Muazzo
p. 863), come pampalugo; da ben, vale come rafforzativo
affermativo. ♦ 47 çerti compagnoni, ironico per indicare le
cattive compagnie che contribuiscono allo sperpero. ♦ 48 taccài, “attaccati”.
♦ 49 magnarse ’l soo, “consumare i propri averi”. ♦ 50 boria
e ambizión, “per l’ambizione di voler strafare”. ♦ 55-56 i para zó ogni tanto pilole a strangolón, “costretti
a parar giù pillole a strozzamento”, s’intende che gli amanti, oltre a
dissipare le proprie fortune, devono anche sopportare patimenti e privazioni,
prima di esser ripagati (cfr. la battuta di Bagolino flemma e moneda,
II.10.24). ♦ 57-58 se destruze el corpo e ’l cavedal, l’assenza di
denaro si riflette immediatamente su un peggioramento delle condizioni di vita,
e dunque sulla salute; come indicato precisamente in seguito (61-62): mal in
borsa, int’i nervi, int’i ossi, int’el polmón. ♦ 59-60 ’l ben
sempre ghe sfuze e ghe succiede ’l mal, nel mancato discernimento
tra il bene e il male sta l’origine della rovina. ♦ 63-68 e forsi che
culìa ... bertón, “e può anche essere che colei che li fa penare, dietro le
spalle li deve star già dileggiando, facendo giochi e divertimenti col ganzo”,
per bertón cfr. II.3.7. ♦ 69 zó da cavallo, “disarcionato”,
metafora per indicare che sono terminati i denari. ♦ 70 cattiva sorte
i trà, “si imbattono nella sfortuna”. ♦ 71 se mùa delongo ’l
ballo, “la situazione cambia repentinamente”, secondo l’uso dell’espressione
“cambiar musica”. ♦ 72 desù più non se va, inteso sia secondo la
metafora del cavallo, cioè “non si monta più in sella”, nel senso della
difficoltà di risollevarsi dai debiti; sia in senso letterale, con sfumatura
oscena, “non si sale più da lei, a casa sua”: esattamente come è successo a
Pantalone, soprattutto per ciò che segue (74): la ciappa sul bastón, “prende
in mano il bastone”. ♦ 75 so mi quel che ve digo, Pantalone
ricorda al pubblico che la canzone è costruita sulla sua esperienza personale.
♦ 79-80 siben che ste carogne le xe de sta rasón, “è pur vero che
queste carogne la pensano così”. ♦ 81 grami chi trà via ’l soo, “miseri
coloro che gettano via il proprio patrimonio”. ♦ 83 grami chi mette a
còo, probabilmente “miseri coloro che mettono al collo”, nel senso del
donare; la rima con soo si reggerebbe allora sul dileguo della liquida.
♦ 85-86 ció, ció, le mie raìse ció, tutto de ti son: tutte
espressioni già usate da Pantalone (cfr. III.2.1, II.5.7 e III.3.14). ♦
87 chi se confida, “coloro che si fidano”. ♦ 89 che i spera, che i rida, la speranza di ottenere
corrispondenza amorosa, e le risa dei divertimenti per intrattenere la dama.
♦ 94 el vostro tegnì a man, “tenete i vostri avere sotto mano,
vicini”. ♦ 95 ciappeve al mio consegio, “prendetevi, attenetevi al
mio consiglio”. ♦ 96 a pian, “con calma”. ♦ 97-98 le
prattiche e le donne, né ’l ziogo no xe bon, si veda l’espressione «chiapàr
de le pratiche, pigliare delle male pratiche o amiciczie» (Boerio s. v. pratica), connesso al precedente compagnoni;
perciò: “non è bene frequentar cattive compagnie, né donne, e nemmeno darsi al
gioco”. ♦ 100 quando che bezzi avé, finché si ha una posizione
economica di rilievo si viene benvoluti. ♦ 103 ma si la rioda zira, “se
gira la ruota” (della fortuna). ♦ 104 i ve trà int’un cantón, “vi
gettano in un angolo”. ♦ 107-108 imparéla a mie spese, che l’è un bell’imparar,
Pantalone si riferisce al fatto di poter offrire il suo esempio al pubblico
a mo’ di avvertimento, senza bisogno che qualcun altro si rovini come lui.
♦ 109 no ho ‘bùo giudizio, “non sono stato in grado di giudicare”.
