Tomaso Mondini

 

Pantalone mercante fallito

 

Comedia esemplare nuovamente data in luce dal Dottor Simon Tomadoni

 

a cura di Maria Ghelfi

con un’introduzione di Piermario Vescovo

 

Biblioteca Pregoldoniana

 

lineadacqua edizioni

 

2019

 

 

 

Tomaso Mondini

Pantalone mercante fallito

 

a cura di Maria Ghelfi con un’introduzione di Piermario Vescovo

 

© 2019 Maria Ghelfi

© 2019 Piermario Vescovo

© 2019 lineadacqua edizioni

 

Biblioteca Pregoldoniana, nº 26

Collana diretta da Javier Gutiérrez Carou

Supervisore dei dialetti: Piermario Vescovo

www.usc.es/goldoni

Venezia - Santiago de Compostela

 

lineadacqua edizioni

san marco 3717/d

30124 Venezia

tel. +39 041 5224030

www.lineadacqua.com

info@lineadacqua.com

 

ISBN dell’edizione completa: 978-88-32066-09-8

 

La presente edizione è risultato dalle attività svolte nell’ambito dei progetti di ricerca Archi-

vio del teatro pregoldoniano (FFI2011-23663) e Archivio del teatro pregoldoniano II: banca dati e biblioteca pregoldoniana (FFI2014-53872-P) finanziati dal Ministerio de Ciencia e Innovación spagnolo. Lettura, stampa e citazione (indicando nome della curatrice e dell’autore dell’introduzione, titolo e sito web) con finalità scientifiche sono permesse gratuitamente. È vietato qualsiasi utilizzo o riproduzione del testo a scopo commerciale (o con qualsiasi altra finalità differente dalla ricerca e dalla diffusione culturale) senza l’esplicita autorizzazione della curatrice, dell’autore dell’introduzione e del direttore della collana.

 

 

 

Biblioteca Pregoldoniana, nº 26

 

 

 

Nota al testo

Edizioni utilizzate

Di seguito l’elenco e la descrizione delle edizioni di cui si è tenuto conto per la presente edizione del Pantalone mercante fallito. Si tratta di una tradizione di testi esclusivamente a stampa che non presentano un panorama significativo di varianti.

 

            Edizione siglata M:

PANTALONE / MERCANTE / FALLITO, / COMEDIA / ESEMPLARE / Nuovamente data in / luce / DAL DOTTOR / SIMON TOMADONI / [insegna] / IN VENETIA, M.DC.LXXXXIII. / [riga orizzontale] / Domenico Lovisa sotto i Port à Rialto. / <Con> Licenza de’ Superiori. <E> Privilegio.

A p. 2 si colloca l’ elenco dei personaggi.

La commedia va da p. 3 a p. 72.

A metà di p. 72 si colloca il listino della libreria.

[riga orizzontale] / Dal Lovisa à Rialto

 

            Edizione siglata M2:

PANTALONE / MERCANTE / FALLITO. / COMEDIA / ESEMPLARE / Nuovamente data in / luce / DAL DOTTOR / SIMON TOMADONI / [insegna] / IN VENETIA, M.DC.LXXXXIII. / Per Domenico Lovisa à Rialto. / Con Licenza de’ Superiori.

A p. 2 si colloca l’ elenco dei personaggi.

La commedia va da p. 3 a p. 72.

A metà di p. 72 si colloca il listino della libreria.

[riga orizzontale] / Dal lovisa à Rialto.

 

            L’edizione critica del Pantalone mercante fallito si basa sulla stampa M, conservata alla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma. Il confronto è avvenuto con M2, copia conservata alla biblioteca di Casa Goldoni. Il testo è identico anche se in alcuni casi M2 ha permesso di integrare parti che in M erano poco leggibili.

            Sono elencate di seguito le varianti di M2 rispetto a M:

            I.1.49: presenta “se i avessi” invece di “se i gh’avessi”;

            I.6.1: presenta “vintena” invece di “vintina” e “ma ancùo doman” invece di “si ancùo doman”;

            I.7.1: presenta come numero di indicazione di scena VI invece di VII;

            I.8.13: presenta “a patte” invece di “a parte”;

            I.9.1: nella didascalia di inizio scena presenta “Beatrice, Bagolino” invece di “Beatrice e Bagolino”;

            III.4.15: presenta “caval una lirazza” invece di “caval a una lirazza”;

            III.5.33: presenta “gazeta” al posto di “gàzia”;

            III.10.1: presenta “aggiare” al posto di “agiare”;

            III.11.2: presenta “conzalavez” al posto di “conzalavezi”;

            III.11.27: presenta “agiutti” invece di “agiuti”;

            III.12.21: presenta “e porterò” invece di “e ve porterò”.

 

            Sono segnalati in seguito i punti, comuni alle due copie, dove è stato operato un intervento.

            I.4.13-18: le battute sono state indicate come a parte conformemente al loro significato nella realizzazione scenica;

            I.13.24: “e” è stato corretto “el”;

            III.11.18: “dofevi” è stato corretto “dovevi”;

            III.12.23: “cospetto de Dina” è stato corretto “cospetto de Diana”.

 

            Per quanto riguarda gli a parte indicati nel testo si è scelto di riportarli graficamente tra parentesi prima della porzione di battuta sussurrata indicata anch’essa tra parentesi, come nell’esempio che segue, I.1.5:

pantalone          (a parte) (Cazza, ti falli Dottor.)

 

            Da segnalare che nella scena decima del terzo atto è stata introdotta una numerazione dei versi del canto di Pantalone in prigione, il flon, allo scopo di rendere più chiaro il commento.

            Si segnala che nel commento si troveranno riferimenti all’edizione: Giovanni Bonicelli, Pantalone bullo overo La pusillanimità coverta. Comedia di Bonvicino Gioanelli, a cura di Maria Ghelfi, Venezia - Santiago de Compostela, lineadacqua, 2013 (www.usc.es/goldoni), indicato brevemente come Bullo.

            Mentre altri riferimenti sono relativi al testo del Pantalon spezier di Giovanni Bonicelli, seguendo l’edizione: Giovanni Bonicelli, Pantalon spezier con le metamorfosi d’Arlechino per amore. Scenica rappresentanza, a cura di Maria Ghelfi con un’introduzione di Piermario Vescovo, Venezia - Santiago de Compostela, lineadacqua, 2018 (www.usc.es/goldoni). Il testo verrà indicato brevemente come Spezier, senza l’indicazione della pagina ma solo di atto, scena e battuta.

            Si ringrazia infine qui Luca D’Onghia per i preziosi suggerimenti in fase di revisione del testo.

 

 

 

Tomaso Mondini

Pantalone mercante fallito

Comedia esemplare nuovamente data in luce

dal Dottor Simon Tomadoni

 

 

 

 

Personaggi

 

pantalone

celio              suo figlio

arlichino      suo servo

dottore

leandro        il bello

lucindo         il bravo

beatrice        dama di Pantalone

bagolino      suo servo

angela          dama di Celio

spinetta        sua serva

<sartore>

<calegher>

 

 

 

                                   ATTO PRIMO

 

 

                                   SCENA I

 

                                   Pantalone, Dottor.

 

            pantalone    Sior Dottor caro, veramente son tanto obligà al vostro bon affetto cognossùo da mi in tante occasion, che me par che me trarave in fuogo co se trattasse de farve servizio; ma tanto più me despiase aver con vu tante e tante obbligazion, quanto che mai ve degneressi comandarme qualcossa per farme anca mi tegnirme in bon d’averve qualche volta servìo.[1]

 

            dottor          Oh, ’l me çerimonios Pant’lon, l’obligh che mi a’ i’ ho con vu, a’ i’ so mi; ma la vostra cortesie mazorment a’ i fa augmentar quand con tanta galanterie m’intona espression così garbat: m’ despias che poss poch, ma quant i’ ho possud, poss e podrò, semper sarò al servizi del me amigazòn, el me car Pantalon.[2]

 

            pantalone    Oh, siéu tanto benedìo, questi xe amighi che adesso se ne trova puochi; ma credélo, sior Dottor, che anca mi conservo memoria de quanto reçevùo per farvene restituzion a tempo e liogo. Ma varé, vu mai me comandé gnente, e mi dagnora v’incomodo e son anca adesso per pregarve d’un servizietto; e’ me vergogno, no miga perché dubita che no me ’l fé, che son più che siguro che me ’l faré, ma me vergogno che sempre me tocca a mi far el sfazzào, ma xe causa el vostro affetto e la vostra gran cortesia, che me dà campo de ciorme tant’ardir.[3]

 

            dottor          Oh v’lio fors azardarv’ a far çerimoni co un dottor? A’ si’ ben mercant valent, industrios e rich.[4]

 

5          pantalone    (a parte) (Cazza, ti falli Dottor.)[5]

 

            dottor          Ma in cerimoni contentév, no si’ bon per mi.[6]

 

            pantalone    Za za, me cognosso; so che me cazzeressi in sacchetto de posta; no gh’ho sta prosonzion, no, sior Dottor.[7]

 

            dottor          Oh ben donca, d’sì su s’ciett cossa v’ fà bisogn; un consult per qualch vostr interess?[8]

 

            pantalone    Sior no, sior no.

 

10        dottor          Una stipulazion d’ instroment d’ compreda de stab’li?[9]

 

            pantalone    Ehibò, gnanca.[10]

 

            dottor          Informazion per comprar qualch mercanzie b’lognes?

 

            pantalone    Seh, bondì; laseme dir a mi, sior, che ve ’l digo delongo.[11]

 

            dottor          A’ d’sì donca, d’sì.

 

15        pantalone    El servizietto che desidero l’è, sior, che vorrìa che m’imprestessi çinqueçento duca...

 

            dottor          Ohimè, Pantalon, ohimè.

 

            pantalone    Coss’è, sior Dottor, coss’è?

 

            dottor          Dem licenza, Pantalon, che me vien su el mal che m’ travaia zornalment.[12]

 

            pantalone    Che mal èllo, sior? (a parte) (Ohimèi, cattivo augurio.)

 

20        dottor          Una doia int’un fianch, che m’ tormenta.[13]

 

            pantalone    Eh gnente no, saldi, xe passào, sior; no v’auguré mal per l’amor del Çielo, che pur troppo ’l vien; e’ no xe altro no. E cussì, come ve diseva, me farìa bisogno çinqueçen...[14]

 

            dottor          Che ora credìu che sia, Pantalon?

 

            pantalone    Sarà disisett’ore in çirca.

 

            dottor          Oh puv’ret mi; a’ i ho mettù orden d’esser in Palaz a disiset’ore, e son za; dem licenza, Pantalon, che l’è un negozi che m’ prem a fort.[15]

 

25        pantalone    Eh, no le xe gnancora, no, sior; v’ho ditto in çirca, ghe mancherà mez’ora bona. (a parte) (Ho inteso: el negozio ciappa cattiva piega.)[16]

 

            dottor          (a parte) (L’è un çert ton sto çinqueçent che no m’ pias tropp.)

 

            pantalone    Int’un momento se sbrighemo, sentì. Savé che i marcanti ora i ghe n’ha d’i contanti a burchi, ora i xe a sutto, segondo che batte l’occasion. El banco xe averto, doman xe ’l sesto, ho da pagar una letterina de çinquecento ducati, e si no ’l fago doman, savé in che imbarazzo che casco; la xe una mincionaria da gnente, ma pur co no i gh’è, sangue da un muro no ’l se puol cavar.[17]

 

            dottor          Çinquecent ducat i ha da esser?

 

            pantalone    Sior sì, çinquecento. Poderìa mi andar in tre quattro lioghi che i me li ha da dar, e anca de più, ma no vòi gnanca mostrar tanta premura; m’intendéu, sior Dottor? Vu mo, che me se’ amigo sviscerào, me contento e me fido che la sappié come la xe.[18]

 

30        dottor          (a parte) (L’ha d’aver dai alter, l’ha la bottega; cossa s’ puol far? Dargh’li, pazienza.)[19]

 

            pantalone    (a parte) (Ohimèi, fa niòlo; no me dir de no, varenta casa toa.)[20]

 

            dottor          Orsù, Pantalon, la nostr’amicizia vecchia m’obliga a no v’ dir de no, benché l’imprestar l’è un verb che mi a’ no ‘l so coniugar; e se foss alter che Pantalon, no gh’ darav nient, da ver Dottor.

 

            pantalone    So, sior Dottor, che la distinzion che fé della mia persona me xe de vantazo, ma intendo anca mi altrotanto d’esser pronto a servirve.[21]

 

            dottor          Ma quel ch’importa el servisi è d’ poch moment, b’sogna ch’anch’el me util sia poch, che mi no son om interessat, v’dì Pantalon.[22]

 

35        pantalone    Eh, ben, ben; quel che xe de rason e de giustizia, son qua, sior.

 

            dottor          Ghe ne volìu quaterçent e çinquanta?

 

            pantalone    Mo i vorria esser çinqueçento, lu.[23]

 

            dottor          Eben; far la scrittura d’ çinqueçent, e darven quaterçent e çinquanta; l’è un utilet d’una bagatella.[24]

 

            pantalone    (a parte) (Nana, che cara bagatela in çinqueçento, çinquanta de stronzaùra.)[25]

 

40        dottor          El faz perché m’ si’ amigh, v’dì, Pantalon, del rest no ‘i gh’è guadagn.

 

            pantalone    Eh no, caro sior Dottor, no me dé sto danno; l’è troppo, da amigo.

 

            dottor          Via, via, farò a mod voster, a’ v’ in darò quaterçent e sessanta.

 

            pantalone    L’è ancora troppo, si ve vòi ben.

 

            dottor          A’ no s’ pol mo minga far manch, v’dì, Pantalon.[26]

 

45        pantalone    Che vuol dir, cóstelo tanto a bottega? (a parte) (Eh n’importa; cior quel che vien.)[27]

 

            dottor          Che d’sìu, Pantalon?

 

            pantalone    Façiliterò quel che comandé, ma me racomando alla vostra descrizion.[28]

 

            dottor          Ben, ben, e una. Che moneta volìu?

 

            pantalone    Vorria tanti çechini mi, se i gh’avessi.

 

50        dottor          I ho, ma a quant?

 

            pantalone    A quel che i val: a disisette lire.

 

            dottor          I çechin ch’a’ ’i ho mi, a’ i val vinti lire l’un, se i ve pias se’ patron.

 

            pantalone    Òe, vinti lire l’un? Mo come? No no, ciorò tanti ducati.

 

            dottor          A’ v’ darò tanti ducat, ma i val sie lire e meza l’un.

 

55        pantalone    (a parte) (Oh poveretto mi; Dio varda che no ’l me fusse amigo!) Orsù ho inteso, l’ha puoca vogia de darmeli, mi gh’ho assae bisogno de ciorli; serrerò un occio e anca tutti do, za al scorlar delle stiore se toccheremo la zatta.[29]

 

            dottor          Volìu scudi veneziani a und’se lire? Voléu doble italiane a trentadù lire? Commandé Pantalon, l’è ’l so prezi ordenari, v’dì.

 

            pantalone    Orsù sentì, sior Dottor, andemo a cior i bezzi, e là sul fatto s’agiusteremo de tutto: che diséu?[30]

 

            dottor          A’ no v’ fagh manch un piz’nin, v’dì; andem dov volì, ma com v’ho dit.[31]

 

            pantalone    Andemo, andemo, che no ghe sarà che dir, no. (a parte) (Eh gonzo, el lazzo della necessitae me strenze; daresto, a gaglia a gaglia.)[32]

 

 

                                    SCENA II

 

                                    Angela e Spinetta, in casa.

 

            angela          Che dici, Spinetta, del nostro Celio? Non è un giovane garbato e al tempo d’oggi di pochi pari?

 

            spinetta        Sì, sì signora, credetemi che avete sotto un bon polacchetto; ma almeno è anche una bella figurina, che merita esser amata.[33]

 

            angela          Se vuoi che ti dica il vero, amo più la sua mano liberale che la sua faccia bella; e se la sua faccia mi par bella, in tanto mi par bella in quanto me la fa parer tale la liberalità della mano.

 

            spinetta        Che bella discrezione, è vero?

 

5          angela          Oh oh, veramente tu non hai altra mira che di sodisfarti delle fattezze de’ visi.

 

            spinetta        Eh dal più al meno; ma...

 

            angela          Guarda, guarda, che mi par che battino; sarà forsi lui.[34]

 

            spinetta        Guardo signora. Chi è? È lui, è lui, signora.

 

 

                                    SCENA III

 

                                    Celio, Arlichino, Angela e Spinetta.

 

            celio              Riverisco quell’adorabile bellezza, dolce tormento del mio cuore.

 

            angela          M’inchino a quel giocondo aspetto, unico refrigerio de’ miei ardori.

 

            arlichino      Madonna Spinetta, basa-la man ’la me mattarella.[35]

 

            spinetta        Bondì, bondì, el mio caro Arlichinetto.

 

5          celio              Sono forse stato indiscreto disturbatore de’ vostri divertimenti?

 

            angela          Qual divertimento posso godere, se questo non deriva dalla compagnia e dalla presenza di voi, che sete solo e causa di tristezza absente e motivo di consolazioni presente?

 

            celio              Ah, Celio beato, se l’espressioni della tua cara s’uniformano ai sentimenti del suo animo!

 

            angela          Angela fortunata, se il concambio affettuoso del tuo idolo pareggia l’intenso amore della tua lealtà!

 

            arlichino      E ti, madonna Spinetta, tègnet in cadrega da poz o col ciaf per terra ol to Arlichin, che se desfriz per amor to?[36]

 

10        spinetta        Oh, caro, se ti voglio bene? Vengo tanto fatta quando vedo quel tuo bel visettino.[37]

 

            arlichino      Dit po davira?[38]

 

            spinetta        E no altro, padre.[39]

 

            celio              È venuto, signora Angela, il sarto per la misura della sotana?

 

            angela          Che? Avete forse fatto qualche spesa?

 

15        celio              Ho fatto scielta di certo drappo, che spero vi riuscirà di sodisfazione.

 

            angela          Mi dispiace che v’abbiate preso quest’incomodo, che, credetemi, è superfluo.

 

            celio              Oh, quanto mi son noiose queste parole! Perché superfluo? Dunque non aggradite un segno della memoria che tengo di voi, mia vita?

 

            angela          Gradisco i contrasegni del vostro affetto da me sospirato, ma questo spender...

 

            celio              Che spender? Che spender? Mi meraviglio; queste sono minuzie, e se non mi volete far torto, desistete da questi vocaboli, che spenderei per voi il sangue e la vita, purché non mi manchi la bramata corrispondenza d’amore.

 

20        arlichino      Che spender? Che spender? Me maravéi, l’è una bagatella! (a parte) (Oh, che gonzo!)

 

            spinetta        (a parte) (Òe, signora padrona, mi rallegro, avete buscata la sotana, voi.)

 

            angela          (a parte) (Minchiona, voglio anche il mantò compagno.)[40]

 

            spinetta        (a parte) (Via, via, da brava.)

 

            arlichino      Coss’è là? Chi va là?

 

25        celio              Che c’è, Arlichino?

 

            arlichino      L’è la porta in strada che batte, signor.[41]

 

            spinetta        I batte? Adesso vado a véder.

 

            angela          Che color è questo drappo che dite, signor Celio?

 

            celio              Vederete la sotana fatta, che so vi piacerà; per ora non voglio dirvelo.

 

 

                                    SCENA IV

 

                                    Sartore e detti.

 

            spinetta        È il sartore, signora padrona.

 

            celio              Bene, bene, venga inanzi.

 

            arlichino      Che venga, che venga!

 

            sartore         Sior Celio, patron; servitor, sior clarissima.

 

5          celio              Buongiorno.

 

            angela          Mistro, vi saluto.[42]

 

            sartore         Basa-la man, patrona.

 

            arlichino      (a parte) (Èllo ’l boia sto mistro?)[43]

 

            sartore         Siben, per servirve.

 

10        arlichino      No, no, fradel, servì pur quella zentilorgana.[44]

 

            celio              Via, via, prendete misura della lunghezza, quel giovane.

 

            sartore         La servo, sior clarissimo.

                                   (prende la misura ad Angela) Con grazia patrona.

 

            angela          (a parte) (Un mantò compagno con le sue guarnizioni, vi basta l’animo con la vostra destrezza farmelo avere?)

 

            sartore         (a parte) (Èllo ladin?)[45]

 

15        angela          (a parte) (E come! Ma io non voglio parer desiderosa, sapete?)

 

            sartore         (a parte) (Ho inteso, lassé far a mi, siora, ma arricordeve po che anca mi son poveretto.)

 

            angela          (a parte) (Se vi basta l’animo un çechinetto è vostro.)

 

            sartore         (a parte) (Sì? Adesso.)

 

            celio              Bella Spinetta, che si fa?

 

20        spinetta        Tutta ai vostri comandi, signore.

 

            celio              Come mi vuol bene la tua patrona?

 

            spinetta        Poter de mi! Come vi vuol bene domandate? Io credo che se stasse un giorno senza vedervi, morirebbe da passione.

 

            arlichino      (a parte) (Da passion de no pelar.)[46]

 

            celio              Arricordati metter buone parole, sai Spinetta?

 

25        spinetta        Cancaro, è obligo mio; ma chi non vorrebbe bene a quel caro visetto?

 

            sartore         L’ho servida, sior clarissimo.

 

            celio              Bravo; quanti braccia ne vorrà?

 

            sartore         Ghe ne vorrà, sior, vintiquattro brazza.[47]

 

            celio              Cosa dite? In una sotana ventiquattro braccia?

 

30        sartore         Tra la sotana e ’l mantò, sior, no ghe vuol manco certo.

 

            angela          Eh, non occorre mantò, no.

 

            sartore         Oh, la vorrìa la sotana senza ’l mantò compagno, patrona? La me compatissa, daresto mi son qua a servirle come le comanda.

 

            celio              Orsù via, fate, fate anche ’l mantò.

 

            arlichino      (a parte) (E fate, fate, oh che gonzo!)

 

35        angela          Credetemi, Celio, che non importa; basta, basta la sotana.

 

            celio              E sempre avete da sprezzare i miei tributi? Andate, quel giovane, andate, fate tutto e pulito.

 

            sartore         Manderalla ’l fornimento a bottega, sior clarissimo?[48]

 

            arlichino      (a parte) (Anca ’l fornimento? El casca ’l gonzo, ’l casca.)

 

            celio              Che fornimento vi vuole?

 

40        angela          Eh, non importa no, lasciatela schietta.[49]

 

            celio              Oh quanto mi mortificate!

 

            sartore         Ghe vorrà merlo, alamari, franza, segondo la commanderà.[50]

 

            celio              Orsù, andate a mio nome al Diamante, e fatevi dare quant’occorre, che parlerò poi io con lui.[51]

 

            sartore         Volentiera, servitor sior clarissimo e la compagnia.

 

45        arlichino      (a parte) (L’è cascà, l’è cascà ’l polaco.)[52]

 

            celio              Buon viaggio.

 

 

                                    SCENA V

 

                                    Calegher e detti.[53]

 

            angela          Amatissimo Celio, e quando potrò in parte sodisfare a tante obligazioni che giornalmente mi accrescete?

 

            celio              Ah, cara! Un’occhiata benigna, un dolce sguardo, un sorriso gentile che mi compartite, merita assae maggiori gl’attestati della mia obligata corrispondenza.

 

            calegher      Basa-la man, sior clarissimo, sior Celio, patron.

 

            celio              Benvenuto.

 

5          spinetta        Come sete venuto dentro voi senza batter?

 

            calegher      El sartor andava via, mi ho trovà la porta averta; son vegnù drento alla prima mi, siora.

 

            celio              Avete avuto quella pelle ricamata?[54]

 

            calegher      Clarissimo sior sì, son stà in Ruga a torla come la m’ha commandà, e son qua per torghe la misura alla gentildonna per far el servizio de brocca.[55]

 

            celio              Via, via, sbrigatevi.

 

                                   (qui tol la misura ad Angela)

 

10        arlichino      (a parte) (Che la bucchia, che la bucchia!)[56]

 

            spinetta        Sior Celio, anche io tengo bisogno d’un paro di scarpe.

 

            celio              Sì volentieri Spinetta, manco male; ho messo a parte un cavezzetto per la tua persona giusto a proposito.[57]

 

            spinetta        Sì signor. Oh, siate benedetto, prego il Cielo vi concedi ogni contentezza.[58]

 

            celio              Eh, cara Spinetta, la tua patrona sola può farmi star allegro e contento.

 

15        arlichino      Ah, sior patron, tendì un poch alla vostra e lassene far le manàtole a nu.[59]

 

            celio              Sì, sì, non t’ingelosire, no.

 

            arlichino      Basta, cospetton!

 

            spinetta        Cape, sei bravo, Arlichino![60]

 

            arlichino      Cancar, el trema de paura dei fatti me’, ol patron!

 

20        calegher      Oh, l’è servida.

 

            celio              Anche a Spinetta un paro, via, presto.

 

            calegher      Anca alla rucola? son qua, sior, la servo delongo.[61]

 

                                    (qui tol la misura a Spinetta)

 

            arlichino      Fagh’le alla moda, sat’?[62]

 

            calegher      Sior sì, sior paron, colla ponta davanti, pulite e belle.[63]

 

25        arlichino      Basta, abbi giudizi.

 

            calegher      Anca questa è fatta; me commàndele altro?

 

            celio              No, no, buon viaggio.

 

            calegher      Servitor, sior clarissimo.

 

            celio              Orsù, Arlichino, andiamo anche noi, che se il vecchio va a bottega e non ci trova, sarà susurro.[64]

 

30        arlichino      Fin che ’l fa susurro pazienza, pur che no ’l me faghe dolor!

 

            angela          Partite dunque, o Celio?[65]

 

            celio              Sì, mia bella, ma in pegno di mia fede resta con essa voi il mio cuore.

 

            angela          L’accetto, e per sicurezza della mia lealtà vi consegno in concambio ’l mio spirito.

 

            celio              Oh, con quanto dolor sforzato parto!

 

35        angela          Oh, con quanta passion dubiosa resto!

 

            celio              Di che dubiosa; del mio affetto?

 

            angela          Apunto.

 

            celio              E diffidate dunque del mio amore?

 

            angela          No, no, ma l’occasioni...

 

40        celio              Tutte le sfugirò.