♦ 111 Fenisso de stuffarve, cominciano così le ultime due strofe
di congedo. ♦ 115 cusì ’l gh’avesse ancora, “se avesse ancora
tempo”, nel senso di “se potesse tornar indietro”. ♦ 121-122 almanco
abbiéle a care per l’agiare del flon, chiusa con captatio benevolentiae
che fa riferimento alla popolarità dell’aria, direttamente eseguita da
Pantalone (che vi si esibisce anche nello Spezier), accompagnandosi col
violino, secondo la tipologia del canto accompagnato dalla viola da braccio.
♦ che ghe paghessimo el frùo, “che gli pagassimo il consumo, l’affitto”
dello strumento.
[337] qualche
conzalavezi, “colui che ripara col fil di ferro le
stoviglie rotte”, cfr. II.13.45; e cfr. anche Muazzo,
p. 619 s. v. liccapiatti:
«e chi li conza i piatti de terra, co’ i se rompe e che i va za per le strade a
criando, i se giama conzalavezzi e i li unisce col farghe do busi o tre e
quanti che ghe n’è bisogno col trivello e con tocchi de ferretto sottilo e
nualtri ghe disemo a chi zé de mestier “caro vu, deghe do o tre ponti a sto
piatto, che el se m’à crepà, el se m’à averto, el se m’à sfezo”». Celio è
evidentemente così malvestito (come indicato nella didascalia) da sembrare un
povero mestierante ambulante.
[338] all’ose,
“dalla voce”.
[339] ’l
me fa peccào, “mi fa pena”.
[340] sbrìndoli
per campagna, proverbiale che indica l’andare malconcio, cfr.
«sbrindoloso, vestito di cenci» (Boerio s. v.), senza una meta, cfr. «andar
sbrindolando, andar a girone, a zonzo, a ronda, vale andar attorno e non saper
dove. Ronzare in qua e in là; andare in tregenda, vale aggirarsi senza
proposito alcuno» (Boerio s. v. sbrindolàr).
[341] séu
in corte de qualche strazzeferut, “lavorate alle
dipendenze di qualche straccivendolo”, «chiamasi tra noi il ferravecchio, che
gira per la città e compra non solo ferro vecchio, ma sferre d’ogni genere; ed
anche cenci. Costui va gridando chi ha strazze? fero vechio? roba vechia da
tocar bezzi; poi grida più forte strazze fer rut» (Boerio s. v.); si
veda anche Bullo II.14.1, p. 91.
[342] avete
il morbino: «volontà di ridere, scherzare, star
sulle burle», anche «allegria, bel tempo» e «allegria smoderata» (cfr. Folena s. v.).
[343] stago
megio qua che in palùo, “sto meglio qui che in
palude”, a indicare luogo desolato «basso fondo di laguna di natura arenosa o
pantanosa e talvolta anche crepacea, coperto dal più al meno di piante, che va
ricoperto dall’acqua marina quando questa è nel suo colmo e scoperto dal
riflusso» (Boerio s. v.).
[344] d’i
gardellini in pastizzo, “cardellini in pasticcio”
(cotti dentro una crosta di pasta), ironico per indicare pietanza scelta e
prelibata, impossibile da mangiare in prigione; si noti un esempio di frase a
cornice, per cui cfr. III.2.1.
[345] dimelo
che no te ’l diga, forma proverbiale del
tipo di “senti chi parla”. ♦ ciappa ’l tratto avanti, “vai avanti
di un pezzo”; indica che Celio lo ha superato sulla stessa cattiva strada; l’espressione
viene riportata anche da Muazzo, p.
531: «l’è cogion anca lu come i so veggi: el sa giappar el tratto davanti, come
ognun de nu. Andeghela a far se sé capaci, che ve stimo; l’è andà a scuola
avanti de vu», e ancora, p. 550: «quando uno arriva a conseguir una cosa, sia
carica sia beni sia patrocinio, prima dell’altro che concorra per l’istesso
effetto se dise: “l’à giappà el tratto avanti”»; si veda infine, p. 554:
«giappar el tratto avanti zé anticipar le base e far avanti del stabilio e del
compagno quella tal data cosa».
[346] co
ti me vedevi mi andar a orza, con la successiva
metafora di tener dretto ’l timón, indica l’uscita di rotta: orza «quella
corda che si lega nel capo dell’antenna del naviglio da man sinistra»; «andar a
orza vale a nave sbandata a sinistra» (Boerio
s. v.), quindi con la
necessità di raddrizzare la rotta col timone.
[347] sono
in stato di andarmi a vender in gallìa, “sono ridotto
talmente male che non mi resta altro da fare che remare in galera”.