 

            angela          Gl’accidenti, i rincontri...

 

            celio              Nulla potranno in me.

 

            angela          A tanto v’obligate?

 

            celio              Sì, sì; ma pel concambio, chi m’affida?

 

45        angela          Angela a Celio fida.

 

            celio              Ahi, che in femina è troppo esser fedele!

 

            angela          Non v’è ragion in me di dubio.

 

            celio              È vero.

 

            angela          Dunque a che vi lagnate?

 

50        celio              Figlio è timor d’amore.

 

            angela          D’un amore imperfetto.

 

            celio              Dunque altri geni e servitù e bellezze?

 

            angela          Tutte le sfuggirò.

 

            celio              Promesse, offerte e doni?

 

55        angela          Nulla potranno in me.

 

            celio              Tanto mi promettete?

 

            angela          Sì, ma chi affida a me, se in voi mi fido?

 

            celio              Celio ad Angela fido.

 

            angela          Dunque con fedeltà.

 

60        celio              Dunque con lealtà.

 

            angela          Il mio cuor vi consacro.

 

            celio              Il mio affetto vi dono.

 

            angela          E al mio amante amato.

 

            celio              E alla mia amata amante.

 

65        angela,

            celio              Con reciproco amor sarò costante.

 

            angela          Inalterabile.

 

            celio              Insuperabile.

 

            angela          Sin che spirito avrò.

 

            celio              Sin che avrò vita.

 

70        angela          Sarò di voi mio caro.

 

            celio              Di voi mia cara viverò costante.

 

            angela,

            celio              Con reciproco amor amata amante.

 

            angela          Angela in Celio vive.

 

            celio              Celio in Angela spira.

 

75        angela          E tanto nel mio petto.

 

            celio              E tanto nel mio cuore.

 

            angela          L’alma sarà costante.

 

            celio,

            angela          Quanto sarò di voi amato amante.

 

            celio              Angela, parto.

 

80        angela          Celio, resto; e con voi viene il cuor mio.

 

            celio              Angela.

 

            angela          Celio.

 

            celio,            

            angela          Addio.

 

            arlichino      E tant ghe voliva a dir bondì?

 

 

                                    SCENA VI

 

                                    Pantalone.

 

                                    I çecchini a vinti lire, a sie e mezza. I ducati e i scudi a undese lire. Oh, che macca! El scritto de çinqueçento e ghe n’ho ‘bùo noma quattroçento e sessanta. Oh, che baza! Ah, pazienza! A bonconto i bezzi è vegnùi a méa; avanti che ‘l ghe ne veda un ciarabaldàn ho per pensier che l’abbia da lambicarse ’l çervello con tutta la so dottrina. Gh’ho qua una vintina de çechinetti, ’i fago passar traghetto delongo delongo; siben, i xe destinai int’un colpetto per quella cagna de quella Beatrice; quella per la qual gh’ho una fame che me ispirito, e sì ancora son a dezùn. N’importa; saldi, Pantalon; tien fermo in pugno el to cào e sii seguro, che finché ti averà el martello d’oro ti trarà zoso anca le porte de ferro. Ma si ancuodoman torno in secco, come saralla? Eh, gnente; darò vogàe de schena, catterò ben liogo da impiantar un’altra gazìa e anca un pèr, si sarà bisogno; za i fatti mii via della communitàe nissun li sa. Ah, vogio batter e véder si posso un puoco far una volta almanco le manàtole; me sento che s’cioppo, el figào m’arde, la spienza me bùlega, le buelle fa tombole, vegno, vegno! (batte)[66]

 

 

                                    SCENA VII

 

                                    Bagolin e Pantalone.

 

            bagolino      Chi è là? Chi batte? Oh, sior Pantalon, mio patron singolarissimo, ghe faz umilissima riverenza.

 

            pantalone    Eh, no te voleva ti, mi; via, via, za che ti è vegnùo, vie’ qua.

 

            bagolino      Son za, signor, tutt dispost a servirv.

 

            pantalone    Cape, ti è çerimonioso.

 

5          bagolino      Oh, manch mal, sior Pantalon, è ’l me obligh; el so merit domanda molt de più, ma le mie forze è debole.

 

            pantalone    Sì, sì, quel che ti vuol; manco zanze vorrave e un puoco de congiungimini, si se podesse, co i mi’ bezzi.[67]

 

            bagolino      De quel che poss si’ patron; desponì con ogni libertà, signor.

 

            pantalone    No ti m’intendi? Vorrave che déssimo fuogo al pezzo, e si ti non ti batti l’azzalin ho paura de no far gnente.[68]

 

            bagolino      V’intend ben mi, signor, e per mi son za lest e all’ordene, ma bisogna che mené ’l déo grosso, savì come la va.[69]

 

10        pantalone    Mo che? Sóngio tegnaìzzo? Me par mo anca de destaccarme dall’osso, caro sier Bagolin, digo mo, m’avé provào e savé si ogni volta che avé volesto parar avanti v’ho onto la rioda.[70]

 

            bagolino      E’ me maraveg sior Pantalon, no digh de mi, ma a ella, a ella.

 

            pantalone    A ella, a ella, è vero?

 

            bagolino      Çert, signor.

 

            pantalone    Ho inteso via, che cade? Ciolé, Sior, questo xe un çechinetto per vu a capara; ciaméla e fé pulito.

 

15        bagolino      L’è superfluo che v’incomodé, signor, ma quand volì così, no refudo le vostre grazie.

 

            pantalone    No, no, no me spué sul piatto, sier fio d’un miedego.[71]

 

 

                                    SCENA VIII

 

                                    Beatrice e detti.

 

            bagolino      Oh, de casa, siora patrona!

 

            beatrice        Chi è, Bagolino, che c’è?

 

            pantalone    Vélla qua la matta, che bulegàe de sangue che me sento![72]

 

            bagolino      (a parte) (L’ è qua ’l vecc, e cred che ’l vegna gobbo. Abbié giudizi.)[73]

 

5          beatrice        (a parte) (Sì, sì, lascia far a me.)

 

            pantalone    Siora Beatrice, mia patronazza, ve fazzo reverenza umilissima.

 

            beatrice        Oh signor Pantalone, è tempo, è vero, che vi degnate lasciarvi vedere. Sapete che son tre giorni che son priva della vista desiderata di voi, mio caro?

 

            pantalone    Care vìssere mie, abbiéme per compatìo, perché ha bisognesto che spedissa una marziliana per Pùgia, che no ho bù tempo gnanca da magnar. (a parte) (No gh’aveva monéa, per questo no son vegnùo.)[74]

 

            beatrice        Che la sia poi così; guardate bene che io son tutta vostra, non mi negate il concambio.

 

10        pantalone    Ohimèi, cossa diséu? Che Pantalon sbandonasse la siora Beatrice? Me straccherò prima de sbatter le palpiere, me stufferò de tirar el fiào, me augurerò la rogna, la tegna e la freve quartana, prima che vaga drio d’altra zovene.[75]

 

            beatrice        Compatitemi, sapete, perché chi ama teme.

 

            pantalone    Siora no, no temé, e acciò che credé daseno, ciolé siora, questa xe una borsa con vinti zechinatti ruspìi, e’ credo che i sia anca de paèla, godéli per amor mio con ciorve una scuffia o un parasù o quel che ve piase.[76]

 

            bagolino      (a parte) (Bona quella, bona!)

 

            beatrice        Veramente i contrasegni del vostro amore sono ormai così chiari che non v’ha più loco il dubio, e non posso se non promettervi leale corrispondenza.

 

15        pantalone    Questa xe quella che me fa andar a remengo e che m’ha debotto morto sbasìo; però alle curte per vegnir al quia, andemo in casa, e femo fuora robba![77]

 

            beatrice        Oh, adesso, caro signor Pantalone, è ora di pranso, non è tempo a proposito.

 

            pantalone    Vignerò a disnar anca mi con vu, via.

 

            beatrice        Non vi è robba da par vostro; quando volete venire sete patrone, ma venite con ordine, e mandate qualche cosa di rilievo.

 

            pantalone    Orsù, ho inteso, spettar, pazienza. Si no ve la posso sonar, ve la vogio almanco cantar.[78]

 

20        bagolino      Flema, sior Pantalon, nel rest no v’indubité.[79]

 

            pantalone    Sì, flema, sì.

 

                                               Oh, che basi in quel visetto

                                                che ghe vogio destirar;

                                                oh, che tombole in quel petto

                                               che sti lavri gh’ha da far.

                                                            Oh, che ecc.

                                                Oh, con che strette de cola

                                               che me vogio sbabazzar,

                                               quando che da solo a sola

                                                me la posso un dì serar.

                                                            Oh, che ecc.

 

                                   E debotto me trago a una man e lassa![80]

 

            beatrice        Orsù, signor Pantalone, datemi licenza e arricordatevi di lasciarvi vedere.

 

            pantalone    No stizzé sotto, varenta vu, che purtroppo ardo che bruso. Sentì, siora Beatrice, vegnì drìo disnar a bottega qua col vostro guardian, che v’ho parecciào un tagio de raso che no ’l ve despiaserà.[81]

 

            bagolino      Siorsì, vignerem, vignerem.

 

25        pantalone    Cape, se’ pontual, sior, a brazzar l’occasion![82]

 

            beatrice        Veniremo a ricever le vostre grazie, signor. Intanto li baccio la mano.

 

            bagolino      Siorìa, sior Pantalon.

 

            pantalone    Andé drento, andé; oh, co’ volentiera che ghe vegnirave anca mi; eh; non forsi bisogna far un scalin alla volta chi vuol andar in apòdene? Vogio andar a bottega, che no vorrave che quel baron de mio fio me fasse anca lu qualche bassetta.[83]

 

 

                                    SCENA IX

 

                                    Leandro, Lucindo, poi Beatrice e Bagolino.

 

            leandro        Veramente, sior Lucindo, la nostra sorte è rara e curiosa, mentre alle spalle di quel vecchio minchione, dotato voi della vostra bravura, io della mia stimata bellezza, raccogliamo quei frutti che il signor Pantalone ci va inestando e coltivando con la sua spesa.

 

            lucindo         Certo, signor Leandro, che io mi trovo tanto fedelmente corrisposto dalla signora Beatrice, benché privo affatto de’ beni di prospera fortuna, che io credo né infatti saprei che davantaggio bramare se fossi in stato anche riguardevole di ricchezza.

 

            leandro        E io di che posso lagnarmi? Vi dico il vero che mi trovo più tosto alle volte importunato dalle frequenti richieste e successivi rincontri.

 

            lucindo         In questo io non mi trovo mai stanco perché la robustezza della mia complessione non è meno valorosa ne’ campi di Marte che negl’agoni di Cupido.

 

5          Beatrice       Signor Leandro, signor Lucindo!

 

            leandro        Eccola apunto; riverisco la signora Beatrice mia cara.

 

            lucindo         M’inchino al merito della mia dea.

 

            bagolino      Servitor, patroni.

 

            leandro        Buongiorno amico.

 

10        lucindo         Bagolin, buondì.

 

            bagolino      (a parte) (Oh che arsure!)[84]

 

            beatrice        Sentite brevemente, devo andar alla bottega del nostro Pantalone a prender certa robba, siate in Piazza alle ventidue ore e lasciatevi vedere sotto le Procuratie Vecchie che anderemo un poco a spasso.[85]

 

            leandro        Sarò prontissimo a ricevere i vostri comandi.

 

            lucindo         Verrò infallibilmente a servirvi.

 

15        beatrice        Vi riverisco.

 

            bagolino      (a parte) (No gh’è altro, la va così.)[86]

 

            leandro        Umilissimo servitor.

 

            lucindo         Servo devoto.

 

            bagolino      Le salud anca mi, siori.

 

20        leandro        Voglimi bene, Bagolino

 

            lucindo         Buongiorno, buongiorno. Andiamo un poco, signor Leandro, a legger i foglietti; vediamo se v’è alcuna novità di guerra.[87]

 

            leandro        Sono a servirvi.

 

 

                                    SCENA X

 

                                    Celio che scrive conti e Arlichino in bottega.[88]

 

            celio              Via, signor Arlichino, il permettervi ogni divertimento vi fa scordare il vostro essere, è vero? Aggiustate, aggiustate quelle scanzie, scoppatele e fate quello bisogna, se vi piace.[89]

 

            arlichino      (a parte) (L’ha paura de commandarme, a’ ’l me dà del signor, a’ ’l dis se me pias; mi no che no me pias far fadiga!)

 

            celio              M’intendi? Fa il sordo. Olà, Arlichino, vuoi che mi levi?

 

            arlichino      Ciaméu, signor?

 

5          celio              Non senti, è vero? Còmmoda quella robba, netta quel banco, o buonanotte.

 

            arlichino      Cancar, no ’l me dis più signor; besogna levar su, che no la ghe saltasse la barila.[90]

 

            celio              Via, fa’ presto e pulito.

 

            arlichino      Signor sì, signor sì. (agiusta la robba, prende una scopetta e scovola cantando)

 

                                               Falalalalalela, quando giera putella

                                               i me diseva Anetta,

                                               ades che son grandetta

                                               tuti me vuol dir Ana.

                                               Tocca de pifaro e barba Nicolò.[91]

 

            celio              Oh, che strambaccio!

 

10        arlichino                  Falalalalalina, quando giera picenina

                                               che diseva la mattina

                                               cara la mia mama

                                               dai mustacci e la barba no.[92]

 

            celio              Cosa dici, cosa canti, animalaccio?

 

            arlichino      Signorsì, vagh nettand pulit i busi vodi![93]

 

 

                                    SCENA XI

 

                                    Angela e Spinetta in maschera e detti.

 

            celio              Signore mascare, commandano alcuna cosa?

 

            arlichino      Oh, mascarine, vegnì, vegnì, che qua se dà bona misura.[94]

                                   (le mascare alzano la portella, entrano in bottega)

 

            celio              Usano confidenza queste mascare.

 

            arlichino      Besogna che la sia robba de casa.[95]

 

                                   (Angela fa insolenze a Celio, e Spinetta ad Arlichino)

 

5          celio              Dico il vero, sono assai compite.

 

            arlichino      Gratté, gratté, che me pizza.[96]

 

            celio              Io per mia fe’ non le conosco.

 

            arlichino      Sia quel che se vol, benvegnude.

 

                                   (si cavano le morete)[97]

 

            celio              Oh, mia bella, voi sete? E fui così cieco che non rafigurai in due stelle effigiato il mio sole?

 

10        arlichino      Ve’, ve’, ti ti è, brutta lova?[98]

 

            celio              Presto, Arlichino, va’ a prendi quattro biscotti e porta un poco di quel proseco.[99]

 

            arlichino      Vagh delongo, a tombolón.[100]

 

            celio              Dove siete stata a diporto mia cara?

 

            angela          Siamo venute qui adirittura per riverirvi.

 

15        spinetta        Sì, in verità bona, signor Celio.

 

            celio              Eh, credo, credo: ma che grazie son queste?

 

            arlichino      Son za, signor. (porta biscotti, sopracoppa d’argento e proseco; mangiano e bevono)[101]

 

            celio              Compatite la confidenza, signore mascare, e aggradite il buon animo.

 

            spinetta        Cape, la va detta così daseno.

 

20        arlichino      Un prìndese voi far a sta cittàe

                                   alla moda che parla i veneziani,

                                   e per dar el so liogo ai più sorani

                                   prima in salute della nobiltàe.

                                   Dei çittadini doppo in sanitàe

                                   e po drìo dei marcanti e d’i artesani,

                                   che prego ’l Çiel ’i tegna vivi e sani

                                   con laorieri e negozi e grosse intràe.

                                   In sanitàe de vu che vuoghé ’l remo,

                                   e perché so che gh’avé bona piva,

                                   barcarioli v’invido, a nu, cantemo.

                                   Cantémoghe a Venezia un viva, viva,

                                   e criémoghe d’accordo quanti semo

                                   viva Venezia sì, Venezia viva! (beve)[102]

 

            tutti              Eviva, eviva!

 

 

                                    SCENA XII

 

                                    Pantalone comincia a parlar di dentro e detti.

 

            pantalone    Ma no so da galantuomo, mi; so che la partìa in libro maestro xe averta, no so mo come gh’abbié dào i bezzi, orsù, basta, parlerò con ello e sentirò cossa ’l sa dir. Sier Tofolo d’i Mezani, poppier del Finsi da Mantoa, m’ha da dar trenta lire per un çendao che l’ha ciolto a bottega; adesso ’l me dise che l’ha contà i bezzi a Celio mio fio; no so come la sia; lu xe un galantomenazzo çerto; oh, l’è intrigada la manestra![103]

 

                                   (Angela e Spinetta, uscite di bottega, partono)

 

            celio              Quando non vogliono restar servite, signore mascare, non so che dire, sono patrone.

 

            arlichino      Çert che ghe ’l dem per el costo.[104]

 

            pantalone    Coss’è qua? Mascare? Volevi gnente, siore mascarete? Cazza le me par gagiose![105]

 

5          celio              Volevano certo drappo, ma non si abbiamo potuto agiustare.

 

            arlichino      Eh, no gh’è ordene, le tira troppo bass.

 

            pantalone    Varé, siore mascare, el vantazo che gh’averé a bottega da mi, no ’l cattaré in altri lioghi, gnanca si l’anderé a çercando cola candeletta, no; in materia de pagamento, vedé siore, daresto po semo galantomeni anca nu.[106]

 

            celio              (a parte) (Sì certo, guardate là.)

 

            arlichino      (a parte) (Oh, che vecc lusurios!)

 

                                   (le mascare partono; Pantalone entra in bottega)

 

10        pantalone    No gh’è ordene, no, de cape longhe? Bon viazo. Coss’è sta bozza qua?[107]

 

            celio              Avevo sete, mi ho fatto portar da bere.

 

            pantalone    Coss’èlla la sottocoppa, quella? Varé che frasca, varé, e colla sottocoppa ti te fa portar da béver, di’, carissimo spuzzetta?[108]

 

            celio              Io non gliel’ho detto; l’ha portata lui.

 

            pantalone    Tanto çerimonioso se’ diventào, vu, sier mùtria negra, disé?[109]

 

15        arlichino      Signorsì, signorno, perché, signorsì...

 

            pantalone    Sì; t’hastu imbriagào, màmara d’Inghilterra? Coss’èllo quello? Èllo forsi proseco? Mo giusto proseco el xe. No ti savevi farte portar del vin negro, di’, carogna? Avévistu vogia de imbalsamarte ’l buel zentil?[110]

 

            celio              Caro signor padre, ne bevete voi, posso béverne anch’io.

 

            arlichino      (a parte) (Anca mi che ho le ciave.)

 

            pantalone    Varé chi se vuol metter con mi![111]

 

20        celio              Anche a me sa buono.

 

            pantalone    Orsù, manco ciàcole; e cava qui’ conti e fa’ quel che ti ha da far.[112]

 

            celio              Sono due ore che io scrivo e voi sempre a spasso.

 

            pantalone    A spasso, è vero, sier mandria? A tirar la caretta fin desso son stào, e si volé che ve renda conto dove e come, commandé, sior.[113]

 

            arlichino      (a parte) (Èl deventad un bò?)

 

25        celio              Non cerco davantaggio.

 

            pantalone    Te torna conto a tàser, sì. Sier Tòfolo d’i Mezani t’hallo dào bezzi a ti?[114]

 

            celio              Chi è questo Tòfolo d’i Mezani?

 

            pantalone    Quel barcariol che ha ciolto quel çendao.

 

            celio              Ah, signorsì, signorsì, m’ha dato trenta lire.

 

30        pantalone    E perché no xelli notài in maestro?

 

            celio              Sono in squarzo; a suo tempo li notterò anche in maestro. Faccio tutto io, non ho più che due mani.[115]

 

            arlichino      (a parte) (Oh, che vecc cuch, se ’l savess tutt!)[116]

 

            pantalone    Via, via, no me dé, che sarò bon.

 

 

                                    SCENA XIII

 

                                    Beatrice e Bagolino in maschera e detti.

 

            arlichino      Mascare, mascare, vegnì avanti.

 

            bagolino      Eeen een en! (tosse, e sputa)

 

            pantalone    (a parte) (Xèlla ella? La xe, la xe.)

                                   (le mascare vanno alla bottega, Celio si leva e va appresso Beatrice)

 

            celio              Signora maschera, che commanda?

 

5          pantalone    Va’ via de qua ti, lassa far a mi. (Pantalone spinge Celio e lui torna)

 

            celio              Eh, caro signor padre, voi sete vecchio, riposate, lasciate, che io servirò queste maschere.

 

            pantalone    Che caritàe pelosa! Va’ a tendi a scriver, m’hastu inteso gnancora?[117]

 

            celio              (a parte) (Arlichino, osserva un poco minutamente cossa li dice e cossa li dà.)

 

            arlichino      (a parte) (Lassé far a mi, signor.)

 

10        celio              (a parte) (Dubito che sia quella sua nefanda, è dessa al certo.)[118]

 

            pantalone    Òe, maschera Bagolin, sta’ all’erta, ma costori me tien lumào. Ah, Celio...[119]

 

            celio              Che volete? Che serva la maschera?

 

            pantalone    No, no; va’ desù, va’ a metti a so liogo quella robba che ancora da gieri la xe sottosora.[120]

 

            celio              Eh, adesso non è tempo.

 

15        pantalone    Sì, no xe tempo, e mi vogio che ’l sia, via delongo e delongo .

 

            celio              Vado. (a parte) (Ma saprò tutto.)

 

            pantalone    Arlichin, vaghe agiuta.[121]

 

            arlichino      Eh, no l’ha besogno de mi, no signor.

 

            pantalone    Anca ti ti vuol replicar? Hastu vogia che te mola una papina?[122]

 

20        arlichino      Vagh, vagh, no v’infurié.

 

                                   (Pantalone mostra un drappo a Beatrice)

 

            pantalone    Cossa diséu, vìssere mie, ve piàselo? Èllo bello?[123]

 

            beatrice        È bellissimo.

 

            celio              Ah, signor padre, dov’è quel drappo fondi bianco, andamento blò e sguardo a stricche?[124]

 

            pantalone    A mi ti me domandi? Che sòi mi, el sarà andào a dormir.

 

25        bagolino      Oh, che metta sotto, sior Pantalon?

 

            pantalone    Sì, sì, tien sconto pulito.[125]

 

            arlichino      Ah, sior patron, dov’è quel veludo tabinà in quattro lazzi?[126]

 

            pantalone    Oh, che spropositào! Cossa ciàrlistu de velùo tabinào? Vien zoso, vien qua, destriga là con sesto.[127]

 

                                   (Celio e Arlichino tornano, le mascare partono)

 

            celio              Hanno fatto spesa le mascare, signor padre?

 

30        pantalone    Sier no, no s’avemo acordào.

 

            arlichino      (a parte) (Sior Celi, vardé ’l mascarot che l’ha sotto ’l mort!)[128]

 

            celio              (a parte) (È vero per mia fe’; eh, già me ’l pensavo.)

 

            pantalone    Andé, andé, siore mascare, a un’altra buttada.[129]

 

            celio              Signor padre, cosa ha quella mascara là sotto?[130]

 

35        pantalone    Cossa che la gh’ha? Che sòi mi.

 

            celio              Non lo sapete, è vero? Se vi ho veduto io a darli una pezza di robba.

 

            pantalone    Ve ne mentì per el gargato, sier scartozzo; e po si gh’avesse dào, hastu da far qualcossa, gh’averàvio dào gnente del tòo?[131]

 

            celio              Dite almeno di sì alla prima.

 

            pantalone    Vogio dir quel che me par e piase, e tien la lengua drento dei denti, che sarà megio per ti, e te ’l digo daseno , vè.

 

40        celio              Eh, non sono più bambozzo da farmi paura col mo mo, no.[132]

 

            pantalone    Cusì ti me metti al ponto? No so’ omo da farte paura? (li salta adosso e li dà schiaffi e pugni) Mo ció donca, e nasa da che saór che le sa, e ció, e ció ancora.[133]

 

            celio              Fermatevi, sapete!

 

            arlichino      Eh, lassél star, che vergogna, ehibò.

 

            pantalone    E po ancora ció, e abbi l’angossa, e un’altra volta impara![134]

 

 

 

                                    ATTO SECONDO

 

 

                                    SCENA I

 

                                   Dottore.

 

                                    All’erta, Duttor; a’ ’i ho una gran paura che Pantalon m’abbia mess la vesta. A’ ’i ho comprad sie pezze de damasch a quater lire e meza ’l braz da un galantom che ’l m’ha ditt de venderle per commission del fiol de Pantalon per bisogn de far moneda. Mo com? Un marcant de quella sort ha sta premura d’ copar sta bagatella? Oh, la ved imbarbaiada: iacula quae praevidentur minus feriunt. Avrirò ben i occ per scansar el colp, che me par de véderlo a sguolar per aria. El m’ha dad la fede, la parola; el scritt l’ho mi, l’è vera, ma temo di febre, perché, al véder, el paronzin ha fenìo de toccar el pols al scudelot; starò all’ordene coll’informazion, al ghe vol giudizi per andar a covert da qualch scaravaz che podes grongar.[135]

 

 

                                    SCENA II

 

                                    Beatrice e Bagolino in maschera e detto; urtano Dottore e lo salutano col capo.

 

            dottore        Mascare, no i è logh da passar?

 

                                   (tornano a urtarlo)

 

                                   Ho intes, mozze che va çercand nolo.[136]

 

            beatrice        Signor Dottor bello, vi riverisco.

 

            dottore        Cancaraz, ades sì m’ tegn in bon; bas la man a vusiorìe.[137]

 

            beatrice        Avete alcun affare in questo punto?

 

5          dottore        A’ ’i n’ ho, e no ’i n’ ho, perché mo?

 

            beatrice        Perché se avesti comodo vi pregarei che mi menaste in un casoto.[138]

 

            dottore        L’ho indovinada alla prima. A’ ’l busogna che vada a far un servizi che m’ prem a fort, e po sarò in Piazza alla Çecca; lassev’ trovar là, che v’ servirò volentiera.[139]

 

            beatrice        Vado dunque avanti pian piano.

 

            dottore        La vada, la vada, a chi arriva prima aspetta la camarada.[140]

 

10        Beatrice       Benissimo: non mi burlate sapete.

 

            dottore        Oh, cancaraz! Guarda ’l Çiel; vagh e vegn in un batter d’uocc. (a parte) (E no te partir se no vegn, che te vol aver un bel solaz.)

 

            bagolino      Giazzo, giazzo; no gh’è da far ben, no; andem in casa.[141]

 

            beatrice        L’ho arrischiata, ma non ho incontrato bene; pazienza, a una meglio.

 

 

                                    SCENA III

 

                                    Pantalone, poi Beatrice e Bagolino.

 

            pantalone    So’ qua, spasimo, sbasisso e muoro co son lontan pì d’una quarta da ste porte, da ste muragie. Ah, cagnazza, ti me l’ha robbào sto cuor e per farme la restituzion ti me tien dagnora in anda e ti me fa licar le zatte co’ fa l’orseta. Ah, si te zonzo, si te zonzo, o casì o canò che vorrò refarme; son vegnùo che no la vogio lassar de pesto, vòi menarla stasera un puoco a tórzio in gondoletta; vòi véder si posso una volta sbrissar su un scorzo de melón e farla, quella tombola maligna! Xe tardoto, vogio ciamarla e metter l’ordene de far fuora robba. (batte)[142]

 

            bagolino      Sior Pantalon, mio patronazzo.

 

            pantalone    Dov’è la parona?

 

            bagolino      La vien, la vien, signor, véla qua.

 

5          beatrice        Riverisco il mio caro amato signor Pantalone.

 

            pantalone    Ve saludo, la mia siora bella Beatrice, vìssere, cuor, zogiello, anema de sto corpetto desconìo.[143]

 

            bagolino      Cancar, a’ ’l gh’è imbertonà![144]

 

            pantalone    Mo disé, cara vita mia, sempre notte sempre e mai vignerà dì, mai, mai? Mo crepo, s’cioppo, no posso pì star in stroppa.[145]

 

            beatrice        A bell’agio, a bell’agio signor Pantalone, sapete che voi solo sete l’unico scopo de’ miei amori.[146]

 

10        pantalone    Mo gh’averave giusto bisogno d’un puoco d’agio, perché debotto debotto vago in fastidio.

 

            bagolino      Sior Pantalon, prudenza, speranza e moneda, nel rest no v’indubité.

 

            pantalone    Eh, ho capìo; via, che cade? Orsù, sentì, siora Beatrice, sta sera vorrave che ve degnessi de vegnìr con mi a far colazion in gondola, anderemo un puoco a passar l’ore malinconiose; cossa diséu, siora? vigneréu?[147]

 

            beatrice        Venirò a servirvi più che volentieri.

 

            pantalone    Oh, ben, vignerò a levarve per canal, avì inteso?[148]

 

15        beatrice        Benissimo, starò attendendovi.

 

            pantalone    Sì, caretta, vago a metter all’ordene, che ’l scuro xe puoco al largo; ve saludo, savéu?[149]

 

            beatrice        Anch’io voi, signor Pantalone, e mi ritiro in casa a prepararmi.

 

            pantalone    Sì, cara, andé; quando vignerògio anca mi a tegnirve su la còa?[150]

 

            bagolino      Flema e moneda, sior Pantalon, e no v’ indubité.

 

20        pantalone    Cape, ti ghe va de vita alla monèa; pussibile che no t’ingosserò anca ti un zorno! Ah, l’è andada drento; vago via anca mi de vuoga battùa a tirarme in squero: oh, si questa fusse la notte dalle manàtole; oh, che grìzzoli, oh, che cattarìgole che me sento![151]

 

 

                                    SCENA IV

 

                                    Celio e Arlichino.

 

            celio              Che ti pare, Arlichino, di quel mio buon padre?

 

            arlichino      L’è vera ala fe’, signor.

 

            celio              Che cosa è vero?

 

            arlichino      Che ’l signor Pantalon l’è vostro pader.[152]

 

5          celio              Che ignorantaccio! Io ti dico del suo vivere e del strapazzarmi in quella maniera.

 

            arlichino      Ah, mo, çert, verament, l’è brutta.

 

            celio              Eh, non importa, goda pur lui, che so ben godere anch’io, sì.

 

            arlichino      M’inzegnerò anca mi.

 

            celio              A buon conto aspetto certi soldi di non so che damaschi che subito venuti volo dalla mia Angela; e senza non occorre andarvi.[153]

 

10        arlichino      Eh, so ben, sì, che gh’avì dad quelle pezze a quel cortesan vostro compare.[154]

 

            celio              Cossa vuoi che faccia? Voglio dei denari anch’io certo.

 

            arlichino      Eh, fé ben, fé ben, démene anch’a mi, del rest.

 

            celio              Orsù, andiamo in Ruga, che corre l’ordine di portarmi i soldi là a tre ore.[155]

 

            arlichino      Andem, andem, no perdemo temp.

 

 

                                    SCENA V

 

                                    Pantalone, Beatrice e Bagolino in gondola con sonatori, poi battello con due cortesani.[156]

 

            pantalone    Via, sonatori, paré via allegramente, sonéghela de vena. Che diséu siora Beatrice, ve piase ste armonie?[157]

 

            beatrice        Mi piacciono estremamente per essere contrasegni del vostro affetto verso la mia persona.

 

            pantalone    Mo se’ tutta galante e liberal in parole vu, ma le parole xe femene e i fatti xe mas’ci: fatti, fatti vorrave! anca mi fago fatti: vorrave che me respondessi del ziogo.[158]

 

            beatrice        Assicuratevi signor Pantalone che sarete in breve sodisfatto.

 

5          pantalone    Sarà sempre ora. Orsù, sonatori, soné la mia arieta, che ghe la vogio cantar.

 

                                               Quel bocchin e quelle tette

                                               quando poderòi basar?

                                               No me far pì far crosette,

                                               che no le posso più far.

                                                           Quel, ecc.

                                               Quella vita gagiosetta

                                               quando poderòi brazzar?

                                               No me dir più spetta, spetta,

                                               che no posso più spettar.

                                                           Quel, ecc.

 

                                   No che no posso più, che se dago ancora do bogi vago in aqua de viole.[159]

 

            beatrice        Oh, quanto mi alettate con questo vostro dolce canto; seguite vi prego.

 

            pantalone    M’avé da commandar e no da pregar, siora, no savéu che so’ vostro s’ciavo e vostro s’ciavazzo? E sì no me vergogno minga, vedé, che una femena sia parona assoluta de mi, che xe sta’ al mondo de qui’ puochi che m’ha tagiào l’aqua. E za che ve piaso a cantar, si no me dé però incenso, vogio cantarve quell’ottava de Ercole che per amor mena ’l fuso, che la dise: «Mirasi qui tra le meonie ancelle»; ma ve la vogio cantar int’el mio lenguazo, che l’altro zorno me son imbattùo a Rialto, sotto i porteghi della Drapparìa, dal Lovisa stampador e librèr, e go visto un libro che dise: El Goffreddo del Tasso cantà alla barcariola, e l’è tutto ’l Tasso cantào cusì, alla veneziana, che a dire ’l vero me dà in genio. Sonaori, seguiteme!

 

                                               Ercole qua gh’è fatto, quando amante

                                               el conta delle fiabe tra le serve

                                               quel che Pluton gh’ha fatto le reserve;

                                               adesso qua, e Cupido sta sgrignante;

                                               el mena ’l fuso e alla so Iole ’l serve;

                                               e questa per burlarlo in man la clava

                                               e del lion la pelle la portava.[160]

 

            beatrice        Veramente è una fatica bizarra e studiosa, e credo per essere così vaga darà nel genio a’ dilettanti.

 

            pantalone    No la puol esser noma bella e bona co la ve piase a vu!

 

                                   (vengono due cortesani vogando in battello)

 

10        cortesani     Òe![161]

 

            barcarolo    Tiente a stagando.[162]

 

            cortesano    A premando vorrave andar.[163]

 

            barcarolo    A stagando, hastu inteso?

 

            cortesano    Vara che umoreto, vè![164]

 

15        barcarolo    O umoreto o altro, volemo cusì.

 

            cortesano    E chi ve dasse sta pala int’el stomego, vorressi cusì?[165]

 

            barcarolo    Ve cazzarò sto ziron int’el babio, mi, sier paronzin dalle canole![166]

 

            cortesano    A chi, sier tocco d’aseno?

 

            barcarolo    Giusto a vu, sier mandolato grançìo.[167]

 

20        cortesano    A nu donca, suso![168]

 

                                   (qui si danno, Pantalone viene in prova con pugnal e targa)[169]

 

            pantalone    Via, pezzi de scartozzi gazarài! oh, poveretto mi! agiuto! (Pantalone cade in aqua)[170]

 

 

                                    SCENA VI

 

                                    Celio e Arlichino con pignatella, poi cortesani.[171]

 

            celio              Oh, questa mi dispiace! M’aveva promesso a fido a fido.

 

            arlichino      El vederem domattina, via.

 

            celio              E se non lo trovo, devo far senza?

 

            arlichino      El troverem, el troverem.

 

5          celio              Ah, pazienza; seguimi, seguimi Arlichino.

 

            arlichino      Andé pur là, che vegn.

 

                                   (Celio entra, escono cortesani che conoscono Arlichino)

 

            cortesano    Tien zó quella luse là.

 

                                   (Arlichino alza la pignatella per vederlo nel viso)

 

            arlichino      Sìu commandador de notte vu? (li getta la pignatella a terra)[172]

 

            cortesano    Ah, sier fio de çent’ongie, cusì ‘fronté i galantomeni?[173]

 

                                   (danno mano all’armi)

 

10        arlichino      Ah poveret mi, sior Celi, sior patron, i m’ha rott la pignatta![174]

 

                                   (Celio torna fuori col stilo in mano)[175]

 

            celio              Chi è quel temerario là?

 

            cortesano    (a parte) (Òe, sior Celio l’è? Bona, bona.)

 

            arlichino      I me l’ha rotta ala fe’, sti baroni.[176]

 

            cortesano    Sior Celio mio patronazzo, séu vu, sior?

 

15        celio              Oh, compare Tita.

 

            cortesano    Da quel servitoreto che ve son, che culù a istanzia vostra renasse sta notte.[177]

 

            celio              Eh, compatitelo, che è imprattico del paese; prendete, prendete, andate a bevere e fattemi un prìndese. (li dà un argento)

 

            cortesano    Volentiera sior, co la commanda cusì; la compatissa, salla, che se l’avessimo cognossùo per so omo, savemo ’l nostro debito.

 

            celio              Sono sicuro del vostro affetto.

 

20        cortesano    Servitor devotissimo.

 

            celio              Buon viaggio, buon viaggio.

 

            arlichino      Va’ via, ringrazia ’l Çiel che la te passa così per sta volta!

 

            celio              Eh, povero goffo.

 

            arlichino      Si no gh’eri vu, mi i coppava tutti, qui’ porçi.

 

25        celio              Sì, sì bravo; andiamo, andiamo.

 

 

                                    SCENA VII

 

                                    Pantalone, Beatrice e Bagolino.

 

            pantalone    Ancora me sento i grìzzoli; gramo mi si no saveva nuàr, manco mal.[178]

 

            beatrice        Io non so come sono restata viva quando vi ho veduto precipitar in aqua.

 

            bagolino      Mi son stad valent, che subit gh’ho dad agiut.[179]

 

            pantalone    No, no; veramente, chi vuol dir la veritàe, sier Bagolin s’ha portào ben, ghe son obligào della vita.

 

5          bagolino      Conoss el me obligh, sior Pantalon.

 

            pantalone    Ve n’amarzé, sier birba.[180]

 

            beatrice        Sia ringraziato il Cielo che l’avete portata fuori così bene.

 

            pantalone    Eh, no è stà gnente; me despiase noma che no semo stài allegramente come voleva, che i n’è vegnùi a romper le maroèle; ma sentì, siora Beatrice, vogio doppo disnar, si se’ contenta, che andemo a Muran in casin a marenda fuora d’i strepiti e d’i susurri.[181]

 

            beatrice        Sarò a servirvi dove commandate.

 

10        pantalone    Oh, a farme grazia siora, me maravegio, mi.

 

            beatrice        Sentite, signor Pantalone, se v’imbattete in qualche galantaria, vi prego mandarmela per ora di pranso, che vengono a disnar meco certe mie amiche.

 

            pantalone    Cape, lassé far a mi, siora: più ca volentiera; vederé ben si saverò far bella lettera. No mancherave altro noma che se disesse che chi dipende da Pantalon no fasse un disnar co sesto.[182]

 

            beatrice        Starò dunque attendendo i vostri favori e doppo pranso la vostra compagnia.

 

            pantalone    Sì, vìssere mie, andé là che ve servo de ponto in bianco, de vuoga battùa.[183]

 

15        bagolino      Sior Pantalon, basa-la man.

 

            pantalone    Bondì, sier Bagolin, arecòrdete metter bone parole, sa’? Ah, vago a dar un’occiada a bottega e po sguolo a cattarghe qualcossa de cossediè.[184]

 

 

                                    SCENA VIII

 

                                    Arlichino, poi Pantalone.

 

            arlichino      La casa se brusa; no èl po mèi che me scalda anca mi un pochettin? El patron vecc mattaz a tórzio; el zuenott matton a spass, e mi a baronand; la bottega ha su otto o des serradure de carta; mi no so se Pantalon a’ ’l sappia, mi me despias, ma co no i ghe pensa lori, manch vog pensarghe mi; vog lassar che la buccia fin che la va; e ghe pensa i astrologhi.[185]

 

            pantalone    Nana; son stào a dar un’occiada alla bottega e gh’ho visto suso una dozena de pìttime; in veritàe, che no vogio saverghene un fio d’una curarisi.[186]

 

            arlichino      Oh, l’è qua ’l vecc.

 

            pantalone    Ghe n’ho ancora un puochi, vogio che i sguola e presto e vaga come la sa andar. Òe Arlichin coss’è? Cossa fastu qua?[187]

 

5          arlichino      Vegniva apont çercandove per dirve che i ha bollà la bottega.

 

            pantalone    Eh, caro ti, no me contar desgrazie, se i’ l’ha bolada i’ la desbolarà. Camina, camina, vien con mi, che andaremo a spender per la putta.

 

            arlichino      Sì, è vera? Co l’è così, andem, andem.

 

            pantalone    Seh, mògia mògia, lassa che i se destriga lori.[188]

 

 

                                    SCENA IX

 

                                    Leandro e Lucindo

 

            leandro        Oh, che contentezza bizarra, oh, che spasso gustoso, vivere alle spalle del buon vecchio!

 

            lucindo         Io credo che pochi godano sorte così benigna e curiosa come noi.

 

            leandro        Manco male che ’l Cielo provede anche alle nostre miserie.

 

            lucindo         Sì; che per altro e voi con la vostra bellezza e io con la mia braura, siamo molto leggeri di borsa.

 

5          leandro        Vi confesso il vero: che una lira non credo averla al mio commando.

 

            lucindo         Io in questo non porto superbia, ma credetelo che ’l dico senza ambizione, non ne ho uno maledetto.[189]

 

            leandro        Orsù, a buon conto, andiamo a pranso, che per quanto ha detto Bagolino la spesa è fatta dal signor Pantalone col supposto che la signora Beatrice facci banchetto a certe sue amiche, avendolo la medema fatto appositamente per noi.[190]

 

            lucindo         Sì, sì, andiamo che l’ora è vicina.[191]

 

 

                                    SCENA X

 

                                    Pantalone, poi Bagolino, Beatrice e Leandro e Lucindo in parte.

 

            pantalone    Che la vaga; no gh’è altro, siben, che la vaga; za tanto fa pensarghe come no pensarghe. Ho mandào la spesa, che son siguro che le amighe della mia sviscerada anemetta sarà restàe in asso, perché ho fatto pulito e l’ho cazzada de cola. A st’ora credo che ’l disnar sarà anca paìo; l’ordene de Muran xe alestìo, no manca noma andarla a far fuora; vogio ciamarla, che qua in cào la fondamenta gh’è la gondola che n’aspetta. (batte)[192]

 

            bagolino      Chi è là? Oh, sior Pantalon, mio patron.

 

            pantalone    Bagolin bondì, via, vienla zoso?[193]

 

            bagolino      Sì, bondì, vegnir zoso! La xe che la va in letto giusto adesso, ella.

 

5          pantalone    Ohimèi, poveretto mi! Coss’è? Cossa galla? Se gh’ha mosso la mare? Se gh’ha voltà ’l buèllo? Cossa gh’è intravegnùo?[194]

 

            bagolino      Mi no so per verità, so che l’ha mal.

 

            pantalone    Mo vogio ben andar a véder cossa xe sta novitàe. (Pantalone vuole entrare e Bagolino lo tien respinto)

 

            bagolino      No, no, in verità sior Pantalon.

 

            pantalone    Varte bestia, làsseme andar.[195]

 

10        bagolino      Non occorr çert, signor; ghe faré più confusion che altro.

 

            pantalone    N’importa, vàrte, làsseme andar, lassa far a mi.

 

            bagolino      (a parte) (Oh, poveret mi, si gh’è colori de sora!)[196]

 

            beatrice        Son qui, signor Pantalone, son qui.

 

            pantalone    Vè, vè, vè; coss’è sta cronica?[197]

 

15        beatrice        (a parte) (Bagolino, va’ là, falli partire.)

 

            bagolino      (a parte) (Lassé far a mi.)

 

            pantalone    Coss’è stào, siora Beatrice?

 

                                   (escono intanto di casa di Beatrice pianamente Leandro e Lucindo e Bagolino li fa partire)

 

            beatrice        Vi dirò; la memoria che continuamente mi tormenta del strano accidente ieri sera occorsovi m’aveva così fattamente stretto il cuore che mi aveva levato il respiro; ma agiutatami col sovvenimento della vostra sicurtà mi s’è allegerito, anzi svanito il dolore, e se volete che andiamo in Muran eccomi pronta.

 

            pantalone    Gran caso, siora Bernardina! Donca per affetto mio, per el ben che me porté, ve giera vegnùo affanno al coresin?[198]

 

20        beatrice        Sì certo.

 

            pantalone    Oh, siéu çento e millanta volte benedìa. Mo che diséu de sto amor? No doveràvio andar in fuogo per ella, si fasse bisogno?

 

            bagolino      La v’ha sentì a tuffo, e ’l vostro odor l’ha guarida.[199]

 

            pantalone    Ma si mi l’ho varìa coll’odor, quando me variràlla mi col saòr?[200]

 

            bagolino      Non forsi, sior Pantalon, flemma e moneda.[201]

 

25        pantalone    L’è la veccia, questa. Oh via, deme la zatta, vita mia, e andemo de qua, che la gondola xe all’erta.[202]

 

            beatrice        Andiamo dove vi piace.

 

            pantalone    Dove che me piase? Oh cara, caretta e carazza e caronazza e caronazzazza!

 

            bagolino      (a parte) (Oh che vecc gonz matt!)

 

 

                                    SCENA XI

 

                                    Celio.

 

                                    Oh, che caro signor padre! Ho saputo che ieri sera è stato gettato in aqua; li succederà anche di pegio; io non so che farci; sta allegramente lui che è vecchio, meglio posso starvi io giovane e benché mi levi manizo de’ soldi so ingegnarmi; ma oggi o dimani dubito che si scuopra il nostro stato redutto al fine. Non so se sia vero che la bottega è bollata, così ho sentito a dire; non ne voglio saper niente. Ho avuto a conto delli damaschi ducati trenta, voglio andar a imascherarmi e con la mia amatissima Angela voglio andar al Ridutto a rischiar la sorte. Allegramente certo, con Angela infallibilmente, del resto non voglio travagliarmi niente niente. Mi dispiace che è assai che non son stato dalla mia cara, non vorrei dubitasse del mio affetto; ma le scarselle erano vuote, per questo non mi son lasciato vedere. Adesso che ho questi pochi, vado a volo a farmi maschera e direttivo a trovarla.[203]

 

 

                                    SCENA XII

 

                                    Angela e Spinetta.

 

            angela          Non te lo dissi, Spinetta, che Celio ha impiegato altrove il suo affetto?

 

            spinetta        Io ancora non lo credo.

 

            angela          Non hai sentito quello che mi ha detto Tonin?

 

            spinetta        So che quel giovinotto vi ha detto che Celio tende ad un’altra, ma può essere che lo dica per invidia e per entrar lui nella vostra grazia.

 

5          angela          E perché vorresti che non si lasciasse vedere?

 

            spinetta        Veramente io non saprei.

 

            angela          Orsù, la prima volta che viene voglio farli saltar la scala, già ho sentito da diversi mormorar anche delle sue fortune.[204]

 

            spinetta        No, signora patrona, adagio, fate a mio modo; lasciate pure che dicano che sia in miseria; se viene gobbo lasciate che venga, fateli accetto; quanto al suo amore ad altre, certificatevi meglio, e quando sete sicura fate pure quello che dite, che v’agiuterò anch’io.[205]

 

            angela          Così è meglio; andiamo; e sta anche tu ascoltando e osservando tutto, che voglio chiarirmi.

 

10        spinetta        Lasciate pur far a me, che saprò tutto fin in un et.[206]

 

 

                                    SCENA XIII

 

                                    Pantalone in casin, Improvisante con sonatori che canta, poi Leandro, Lucindo, Bagolino e Arlichino.[207]

 

            pantalone    Allegramente, siora Beatricetta; Bagolin, daghe da béver; Arlichin, dàmene anca a mi; sanità siorìa, eviva, eviva.

 

            improvisante  Za che la sorte vuol che so a Muran,

                                   ve vegno a saludar, sior Pantalon,

                                   che so che co la femena a pepiàn

                                   in quel casin ghe se’ in conversazion;

                                   ve reverisso e zuro da cristian

                                   che vu se’ ’l mio carissimo paron;

                                   siora Beatrice, v’aguro ogni ben,

                                   a vu e a quel caro sior che ve mantien.[208]

 

                                   (Pantalone vien alla finestra)

 

            pantalone    Òe compare, che grazie xe queste?

 

               improvisante   Servitor, sior Pantalon; compatì, sior.

 

5          pantalone    Cape, me dechiaro che ve son obligào. Bagolin, vaghe a portar da béver, presto.[209]

 

                                   (Bagolino vien fuori con bozza e gotto)[210]

 

            bagolino      Vagh, vagh de longh; son qua, bevé.

 

               improvisante   Ve saludo anca vu, sior Bagolin,

                                   che col gotto e la bozza vegnì via,

                                   un occio che ’l me cava si l’è un spin,

                                   patroni a tutti, sanità siorìa.[211]

 

            pantalone    Mo l’è ben gagioso; Bagolin, vien qua, ció fa’ presto, daghe sti             çinque ducati e che ’l vaga a bonviazo. (va dentro)[212]

 

               improvisante   Ve’ qua che ’l torna co altro che con vin,

                                   sìela pur quella zatta benedìa;

                                   dé qua, sior, v’amarzé; saludé ’l veccio;

                                   fradelli andemo, che ho tirà su ’l seccio.[213]

 

10        bagolino      Andé, andé, che in sta volta avé fatt una bona parada.[214]

 

            pantalone    Bagolin, dov’èstu? Via destrìghete.[215]

 

            bagolino      Vegn, vegn; son za. (entra)

 

            leandro        (a parte) (Questo è il casino per quanto Bagolino mi ha motivato.)[216]

 

            pantalone    Èllo andà via?

 

15        bagolino      L’è andà, l’è andà, sior.

 

            lucindo         (a parte) (Giusto per apunto sentite che parlano.)

 

            pantalone    (a parte) (Via, siora Beatrice, allegramente, feme un puoco un prìndese.)

 

            lucindo         (a parte) (Osservate, signor Leandro, a prenderci spasso con questo vecchio.)

 

            leandro        (a parte) (Sì, sì, fateli qualche burla.)

 

20        pantalone    Èllo cotto quel figào gnancora?[217]

 

            lucindo         Ti ti è cotto![218]

 

            pantalone    Olà! De chi è sta ose?[219]

 

            bagolino      Eh de fuora, de fuora, qualch baron.[220]

 

            pantalone    Avìu vogia, baronagia, che ve sguoda un bocal de pisso in cào?[221]

 

25        lucindo         Puoi beverlo tu quello, vecchio matto.[222]

 

            pantalone    Sì, altro ca baronagia. Vegnìu a tender rede, sier canapiolo? No faré gnente, varé.[223]

 

            leandro        Noi mangiaremo a tuo conto.

 

            pantalone    Òe, i è in qui’ puochi, ho inteso.[224]

 

            lucindo         È finita ancora la prima tavola?[225]

 

30        pantalone    Ah, scartozzi, destruzzeressi un piatto de lasagne?[226]

 

            lucindo         Più tosto dei macaroni par tuo.[227]

 

            pantalone    Magnéu de grasso? Ve trarò zó quattro osseti da rosegar.[228]

 

            leandro        Lecati pur tu le zatte, che noi mangiamo carne a panza piena.[229]

 

            pantalone    So, so che destué i pavéri alla moda.[230]

 

35        lucindo         Sì, quando il tuo naso non c’impedisse.[231]

 

            pantalone    Hàla fenisto sta musica, cannoni?[232]

 

            lucindo         Fai tante ciacole perché sei in casa, è vero, uomo da niente?

 

            pantalone    Veramente chi avesse paura de fumo de raffiòi.[233]

 

            leandro        Tanto che ti batteressimo via le piàtole.[234]

 

40        pantalone    Eh, casì che si fago vista d’averzer la porta, batté delongo ’l taccón.[235]

 

            lucindo         Non sei figlio d’un uomo onorato se non vieni fuori.

 

            pantalone    Se’ un fio de donna Betta e un fio d’una caldiera si no me spetté.[236]

 

            leandro        (a parte) (All’erta, signor Lucindo, che viene.)

 

            lucindo         (a parte) (Eh, lasciate far a me; voglio gettarlo in aqua, niente altro.)

                                   (escono Pantalone con spenton, Bagolino con arma e Arlichino con una stanga)[237]

 

45        pantalone    Son qua, siori tràpanalavezi, a nu; via de qua, via![238]

 

            lucindo         Alon, alon, vecchio porco.[239]

 

                                   (qui si danno e Pantalon va in aqua)

 

            pantalone    Bagolin, Arlichin, saldi; ohimèi agiuto, agiuto!

 

 

 

                                   ATTO TERZO

 

 

                                    SCENA I

 

                                    Dottore poi Celio.