[348] petto intrégo: probabilmente un modo di dire che si riferisce a una condizione di
insufficienza fisica: cfr. Muazzo, p.
960, alla voce strettezza de petto: «el patisce strettezze de petto. L’è
stretto de petto e per questo nol pol far certe fadighe, perché ogni tanto ghe
manca el respiro» (forse vi è la possibilità che si debba leggere intregò,
per “intricato”, comunque con un significato affine); oppure potrebbe indicare
debolezza di carattere, se si considera che Muazzo,
p. 841, riporta l’uso del
vocabolo petto «per aver coraggio: “el gà petto de resister a qualunque
cosa”», e per intiero, p. 582: «l’è intiero, gnancora toccà»; qui potrebbe
significare: “hai un animo ancora inesperto”, “non hai capacità di resistere a
una simile condizione di fatica”.
[349] magazeno,
“osteria”, cfr. Bullo I.5.26, p. 73. ♦ ho una fame che m’ispirito,
qui, a differenza di I.6.1, il significato è letterale e vale “muoio di
fame”.
[350] al penacchio de mezo, “all’albero di mezzo” (della nave), nel
senso di farsi impiccare.
[351] mi ho fatto ’l callo, per l’abitudine perpetuata di stare
allegramente, qui ovviamente ironico.
[352] oh,
mondo, fatto a tondo, modo proverbiale. ♦
me masena ’l coresin, “mi strazia (mi macina) il cuore”.
[353] da cercantino, da mendicante; il cercante è colui che in una
confraternita ha l’ufficio di svolgere la questua. Diana, putto, come
nome proprio al maschile dovrebbe ricorre l’insolito Diano.
[354] ’l
tant bon temp, tanti comodi, tant formai, tanti marangoni, la sequenza
di rinvii alle condizioni della bella vita che mette insieme formaggi e
falegnami è un pezzo di demenzialità eccezionale. ♦ fortuna
desfortuna, “fortuna sfortuna”. Tutta la conversazione che segue (battute
1-8) utilizza termini della lingua zerga, con la giustificazione di una
comunicazione segreta non decifrabile dalla guardia (formigoto, battuta
5), tra padrone e servo. Si veda Vescovo
1987, pp. 53-55. ♦ canzonar, “parlare” (Prati 234). ♦ luminosa,
“finestra” (Prati 199), secondo il
campo semantico che connette lume / luce a guardare / vedere,
per cui si confronti anche l’espressione di Pantalone me tien lumào in
I.13.11.
[355] Come
stanzia la bolla d’i gambari: in Vescovo 1987 si propone “come alloggia
la galera”, considerato che bolla indica “città” (Prati 44 e Nuovo modo, 8,23);
sembra possibile aggiungere connotazioni allusive, sia per quanto riguarda il
contesto, sia per alcuni esempi legati al toponimo Treviso, per cui cfr. la
nota a Bullo I.2.3, p. 68.
[356] Da
lodi, “malamente”, proposto in Vescovo1987 a partire da lodo per “brutto” (Prati 112 e Nuovo modo 7,16).
[357] El vostro formigotto è trucado a intagiar?, “il vostro secondino è in grado di intendere?”, da formiga
per “soldato”, “questurino” (Prati
146); si è già visto il significato di trucar per “rubare” in
Bullo I.1.2, p. 67, qui forse vale più “imbrogliare”, connesso a intagiar,
per cui Boerio annota «detto
familiarmente accorgersi; insospettirsi»; qui vale “usare il gergo”, se
si considera anche che il parlare in gergo vale come imbrogliare chi non può
capire. ♦ Come
stanzia vostra madre?, “come alloggia la vostra pancia?”, si cfr. il
significato di mare in II.10.5 e III.12.25 (anche Spezier I.16.2
e I.16.2).
[358] smorfirave, “mangerebbe”, da smorfire “mangiare” (Prati 244),
probabilmente nel senso di togliere la morfa, “fame” (Nuovo modo, 29,19). ♦ impiraùra d’urti, “bocconi di pane infilzati”, da
impirar (per cui cfr. III.2.7) e urto gergale per “pane” (Prati 8 e Nuovo modo 32, 13 e 45, 13).