 

            dottore        Ah, pover Duttor! Ah, che la vos commun non falla; ma chi av’rav stimad un marcant d’ quella sort che a’ l’era in tanta reputazion, che così in un moment a’ ’l rompess la fortàia? No s’ pol far alter; a’ ’l busogna aver pazienza a du vie; remediargh in quel che s’ pol. A bon cont ho sentenziat al scrit a leze, ho fatt tutt quel che fa bisogn, no gh’ manca alter che dar l’estrazion in bergamina in man ai sbir; aspett ancora fin che ’l ved si ’l me dass almanch la mità, nel rest subit subit vog tirarme in segura.[240]

 

            celio              Son andato in casa, Arlichino non c’è; non avevo volto, m’è bisognato andar a provedermi; ora vado a dirittura a mascherarmi per portarmi dalla mia cara amata, che sono ormai ansioso di vederla.[241]

 

            dottore        Vè za ’l fiol de quell’omo da ben.[242]

 

            celio              Oh, oh, il Dottore che ha sentenziato a legge lo scritto di mio padre; vada, vada a intrometter; mi vien da ridere.

 

5          dottore        Vog veder cossa ’l me sa dir. Sior Celio, mio patron, la reveriss; salla?[243]

 

            celio              Oh, signor Dottor eccellentissimo, mi perdoni che non l’avevo osservata, che per altro non averei mancato all’essecuzione dei miei doveri da me a pieno conosciuti.

 

            dottore        Cred l’averà d’i lunari in capite, né la m’ha fatt a ment per sto riguard; nel rest la so compitezza supplis ad ogn’ inavertenza involontaria.[244]

 

            celio              La cortesia del signor Dottor, mio riveritissimo patron, come è solita distribuir grazie, così ha per compatita la mia trascuratezza.

 

            dottore        La s’ covra, la s’ covra.[245]

 

10        celio              Oh signor Dottor, conosco i termini, la mia riverenza non me ’l permette.

 

            dottore        Eh la tegna, la tegna in testa ’l so capel.

 

            celio              Non commetterò certo questo errore.

 

            dottore        Volla che me ’l cava anca mi o volla metter su anca lié?[246]

 

            celio              In segno d’ubidienza esequirei i suoi voleri, ma...

 

15        dottore        (a parte) (Se i pagass così ben i so debiti come far ciàciari, sarav mèi per mi.)[247]

 

            celio              Ma mi dia licenza, che devo portarmi per certo affare alla Piazza.

 

            dottore        La senta, la senta in grazia, sior Celi, per un tantin, ma m’tì su ‘l capel.

 

            celio              Quando così commanda, eccola servita. Dica, signor Dottor, che vuole da me?

 

            dottore        Brevibus verbis, i me çinqueçento ducat, quando li averò?[248]

 

20        celio              Eh non parliamo di malenconie, caro signor Dottore; prendete, prendete una presa di tabacco.

 

            dottore        El tabach el me pias e ’l togh, ma che vegna stasera a casa?[249]

 

            celio              Che dite signor Dottore, è buono? Che bella grana, che buon odore, è vero?

 

            dottore        L’è bel e bon, ma dubit che al m’abbi da costar tropp car.

 

            celio              È vero da Bologna.[250]

 

25        dottore        L’odor l’è d’ gazìa cert.[251]

 

            celio              Oh, signor Dottor, li rassegno la mia servitù.

 

            dottore        Sior Celi, i me çinqueçento ducat, guardé ben che farò d’le resoluzion.[252]

 

            celio              Oh, caro signor Dottore, sentite, in grazia, non avete appresso di voi lo scritto sottoscritto di mano di mio padre?

 

            dottore        Çertissim, grazie al Ciel.

 

30        celio              Oh bene; se non averete i soldi, consolatevi, che almeno avete lo scritto che vi potrà valere ne’ vostri bisogni.[253]

 

            dottore        Ah, toch d’arsura giazzada; sì, è vira? Anca sonarm’la d’soravie? Vegn, zafaut, vegn.[254]

 

 

                                    SCENA II

 

                                    Pantalone, poi Beatrice e Bagolino.

 

            Pantalone    Item godo, e matti int’el cào chi sparagna per dir po item lasso. Ma sempre Chiribin vien a metterghe la cóa, che daresto o in gondola o a Muran forsi fava qualcossa; e dagnora me tocca ’l lotto a mi, varé. Ah, pazienza, son qua san, in ton e inamorào più che mai; le cosse veramente se va strenzendo; el Dottor ha levào la cartolina; ferma là sula bottega dagnora i cresse, e sì mo no vòi saverghene una patacca. Un sior mio amigo veccio, che bisogna che l’abbia qualche peccào da purgar, m’ha fidào trenta zechinetti; i xe qua, vòi ciamar la mia raìse e co ella al fianco vogio andar a Redutto a risegarli e tagiàr, vogio; chi sa che no faga tre fià sette? (batte)[255]

 

            beatrice        Chi è? Oh, signor Pantalone.

 

            pantalone    Anema mia, son qua, varé; senza de vu no gh’è remedio che possa star un colo.[256]

 

            bagolino      Servitor, sior Pantalon.

 

5          pantalone    Bagolin, bondì. Che diséu de qui paronzinetti de Muran?[257]

 

            bagolino      Eh, frasconi insolenti, ’i è da compatir.[258]

 

            pantalone    Son sbrizzào zó del ponte, saìu?, daresto i impirava un drìo l’altro co’ fa i beccafighi, da amigo.[259]

 

            beatrice        Eh, meglio così, che non vi è gran male.

 

            pantalone    L’è megio çerto, perché adesso sarave intrigào. Orsù, siora Beatrice, go qua trenta zecchini, vogio andarli a risegar al Redutto; e son vegnù a levarve acciò che vegnì con mi.[260]

 

10        beatrice        E se perdete poi?[261]

 

            pantalone    Eh, no perderò no, me sento mi che ancùo ho da vénzer.[262]

 

            beatrice        È meglio me li date, che li perderete.

 

            pantalone    Ve digo de no, no me fé cattivo augurio, andemo.

 

            bagolino      Via, via, andemo siora, cossa volìu far?

 

15        beatrice        Andemo; ma se perdete?

 

            pantalone    Eh, che no posso perder no, co vu me se’ a lài.[263]

 

 

                                    SCENA III

 

                                    Celio, Angela e Spinetta mascherati in Redutto; Quel dalle carte e poi Pantalone, Beatrice e Bagolino.[264]

 

            celio              Che vuol dire non vi sono giocatori? Bisogna che peranco sia a bonora, Carte.

 

            quel dalle

            carte             Cossa commàndela, siora maschera?

 

            celio              Siamo soli qui, è vero? Perché è così abbandonato questo vostro Ridutto?

 

            quel dalle

            carte             Eh, manca zente, siora maschera, la vaga in le camere che se laóra sì.[265]

 

5          celio              Andiamo dunque, mascare.

 

            pantalone    Coss’è? No gh’è nissun qua? Ho giusto caro che ciapperò ’l tolin. Carte![266]

 

            quel dalle

            carte             Chi è? Oh, sior Pantalon, mio patron.

 

            pantalone    A nu, porta i teleri.[267]

 

            quel dalle

            carte             Vèi qua, sior; almanco fussi vegnùo un puoco avanti, che xe andào in camera certe mascare.

 

10        pantalone    Eh, vignerà, vignerà; senteve qua, zògia, steme a lài e feme anemo.[268]

 

            beatrice        Ho tanto timor che perdete che mai più.

 

            pantalone    E mi me dà tanto ’l cuor de vadagnar che no poderessi creder.[269]

 

            beatrice        Prego ’l Cielo sia così; ma se perdete, certo che vogliamo gridare.

 

            pantalone    No, vita mia, che no crieremo no, e varé quanti ’i vadagno, tutti i xe vostri, e anca questi varé, tutti fina uno.[270]

 

15        celio              Taglia certa gente che non ho genio di metter, oh, pofar Bacco, maschera guardate, guardate signor padre che fa banco; andiamo, andiamo a metter sotto di lui.[271]

 

                                   (Celio e Angela mettono sotto Pantalone)

 

            pantalone    Maschere ve servo; çinque e quattro çinque, avé venzo mezo zechin, sior, e quattro anca vu, mascheretta.

 

                                   (tornano a mettere al secondo taglio)

 

                                   Òe, le mette ben la so segonda, ste maschere; çinque e quattro, tutti do al più. Quattro, avé venzo; quanti èlli siora? Tre e do, cinque e mezo, che da uno, che vuol dir çinque e un sie; e çinque, anca vu sior, avé venzo; èlli çinque anca i vostri?

 

                                   (Celio fa cenno col capo di sì)

 

                                   Ve diol el gargato, sior? Ve ’l credo, ma vòi véder el fatto mio; avé rason, sior; çinque e un sie anca a vu, sior, ciolé. E una dozena, saldi a sto resto.

 

                                    (tornano a mettere al terzo taglio)

 

                                   Çinque e quattro a quei là. Çinque; avé venzo; mo cospetto, mo debotto dirave de qualcossa; quanti èlli, sior? Tre e tre sie; pasienza; me despiase assae più darveli a vu sior che alla vostra compagnia.

 

                                   (Celio fa segno di far pace della posta)

 

                                   Coss’è maschera, va’ a pagài?

 

                                   (Celio fa cenno col capo di sì)

 

                                   Aìu paura de dir siben? La volé a vostro muodo, è vero? Avé rason. Va’, va’ a pagài, zò ’l lico, sàu maschera. E una e una do; l’è andada. Vèllo qua, corpo del diavolo, no me posso mo pì tegnir mi; debotto però, vedé, debotto. Avé venzo col çinque, avé venzo, sior; sie e sie dodese, ciolé sior, ma ve i dago co rabbia vedé; sior, hallo cattào sonica delongo? Pazienza, fin che posso: vardemo sto quattro; varé co lontan che ’l vedo; oh, fionazze de chi digo mi, le carte, vedé, siore maschere, le carte; quanti èi siora? Tre e tre sie; i ghe xe giusto a filo; ciolé siora; credo che gh’abbié fatto su ’l conto, mi.

 

                                   (Celio dà tutti i soldi venzi ad Angela in presenza di Pantalone e Beatrice)

 

                                   M’avé curào pulito, giusto a cico.

 

                                   (Celio, Angela e Spinetta partono)

 

                                   Bon viazo, maschere; si i xe puochi compatì, aççetté ’l buon anemo; a revéderse a una pì bella. Faghe de atto, che ’l tròtolo è andato. (gira la borsa attorno dicendo) Chi vuol sponze? No gh’è altro, no cade, che zògia. Ah, vogio andar via de qua; andemo, siora Beatrice?[272]

 

            beatrice        Eh, andate sulle forche![273]

 

            pantalone    Bon; sora marcào, è vero?[274]

 

            beatrice        Non ve l’ho detto che perderete?

 

20        pantalone    Cossa se puol mo farghe? I xe persi, gh’ho bù desdita, no se puol far altro.[275]

 

            beatrice        Avete veduto come quella maschera li ha dati tutti alla donna?

 

            pantalone    El gh’i ha dài seguro; cusì ’i gh’avéssio mi in scarsella; ma anca mi si vadagnava ve i dava tutti a vu; ho mo perso mi, e sì no gh’è pì remedio.[276]

 

            beatrice        Dovevate darmeli senza giocare, che ve l’ho detto tante volte.

 

            pantalone    Via, cara veccia, no me mortifiché devantazo, andemo via de qua.[277]

 

25        beatrice        Andatevi a far squartare, che con me non vi voglio.

 

            pantalone    Mo perché, cara fia, cussì me tratté?

 

            beatrice        Perché non vi voglio meco, intendete?

 

            pantalone    Mo no fé che la ve salta cusì presto, in cossa imbàttela sta musica, in trenta zechini? Ve ne porterò altri trenta ancuo, voléu altro?[278]

 

            beatrice        Non voglio niente, non voglio saper niente; andate a far i fatti vostri, che io anderò a fare i miei.

 

30        pantalone    Care vìssere, no me tormenté, che gh’ho pì affanno al cuor co me disé una paroletta per storto che si ghe n’avesse perso çento d’i çechini.

 

            bagolino      Via, cara siora patrona, quand el ve promette portarv’oggi i trenta zechini, no ve rabbié.

 

            beatrice        Anche tu li credi? Mi porterà un corno che lo marida.[279]

 

            bagolino      Eh, siora sì che ’l ve li porterà; è vero, sior Pantalon?

 

            pantalone    Ve ’i porto in veritàe delongo co v’ho compagnào a casa. Cospetto de mi, tanto puoco credito gh’ho appresso de vu? Savé pur quanti che per vu ghe n’ho speso e spanto.

 

35        Bagolino      Via, via, andem, andem, che ’l li porterà, sì.

 

            pantalone    Ve ’i porto in veritàe benedetta; via, no me fé la matta, démela, quella zattina.[280]

 

            beatrice        Orsù andiamo, ma se mi fallate guardate bene il fatto vostro; non vi dico altro.[281]

 

            pantalone    Oh cara; e’ no fallerò no, andemo.

 

 

                                    SCENA IV

 

                                    Baroni che giocano in Redutto e Arlichino.[282]

 

            arlichino      Coss’è za, se zoga, se zoga?

 

            barone          Qua se zioga alla bona bassetta; si volé metter, sior, monèa la vol esser.[283]

 

            arlichino      Çert che vòi metter. Va’ do soldi, aseno.

 

            barone          Coss’è sto aseno? Séu imbriago?

 

5          arlichino      Varda co’ ti parli, sa’...

 

            barone          Mi parlo ben, si mi vedé; ma vu parlé mal, che vegnì a dir aseno.

 

            arlichino      Mi ciam el pont e digh “aseno a do soldi”.[284]

 

            barone          (a parte) Ho inteso, l’è da Lodi costù.[285]

 

            arlichino      Via a nu, destrighémose.[286]

 

10        barone          Cavalli in ste carte ghe n’è quattro, ma aseni no ghe n’è altri ca vu.

 

            arlichino      Ah, sier carogna, abbié giudizi.[287]

 

            barone          Mo caro vu, la ghe va de sbalzo, bisogna molarla per forza.[288]

 

            arlichino      Via, via, caval donca a do soldi.

 

            barone          Grassi co’ fa’ ciodi; do soldi ’l mette co sto ruinazzo. (taglia) Cavallo; avé venzo sior, ciolé do soldi.[289]

 

15        arlichino      Falalalalalalela; caval a una lirazza.[290]

 

            barone          Bravo, metté ben la segonda, me piasé.[291]

 

            arlichino      Oh, me n’intend mi, che crédistu?

 

            barone          (a parte) (Bisogna sonarghela stavolta.) (taglia) Cavallo; avé perso.[292]

 

            arlichino      Come, come? No l’è vera.

 

20        barone          Vara, no l’è vera veh! A nu i bezzi.

 

            arlichino      Sier no, sier birba, ti m’ha gabbà.[293]

 

            barone          Coss’è sto birba? Coss’è sto gabbà? Aìu vogia che ve rompa ’l muso?[294]

 

            arlichino      A chi romper el muso, a chi?

 

            barone          Giusto a vu, si no me daré una lirazza che v’ho davagnào onoratamente.[295]

 

25        arlichino      No te vog dar nient e no ho paura nient.

 

            barone          No? A nu donca.

 

                                   (qui si danno)

 

 

                                    SCENA V

 

                                    Pantalone poi Dottore.

 

            pantalone    Oh poveretto mi! L’ho menada a casa, gh’ho promesso portarghe subito i trenta zechini, ma no so dove andar a trovar gnanca trenta lire. Çito, ghe xe no so chi, che forsi chi sa? L’anderò a risegar, si la va, la va , sinò, no so mo cossa farghe, mi, che l’abbia pazienza; la me n’ha deslubiào tanti che fa paura. Daresto deboto son dove che posso esser; bolli, intimazion, citazion, psì, bona notte a dozene i vien! Quell’avarazzo, po, de quel Dottor, nana; el me strenze tanto i panni adosso che, per Diana, l’è intrigada la manestra; e si daseno e dasenazzo che no ghe ne vòi saver, ala summa de gnente; che ghe pensa chi ha d’aver, che mi gh’ho bel e pensào.[296]

 

            dottore        Ah, i miei çinqueçent ducat!

 

            pantalone    Vèllo qua, vèllo qua ’l desperào.

 

            dottore        Possibil che i abbia da perder tutti?

 

5          pantalone    Eibò, do volte mezi; no, è megio aver da dar. Ciolé, mi ho da dar e stago alliegro; lu i ha da aver e varé, debotto ’l se va a picar.[297]

 

            dottore        L’è za, l’è za, oh, se ’l me li dasse, vog saludarlo.

 

            pantalone    Si no l’è un strigon, che ’l me ne fazza nasser.[298]

 

            dottore        Sior Pantalon, a’ v’ saludi.

 

            pantalone    Oh, sior Dottor caro, basa-la man a vostra signoria.[299]

 

10        dottore        Savì, Pantalon, con quanta cortesie mi v’ho imprestad çinqueçent ducat la prima volta che mi avì d’mandad.

 

            pantalone    È vero sior, è verissimo.

 

            dottore        E mi tant volt’ i’ ho da d’mandar a vu per la restituzion?

 

            pantalone    Caro vu, cossa voléu far? Abbié pazienza; notéi sul libro d’i scossi.[300]

 

            dottore        No ’i vol pazienza, i vol esser dinari.

 

15        pantalone    Bezzi mi no ghe n’ho, e si no volé aver pazienza, e vu lassé star.

 

            dottore        E mi ho da perder çinqueçent ducat?

 

            pantalone    Faressi ben imprestarmene altri çinqueçento, vu, e ve farìa la scrittura anca da sieçento.

 

            dottore        Ah, om’ ingrat, così se paga, è vira?

 

            pantalone    Vara ingrato vè, si no ghe n’ho?

 

20        dottore        Si no ghe n’avì, perché vegnir a imprestar?

 

            pantalone    Cazza, Dottor, se’ pampalugo! Perché vegnir a imprestar? Perché no                    ghe n’aveva![301]

 

            dottore        Pampalugh, è vira? Anca strapazzar?[302]

 

            pantalone    Caro vu, no me stornì; si no me ne volé dar d’i altri, almanco lasseme star.[303]

 

            dottore        Lassar star? Lassar star? A’ t’ vòi dar un lassastar.

 

25        pantalone    Varé che desgrazie; cossa me daràstu? Quel che ti ha tra i occi e la bocca?[304]

 

            dottore        Te farò cazzar in una preson, sat’?

 

            pantalone    Eh, no gh’ho paura, no.

 

            dottore        No? All’erta.

 

            pantalone    All’erta pur quanto te piase; za, sier usurarazzo, sier Iacodin maledetto, ve la querelarò, quella scrittura, al Piovego, sì, che la dise çinqueçento e si no è vero gnente.[305]

 

30        dottore        Ben, ben, va’ là, va’ là, ti averà da far co un gnoch![306]

 

            pantalone    O gnocco o altro, va’ via de qua che te darò una peàda, veh, dottor                         senza dottrina![307]

 

            dottore        A mi una pezzada? Adess al zafaut, al zafaut![308]

 

            pantalone    Sì, sì, va’ là, che starò qua a spettarte. Mi no gh’ho bezzi, daresto vorave querelar el scritto daseno; ah, pazienza. Pur che Beatrice me vogia ben no ghe ne vòi saver de gnente; vogio andar a véder si posso impiantar st’altra gazìa, daresto allegramente, e che la vaga![309]

 

 

                                    SCENA VI

 

                                    Celio, Arlichino, poi Beatrice; Angela in disparte, poi Spinetta.

 

            celio              Dunque sei andato a portar buona spesa a quella signora e poi sei andato a Muran a spasso con lei e con signor padre, ed è stato gettato in aqua, è vero?

 

            arlichino      Signorsì, e vu sìu stad a spass?

 

            celio              Sì, son stato dalla mia cara Angela, ma non so, non mi ha fatto quella ciera che era solita.[310]

 

            arlichino      L’averà sentid che sem’ al bass.[311]

 

5          celio              Se l’abbia sentito non so; so bene che siamo dove potemo essere, ma non so che fare; signor padre le vuol tutte senza pensare a niente. A dirti il vero non voglio travagliarmi niente niente.[312]

 

            arlichino      Oh, neanche mi, segura.

 

            beatrice        Signor Celio, vi riverisco.

 

            celio              Mia signora, che mi commanda?

 

            beatrice        Prego la vostra cortesia d’un favore che risulterà anche in vostro beneficio.

 

10        celio              In che vaglio, son qui pronto a servirla.

 

            angela          (a parte) (Non lo dissi io? V’è più che dubitare, e taci, indegno, che me la pagherai.)[313]

 

            beatrice        La grazia che desidero è che diciate al vostro signor padre che non venga in mia casa, perché io non lo voglio per niente, e se nemeno si approssimerà riceverà de’ disgusti che non li piaceranno.

 

            celio              Quando non m’impone d’avvantaggio, s’assicuri resterà servita.

 

            beatrice        Di tanto solo la prego e la riverisco.

 

15        celio              Vada felice. Arlichino, che dici?

 

            arlichino      No digh nient, mi, signor.

 

            celio              Eh, animalaccio, sempre sarai così goffo? Dico, cosa ti pare di quel che m’ha detto costei?

 

            arlichino      Mi par che l’ ha dit che no la ’l vol più.

 

            celio              Mah, e quant’oro li costa!

 

20        arlichino      E la vostra a vu, nient, è vira?

 

            celio              Sì, ma almeno mi vuol bene.

 

            arlichino      Le vol ben da quel che l’è.[314]

 

            spinetta        Signor Celio, buongiorno a vostra signoria; la patrona vi chiama, venite in casa che vi vuol parlare.

 

            celio              Spinettina cara; vengo, vengo.

 

25        arlichino      E mi Spinetta, qua de fora?

 

            spinetta        No, no, vieni, vieni anche tu, cape!

 

            arlichino      Sì, è vira? Ah, caretta, carina.

 

 

                                    SCENA VII

 

                                    Dottore poi Pantalone.

 

            dottore        Noté sul liber d’i scossi? Démen d’i alter? Dottor pampalugh? No mi stornì? Dem del nas? Una pezzada? E no ’l gh’anderà al cald? Sì che ’l gh’anderà, sì. A bon cont i zaff i è là da dré, starò za spettandol e si ’l ghe capita, gh’insegnarò ben a parlar.[315]

 

            pantalone    Madé, no gh’è ordene, l’è andada sbusa; e sì xe un pezzo che l’ho menada a casa.[316]

 

            dottore        Non pagar, non pregar e strapazzar?

 

            pantalone    Cazza, son intrigào, e sì no so pì dove dar la testa, daseno.

 

5          dottore        Dopp fatt el servizi? A un dottor?

 

            pantalone    La me’ gi’ esser spettar, imagineve, e si gh’ho mo vogia da andarghe che crepo, mi no ghe n’ho uno, cossa vuol dir uno.[317]

 

            dottore        L’è za, l’è za, corp de mi! (sùbia)[318]

 

            pantalone    Chi sùbia là? Ah, ladro, ah spion, no ti farà gnente, vè. (fugge da Beatrice)

 

            dottore        Tireghe ’l col, tireghe ’l; ma t’ farò la sguàita che te ghe cascheré, sì.[319]

 

 

                                    SCENA VIII

 

                                   Celio in braghessine, Arlichino in camisa bastonati da Angela e Spinetta; poi Pantalone similmente bastonato da Beatrice, poi preso da zaffi.[320]

 

            angela          Tocco d’indegno, sa’, impara a trattar!

 

            spinetta        To’, to’, to’, e to’, e torna un’altra volta!

 

            celio              Così mi tratta...

 

            angela          Taci briccone, infame, e porta a casa!

 

5          arlichino      Ohimè, ohimè, ohimè.

 

            spinetta        Taci zó, furbazzo, baron e scuffa![321]

 

                                   (Angela e Spinetta vanno in casa; esce da Beatrice Pantalon in braghesse)

 

            beatrice        Non te l’ho detto? Non te l’ho detto?

 

            pantalone    Ohimèi, ohimèi, pietàe, agiuto!

 

            beatrice        Serra quella bocca vecchio porco, e to’ suso!

 

                                   (Beatrice va in casa)

 

10        celio              Misero Celio!

 

            pantalone    Gramo Pantalon!

 

            arlichino      Povero Arlichin!

 

            celio              In che miserie sei caduto?

 

            pantalone    In che stato xéstu vegnùo?

 

15        arlichino      In che termine es’ redotto?

 

            celio              Ah, donne perverse!

 

            pantalone    Ah, femene malegnazze!

 

            arlichino      Ah, scrovazze desfamàe![322]

 

            celio              È questo il contracambio del mio affetto?

 

20        pantalone    Xe questo el ben pagào a peso d’oro?

 

            arlichino      Èl quest el fin delle careze mie?

 

            celio              Folle chi in voi si fida!

 

            pantalone    Gramazzo chi ve crede!

 

            arlichino      Mincion e pampalugh chi casca in rede![323]

 

25        celio              Per affetto e regali.

 

            pantalone    Per amor e spesazze.[324]

 

            arlichino      Per el me sangue spanto.[325]

 

            celio              Così mortificar un innocente?

 

            pantalone    Cusì pestar un povero veccietto?

 

30        arlichino      Così scazzarme dalla casa e ’l letto?

 

            celio              Signor padre?

 

            pantalone    Missier fio?

 

            arlichino      Siori paroni?

 

            celio              Avrete terminati i vostri spassi.

 

35        pantalone    Ti sarà pur col to batello in secco.

 

            arlichino      Averem tutti finì de guarse ’l becco.[326]

 

            celio              E per colpa di che?

 

            pantalone    E per causa de chi?

 

            arlichino      E mi perché così?

 

40        celio              Per aver troppo amato e troppo speso.

 

            pantalone    Perché so’ andào dagnora cola gobba.[327]

 

            arlichino      Perché son tropp andà dré quella robba.[328]

 

            celio              Mi pentisco, ma tardi.

 

            pantalone    Serro la cheba, ma è scampào l’osello.[329]

 

45        arlichino      Mai pì, mai pì al bordello.[330]

 

            celio              Ah, traditrice infame!

 

            pantalone    Ah, sassina cagnaza!

 

            arlichino      Ah, che te digh el ver, ah puttanazza![331]

 

            celio              Vedrò le mie vendette.

 

50        pantalone    Vignerà anca la toa.

 

            arlichino      Ti pagherà le pacche della scóa.

 

            celio              Sì, ti vedrò in ruina.

 

            pantalone    Sì, ti anderà a pepiàn in Carampana.

 

            arlichino      Sì, ti deventerà una marziliana.[332]

 

55        celio              Intanto io pur patisco.

 

            pantalone    A bon conto mi scusso.

 

            arlichino      In sto de mez, mi sol ho ’l mal del flusso.[333]

 

            celio              Ah, perverso destin!

 

            pantalone    Ah, fortuna sassina!

 

60        arlichino      Ah, sorte malandrina![334]

 

                                   (escono i Zaffi, prendono e menano via Pantalone; Celio e Arlichino fuggono)

 

            pantalone    Ohimèi, agiuto! Celio, Arlichin! Oh, poveretto mi!

 

 

                                    SCENA IX

 

                                    Leandro, Lucindo, poi Beatrice e Bagolino.

 

            leandro        Avete veduto, signor Lucindo?

 

            lucindo         Ho veduto e a dirvi il vero ero in stato di liberarlo povero vecchio, che l’avrei ben fatto fuggire; ma già non ha più dinari; non fa più per noi.

 

            leandro        Non so come sentirà questa nuova la signora Beatrice.

 

            lucindo         Oh, sète pur buono! Sapete quando li spiacerebbe? Quando fosse il signor Pantalone nel stato felice che era una volta; ma ora che era ridotto in miseria, cosa volevate che facesse di lui?

 

5          leandro        Eccola a punto.

 

            beatrice        Signor Lucindo, signor Leandro, che si fa?

 

            lucindo         Siamo qui ambi dedicati al suo servizio. Ha saputo che il signor Pantalone è andato a star via di casa?

 

            beatrice        Dove è andato a stare?

 

            bagolino      In preson i l’averà cazzad.

 

10        leandro        Bagolino l’ha indovinata alla prima.

 

            bagolino      Me l’ho pensada, mi; poveraz!

 

            beatrice        Sia ringraziato il Cielo che averà finito di rompermi la testa.

 

            lucindo         Sentite, signor Leandro, come li spiace?

 

            leandro        Avete ragion voi.

 

15        beatrice        Orsù, andiamo in casa che voglio che stiamo un poco allegramente.

 

            bagolino      Entré, entré, signori.

 

            lucindo         Andiamo, signor Leandro, senza cerimonie.

 

 

                                    SCENA X

 

                                    Pantalone in preson.[335]

 

                                    Mo ghe son mi, cossa se puol far? Pazienza, oramai se m’ha fatto nìi per le cusiùre che i fa la bella vogia. Manco mal che gh’ho compagnia; gh’è qua un sior carissimo che andava col capotto de velùo; me consolo almanco, che si ’l ghe xe ello, megio posso esserghe mi. Coss’è, sior? Allegramente, za, tanto fa, vedé, consoléssimo, che almanco no i vegnerà a batter per el fitto; no ne vignerà ladri a trar zó le serraùre, e no patiremo de freddo, siben che xe giazzo; sì, sì, allegramente, caro vu, no me cressé la malinconia. Feve imprestar el violin dal guardian, varenta vu, e soneme, che vogio cantar una canzon alla moda; cossa voléu che faga, che daga la testa in sti ferri? Vara no, vè; soné, soné.

 

                                               Za che son in colombera,

                                                mi ve vogio cantar,

                                               ve prego volentiera,

                                               siori, stela ascoltar:

                                               sta niova canzonetta                            5

                                               sull’agiare del flon.

                                                           Flon flon marié vu belle,

                                                           flon flon marié vui don.

                                               La xe sora de quelli,

                                               che quando bezzi i gh’ha,                    10

                                               i vuol tutti i bordelli

                                               con prodigalità;

                                               e senza guardar gnente

                                               i butta via a orbón.

                                                           Flon, ecc.

                                               Che che non è, vien l’ora                     15

                                               che se scoverze ’l mal;

                                               co se scorla la stiora,

                                               no gh’ è pì cavedal;

                                               no scorre pì le riode

                                               si no ghe dé l’onzión.                          20

                                                           Flon, ecc.

                                               Questi è i carissimetti,

                                               che spende e porta zó,

                                               e scùffie coi cornetti,

                                               e còttoli e mantò,

                                               e parasù e galani,                                 25

                                               e bezzi a tombolón.

                                                           Flon, ecc.

                                               Questi xe i zuenotti,

                                               che con inzegno fin

                                               i dà i so scopelotti

                                               al gramo scuelottìn;                             30

                                               e quelle moneòle

                                               i ciappa su a palpón.

                                                           Flon, ecc.

                                                Questi xe i pizzegài

                                               da quel baron d’Amor,

                                               che zó per ogni lài                               35

                                               i spande ’l so suór

                                               de sangue e bezzi e robba

                                               per qualche bon boccón.

                                                           Flon, ecc.

                                               Questi xe che in malora

                                               senza d’altro pensar                             40

                                               i se la vuol far fuora

                                               dagnora col ziogar,

                                               con bestemmie, con rabbia,

                                               con dogia e con passión.

                                                           Flon, ecc.

                                               Questi xe qui’ mincioni,                      45

                                               quei pàmpani da ben,

                                               che a çerti compagnoni

                                               taccài sempre i se tien,

                                               che i fa magnarse ’l soo

                                               per boria e ambizión.                          50

                                                           Flon, ecc.

                                               Ma più de tutti quanti

                                               xe pessimo mestier

                                               quello di grami amanti

                                               che fuora de dover

                                               i para zó ogni tanto                             55

                                               pilole a strangolón.

                                                           Flon, ecc.

                                               Quelli che se destruze

                                               el corpo e ’l cavedal,

                                               che ’l ben sempre ghe fuze

                                               e ghe succiede ’l mal;                           60

                                               mal in borsa, int’i nervi,

                                               int’i ossi, int’el polmón.

                                                           Flon, ecc.

                                               E forsi che culìa,

                                               che tanto ’i fa penar,

                                               ancora da drìo via                               65

                                               la i gi’ esser minchionar

                                               con far le scondariole,

                                               e ciassi col bertón.

                                                           Flon, ecc.

                                               Ma si zó da cavallo

                                               cattiva sorte i trà,                                 70

                                               se mùa delongo ’l ballo,

                                               desù più no se va;

                                               e si sarà bisogno

                                               la ciappa sul bastón.

                                                           Flon, ecc.

                                               Si so quel che ve digo                          75

                                               domandémelo a mi,

                                               che subito da amigo

                                               mi ve dirò de sì;

                                               siben che ste carogne

                                               le xe de sta rasón.                                80

                                                           Flon, ecc.

                                               Grami chi trà via ’l soo,

                                               chi no lo sa tegnir,

                                               grami chi mette a còo

                                               da femene con dir:

                                               ció, ció, le mie raìse                             85

                                               ció, tutto de ti son.

                                                           Flon, ecc.

                                               Grami chi se confida

                                               con dir; eh, che ghe n’è,

                                               che i spera pur che i rida,

                                               che presto i vederé,                             90

                                               redutti in tal miseria

                                               che i farà compassión.

                                                           Flon, ecc.

                                               Fradèi per vostro megio

                                               el vostro tegnì a man,

                                               ciappeve al mio consegio:                    95

                                               in spender andé a pian;

                                               le prattiche e le donne,

                                               né ’l ziogo no xe bon.

                                                           Flon, ecc.

                                               Mi ve la conto giusta,

                                               quando che bezzi avé,                         100

                                               nissun no ve desgusta,

                                               a tutti cari se’;

                                               ma si la rioda zira

                                               i ve trà int’un cantón.

                                                           Flon, ecc.

                                               E qua no gh’è defese                           105

                                               da farve dubitar;

                                               imparéla a mie spese,

                                               che l’è un bell’imparar;

                                               perché no ho ‘bùo giudizio

                                               son qua int’una presón.                       110

                                                           Flon, ecc.

                                               Fenisso de stuffarve,

                                               no vago avanti più;

                                               fradèi de regolarve

                                               el tempo gh’avé vu;

                                               cusì ’l gh’avesse ancora                        115

                                               el gramo Pantalon.

                                                           Flon, ecc.

                                               Daresto compatime,

                                               si no ve piase ’l stil,

                                               si ste mie grame rime

                                               no xe tanto zentil;                               120

                                               almanco abbiéle a care

                                               per l’agiare de flon.

                                                           Flon, ecc.

 

                                   Siersì, e la xe cusì, varé, collega, sì, in veritàe bona; deghe, deghe indrìo ’l so violin, che no ’l volesse che la ne costasse salada; che ghe paghéssimo ’l frùo, che son pur troppo in secco.[336]

 

 

                                   SCENA XI

 

                                    Celio mal vestito e detto.

 

            celio              Ah, sorte infida! Ah, rio destino! Ma dirò meglio; ah, Celio inavertente!

 

            pantalone    Òe, chi è culù la? Qualche conzalavezi?[337]

 

            celio              Ma, e come viverò? Oh, me infelice!

 

            pantalone    All’ose ’l me par Celio.[338]

 

5          celio              Non ho soldi, non ho robba, come farò?

 

            pantalone    Giusto lu l’è, gramazzo, ’l me fa peccào.[339]

 

            celio              È qui la prigione; eccovi, eccovi mio padre; poveraccio mi commuove le lacrime.

 

            pantalone    Mo l’è ben sbrìndoli, sbrìndoli per campagna.[340]

 

            celio              Imaginatevi in che miserie deve essere, voglio salutarlo. Signor padre.

 

10        pantalone    Òe, bella creatura, séu in corte de qualche strazzeferut?[341]

 

            celio              Avete il morbino, è vero, benché sete in prigione?[342]

 

            pantalone    Caro ti, stago megio qua che in palùo.[343]

 

            celio              Cosa mangiate? Come vivete? Io non so.

 

            pantalone    Mi magno d’i gardellini in pastizzo, mi.[344]

 

15        celio              Ma a che stato sete ridotto per cagione del vostro sregolato vivere!

 

            pantalone    Òe, dimelo che no te ’l diga veh, ciappa ’l tratto avanti.[345]

 

            celio              Vi son anch’io certo; ma voi m’avete dato il buon esempio.

 

            pantalone    Ti, sier carogna, co ti me vedevi mi andar a orza ti dovevi tegnir dretto ’l timon; no sastu che un matto per casa basta?[346]

 

            celio              Bene, bene, a buon conto io non so che mangiare, né dove dormire.

 

20        pantalone    Va’ a far el zaffo.

 

            celio              Son in stato d’andarmi a vender in gallìa.[347]

 

            pantalone    No i te vorrà no, che ti ha ’l petto intrégo.[348]

 

            celio              Voglio andar in qualche magazeno a veder se potessi bruscar un pezzo di pane, che ho una fame che m’ispirito.[349]

 

            pantalone    Sì, sì, vate a inzegnar; ti è grandotto e mal all’ordene, deresto te manderave al penacchio de mezo.[350]

 

25        celio              Ah, signor padre, vi riverisco; state allegramente.

 

            pantalone    Staghe pur ti, che mi ho fatto ’l callo.[351]

 

            celio              Prego ’l Cielo ci agiuti; buongiorno a vostra signoria.

 

            pantalone    Bondì, bondì. Oh, mondo! Oh, mondo, fatto a tondo. Ve digo ’l vero che ’l me màsena ’l coresin![352]

 

 

                                    SCENA XII

 

                                    Arlichino vestito da cercantino, Diana, putto, e detto.[353]

 

            arlichino      Oh, Arlichino, dov’è ’l tant bon temp, tanti comodi, tant formai, tanti marangoni? Ma pazienza mi, che giera po servitor, ma i me patroni? Ah, fortuna desfortuna. Son vegnud a trovar el me paron vecc, a véder se ’l vol qualcossa, come ’l se la passa. Vog un po’ canzonar. Oh, oh, oh, dalla luminosa![354]

 

            pantalone    Oh, oh, olà!

 

            arlichino      Come stanzia la bolla d’i gambari?[355]

 

            pantalone    Da lodi, da lodi.[356]

 

5          arlichino      El vostro formigotto è trucado a intagiar? Come stanzia vostra madre?[357]

 

            pantalone    Nostra madre smorfirave meza impiraùra d’urti, e co un pèr de sgionfose de ciaretto ve farave do crichi.[358]

 

            arlichino      Intagio el vostro castagnar, ma stanzia niberta.[359]

 

            pantalone    Fago ciassetti con ardor e ’l scalfetto de lenza.[360]

 

            arlichino      Ah, sior patron, sior patron.

 

10        pantalone    Arlichin, ti ti è? Coss’è? Cossa fastu?

 

            arlichino      Ah, sior patron, sior patron, ehu, ehu, ehu.

 

            pantalone    Eh, no pianzer, caro ti, no me conturbar.

 

            arlichino      Cossa féu, sior patron? Ehu, ehu, ehu.

 

            pantalone    Mi stago ben, veh, ma si gh’avesse da magnar starave megio.

 

15        arlichino      Tolì, tolì, ho qua d’i pezzi de pan che ho trovad çercand, tolì, tolì.[361]

 

            pantalone    Da’ qua, da’ qua; cancaro ’l gh’ha la muffa, eh, n’importa, no, ’l sarà bon, sì.

 

            arlichino      Ah, caro signor patron, de tutt quel che troverò ve ne porterò çert, ehu, ehu, ehu.

 

            pantalone    Ohimèi, mo no pianzer, caro ti.

 

            arlichino      No poss far de manch, ehu, ehu, ehu.

 

20        pantalone    Va’ a çerca, va’ a çerca e pòrteme qualcossa, va’ là.

 

            arlichino      A’ vagh, a’ vagh; e ve porterò cert; ehu, ehu, ehu.

 

            pantalone    Poverazzo! Varé tanti amighi che ho ’bùo, che m’ha magnào tanti bezzi, che se vedesse un can, noma sto gramo servitor! Si mai ’l Çielo me agiutasse, adesso ’l cognosso sto mondazzo desgraziào.[362]

 

            diana             Cospetto de Diana, che no vòi dir altro.[363]

 

            pantalone    Òe putto, ció, vie’ qua, varenta ti.

 

25        diana             Eh, secchéme la mare anca vu. ’I hòi mo persi tutti fina uno?[364]

 

            pantalone    Vie’ qua, fame un servizio, te pagherò.

 

            diana             Coss’è? Cossa ve casca?

 

            pantalone    Òe, ti ti è, Diana? Ció sta pignatta, caro ti, va’ da sier Piero Orese, fate dar una grolletta de zambelotto amarizò e un boro de pan traverso; e da capo Almorò, da parte mia, do soldi de vin, ma préghelo che ’l me lo daga, che ’l possa batizar.[365]

 

            diana             Dé qua, dé qua; varé: un omo de quella sorte cossa che ‘l fa comprar; puh.

 

30        pantalone    Via, via, frasca, stà sui to costrài.[366]

 

            diana             Coss’è sto frasca, sier veccio matto, disé?

 

            pantalone    Ah, fio d’una caldiera, vienme appresso![367]

 

            diana             Sì? Aspetteme donca.

 

            pantalone    Òe, no me far el matto, sa’!

 

35        diana             Òe, che me casca la testa si ve porto gnente; correme drìo, si se’ bon!

 

            pantalone    No ghe mancherave altro ca questa, ala fe’, e sì ’l sarà omo de farla, vedé. Oh poveretto mi! Debotto mo, debotto me passa le zanze.[368]

 

 

                                    SCENA XIII

 

                                   Tutti.

 

            celio              Allegrezza, signor padre, allegrezza![369]

 

            pantalone    Coss’è, coss’è?

 

            celio              È morto Tirondello vostro fratello in Bologna, ci ha lasciato tutto; mi son agiustato col signor Dottore, adesso vi tiraranno fuori e per l’avenire viveremo più cauti.

 

            pantalone    Oh, cossa me cóntistu! Èlla po vera?

 

5          dottore        Çert, çert, ve faz la fede mi.

 

            celio              Orsù, adesso veniremo a mudarvi d’abiti, e venirete e agiustaremo tutti i nostri intrighi. Intanto, uditori benigni, compatite la nostra debolezza e apprendete il vivere da questo verissimo esemplare.[370]

 

 

 

Bibliografia

 

 

Bibliografia citata in modo abbreviato

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[1] cognossùo, “conosciuto”. ♦ me trarave in fuogo, “mi getterei nel fuoco”.

[2] a’ i’ so mi, “li conosco bene”.

[3] siéu, “siate”. ♦ varé, “guardate”. ♦ dagnora, “sempre”. ♦ sfazzào, “sfacciato”. ♦ ciorme, “prendermi” (secondo la forma cior, in luogo di tior).

[4] v’lio, “volete”; la caratteristica caduta di vocale all’interno di parola della parlata pseudo bolognese del Dottore, ma con calco sul veneziano voléu.

[5] Cazza, interiezione; probabilmente eufemistico per cazzo, cfr. Boerio s. v. cazza o cazze e cazzo o cazza da l’aqua; e ancora «oh cazza! oh cazzo! oh caspita! oh caspitttina! [...] Oh cazza! Questa sì che l’è bella e gustosa a contar anca a chi no la sa!» (Muazzo p. 751).

[6] contentév, “accontentatevi”, qui formula di cortesia.

[7] Za za, “già, davvero”. ♦ me cazzeressi in sacchetto de posta, locuzione: “mettere nel sacco” come metere in saco uno, «farlo stare, abbatterlo, confonderlo in guisa che non sappia che rispondere» (Boerio s. v. saco).de posta, “apposta”.

[8] donca, “dunque”. ♦ d’sì su s’ciett, “dite avanti schiettamente”.

[9] compreda de stab’li, “acquisto di immobili”.

[10] gnanca, “neanche”.

[11] Seh bondì, interiezione: il dialogo evidenzia l’incapacità di Pantalone di esprimere chiaramente la sua richiesta, perché il Dottore non lo lascia parlare, come da tradizione per i due personaggi, fino al goldoniano Servitore di due padroni (per cui cfr. ad esempio II.2); una scena analoga si trova anche in Spezier I.1.11. ♦ delongo, “subito, senza indugio”.

[12] che m’ travaia, “che mi da disturbo”; quando il Dottore capisce che Pantalone ha bisogno di un prestito di denaro, finge in prima battuta di sentirsi male.

[13] doia, “dolore”.

[14] saldi, «specie di avverbio famigliare (che anche dicesi saldi in pope) e vale sta saldo; sta in piedi; sta forte; sta sulle gambe; non cadere, modo di richiamare od avvertire colui che camminando inciampa - in altro senso vale persisti; sta forte; non cedere e simili per animare altrui a perseverare nella presa risoluzione - in altro significato ancora, non ti perdere; non ismarrirti; richiamati e simili», (Boerio, s. v.).che pur troppo ’l vien, “che capita anche troppo sovente”.

[15] Palaz, “luogo dei tribunali”. ♦ negozi, “affare”: il Dottore, come seconda scusa, adduce quella di essere impegnato in un appuntamento urgente di affari.

[16] ciappa, “prende”.

[17] contanti a burchi, espressione avverbiale: “a bizzeffe, abbondantemente”; il burchio è una barca da carico (cfr. Boerio s. v.). ♦ a sutto, “a secco”, “al verde”. ♦ letterina, “lettera di cambio”. ♦ sangue da un muro no ‘l se puol cavar, proverbio che significa: “è inutile cercare di ottenere cose impossibili”.

[18] amigo sviscerào, “amico intimo”, sull’onda di espressioni comuni come viscere mie, “caro”, o esser ligài par el budello, “essere strettamente legati”, cfr. I.8.8 e Spezier II.8.4.

[19] Dargh’li, “darglieli”; il Dottore finalmente si arrende alla concessione del prestito.

[20] fa niòlo, «specie di aggettivo che dicesi familiarmente dalle nostre donne per vezzo o per tenerezza, ad un ragazzino nel significato di piccolo ma vezzoso» (Boerio s. v.), da nio, nido, nel senso di “dare ricetto, accontentare”, come specifica il seguente no me dir de no varenta casa toa.varenta, voce del verbo garantire e vale: “su casa tua”, “che Dio ti salvi la casa” (cfr. quanto riportato da Muazzo, p. 1085: «zé come un avverbio che significa in nome, in grazia o per amor della tal data cosa che se vol rappresentar: “varenta el mio spandiacqua che la zé così!”; “varenta ti se ti me vol ben, paghime el caffè e manda a farse benedir chi digo mi, per non dir altro”», e ancora, p. 1090: «varenta el Dio ch’adoro, varenta le mie creature, varenta mia siora nona, varenta el mio spandiacqua che la zé stada così la faccenda»).

[21] me xe de vantazo, “mi avvantaggia”. ♦ altrotanto, forma arcaica di “altrettanto”.

[22] v’dì, “vedete”, cfr. I.1.4 e I.1.30.

[23] lu, pronome personale “egli”; qui in costruzione impersonale con valore affermativo.

[24] bagatella, “inezia, cosa di poco conto”, cfr. Bullo I.5.1, p. 72.

[25] Nana, espressione di meraviglia, dicesi per ironia di cosa rilevante; cfr. Bullo I.1.4, p. 67: far de so nona nina nana.stronzaùra, (stronzadura) diminuzione del peso delle monete, qui nel senso di “strozzinaggio”, “usura”, da stronzar: «operazione criminosa che fassi da chi col mezzo della forbice o della lima o altrimenti, ritonda o talgia sull’estremità in giro le monete, diminuendo il loro valore intrinseco, il che dicesi anche tosare» (Boerio, s. v.).

[26] minga, “mica”, cfr. Bullo II.5.7, p. .manch, “meno”.

[27] cóstelo tanto a bottega, locuzione commerciale sul prezzo della merce all’ingrosso, qui riferita a una merce che non si compra come il denaro.

[28] Façiliterò, segue una lunga sequenza di minuto paragone delle monete e dei sistemi di cambio, offerti dal Dottore con tassi evidenti di strozzinaggio.

[29] serrerò un ocio, “chiuderò un occhio”, “farò finta di non vedere”. ♦ al scorlar delle stiore se toccheremo la zatta, doppia locuzione nell’a parte di Pantalone: “allo scuotere delle stuoie”, ovvero al momento del dunque; stiora, “coperta”, «specie di coperta tessuta o di giunchi o d’erba tifa che serve a varii usi» (Boerio s. v.); “ci toccheremo la zampa”, “ci toccheremo la mano”, (cfr. Bullo I.9.6, p. 79); ma si tenga presente il senso figurato di tocar qualcun, “percuotere” e l’identico menar le zatte, “menare le mani”.

[30] bezzi, “soldi”, cfr. Bullo I.1.5, p. 68.

[31] piz’nin, “soldino, moneta di infimo valore” (cfr. Gdli s. v. piccolo), che indica anche la moneta diminuita di peso e fuori valore, cfr. I.1.39.

[32] gonzo, “minchione, sempliciotto”. ♦ el lazzo della necessitae me strenze, “il cappio della necessità mi stringe”. ♦ a gaglia a gaglia, locuzione avverbiale, diffusa nel veneziano, qui con una separazione impropria, forse in uso, in due elementi, dal greco agàli agàli: “pian piano”, “adagio adagio” (cfr. Cortelazzo s. v. agàli agàli), che registra anche una nutrita serie di luoghi soprattutto cinquecenteschi e riferiti a parlanti greci nella forma corretta ma anche in forme quali a galli a galli (Caravia e simili); curiosa la citazione che ne fa il Muazzo, p. 528: prima afferma che il termine designa un insetto, che potrebbe essere il millepiedi, in seguito appunta a memoria il testo di una canzone greca: «me contava mio pare che a Corfù fra le canzon greghe ghe ne giera una che scomenzava: a galià a galià pomogy tofroristi mo’ ciambeli et.a.».

[33] polacchetto, cfr. Bullo I.1.5, p. 68. ♦ figurina, “personaggino”, qui si riferisce all’aspetto fisico di Celio, comunque di aspetto gradevole.

[34] battino, per “battano”, forma arcaica di congiuntivo.

[35] mattarella, “pazzerella”, qui in tono ironico e affettuoso (cfr. Boerio, s. v. matarela). In tutta la scena si noti il contrasto tra l’atteggiarsi aulico e ingessato degli amorosi che parlano in italiano e il registro domestico dei servi; cfr. per i primi le forme colte quali absente, o espressioni quali s’uniformano ai sentimenti, di contro a cadrega da poz, col ciaf par tera, e al se desfriz di Arlichino, per cui si veda sotto.

[36] tègnet in cadrega da poz o col ciaf per tera, “tieni in trono o colla faccia in terra”, carega da pozo: «scranna; ciscranna; sedia a bracciuoli ― stare in carega da pozo, locuzione famigliare e figurata, stare a o in panciolle, star con tutti i suoi agi, con ogni comodità ― stare in sella, vale figurato essere a vantaggio o in buono stato» (cfr. Boerio, s. v. carega); ciaf, “testa, muso”; Boerio riporta cefa e cefo; come sempre più spinta la spiegazione di Muazzo, p. 415: «dar sul giaf. Questa zé una frase furlana che significa dar sulla testa, ovvero quando la donna con man morbida e delicata dà come delle sleppe sulla testa dell’osello» (il doppio senso, forse di uso comune, in questo caso potrebbe servire ad evidenziare la sfrontatezza di Arlichino nel corteggiamento). ♦ se desfriz, metafora culinaria, “si soffrigge”, per “si consuma” (d’amore); «el desfritto per lo più se fa con l’ogio e con la ceola. Aveu fatto in antian el desfritto? El me par santa Lucia desfritta in ogio. Mi me desfrisso nel mio ogio, nel mio grasso: cioè me contento de quel che Dio m’à dà», (cfr. Muazzo p. 359).

[37] vengo tanto fatta, “mi maturo”, “mi faccio proprio donna”: «donna fatta, che ha passato l’adolescenza» (Boerio s. v.), nel senso di “esser in età da marito” con allusione ammiccante.

[38] dit po davira, “dici tu poi davvero”.

[39] e no altro, “senz’altro”. ♦ padre, nel parlar famigliare, pare, detto per sincope vale compare, e anche caro pare, espressione che si usa per amicizia verso qualcuno, come se gli dicesse “caro amico” (cfr. folena p.415); si veda anche Spezier III.9.27.