♦ co un pèr de sgionfose de ciaretto ve farave do
crichi, “con un paio di fiaschi di vin chiaretto vi farebbe due
bevute”, sempre in Vescovo
1987, a partire dall’annotazione di sgionfose per «mammelle piene di latte» in Boerio, si
propone qualcosa di più morbido come “otre”, invece di “fiasco”. ciaro è “vino” (Nuovo modo, 16,2). Per crichi si può ipotizzare la derivazione
da crica, «nome di giuoco di carte» (Boerio s. v.), per cui vale l’associazione
descritta per vin da poniciò, in Bullo II.5.5, p. 83; oppure una derivazione da crico «martinello, ordigno in uso presso gli
artiglieri per alzar pesi» (Boerio),
mettendolo in relazione con il movimento di tirare indietro la testa che si fa
quando si beve dalla bottiglia o dalla borraccia.
[359] castagnar, probabilmente
da intendere secondo un generico: “parlare”, anche se far castagna significa
“essere scoperto” (Prati 231); in
questo senso Pantalone sta “scoprendo” le sue richieste ad Arlichino. ♦
stanzia niberta, “non c’ è niente”, “non si passa nulla”: niberta vale
“no” (Nuovo modo, p. 352),
“niente” (Prati 251).
[360] ciassetti, “divertimenti”,
“spassi” (Boerio). ♦
ardor, “pane”, dalla voce gergale artone (Nuovo modo, 5, 15). ♦ scalfetto de lenza, “bicchierino d’acqua”, da scalpho “bicchiere” (Nuovo modo 6, 16 e 39, 24); lenza “acqua”
(Nuovo modo 3, 7 e 26, 22).
[361] çercand,
“elemosinando”.
[362] noma
sto gramo servitor, “solamente questo misero
servitore”.
[363] cospetto de Dina, (per Diana), interiezione, bestemmia;
curioso che il giovane scelga il proprio nome come imprecazione, quasi a dire
“maledetto me”.
[364] secchéme la mare, “datemi noia”,
“spaccatemi la testa”, mare vale “utero” (cfr. II.10.5 e Spezier
I.16.2 e I.16.2). ♦ I’ hòi mo persi tutti fina uno, “li ho persi
tutti fino all’ultimo”.
[365] ti ti è, Diana, Pantalone sembra riconoscere il ragazzo.
♦ grolletta de zambelotto amarizò, probabilmente quest’espressione
gergale si riferisce un capo di vestiario, dato che in diversi luoghi si trova camellotto,
cambellotto, “panno di lana di cammello o di capra”; rimane tuttavia da
chiarire il significato preciso dell’espressione, soprattutto per quanto
riguarda il rapporto con grolletta (il Boerio
riporta per grola: «detto per agg. a donna, segrenna; lunga
lunga; sciocca sciocca come gli asparagi di montagna. È lunga magra e
sgroppata») e con amarizo (per cui il Boerio
riporta «amarizo o marizo, a marezzo, a foggia d’onde», in questo caso
riferibile all’andamento del tessuto); «cameloto o cambeloto, cambellotto o
ciambellotto e cammellino. Drappo fatto di pelo di capra. Cameloto de
Brusseles, brussellino» (cfr. Boerio s. v.); il Folena riporta: «camelotto, tessuto di pelo di cammello,
cammellotto»; e anche il Muazzo
cita il «cambellotto baracannà, cambellotto de Brusselles»; l’origine del
tessuto è antichissima e, anche se il pelo di cammello o di capra ne
costituivano la particolarità, già a partire dal XVI secolo ne cominciarono a
circolare anche di seta e di lana, (cfr. Vitali
s. v.). ♦ un boro de
pan traverso, “un soldo di pane povero, fatto in casa”. ♦ batizar,
“annacquare”, forse qui intende “inzuppare” nell’acqua.
[366] frasca, “bamboccio”, cfr. Bullo II.6.16, p. 85.
♦ stà sui to costrai, “sta nei termini” (i costrai sono le
tavole della barca, cfr. Boerio s. v.).
[367] fio
d’una caldiera, cfr. II.13.42.
[368] me passa le zanze, “mi passa la passione per le cose
frivole”, cfr. I.7.6.
[369] L’allegrezza
di Celio che corre ad avvisare il padre che presto verrà scarcerato perché l’eredità
lasciata dal fratello morto improvvisamente ha permesso il risarcimento
immediato dei debiti, ricorda la conclusione de La putta onorata. Nella
commedia goldoniana si tratta di uno svelamento improvviso: Donna Pasqua confessa a Pantalone di aver scambiato
i bambini nella culla, rendendo così improvvisamente Pasqualino erede del
vecchio mercante, e consentendogli di conseguenza di sposare la sua innamorata
Bettina (cfr. III.23, III.29 e III.30).
[370] Celio
congeda il pubblico ricordando di prendere la storia ― cosa che sembra
difficile, vista la condizione ― come exemplum vitae.