[40] mantò, «esso era una sopravveste, rialzata dietro con grazioso panneggio in modo da lasciar intravedere la veste sottostante, dando così slancio alla figura» (Vitali s. v.); indumento tipico del Seicento, verrà in seguito sostituito dall’andrienne (ivi).

[41] l’è la porta in strada che batte, la prima delle caratterizzanti espressioni demenziali e strampalate del personaggio.

[42] mistro, «mastro o maestro, dicesi al lavoratore o padrone di bottega» (cfr. Boerio s. v.), anche nel senso specifico di sarto.

[43] èllo ’l boia sto mistro, battuta demenziale che prende spunto dall’ambivalenza della parola: oltre al significato sopra descritto Boerio riporta anche una voce gergale che intende mistro come “boia”, “carnefice”; a questo si aggiunga il metro che esibisce il sarto venuto a prendere le misure (cfr. la didascalia alla battuta dodicesima), usato di solito da chi viene a prendere le misure per la cassa da morto.

[44] zentilorgana, storpiamento di “gentildonna”: «vale signor da burla. Talora però dicevasi scherzevolmente per gentiluomo» (Boerio s. v.).

[45] Èllo ladin?, da latino; correntemente impiegato in traslato nel veneziano nel senso di “facile”; si vedano anche espressioni come ladin de boca, “facile a parlare” (cfr. Boerio s. v. ladìn); qui evidentemente il riferimento, come intesa furbesca, va alla prodigalità, alla facilità di spesa di Celio. La concertazione avviene tra Angela e il sarto, di modo che non sia direttamente Angela a chiedere il mantò, oltre alla sottana, di conseguenza anche le battute 13-18 sono da considerarsi a parte e sono state così indicate in questa edizione critica (cfr. parte seconda scena quarta de La Pelarina in cui Volpiciona travestita convince Tascadoro a comprare l’abito alla figlia).

[46] pelar, “pelare, spennare”, detto dei polli in senso traslato; per pelarina, detto per persona, (come la protagonista dell’intermezzo di Goldoni sopra citato), cfr. Boerio: «donna che pela, che sa tosar le ale o cavare le penne maestre, che sa trarre da ciascheduno il più che può e senza riguardo»; si veda anche Muazzo, p.848 s. v. pelar: «[...] Pelarina ghe disemo a quella donna, sia nobile sia plebea, che non solo se contenta de cavarve tutto el latte che gavé ai cogioni, ma che ve suga le scarselle e varda a forza de lusinghe e de carezze de levarve quanti bezzi e robba che gavé, tanto che se la podesse anca i abiti e la camisa che gavé attorno».

[47] brazza, «dimensioni di quattro palme o quarte, che serve per misurar la tela» (Boerio, s. v. brazzo); vedi anche la voce brazzoler, “canna da misura”: la misura di ventiquattro braccia è ovviamente enorme in rapporto alla sottana.

[48] fornimento, qui nel senso di “passamaneria”, “ornamento”; cfr. nota I.4.42 per il dettaglio dello stesso.

[49] schieta, “senza guarnizioni”.

[50] merlo, alamari, franza, merlo «merletto; merluzzo; merlo o trina, una certa fornitura o trina fatta di refe finissimo o d’oro o altro» (Boerio s. v.); l’arte del merletto a Venezia è molto diffusa e proprio nel XVII secolo si specializza sempre più nei disegni e nelle realizzazioni producendo manufatti originali e preziosi (cfr. Vitali s. v.); alamaro, «allacciatura di abiti formata da un cordoncino a cappio applicato su una parte e da un bottone (per lo più a forma di ghianda) sull’altro; i cordoncini ricamati e colorati costituivano un motivo ornamentale sull’abbottonatura di uniformi e divise» (cfr. Gdli s. v. alamaro); franza «sorta di lavoro e ornamento noto», «fornir de franza, frangiare e frangionare. Far franza, sfrangiare, sfilacciare il tessuto e ridurlo a guisa di frangia - quindi dicesi sfrangiato e sfrangiatura» (Boerio s. v.).

[51] al Diamante, sembra alludere all’insegna di una nota bottega di merciaio.

[52] L’è cascà, “è caduto” (nella rete): Celio ha ceduto alle richieste di Angela; come altrove nel testo il servo ha il compito di chiudere in modo comico la scena.

[53] Calegher, “calzolaio”.

[54] pelle ricamata, ricamà indica normalmente i lavori di ricamo fatti con l’ago, qui più facilmente indica pelle stampata a motivi di ricamo.

[55] Ruga, «dal francese rue, è una strada fiancheggiata quinci e quindi d’abitazioni e botteghe. Siccome poi al presente sono in tal guisa conformate quasi tutte le nostre strade, così deve ritenersi che, allorquando Venezia era soltanto in parte abitata, acquistassero tale denominazione quei siti in cui cominciossi a fabbricare nel modo indicato, e la ritenessero anche allorquando, aumentatasi la popolazione, si fecero delle case, e rughe da ogni parte. A S. Pietro di Castello abbiamo anche il Campo e la Calle di Ruga» (Tassini s. v. ruga), ma qui forse il luogo più probabilmente indicato è più centrale e potrebbe essere la lunga ruga al di là del ponte di Rialto, anche se Boerio afferma che il termine veniva usato anche come sostitutivo di calle. ♦ far el servizio de brocca, “di fino” servizio ottimo, appropriato; da brocca, “chiodo o borchia” (in questo caso termini perfettamente aderenti in senso letterale al lavoro del calzolaio); inoltre l’espressione dare in brocca significa “colpire nel segno”, qui potrebbe esprimere una sorta di commento da ruffiano del calzolaio, quasi a dire a Celio: “vedrà che con le mie scarpe come regalo, la donna cederà alle sue lusinghe, la cosa andrà in porto”.

[56] Che la bucchia, che la bucchia, come il precedente pelar, letteralmente “sbucciare, togliere la buccia”, ancora nel senso metaforico di trarre denari.

[57] cavezzetto, diminutivo di cavezzo “scampolo”, «avanzo di una pezza di panno o tela, rimasuglio» (cfr. Boerio s. v.), qui riferito allo scampolo di pelle conciata.

[58] vi concedi, congiuntivo arcaico.

[59] manàtole, “gioco con le mani”, si fa riferimento a un gioco tradizionale da fanciulli con evidente allusione amorosa; «Giuocare a scaldamani o Fare a scaldamane» (Boerio s. v.); «manàttola o zogar alle manàttole zé quella percossa che se dà colla palma della man destesa sul roverso de quella del compagno e zogar alle manàttole zé metter le man de do o più persone a vicenda, cioè prima uno e po’ l’altro e po’, co’ le zé unite tutte, darse de sora, a grado a grado, delle pestae busarone. Quando se tratta de cose serie e che se vede che i compagni o i amici ride e no ghe bada, se dise: “Òe fioli zoghémio alle manattole?”» (Muazzo p. 711); cfr. I.6.1 e Bullo I.6.13, p.76.

[60] Cape, «ovvero cape dona mare! Voci d’ammirazione. Pape; capperi; cazzica; casasego; cacalocchio» (Boerio s. v.); cfr. anche Muazzo, p. 172: «cappe! L’è bella questa qua», e «cappe, se la zé così, come che ve la conto» (ivi p. 194).

[61] rucola, tipo di insalata, ma si veda il significato in uso: «nel parlar famigliare e metaforico dicesi per aggettivo a donna, e vale ruffiana; mezzana d’amore, detta anche fa servizii» (Boerio s. v.). ♦ delongo, “subito”, cfr. I.1.13.

[62] sat’, “sai”.

[63] colla ponta davanti, battuta di scherno ad imitazione della balordaggine surreale di Arlecchino: che la punta sia davanti non v’è alcun dubbio.

[64] susurro, “mormorio”, “rumore”; vale per il pettegolezzo e come in questo caso per il baccano: «dicesi per il rumore accompagnato da confusione » (Boerio s. v. sussuro).

[65] I.5.31 e seguenti: La lunga scena, quasi un duetto da opera per musica (ed è da chiedersi, infatti, se si tratta di pezzo cantato o intonato su musica), che secondo il cliché sperimentato (cfr. Bullo III.3.3-9, p. 94), riprende in termini patetici la dipartita degli amanti, chiusa dalla pointe della maschera come da tradizione: e tant ghe volìva a dir bondì, “e ci voleva così tanto per dire arrivederci”.

[66] macca, “abbondanza”, qui usato in senso antifrastico (cfr. Bullo II.6.18, p. 85). ♦ ghe n’ho ‘bùo, “ne ho avuti”. ♦ noma, avverbio: “appena”. ♦ baza, “colpo di buona fortuna”, sempre ironico: Pantalone non è per niente contento degli accordi imposti dal dottore per il prestito. ♦ méa, “meta” (di gioco); vegnìr a méa significa “venir a conclusione”, “venire a vantaggio”; cfr. anche Muazzo, p. 1027: «l’amigo co’l pol el tira quel dei altri a mea, sia per storto sia per dretto, no’l varda tanto per sottilo». ♦ ciarabaldàn, registrato dal Boerio al femminile, chiarabaldana, «cosa di nessun valore»; Muazzo, p. 543, ne registra un esempio d’uso al maschile: «no la val sta robba un giarabbaldan». ♦ lambicarse ’l çervello, “applicarsi a cose che affatichino la testa inutilmente” (cfr. Boerio, s. v. lambicar). ♦ ’i fago passar traghetto delongo delongo, “li voglio spender subito subito”; letteralmente far traghetto significa “passare da una riva all’altra”, “traghettare”, qui allude al passaggio del denaro da una mano all’altra, traslato per “spendere”. ♦ me ispirito, “muoio” (per la fame d’amore); cfr. Muazzo, p. 534: «gò una fame del diavolo, gò una fame che me ispirito»; si veda anche Spezier III.6.5. ♦ tien fermo in pugno el to cào, modo di dire, che ribadisce il precedente saldi e il successivo sii seguro: “tieni duro, persisti”. ♦ finché ti averà el martello d’oro ti trarà zoso (“tirerai giù”, “abbatterai”) anca le porte de ferro, modo proverbiale: Pantalone è cosciente del fatto che la liquidità di denaro lo aiuterà a conquistare l’amore di Beatrice. ♦ ancuodoman, “prossimamente”, “un giorno o l’altro”. ♦ torno in secco, “tornerò in secca”, nel senso traslato di “senza denari”. ♦ darò vogàe de schena, “remerò a tutta forza”, qui come metafora tipicamente veneziana legata al mondo delle imbarcazioni; il significato è “mi impegnerò al meglio”. ♦ impiantar un’altra gazìa, non attestato dal Boerio; il verbo piantare, oltre che il senso comune presenta spesso nelle locuzioni registrate dal Boerio quello di “truffare”: nel senso letterale impiantar gazìa sembrerebbe avere a che fare con la “gaggìa”, una pianta, e la locuzione sembra nel contesto avere il significato di “escogitare un’altra truffa in un luogo (cattarò ben liogo) più distante (via della comunitàe)”; cfr. l’uso che Muazzo dà di impianto: «l’è molto bravo per impianti, invenzion o partii, l’è molto pronto a inventarli ma stimo che el le conta su, senza scomporse che par che el fatto non sia soo. Mi certo no so’ bon, i me fa cascar zo come i merlotti». ♦ un pèr, “un paio, una coppia”. ♦ manàtole, per il significato del termine applicato alla sfera amorosa cfr. sopra la battuta di Arlichino, I.5.15. ♦ Segue una sequenza di metafore espressive del sentimento amoroso, come del resto nella tradizione da commedia per Pantalone: s’cioppo, “scoppio”. ♦ el figào m’arde, “il fegato mi brucia”. ♦ la spienza me bùlega, “la milza mi si muove”, da bulegar: «muoversi ma non di moto violento, muoversi internamente» (cfr. Boerio, s. v.). ♦ le buelle fa tombole, “le budella fanno capriole (tombole), vanno sotto sopra”. ♦ vegno vegno, la conclusione della battuta potrebbe avere sia un significato traslato che conclude la lunga serie di metafore concretissime giungendo ad un immaginario coronamento del desiderio amoroso; sia un significato scenico, volto ad attuare una sorta di didascalia parlata (si veda Guccini pp.16-18) che sottolinei il cambio della scena, da casa di Angela a casa di Beatrice, probabilmente realizzata attraverso il cambiamento del prospetto, come si vede anche in Bullo II.5did, p. 82 e III.3.12did, p. 94.

[67] zanze, “ciance”. ♦ congiungimini, voce pseudo latina per “congiungimento amoroso”, “amplesso”.

[68] déssimo fogo al pezzo, “accendessimo la miccia” pezzo, pezzo d’artiglieria (Boerio s. v. pezzo), connesso al successivo, si no ti batti l’ azzalin, “se non percuoti l’ acciarino per accendere il fuoco, se non mi aiuti”, secondo anche il modo di dire in veneziano per “fai il ruffiano”; l’espressione è registrata anche da Muazzo, p. 397: «dar fogo al pezzo: zé l’istesso che, in tempo de solennità e allegrezza, metter fora el megio, el bon che se trovi aver in casa e far gran trattamento ai so amici a tola. Se pol intender anca sbarrar un cannon o una bomba e anca scorezzar in senso basso e figurà»; e anche: «ghe batte l’azzalin el canaffio» (p. 526); qui Pantalone chiede che venga messo in tavola il meglio, alludendo in senso osceno alle grazie di Beatrice, da poter finalmente godere.

[69] mi son za lest, “sono pronto”. ♦ mené ’l deo grosso, “sganciate denaro”, modo di dire che si riferisce all’uso del pollice mentre si conta il denaro (cfr. anche no ghe fè de deolìn, Bullo I.3.2, p. 70).

[70] tegnaìzzo, (tegnizzo) “avaro, stitico”. ♦ destaccarme dall’osso, come la locuzione lassarse dall’osso (registrata da Boerio s. v. lassar), «pigliare ardire prender baldanza, uscire dall’usanza sua, far più che non si puole», qui ovviamente riferito alla disponibilità economica, già impegnata ben oltre alle proprie possibilità; si veda anche Muazzo, p. 641: «lassarse dall’osso zé el medesimo che essere generoso, come zé i perseghi che se lassa dall’osso». ♦ ogni volta che avé volesto parar avanti v’ho onto la rioda: “ogni volta che ho potuto aiutarvi con del denaro l’ho fatto”, Pantalone vuol far valere la propria prodigalità su Bagolino, che domanda di continuo denari facendo promesse amorose riguardo la sua padrona; onzer la rioda, “ungere la ruota”, «ugnere o insaponar le carrucole, cioè corromper altrui con denari» (Boerio, s. v. onzer); parar avanti, “spingere”, probabilmente qui nel senso di un’operazione meccanica connessa alla ruota della carrucola da ungere.

[71] no me spué sul piatto, locuzione antiquata, metaforica, che vale «saper mal grado; misgradire, non aggradire, incarare» (cfr. boerio s. v. spuar). ♦ sier fio d’un miedego, fantasiosa coniazione della serie di espressioni spregiative con sier e fio de (cfr. ad esempio Bullo I.2.3, p. 68 e I.2.5, p. 69).

[72] bulegàe de sangue, “movimenti del sangue”; cfr. I.6.1.

[73] che ’l vegna gobbo, “che venga con del denaro”, vegnìr via gobo, «venire colle mani piene, venire carico» (Boerio, s. v. gobo); cfr anche Muazzo, p. 1100: «vegnir col con zé l’istesso che vegnir gobbo e portar insieme con la persona qualche agiuto de costa, sia in bezzi sia in robba».

[74] care vìssere mie, figurato per «oggetto di grande amore», anche nell’espressione «oh care le mie viscere: caro il mio cuore, il mio bene» (Folena s. v. vissere); Muazzo, p. 1087: riporta una lunga serie di espressioni analoghe: «viscere mie; visceronazze; cara colonna; ben mio; vita mia; mio restoro; mio riposo; mia consolazion; mia quiete; mio tesoro; nina mia; unica mia speranza; mia costanza; mio sollievo; mia dolcezza; mio tutto; luci vezzose e amabili; labra vermiglie e tenere; bocca santa; oggi bagolosi; oggi tiranni del mio cuor; sen amabile, viso de paradiso; viso gentil; viso d’anzolo. La gà un visetto che par una madonnina; bocchin da basi; lavro de rubbin; bellissima cagion de’ miei sospiri; sangue mio; anima mia; cuor mio; zoggia mia; care quelle manine; quei bei pennini». ♦ marziliana per Pùgia, marciliana: «veliero mercantile da carico di modeste dimensioni, usato soprattutto nell’adriatico nei secoli sedicesimo e diciassettesimo» (Gdli); cfr. anche il Muazzo, p. 710: «zé una spezie de trabacolo grosso, che navega quanto i vascelli e le nave. Co’ se incontra qualche donna grassa, se dise: ‘che boccon de marziliana che zé quella’, e co’ se dà el caso d’andar in busi cattivi se dise: “ò dà drento in una marciliana marza”». ♦ Pùgia: Puglia.

[75] palpiere, “palpebre”. ♦ la rogna, la tegna e la freve quartana, il corteggiamento di Pantalone si basa sempre su termini molto concreti che poco hanno a che fare con il romanticismo: con elenco in ordine crescente di gravità nomina prima una comune malattia cutanea che genera prurito, poi, probabilmente in seguito al troppo grattarsi, la formazione di «ulcere sulla cotenna del capo» (Boerio s. v. tegna); si veda anche l’espressione «gratar la rogna o la tigna, offendere far male per lo più con battiture o percosse» (ivi) ; per poi finire con la febbre quartana, evidentemente più grave della terzana, (per cui cfr. Folena p. 248); infatti Muazzo, p. 493, riporta: «freve, frevetta, freve terzana, freve quartana, freve maligna [...] ognun che muor, qualunque el mal el sia, mor dalla freve»; aver la freve significa anche «mettersi in agitazione, sentirsi a disagio» (Folena), «quando se teme che una cosa non abbi da succeder se dise: “tremo de freve”» (Muazzo p. 502); ma in questo contesto è da preferire il significato di “male quasi mortale”.

[76] daseno, “da senno, davvero”. ♦ ruspìi, “coniati da poco”: «ruspio, parlando di monete, e specialmente dei zecchini, vuol dire appena coniato, perché le monete appena battute sono più ruvide» (Boerio s. v.). ♦ de paèla, “appena sfornati”, “tirati fuori dalla padella” (in cui il metallo è stato fuso), “coniati di fresco” (parallelo al precedente ruspii); tenendo conto che la padella è quella dei vetrai: «quel vaso tondo di terracotta, che sta dentro alla fornace, ove si getta il vetro a liquefarsi» (Boerio s. v. paèla); si veda anche Muazzo, p. 1124 s. v. zecca, zecchin: «l’è ruspio che scotta sto zecchin, l’è de paella, el par nome vegnu fora de zecca, l’è de peso traboccante». ♦ parasù, «girello di capelli posticci» (Boerio s. v.); la voce non è altrimenti attestata ma, per la sua composizione lessicale fatta da parar e su, ovvero “spingere in alto”, può essere assimilata al più comune tupé: «ciuffo di capelli che veniva acconciato sulla fronte, nel modo quanto più alto possibile» (cfr. Vitali s. v. tupé, tuppé).

[77] andar a remengo, “andare in malora”; «andar ramingo, vale andar pel mondo errando» (Boerio s. v. ramengo); «zé proprio della servitù quando i va frustando una casa e l’altra per trovar da servir e mai i trova albero che li impicca» (Muazzo p. 85). ♦ debotto, avverbio: “fra poco, a momenti, quanto prima”. ♦ morto sbasìo, “morto ammazzato”, «basito e vale ammazzato»; probabilmente nell’accezione di «sbasìo da la fame, scannato o morto di fame, vale grandemente affamato» (Boerio s. v. sbasìo) (ma si veda anche l’espressione calzante «sbasio po’ zé quello che no ghe n’à gnanca un», in Muazzo p. 988). Per il riferimento all’appetito sessuale di Pantalone, ancora insoddisfatto, nei confronti di Beatrice, si veda Calmo, epit. XXXVI, 4, che ogni persona ghe sbasiva drio (Belloni 2003, p. 166), connesso al seguente femo fuora robba. per vegnir al quia, “per venire al dunque”, “per occuparci di ciò che ci compete” (la soddisfazione del desiderio sessuale) con latinismo lessicalizzato, per cui cfr. il Muazzo, p. 965: «star al quia, star al segno. Stemmo al quia, amigo, no me fé delle vostre cortesanerie e delle vostre cavallette se vollé che siemo boni amici. Sté a segno a quel che disé; no sté a dir una cosa per un’altra. Tollemo le cose come che le va tolte» (si veda anche Beccaria, p. 9). ♦ femo fuora robba (per cui cfr. anche Bullo II.9.23, p. 88) “mangiamo, consumiamo tutto”, con evidente allusione oscena alla possibilità di un reale congiungimento amoroso; tale allusione può forse trovarsi anche in Muazzo, p. 497, che riporta per la voce far fora: «son andà all’osteria e l’ò fatta fora coi amighi. I padri della Vigna, conventuali riformati capuccini, co’ i pratica in qualche cosa el primo saludo che i dà, gnente de libertà che i gabbia, zé far fora robba: zà tutti m’intende cosa voi dir e significar».

[78] Si no ve la posso sonar, ve la vogio almanco cantar, la battuta passa dal significato letterale, suonare con sfumatura pesantemente equivoca (cfr. Bullo III.22.13, a farghe una sonadina, p. 101), all’introduzione del pezzo cantato, tipica risorsa di questo genere di commedia (cfr. Bullo II.13.1 p. 89) e prerogativa del personaggio di Pantalone (elemento discusso anche da Goldoni in una nota scena del Teatro comico, I.4). Segue una sorta di serenata o aria da battello, nella forma di aria con da capo, prima dell’uscita di scena di Beatrice (cfr. II.5.5 dove Pantalone intonerà una canzone dalla struttura identica; per la presenza dei suonatori sulla scena si veda Bullo III.4 e III. 5, le scene del ballo, e III.20.1, i m’ha ditto i sonaóri, p. 100).

[79] flema, in senso ampio: “pazienza”; ma qui appare assai più calzante l’annotazione di Muazzo, p. 523, per flemma, flemmatico: «zé l’istesso che aver un temperamento che non sia facile andar in collera, ma che se adatti a soffrir con pazienza le cose avverse, i disgusti, i dissapori».

[80] Nella canzonetta di Pantalone si assiste all’usuale climax che parte dai baci e arriva all’estasi del congiungimento amoroso immaginato. La struttura è quella di un’aria con da capo, presumibilmente la stessa che si presenta in II.5.5, forse un’aria da battello conosciuta. ♦ basi, “baci”. ♦ destirar, “allungare”. ♦ tombole, “capriole, rotoloni, giri col capo in sù”. ♦ lavri, “labbra”. ♦ strette de cola, “incollature” qui vale per abbracci che durano a lungo. ♦ me vogio sbabazzar, “mi voglio soddisfare”: sbabazzarse, «crogiolarsi; sbramarsi; sbizzarrirsi; sfogarsi, cavarsi la voglia, prendersi piena soddisfazione»; connesso all’etimo di bava: «venir le bave pel desiderio ardente che s’abbia d’alcuna cosa» (cfr. Boerio s. v. sbabazzarse). ♦ serar, “stringere”. ♦ e debotto me trago a una man e lassa, “per poco non faccio una capriola”, man e lassa indica l’alternarsi della mano che compagna il movimento.

[81] no stizzé sotto che purtroppo ardo che bruso, modo proverbiale: Pantalone è cotto a puntino e non resiste più alle lusinghe di Beatrice. ♦ varenta vu, cfr. I.1.31. ♦ drìo disnar, “dopo pranzo”. v’ho apparecciào un tagio de raso, “vi ho messo da parte una pezza di raso”, dalla merce di bottega.

[82] Cape, cfr. I.5.18. ♦ brazzar l’occasion, “abbracciare l’occasione”, “approfittare”.

[83] co’ volentiera che ghe vegnirave anca mi, Pantalone non riesce mai a entrare a casa di Beatrice. ♦ bisogna far un scalin alla volta chi vuol andar in Apodene, modo proverbiale per indicare che il cammino per raggiungere la meta è sempre in salita, con uso di chi con valore ipotetico: “se uno”; la voce Apodene (forse riconducibile ad apoteosi?) non è altrimenti attestata; tuttavia Muazzo, p. 970, registra un’espressione simile: star in Apolline, «ancuo posso dir d’aver magnà robba ben governada e d’ottimo gusto: stago in Apolline, stago per eccellenza, stago per divinitae. No me barateravve con el gran Turco, no me scambieria col re de Franza; de più, anca se volesse, no posso desiderar. Me par d’esser un paladin». ♦ baron, “poco di buono”, cfr. Bullo I.1.5.did, p. 68 ♦ bassetta, “gioco di carte”, cfr. Bullo I.2.6, p. 68; qui nel senso generico di “qualche gioco”, “qualche brutto tiro”.

[84] che arsure, “che falliti”, “che insulsi”, “che squattrinati”, cfr. Bullo III.5.30, p. 97: Leandro e Lucindo, vivono alle spalle di Pantalone. Non sono che due spiantati che si danno arie da gran signori.

[85] Piazza, ovviamente Piazza San Marco, luogo più centrale e rilevante di Venezia, per cui cfr. la lunga descrizione del Tassini (s. v.). ♦ Procuratie Vecchie, la composizione di Piazza San Marco attraversò varie fasi e vari momenti di fabbricazione, «volle lo Ziani cingere la Piazza medesima d’alcuni edifici formati a foggia di galleria, i quali, perché poscia destinati all’abilitazione dei procuratori di S. Marco, si dissero Procuratie»; l’aggiunta di nuove costruzioni rese necessaria la distinzione tra vecchie e nuove (cfr. sempre Tassini s. v. S. Marco).

[86] No gh’è altro, la va così, qui Bagolino si lamenta del fatto che Leandro e Lucindo non gli danno nulla di mancia.

[87] foglietti, «foglietti contenenti le novità e le notizie del giorno» (cfr. Folena s. v. foggietto/foggetto); «bollettino, giornale, pubblicazione periodica» (gdli s. v. foglietto 2); «ho letto i fogietti, ma no ghe giera gnente de curioso per la qual, né che meritasse el lezerli. Anca là, tanto che i impinissa el fogio, i ghe mette su d’ogni erba fazzo» (Muazzo p. 476); guerra, qui appare come indicazione generica, probabilmente potrebbe riferirsi alle numerose e continue guerre che Venezia sosteneva per assicurarsi il dominio sul Mediterraneo, per lo più contro i Turchi.

[88] la didascalia indica che la scena si è spostata all’interno della bottega di Pantalone (in cui resteremo fino alla fine dell’atto per iniziare dall’atto secondo di nuovo dal classico ‘esterno con case’ dell’inizio); presumibilmente la realizzazione del cambio scena avviene tramite la salita di un prospetto come già riscontrato in Bullo, II.5.did, p. 82 e Spezier, II.8.did.

[89] vi fa scordare il vostro essere, Celio richiama Arlichino al suo ruolo di servo e al suo lavoro. ♦ aggiustate quelle scanzie, “mettete a posto quelle scansie”, la battuta descrive il nuovo spazio della bottega in cui la scena si è spostata. ♦ scoppatele “spolveratele”. ♦ fate quello bisogna, “fate quello di cui c’è bisogno”, forma sintetica col pronome sottinteso.

[90] la ghe saltasse la barila, modo di dire con costruzione impersonale: “gli dia di volta il cervello”, nel senso di “che non perdesse la pazienza”; «voltar la barilla: zé perder el cervello» (Muazzo p. 107).

[91] Falalalalalela, Boerio riporta per questa voce, falilèla: «cantilena sciocca e senza significato, che s’usa fare dal volgo» con l’aggiunta, che in questo caso potrebbe rappresentare un’anticipazione o una sovrapposizione di significato: «cantar la falilèla, detto metaforicamente fallire, ovvero non aver denari»; evidentemente, come testimonia anche il ritorno del nome Nicolò, presente in altre canzoncine nelle commedie di Bonicelli (cfr. Bullo III.5.20, p. 96 e Spezier I.10.9), questa era una melodia molto diffusa su cui improvvisare cantando, come il flon (cfr. III.10.1 e Spezier II.8.3 e III.15.1). ♦ tocca de pifaro, “suona il piffero” (cfr. Spezier I.10.3). ♦ barba, “zio”.

[92] Falalalalalina, variazione per seguitare l’improvvisata. ♦ dai mustacci e la barba no, gioco di parole con l’ambivalenza di barba nella strofa precedente.

[93] vagh nettand pulit i busi vodi, conclusione strampalata di Alrichino, con effetto comico dovuto all’idiozia di un’azione inutile; forse con sfumatura oscena, o forse con riferimento al fatto che le scansie della bottega scarseggiano di merce, a causa dell’imminente fallimento (cfr. I.10.8).

[94] se dà bona misura, “si serve con generosità”, la misura è quella della canna del brazzoler, cfr. I.4.27.

[95] besogna che la sia robba de casa, nel senso che dimostrano famigliarità: lo sciocco Arlichino riconosce Angela e Spinetta travestite prima di Celio.

[96] Gratté, gratté, che me pizza, gioco di parole a sfondo osceno come descritto da Muazzo, p. 557 s. v. gratar: «[...] quando uno curioso vol saver cosa se fa e ogni tanto el dimanda el vostro stato, se ghe risponde: “me grato in dove che me pissa” vollendo significar de gratterse i cogioni, perché per lo più la zé l’unica parte che all’omo ghe pissa e che ogni tanto in mancanza de donne bisogna star colle man in braghesse».

[97] morete, maschere, cfr. Bullo III.2.5, p. 94.

[98] lova, la battuta pesante (per lupa nel senso della “prostituta”, della “donna vorace” cfr. Boerio s. v. lovo) e Muazzo, p. 648: «per lupa intendemmo una gran fame. Quel signor gà el mal della lupa: per quanto che el magna, nol se trova mai sazio»; qui è ovviamente pronunciata con tono affettuoso canzonatorio.

[99] va’ a prendi, costruzione con doppio imperativo. ♦ proseco, «vitigno d’uva bianca coltivato nelle province orientali del Veneto; il vino che si produce con le uve di tale vitigno, caratterizzato da un colore bianco paglierini, da un profumo fruttato e da un gusto leggermente amabile», Gdli (che offre come prima attestazione un passo di Brusoni, forse in relazione al latino pucsinum); cfr. anche Muazzo, p. 781: «“Mo’ co’ bon che zé stà sto Prosecco!” e zé istesso che vin dolce o marzemin»; nella scena è indicato come un vino pregiato, in confronto al più corrente vino rosso, citato più in I.12.16.

[100] a tombolón, “affrettatamente, a precipizio”.

[101] sopracoppa, “vassoio”, «arnese d’argento o d’altro metallo, notissimo, che serve all’uso domestico, per mettervi le tazze, le chicchere etc.» (Boerio s. v.).

[102] la scena termina con un brindisi, come di prassi cantato (cfr. Bullo II.9.2, p. 86), in questo caso da Arlichino alla moda che parla i veneziani, “cioè al modo in cui parlano i veneziani”, “nel loro dialetto”: infatti Arlichino tralascia il bergamasco e come omaggio alla città di Venezia (rappresentata qui dal pubblico, a cui il brindisi è probabilmente diretto) passa in rassegna tutti i livelli sociali, dai nobili (i più sorani, “sovrani”, ma anche “quelli che stanno in alto”, forse nei palchi), ai mercanti, ai cittadini, per finire coi gondolieri che abituati al canto in gondola, avendo buona voce, bona piva, sono invitati a unirsi al canto finale (si cfr. anche l’uso allusivo dell’espressione descritto da Muazzo, p. 839: «sonar la piva zé l’istesso che che beverghene un boccal o una bozza drio man», in questo caso comunque calzante).

[103] Pantalone comincia a parlare fuori scena, come dice la didascalia, lamentandosi tra sé e sé di denari riscossi per lui da Celio ma non annotati nel libro mastro (la partìa in libro maestro xe averta). ♦ sier Tofolo d’i Mezani, fa riferimento a un tipo di nomenclatura burlesca alla veneziana che trae sua origine dalla tradizione che sembra fondata dalle Lettere di Andrea Calmo. ♦ poppier del Finsi da Mantoa, poppier propriamente è “il barcaiolo che dirige la barca vogando a poppa”, Boerio riporta però anche un altro significato «voce di gergo dei barcariuoli, detta per agg. a uomo nel sign. di sodomito» (Boerio s. v.); Finsi, Finzi è un cognome di origine ebraica presente a Mantova fin da tempi antichi; non è possibile qui determinare se il personaggio fosse qualcuno di riconoscibile per il pubblico della commedia. ♦ çendao, normalmente sta a indicare lo «zendale, manto o scialle di taffetà nero portato dalle donne veneziane» (cfr. Folena s. v. zendà); ma qui è utilizzato genericamente per il tessuto, che può essere di varia natura e consistenza e di diversi colori, riconducibile con maggiore probabilità al “taffetà” e alla “seta cruda” (cfr. Vitali s. v. zendà, zendado); segnala il Muazzo, p. 1144: anche una fonte illustre che usa la parola zendà per indicare un “pezzo di stoffa”: «el Tasso nel canto ottavo, st.55, dopera sta parola in logo d’un tocco de manto o de drappi de sea, a proposito che giera sparsa ose nel campo de Goffredo che fosse stada trovada involta in un zendà la testa de Rinaldo, che giera come esilià dal campo cristian: “e che ‘l medesmo poco poi l’avvolse / in un zendado dall’arcion pendente. / Soggiunse ancor che all’abito raccolse / ch’erano i cavallier di nostra gente. / Io spogliar feci il corpo, e sì men dolse / che piansi nel sospetto amaramente, / e portai meco l’arme e lasciai cura / che avesse degno onor di sepoltura”».che l’ha contà i bezzi, “che ha contato i soldi”, per pagare. ♦ l’è intrigada la manestra, locuzione che indica una faccenda complicata: “la minestra è torbida”, vale “c’è sotto un imbroglio”, per cui cfr. Muazzo, p. 606 s. v. intrigar: «[...] a un affar che sia difficile da maturarse e da scioglierse se dise “la faccenda zé intrigada”». ♦ Si noti che la scena muta dopo il brindisi di Arlichino, spostandosi dall’interno della bottega alla strada: Angela e Spinetta escono infatti su questa alla fine della battuta di Pantalone, che assume qui come altrove la funzione di riempimento di una probabile azione di cambio di scenografia o di prospetto.

[104] I.12.2-3 Celio e Arlecchino fingono di trattare le maschere come clienti ordinarie, con cui non si è concluso l’affare.

[105] Cazza, cfr. I.1.5. ♦ le me par gagiose, “mi sembrano gaie, allegre”, (Boerio s. v. gagioso); ma da connettere presumibilmente a sgagio, vivo nel veneziano come “furbo” probabilmente in relazione a scagio, ascella (per cui cfr. Cortelazzo); Muazzo ne riporta la seguente spiegazione: «gagioso zé l’istesso che vistoso e de gran comparsa» (p. 555 s. v. gaggioffa) e questo esempio d’uso: «me sé ancuo gaggioso fora dei modi, bisogna che ve la sié passada ben co la muggieretta sta notte passada» (p. 538); il suffisso -oso è tipico del gergo.

[106] a çercando cola candeletta, “cercando con cura”, accendendo il lume per vedere meglio.

[107] no gh’è ordene, no, de cape longhe, modo gergale che chiama in causa un tipo di mollusco per indicare evidentemente un nulla di fatto. ♦ bozza, “bottiglia”: Pantalone si accorge della bottiglia di prosecco.

[108] frasca, «giovane leggero e di poco giudizio» (Boerio s. v.), si vedano le espressioni: «che frasca che sé! Che fraschetta! Che frascon! Che frasconazzo!», (Muazzo p. 474); come il seguente spuzzetta, «zerbino, cacazibetto, profumino [...] giovane orgogliosetto e di comparsa, che si pavoneggia e si tien per bello» (Boerio s. v.); si veda anche Muazzo, p. 1000 s. v. spuzzar, spuzza: «spuzzetta po’ ghe disemo a quei cortesanelli che stà sull’aria de cogionar e putte e omeni, senza che i ghe ne spenda mai un dei soi, i quai per lo più vien refilai con quattro peae intel culo o con altri avvisi simili».

[109] sier mùtria negra, “signor muso nero”, evidente riferimento alla mezza maschera di Arlecchino, vale “brutto ceffo”.

[110] màmara d’Inghilterra, letteralmente “muso da inglese”, curiosa coniazione nel senso di “coglione, sciocco”; per màmera cfr. Bullo I.2.5, p. 69; per una possibile sovrapposizione di significato, dovuta al fatto che Arlichino ha appena bevuto del prosecco, cfr. Bullo II.9.8, p. 86 e la confusione tra Inghilterra e inghistera, “fiasco”, “bottiglia”.vin negro, di’, carogna, Pantalone rimprovera il servo per aver bevuto il vino più pregiato rispetto a un più comune vino rosso. ♦ imbalsamarte ’l buel zentil, “ungere di balsamo l’intestino retto”; vale mangiare bene, riempirti di roba buona cfr. l’espressione ve parerà de magnar un balsamo, Bullo II.6.21, p. 85.

[111] varé, “guardate”.

[112] manco ciàcole, “meno chiacchiere”.

[113] mandria, “bestia”, «detto per aggettivo a persona, asino; mal creato; incivile; villano» (Boerio s. v.). ♦ a tirar la caretta, nel senso di “faticare”, “lavorare”; immediatamente degradata al significato letterale da Arlichino: èl deventad un bò, “è diventato un bue”.

[114] te torna conto a tàser, “sarà meglio per te se stai zitto”.

[115] squarzo, “quaderno di annotazione provvisoria tenuto dai mercanti”.

[116] vecc cuch, “vecchio cucco”, “balordo”.

[117] caritàe pelosa, modo proverbiale per indicare la finta e ingenerosa carità degli ipocriti; «che carità pelosa che el gà per mi!», «che carità pelosa che la gà! Mo’ ghe son ben obbligà! Co’ no la gà de megio, la pol tegnirse anca questa, la pol far de manco anca de questa che no la me serve per niente», (Muazzo p.174 e 196). va’ a tendi, costruzione con doppio imperativo.

[118] nefanda, “sporca”, da cui nefando per “culo”, qui nel senso dell’amante.

[119] me tien lumào, “mi osservano attentamente”, nel senso furbesco di lumar (Prati 199).

[120] va’ a metti, costruzione con doppio imperativo. ♦ la xe sottosora, “è in disordine”.

[121] vaghe agiuta, costruzione con doppio imperativo.

[122] che te mola una papina, “che ti dia uno schiaffo”; papina «sorta di sorbetto fatto di latte cotto con altri ingredienti, per traslato piccolo colpo di mano sulle guance, ceffone» (Boerio s. v.); Muazzo registra, p. 808: «pappina per slepa o sgiaffo» e pappin, p. 791: «bussolà; pappin: per slepa. Ve dago debotto un pappin».

[123] vìssere mie, cfr. I.8.8.

[124] fondi bianco, andamento blò e sguardo a stricche: la descrizione di un drappo della bottega, con righe blu su fondo (la parola con -i finale rappresenta un tratto caratteristico del veneziano antico come indicato in Formentin) bianco; curiosa la possibile allusione all’espressione riportata dal Boerio (s. v. strica): «quel giovane el ghe n’ha una strica, quel giovane è cotto spolpato, è innamorato»; in ogni caso la battuta di Celio, come la successiva di Arlichino, non è che una scusa per tornare a controllare il comportamento di Pantalone.

[125] tien sconto, “tieni nascosto”.

[126] veludo tabinà, “velluto di seta ricamato”; tabì è una «seta pesante di origine orientale simile al damasco, ricamata a grandi disegni e usata per abiti o per fodere di vesti pregiate» (Gdli s. v.); «denominazione di un quartiere di Bagdad dove questa stoffa era fabbricata» (Battisti-Alessio s. v.).

[127] destriga, “riordina”, “termina il tuo lavoro” (Boerio s. v. destrigar).

[128] mascarot, “mascherotto”, per distinzione al maschile dalle due maschere donne. ♦ che l’ha sotto ’l mort, “che tiene qualcosa di nascosto”.

[129] a un’altra buttada, “a un’altra volta” (forse come parada, “passaggio di canale”): Pantalone finge che non sia avvenuta alcuna vendita, come già Celio e Arlichino in I.12.2-3.

[130] I.13.34-44 Celio affronta apertamente il padre. Lo scontro generazionale, che qui trova luogo in una parentesi violenta lontana dal genere comico (cfr. Vescovo 1987, p. 53), apre un parallelo tra le condotte di Pantalone e del figlio sulla linea dell’esempio; in più luoghi in seguito, Celio si giustificherà dicendo di non fare altro che seguire l’esempio del genitore.

[131] ve ne mentì per el gargato, “mentite per la gola”, “dite falsità”; Muazzo, p. 663, riporta l’espressione in una forma di esempio d’uso: «el mentisce per la gola, no zé vero gnente e me fasso de maraveggia che vu sié capace de creder ste calunnie e ste imposture. Che el me la vegna mo’ a dir a mi se l’è capace, che ghe risponderò de trionfo». ♦ sier scartozzo, cfr. Bullo I.3.3, p. 70.

[132] non son più bambozzo da farmi paura col mo mo, Celio si ribella alle minacce del padre; l’espressione mo mo è registrata dal Boerio come forma antica di momò, “minaccia”, “bravata”, “sgridamento” (Boerio s. v.); si veda anche far el mommò «mo’ la fassa quanti mommò che la vol, che la me fa tanta paura quanto zè quel scagno» (Muazzo, p. 471).

[133] cusì ti me metti al ponto, “così mi rispondi”. ♦ mo ció donca e nasa da che saór che le sa, Pantalone perde la pazienza e comincia a picchiare Celio, come se fosse il bambino che egli non accetta più d’essere (cfr. sopra bambozzo); saór per “odore, sapore” riferito agli schiaffi e ai pugni in arrivo.

[134] abbi l’angossa, «angoscia, travaglio, affanno, afflizione. Angossa, da noi si dice anche per spavento, terrore, paura terribile» (Boerio s. v.).

[135] m’abbia mess la vesta, “mi abbia ingannato”: «metter la vesta o el gaban o el tabarro a qualcun, detto famigliarmente o pelare o scorticare qualcuno vale trargli delle cose il più che si può, pregiudicarlo, giuntarlo» (Boerio s. v. vesta). ♦ damasch, “damasco”, «particolare tessuto di seta» (Folena s. v.). ♦ per bisogn de far moneda, “per bisogno immediato di liquidità”. ♦ copar sta bagatella, “vendere questa inezia a prezzo di bisogno” (cfr. «copar la roba, le mercanzie, gettar via, accoppare le cose sue, venderle per manco ch’esse non valgono» Boerio s. v. copar). ♦ imbarbaiada, “confusa”, termine sempre riferito alla vista: «abbagliare, si dice del non reggere la vista al vedere distintamente le cose in leggendo o in far altro, non veder bene ed anche di chi, essendo svegliato di poco, è ancor sonnacchioso» (Boerio s. v. imbarbagiar). ♦ iacula quae praevidentur minus feriunt, proverbio latino: “le frecce che si vedono arrivare feriscono meno” (la frase risale probabilmente al commento di San Tommaso al Vangelo di Matteo). ♦ sguolar per aria, “volare per aria”, dal veneziano svolar. ♦ temo di febre, il Dottore ha paura di non rivedere più i denari che ha prestato a Pantalone, cfr. sopra I.8.10. ♦ toccar el pols al scudelot, “vuotare il salvadanaio” (toccar el pols a qualcuno vale “metterlo alla prova”; scueloto è “la coppa di legno in cui i mercanti tengono il denaro”). ♦ andar a covert, “mettere al sicuro il proprio interesse”, ma qui nel senso letterale di “mettersi al coperto, ripararsi”, poste le metafore che seguono: scaravaz (veneziano scravazzo), “scroscio di pioggia”: il rumore che fa l’acqua quando cade rovinosamente. ♦ grongar, “il cadere violento di uno scroscio d’acqua”; sgrongàda, “croscio d’acqua, gorgoglio” (Boerio s. v.).

[136] mozze che va çercand nolo, “vecchie barche in cerca di locazione”, metaforicamente “puttane”; «mozza, gondola senza il copertino, senza il ferro davanti e ridotta vecchia che rattoppata in qualche modo fa il servizio da battello» (Boerio s. v.).

[137] Cancaraz, interiezione tipica del bergamasco, cfr. Bullo I.4.1, p. 71.

[138] casoto, “capanna” fatta di paglia o legname; forse uno dei casoti di piazza San Marco, attestatissimo nell’iconografia e nella letteratura di costume; Boerio (s. v.) ne riporta alcune tipologie: «casoto da buratini, casoti da carneval, [...] dove si mostrano delle rarità o si fanno divertimenti»; «baraccone della fiera» (Folena s. v. casoto/casotto), cfr. Spezier III.11.16.

[139] A’ ’l busogna, impersonale “bisogna” con deformazione e sovrimpressione di bus, “buco”, forse con intento osceno. ♦ far un servizi che m’ prem a fort, “fare una commissione urgente”. ♦ in Piazza alla Çecca, l’edificio della Zecca, in piazza San Marco, sul Molo, cfr. Bullo I.5.2, p. 72.

[140] a chi arriva prima aspetta la camarada, modo proverbiale, “chi arriva prima aspetta gli amici”, cfr. Spezier III.6.4.

[141] giazzo giazzo, “ghiaccio”, nel senso traslato di «essere al giazzo o avere el giazzo in te le scarselle, essere alla macina; esser ridotto al verde, miserabile; esser arso, povero in canna» (Boerio s. v. giazzo); Bagolino vede che dal Dottore non c’è da guadagnar niente per la sua tirchieria, cfr. Spezier I.24.1 e I.3.12.

[142] sbasisso, letteralmente “agghiaccio”, qui vale, come sopra in I.8.15, “muoio di voglia”. ♦ pì d’una quarta, «quarto, quarta parte di che che sia; misura che tiene la quarta parte di un quartiere veneziano» (Boerio s. v.).dagnora, “sempre”. ♦ in anda, «anda, andamento, guisa di portarsi» indica essere in anda e quindi esser tenuto in anda indica l’azione o la costrizione alla stessa, il contrario della quiete (Boerio s. v. anda traduce col ricorso al francese etre en train).ti me fa licar le zatte co’ fa l’orseta, modo proverbiale che indica, conformemente a tutte le altre espressioni pronunciate similmente da Pantalone, la sofferenza per l’impossibilità di soddisfare l’appetito (in questo caso amoroso); l’immagine è curiosa e di non facile interpretazione; può trarsi un suggerimento dalla citazione che Muazzo, p. 770, fa del Guarini e del suo Pastor fido, (III.6): «caro Mirtillo e come l’orsa suole / con la lingua dar forma / all’informe suo parto, / che per sé fora inutilmente nato, / così l’amante al semplice desire, / che nel suo nascimento / era infermo ed informe, / dando forma e vigore / ne fa nascere amore» : il parallelo tra l’orsa che dà vita ai suoi cuccioli e l’amante che si cura della nascita del suo amore con dedizione e con pazienza sembra possa essere calzante per una visione che fa prevalere l’aspetto sentimentale della metafora; a questo si aggiunga il parallelismo iterato (cfr. Bullo I.9.6, p. 79) di zatta / mano (e quindi anche déi) nell’espressione liccar i dei, (ivi p. 629), «ve podé liccar i dei sta volta, che no ghe ne sfinfé con quel muso. Ve podé forbir la bocca co’ vollé, che no magné de sta robba gnanca se vegnì tanto alto», o ancora (ivi p. 647) «ve podé liccar i dei quanto che vollé che no ve ne tocca de sta roba che gò qua». Da considerare, come icona presente nell’immaginario cittadino, l’insegna della Farmacia dell’Orso, in campo Santa Maria Formosa: l’animale è appunto rappresentato mentre si lecca una zampa. Questa immagine doveva essere ben nota ai veneziani, che avrebbero potuto trarne di certo modi di dire. Adattandola al testo, forse l’idea dell’insegna della farmacia, con l’orso nell’atto di “leccarsi le ferite”, in questo caso d’amore, potrebbe finalmente anche incorrere nel significato allusivo osceno di “doversi curare da solo”, “arrangiarsi”. ♦ si te zonzo si te zonzo, “se ti acchiappo”. ♦ refarme, “riscattarmi, vendicarmi”. ♦ no la vogio lassar de pesto, “non voglio perderla di vista”, nel senso di non volerne smarrir le tracce; oltre al senso di pesto, “tritume”, registrato dal Boerio si veda quello di pestar, “calpestare, lasciar impronta”. ♦ menarla a tórzio, “portarla in giro, a spasso”, cfr. Boerio «andare a torzio o a torzion, andar a girone, a zonzo, a ronda, vale andar attorno e non saper dove», qui nel senso non negativo; ma si veda anche «menar a torzio uno, detto figurato aggirare; abbindolare», inteso qui non nel senso dell’inganno, ma della possibilità di far cedere la resistenza della donna. ♦ sbrissar su un scorzo de melon, “scivolare su una buccia di melone”, modo proverbiale; qui nel senso di sbrissada, (cfr. Boerio s. v.) «fare una scappata o una scappattella, commettere alcuno errore o una leggerezza», in senso antifrastico: cfr. il successivo tombola maligna, nel senso di “maledetta”, perché non succede mai (sempre con allusione oscena).tardoto, “piuttosto tardi”. ♦ far fuora robba, cfr. I.8.15.

[143] zogiello, “gioiello”, “gioia”. ♦ desconìo, «aggettivo a persona, disparuto; consumato; estenuato; magrissimo; spento; spunto; scanicato, detto figurato, voce tratta dallo spiccarsi delle mura e cadere a terra degli intonachi» (Boerio s. v.); in Muazzo, p. 463, si ritrova l’espressione esser desconio: «zé l’istesso che esser zo de ciera e poco in carne».

[144] imbertonà, “infoiato”, “voglioso”, “follemente innamorato” in connessione con berta, probabilmente nel senso del gergale “tasca”, “scarsella”, “saccoccia”, di cui risulta evidente il traslato osceno (ma si veda anche l’espressione star in berta per “essere in compagnia amorosa”, Belloni 2003, p. 201, e ivi nota 13-15 p. 184 per imbertonào) e berton, «drudo di puttana, cioè colui che vive alle di lei spalle», Boerio. Il Pantalon imbertonào, già topico, è il titolo di una commedia ridicolosa del romano Giovanni Briccio (1617), più volte in seguito ristampata.

[145] star in stroppa, come tegnir in stropa, “tenere in freno o a freno”, “raffrenare”, “contenersi” (cfr. Boerio s. v. stropa), letteralmente la stroppa è «vermena di stralcio con cui si legano le viti, le innestature e altro»; Muazzo ne dà un esempio d’uso più calzante per i significati legati al desiderio amoroso: «gò un prurito, una vogia de maridarme, la carne me stimola, no posso più star in stroppa» (p. 786 s. v. prurito).

[146] a bell’agio, “con pazienza”, da cui il gioco di parole di Pantalone nella battuta successiva con agio, per “aglio”, usato per riprendersi dallo svenimento, perché deboto vado in fastidio.

[147] che cade, “che succede”.

[148] vignerò a levarve per canal, “verrò a prendervi dalla porta d’acqua”, cfr. Bullo I.6.11, p. 75.

[149] ’l scuro xe puoco al largo, “lo scuro è poco lontano” con metafora acquatica, “la sera sta scendendo”.

[150] a tegnirve su la còa, “a reggervi lo strascico”, qui osceno.

[151] ti ghe va de vita alla monèa, “non pensi ad altro che ai soldi”. ♦ che no t’ingosserò, “che non ti riempirò il gozzo”. ♦ de vuoga battùa, “a tutta voga, vogando di tutta forza”. ♦ tirarme in squero, completa la metafora precedente con il referente del cantiere per le barche; per il traslato tirarse in squero, «rassettarsi: abbellirsi» (cfr. Boerio s. v. tirar); si veda per l’uso Muazzo, p. 1027, dove, alludendo evidentemente a una donna, riporta: «mo’ la zé tirada in squerro sta mattina che la fa la bella voggia, la innamora nome a vardarla».manàtole, cfr. I.5.15 e Bullo I.6.13, p.76. ♦ grìzzoli, «capricci, umore o pensierio stravagante o fantastico, ma nel senso letterale tremore, brivido» (Boerio s. v.). ♦ cattarìgole, «gatarìgole, gatùssole, gatèle, gaterìgole, gatìzzole (poles.), catarìgole, catorìgole, gatorìgole (venez.), gatarìgole (trevis.), catùzzole, gate (valsug.), gàtole (Fracena, Tezze), gatùssole, gatùzzule (Pieris), catùzzole (Folignano), gatarìgole, gatìzzole (rover.) “solletico” (Prati EV).

[152] la battuta denota il carattere del personaggio che ragiona solamente sul significato letterale e sulla concretezza dei termini, come si trova anche in Spezier I.3.1 e seguenti.

[153] damaschi, cfr. II.1.1. ♦ senza non occorre andarvi, Celio, come già visto nella scena del sartore e del calegher, è ben consapevole che il corteggiamento di Angela richiede regali continui.

[154] cortesan, il termine ha qui valore generico di “cittadino”; le connotazioni successive, dovute all’uso del termine che ne fa Carlo Goldoni, vogliono indicare un “uomo di mondo”, “uno scaltro che sa il fatto suo”; cfr. Folena s. v.: «intendesi da noi per cortesan un uomo di mondo, franco in ogni occasione, che non si lascia gabbare sì facilmente, che sa conoscere i suoi vantaggi, onorato e civile, ma soggetto però alle passioni, e amante anziché no del divertimento. Tale è il protagonista della mia commedia Cortesan in Venezia: Uomo di mondo altrove considerato»; anche Boerio viene influenzato dalla tradizione goldoniana del termine. Un’altra accezione del termine, sempre deducibile dal contesto, si vedrà nella scena seguente, in cui i cortesani che vengono in gondola a contrastare Pantalone sono evidentemente due quasi bulli, due poco di buono.

[155] Ruga, cfr. I.5.8, il riferimento può essere in questo caso relativo al luogo in cui si potevano avere dei denari, probabilmente sede di banche o banchi di cambio come il Banco Giro, nei pressi di Rialto: «cinge da due lati la piazzetta di S. Giacomo, ed è sormontato da una parte delle Fabbriche Vecchie. Acquistò il nome dall’essere stato sede del pubblico banco mercantile, detto Bancogiro. I banchi di Venezia s’istituirono nel 1157, ed erano da prima affatto privati. Quasi sempre venivano tenuti dai nobili, i quali, per altro, dovevano presentare all’ufficio dei Consoli sopra Mercanti un fideiussore fino alla concorrenza di certa somma. Nel 1524 si formò pure il Magistrato dei Provveditori sopra Banchi, e si presero altre cautele in proposito. Tuttavia, siccome parecchi banchieri fallivano, così nel 1584 venne istituito, per consiglio di Jacopo Foscarini, il banco di cui teniamo parola sotto la guarentigia del governo [...] La scrittura di banco tenevasi per lire, soldi, danari. La lira corrispondeva a dieci ducati d’argento; ma siccome la moneta di banco godeva l’aggio del venti per cento, così valeva dodici ducati. Il soldo corrispondeva a lire 4, soldi 16, della moneta corrente, ed il danaro a soldi 8 comuni. Per rendere più difficili alterazioni nei giri del banco, si facevano con apposite cifre, dette dagli scrittori d’allora figure imperiali, e trattandosi d’un giro a debito dello Stato, nol si poteva eseguire se non dietro speciale decreto dei Pregadi» (Tassini s. v.). ♦ a tre ore, “tre ore dopo il tramonto”: la scena si colloca evidentemente alla fine di giornata, e in relazione alla scena successiva: il breve dialogo tra Celio e Arlichino sembra lasciare modo alla scena di cambiare per preparare il notturno in gondola di Pantalone e Beatrice, cfr. Bullo III.7.did, p. 97.

[156] la didascalia descrive un esterno con gondola e suonatori; come già in I.10.did e in Bullo, II.5.did, p. 82 e Spezier, II.8.did, si può qui desumere la realizzazione del cambio scena tramite la salita di un prospetto.

[157] sonéghela de vena, come indicato dalla didascalia di inzio scena si tratta di suonatori realmente presenti sulla scena, presenza che si può dare come accertata in tutti i punti del testo in cui si canta, ai quali Pantalone chiede di “suonar di cuore”.

[158] le parole xe femene e i fatti xe mas’ci, modo proverbiale per indicare la volontà di trasformare le parole (di Beatrice) in fatti (come Pantalone desidera), connesso anche al desiderio di esser ricambiato delle attenzioni concrete e di spesa, anca mi fago fatti. ♦ che me respondessi del ziogo, con traslato del gioco di carte, “assecondare i punti o il colore”, e del gioco in genere: la metafora prepara in qualche misura la sequenza principale della commedia che si svolgerà in Ridotto con la rovina di Pantalone nell’atto terzo.

[159] dopo l’introduzione musicale che probabilmente accompagnava il dialogo precedente tra Pantalone e Beatrice, Pantalone si cimenta come di prassi in questo repertorio, in un episodio canoro, probabilmente in questo caso su un’aria da battello, la mia arietta, forse la stessa annotata in I.8.21.bochin, “piccola bocca, bocchetta”. ♦ poderòi, “potrò”, forma interrogativa del futuro. ♦ far crosette, «far delle croci o delle crocette, modo basso che significa non aver da mangiare, non avere pane per i sabbati» (Boerio s. v. crosette); si veda anche: «son sta a disnar da quel cavalier francese, ma posso dir d’aver fatte le crosette» (Muazzo p. 495). ♦ gagiosetta, cfr. I.12.4. ♦ se dago ancora do bogi vago in aqua de viole, “se continuo a riscaldarmi comincio a disfarmi”, “vado in visibilio” per acqua de viole cfr. Bullo I.1.1, p. 67 (cfr. anche Calmo, sonetto [XVIII], Amor, che drento al mio corpo bogiva, Belloni 2003, pp. 67-68).

[160] una femena sia parona assoluta de mi, in questo caso la frase tipica del corteggiamento diventa un grottesco riferimento al reale, dal momento che Beatrice dispone a piacimento delle sostanze di Pantalone. ♦ che xe al mondo de qui pochi che m’ha tagiào l’aqua, locuzione: Pantalone si vanta, nel momento in cui si dichiara totalmente vinto da Beatrice, di non essere mai stato sopraffatto da nessun altro; tagiar l’acqua, significa andare a disturbare la rotta altrui mettendosi davanti con la barca: questo per altro anticipa cosa succederà più avanti col battello dei cortesani. ♦ si no me dé però incenso, «chiamasi figuratamente incenso la lode eccessiva che vien data a taluno, di cui si briga la protezione, o dal quale s’implora un favore o un benefizio» (Boerio s. v.), qui l’espressione è usata per finta modestia. L’esibizione che segue, terzo numero canoro che segue l’aria da battello, utilizza e reclamizza la maggior fatica dell’autore della commedia: la traduzione della Gerusalemme liberata del Tasso cantata alla barcariola, e apparsa per i tipi di Domenico Lovisa, nel 1693. ♦ mirasi qui tra le meonie ancelle: Pantalone ha scelto la terza ottava del canto sedicesimo; la citazione del verso tassiano non solo rende l’esibizione più prestigiosa, ma rimanda anche alla stampa del Lovisa, in cui il testo originale e la traduzione veneziana vengono affiancate. ♦ int’el mio lenguazo, il veneziano, la lingua di tutti i giorni: espressione realistica della contemporaneità del parlante, come peraltro la lingua di Pantalone. ♦ l’altro zorno: tra le connotazioni concretissime di questa réclame che l’autore dedica a se stesso vi è anche l’indicazione precisa del momento di uscita dell’opera: la traduzione tassiana e la commedia sono infatti dello stesso anno. ♦ Drapparia, come altrove il luogo prende il nome dalle botteghe o dalle professioni che vi si esercitano; qui certamente si tratta dei portici ai piedi del ponte di Rialto. ♦ Lovisa stampador e librèr, l’editore che ha stampato e messo in vendita sia la presente commedia che l’adattamento del Tasso. ♦ El Goffredo del Tasso cantà alla barcariola, ecco finalmente enunciato il titolo esatto dell’opera: a conferma della specifica del titolo, nonché di tutti i riferimenti al canto improvvisato e alle arie da battello, Pantalone sta in effetti per cantare in gondola (per la diffusione del Tasso a Venezia cfr. Vescovo 2002, pp. VIII-XXI). ♦ me dà in genio, “mi piace”. ♦ sonaori seguiteme, l’invito ai suonatori in questo caso sta ad indicare che probabilmente l’aria cambia; ciò risulta per altro coerente con l’idea di anteprima assoluta: tutti gli astanti sembrano essere i primi a venire a conoscenza della traduzione tassiana ad opera del Mondini, tanto più che Beatrice, nella battuta successiva, si sente di commentare l’impresa con entusiasmo e la definisce una fatica bizzarra e studiosa; e ancora aggiunge: per esser così vaga darà nel genio a’ dilettanti, “questa rarità sarà apprezzata da coloro che si dilettano nel canto” (per l’usanza di cantare il Tasso a Venezia si veda ancora il Teatro comico di Goldoni, I.4).

[161] II.5.10 e seguenti: la parentesi letteraria, che ha talmente colpito Beatrice dal farla esprimere una tantum una lusinga sincera, termina bruscamente con un altro tratto tipico della gita in barca: il litigio su chi passa per primo, che finisce in rissa. Topica da commedia come descritto in Vescovo 1987 (pp. 69-72), che staglia una linea da La Venetiana dell’Andreini, passando per Mondini, fino alle goldoniane La putta onorata e La buona moglie.

[162] a stagando, “volgere la barca a destra con un movimento del remo” (cfr. Pantalone Bullo II.13.1, p. 90).

[163] A premando, da premer, “volgere la barca a sinistra con un movimento del remo” (cfr. Bullo II.13.1, p. 90).

[164] umoreto, “persona irriverente”, “intrattabile” (cfr. Bullo I.3.6, p. 71).

[165] stomego, “stomaco”, “pancia”.

[166] ziron, “remo”. ♦ babio, “muso”, cfr. Bullo I.2.7, p. 69. Questi sono tutti termini gergali che connotano i cortesani come malviventi, secondo quanto dichiarato in II.4.10. ♦ sier paronzin dalle canole, espressione spregiativa: “signor bell’imbusto da niente” (canole, qui vale “canoe”: da supporsi un’errata grafia di l, probabilmente considerata evanescente); il paronzin, che ricorre anche in titoli di commedia dell’epoca è in commedia il figlio di Pantalone, si veda lo scenario Pantalon paronzin da cui Goldoni, su richiesta del Pantalone Cesare Darbes, uso a recitare anche a volto scoperto, trasse il Tonin bellagrazia; qui nel senso di bellimbusto, o giovane cortesano; per l’uso goldoniano cfr. Folena s. v. paronzin; si veda anche la nota di Anna Scannapieco ne La buona madre, pp. 262-263; cfr. III.2.5 e si veda infine Muazzo, p. 804: «paroncin ghe disemo nualtri ai cortesani. El fa da paroncin, da vasco, da bullo e per lo più a questi le ghe vien pettae bone, de buona misura e de giusto peso. Paroncina se ghe dise qualche volta alla so morosa».

[167] sier mandolato grançìo, “mandorlato rancido”, offensivo; cfr. Bullo I.3.2, p. 70, e I.3.6, p. 71.

[168] suso, “su, avanti”.

[169] viene in prova, “si sposta a prua”: il movimento maldestro di Pantalone sulla gondola, per avviare il duello con i cortesani è probabilmente causa principale della sua caduta in acqua. ♦ pugnal e targa, per le armi tipiche del personaggio cfr. Bullo II.9.23, p. 88 (pistolese) e III.5.26, p. 96.

[170] scartozzi gazarài, “buoni a nulla”; per scartozzi cfr. Bullo I.3.2, p. 70; per gazarài cfr. Boerio s. v. gazarà, «dicesi altrui per ingiuria» da gazarada, «cosa di niuna importanza, un nonnulla, cosa da nulla».

[171] pignatella, da intendersi non nel senso dello “scaldino” come nella voce scaldadìn del Boerio, «vaso di terracotta o di rame o di ferro, con manico, nel quale si mette fuoco per scaldarsi le mani», ma del “fanalino da notte”, come risulta dalla didascalia della battuta settima (Arlichino alza la pignatella per vederlo nel viso).

[172] commandador de notte, “signore di notte”, ufficiale col compito di assicurare la quiete pubblica, figura istituita già dal XIII secolo; «[...] il loro compito era quello, accompagnati da guardie, di vigilare di notte sulla pace pubblica, compito al quale se ne aggiunsero diversi altri» (Milan, pp. 89-91); la ronda notturna che interrompe le azioni dei bulli, anche col sequestro delle armi, è uno dei luoghi topici della comedia bulesca, da La Spagnolas di Calmo (cfr. Vescovo 1996, pp. 137 e seguenti).

[173] fio de çent’ongie, presumibilmente nel senso di “figlio di bestia o di diavolo”, cfr. Boerio s. v. ongia, “unghia”, il termine indica anche gli zoccoli degli animali ed è presente in locuzioni come «ongia de la gran bestia»; mentre l’espressione «esser carne e ongia con uno» (Boerio s. v. carne) per «esser anima e corpo d’uno» potrebbe qui nell’uso suggerire un significato antifrastico: “uno che non lega con nessuno”, inteso in modo offensivo per uno di cui non ci si può fidare. Per la serie di espressioni con fio / sier fio de cfr. Bullo I.2.5, p. 69.

[174] i m’ha rott la pignatta, dal senso referenziale in merito alla rottura della pignatella da parte dei cortesani, passa al senso della comune locuzione in cui pignatta sta per “di dietro, deretano”.

[175] stilo, “spadino”, “coltello”, “arma da taglio”.

[176] baroni, “poco di buono”, “furfanti”, cfr. Bullo I.1.5.did, p. 68.

[177] il tono cerimonioso della battuta del cortesan, si veda in particolare a istanzia vostra, rammenta nel repertorio citato alla nota II.6.8, la figura del malvivente che interviene a dirimere le risse; cfr. ancora le pagine di Vescovo sopra citate a proposito della figura del messier, presente dall’anonima Bulesca in poi, in molti altri testi della tradizione veneta dal Cinquecento; la mancia di Celio per la bevuta in sua salute è testimoniata in molti di questi testi (per esempio ne La Spagnolas di Calmo).

[178] grìzzoli, brividi (cfr. II.3.20) ♦ nuàr, nuotare. Pantalone caduto in acqua nella scena quinta, riappare sul suolo della strada dopo l’uscita dei personaggi della scena precedente.

[179] agiut, aiuto; Bagolino dà spiegazione di come Pantalone sia uscito dall’acqua.

[180] Ve n’amarzé, “ve ne ringrazio”, cfr. II.13.9 e Spezier I.17.18. ♦ sier birba, “furbo, imbroglione”; Pantalone sa bene che l’aiuto di Bagolino non può essere disinteressato.

[181] romper le maroèle, “seccare”, da maroèle, “emorroidi” (cfr. Boerio s. v.). ♦ dopo disnar, il nuovo appuntamento è evidentemente per il giorno successivo dopo pranzo. ♦ a Muran in Casin, “ritrovo”, “piccola casa da diporto” tipica dell’isola di Murano; le isole della laguna erano le principali mete dei veneziani per gite o piccole villeggiature (cfr. Spezier I.1.7 e III.18.3).

[182] Cape, cfr. I.5.18. no fasse un disnar co sesto, “non consumasse un pranzo come si deve”, da sesto, «ordine, misura, modo» (per le espressioni d’uso cfr. Boerio s.v).

[183] de ponto in bianco, de vuoga battùa, “rapidamente”, “in men che non si dica”, cfr. I.6.1 e II.3.20. ♦ basa-la man, forma codificata di saluto reverenziale.

[184] sguolo, “volo”, cfr. II.1.1. ♦ de cossediè, «modo avverbiale antichissimo, e vale come si dee, cioè di garbo; a dovere; bene, serve di aggiunto riferito tanto a persona quanto a cosa», Boerio s. v. (cfr. anche il francese comme il faut).

[185] la casa se brusa; no èl po mèi che me scalda anca mi un pochettin, modo proverbiale ricalcato sul detto quando la casa se brusa tuti se scalda: «quando la casa abbrucia ognun si riscalda, cioè il mal esempio fa de’ seguaci» (cfr. Boerio s. v. brusàr); qui Arlichino fa il punto della situazione: nonostante il patrimonio e la bottega siano completamente in rovina, vede che né Pantalone né Celio sembrano curarsene; tantomeno vorrà fare lui (la battuta si trova anche in Carlo Goldoni, La famiglia dell’antiquario, I.16, come viene indicato in Padoan, p.26, nota 34). ♦ El patron vecc mattaz a tórzio; el zuenott matton a spass, sottinteso per entrambe le espressioni il verbo va, “il padrone vecchio brutto matto va in giro; il giovanotto gran matto va a spasso”; si veda il parallelo mattaz / mattón, entrambi accrescitivi di matto, e a torzio / a spas, detto dei padroni: secondo il proverbio citato all’inizio della battuta tutti approfittano della rovina per godersi gli ultimi momenti in libertà di fare quel che più aggrada, dedicandosi agli spassi invece di provvedere al recupero degli affari. ♦ e mi a baronand (sottinteso in giro) “a far bricconate”, (da barone, “poco di buono”, per cui cfr. Pantalone Bullo I.1.5); cioè segue il cattivo esempio dei padroni di casa. ♦ otto o des serradure de carta, “otto o dieci sigilli”, si deduce che la bottega è stata nel frattempo bollata (cfr. sotto battute 5-6), ovvero messa in stato di sequestro. ♦ che la buccia fin che la va, “che si prenda finché si può”, per bucciare, cfr. sopra I.5.10. ♦ ghe pensa i astrologhi, modo di dire: “io non ne voglio sapere proprio niente”, “ci penserà chi può farlo”, cfr. Muazzo, p. 782: «el sta come un piffaro, no’l vol disgrazie, el magna ben, el beve megio, el lassa pensarghe ai astrologhi».

[186] Nana, cfr. I.1.39. ♦ gh’ho visto suso una dozena de pìttime, qui la pìttima, detto anche in traslato per la persona incaricata di ricordare al debitore il suo stato, va intesa nel senso letterale di “impiastro”, “cataplasma”, «decozione d’aromati in vino ch’applicata alla region del cuore conforta la virtù vitale» (Boerio s. v.); Muazzo, p. 446, riporta per empiastro o impiastro: «zé quell’unguento trivial che se mette su sti poer’omeni su qulache feria o piaga nascente. Per altro quando se confonde e cose e le se miscia, sia nel parlar sia nell’operar, se dise “che impiastro, che pastroggio indiavolà zé mai questo, che no se ghe trova né dretto né roverso”» (per l’etimologia medica e dal greco cfr. Cortelazzo, s. v.); in questo caso gli impiastri o cataplasmi appiccicati al corpo sono da riferirsi, dunque con una rilevante metafora, alle serradure della bottega ♦ no vogio saverghene un fio d’una curarisi, “non voglio saperne nulla”, per fio d’una curarsi cfr. Bullo I.2.5, p. 69.

[187] e vaga come la sa andar, “che vada come deve andare”: Pantalone intende spendere (vogio che i sguola) prima che possano chiederglieli per pagare i debiti (e presto) gli ultimi soldi rimastigli (ghe n’ho ancora un puochi).

[188] mògia mògia, “via via”, vedi Vescovo 1994, I.278: «da un etimo mollia, “nulla” «in origine adibito a designare il pudendum muliebre, e progressivamente neutralizzato nelle sue valenze oscene dall’abuso interiettivo, in sostanza un equivalente attenuato dell’altrettanto comune pot(t)a, Lazzerini-Giancarli, pp. 465-466. ♦ lassa che i se destriga lori, con la stessa valenza del precedente ghe pensa i astrologhi, II.8.1.

[189] uno maledetto, “nessuno” (cfr. l’espressione veneziana una maledetta, “nulla”); in questa scena Leandro e Lucindo appaiono in tutta la loro grettezza d’animo.

[190] facci, congiuntivo arcaico. ♦ medema, medesima.

[191] l’ora è vicina, il colloquio di Leandro e Lucindo fa capire che siamo in prossimità del pranzo di Beatrice e dunque tra la scena settima e la scena ottava, vale a dire tra l’uscita di Pantalone che si congeda da Beatrice e Bagolino e la sua riapparizione quasi immediata davanti alla bottega “bollata”, va collocata una consistente ellissi temporale, che comprende il tempo tra l’azione serale della serenata e della caduta in acqua e l’azione diurna al giorno successivo in prossimità del suddetto pranzo.

[192] ho mandào la spesa, Pantalone informa gli spettatori di avere in realtà già da tempo inviato le provviste per il pranzo di Beatrice e delle sue amiche: in realtà secondo una successione di detto-fatto l’annuncio condensa nel tempo della dichiarazione l’intero svolgimento del pranzo; qui si riferisce che il pranzo è già stato digerito (paìo, “patito”), mentre esso veniva annunciato come imminente nel precedente dialogo di Leandro e Lucindo, e l’ordine per Murano già andato (l’ordene per Muran xe alestìo ).anemetta, «preso per diminutivo di anima, si dice per vezzo o compassione, di picciol fanciullino, come creaturina» (Boerio s. v. anemeta). sarà restàe in asso, “saranno state senza parole, meravigliate”; il Boerio registra (s. v. asso) il significato completamente diverso di «restare abbandonato senza aiuto e senza consiglio», ma se si vede Muazzo, p. 73, i significati appaiono in sovrapposizione, se «restar in asso zé anca quando sia in un discorso, sia in una predica, sia in una operazion, se se perde e no se sa andar avanti: se dise “l’amigo s’à perso, l’è restà in asso”», vale “senza parole”, “interdetto” e dunque “incredulo per la situazione”. ♦ l’ho cazzada de cola, cazzar de cola, letteralmente “caricare di colla”, (Boerio s. v. cazzar), nel senso di «cacciata, avviata, nel migliore dei modi» (cfr. Spezier II.8.2). ♦ in cào la fondamenta, “in capo della fondamenta”, «Le Fondamenta sono strade marginali che si stendono lungo i rivi della città. Vengono così dette perché servono di base, o di fondamento agli edifici. Dapprima si fecero di terra legata con graticci e sterpi, poscia di legname, e finalmente di pietra. Alcune fondamente, che danno sul Canal Grande, o sulla laguna, prendono il nome di Rive» (Tassini).

[193] vienla zoso, “viene giù”.

[194] se gh’ha mosso la mare, se gh’ha voltà ’l buèllo, allusione piuttosto pesante alle possibili cause che hanno costretto Beatrice a letto dopo il pranzo, relative a dolori uterini (mal de mare, «mal di matrice; mal della donna o di madre; male isterico o uterino» Boerio s. v. mare), o di digestione (voltà el buello); si tratta ovviamente di una scusa inventata sul momento da Bagolino, per non fare entrare in casa Pantalone che scoprirebbe Leandro e Lucindo.

[195] Varte, forma contratta lessicalizzata per “guardati, stai attento”; «imperativo di vardar» (Boerio s. v.).

[196] Si gh’è colori de sora, “se di sopra ci sono coloro”, riferito ai bravi Leandro e Lucindo, entrati in casa alla fine della scena precedente (cfr. II.10.5).

[197] coss’è sta cronica, “cos’è questa storia” coll’uso allusivo di cronica; cfr. la locuzione che cronica per «discorso lungo e scipito» (Boerio s. v. cronica).

[198] Gran caso, siora Bernardina, locuzione proverbiale di stupore, non attestata; probabilmente con accezione bassa, dal momento che siora indica anche la “prostituta”; forse anche possibile un’allusione oscena costruita su l’utilizzo di un nome proprio femminile.

[199] la v’ha sentì a tuffo, locuzione: “vi ha sentito dall’odore”; il tuffo, poi glossato col neutro odor, indica in realtà il “cattivo odore”, soprattutto quello di muffa, come indica Muazzo, p. 1068: «tuffo nualtri intendemo come muffa. “Sta robba à giappà el tuffo, la sa de tuffo” [...] Sentir a vegnir uno a tuffo s’intende sentir a vegnirlo da lontan, e significa come per odor».

[200] odor, saòr, gioco di parole tra odore (della battuta precedente) e sapore, riferito al metaforico pasto ancora da consumare, ovviamente con declinazione del tempo verbale al futuro (me variràlla mi, “la mi guarirà”); rimane costante la metafora dell’appetito sessuale come desiderio di cibo (cfr. per esempio I.8.15 e II.3.1).

[201] flemma e moneda, Bagolino spegne con due parole il sogno d’amore di Pantalone, ricordandogli quello che serve (ancora e ancora) per raggiungere il suo scopo: “pazienza” e “denaro”; cfr. I.8.20.

[202] deme la zatta, “datemi la mano”, affettuoso; cfr. Bullo I.9.6, p. 79.all’erta, “pronta, preparata”.

[203] meglio posso starvi io giovane, come sopra Arlichino (II.8.1), ora è Celio a addurre il cattivo esempio del padre come giustificazione del proprio insano comportamento. ♦ mi levi manizo, “mi impedisca il maneggio”, “mi proibisca di toccare”. ♦ Ridutto, “Ridotto” cfr. II.3.1. ♦ del resto non voglio travagliarmi niente niente, cfr. gli atteggiamenti di Arlichino in II.8.1 e di Pantalone in II.8.2. ♦ ma le scarselle erano vuote, Celio, come già dichiarato in II.4.9, è ben consapevole di quanto la moneta sia necessaria nel corteggiamento, tanto che non serve presentarsi all’amata con le tasche vuote. ♦ direttivo, con significato avverbiale “direttamente”.

[204] saltar la scala, locuzione dello stesso senso del (far) cascar so de tutta la scala (Boerio s. v. scala), “far rovinare, buttare giù dalla scala”, qui in senso metaforico relativo all’improvviso cambio di fortuna; cfr. la brutale scena della cacciata degli amanti (III.8).

[205] se viene gobbo, “se porta del denaro”, cfr. I.8.4. ♦ fateli accetto, “fategli accoglienza”.

[206] saprò tutto fin in un et, “saprò tutto fino all’ultimo dettaglio”, nel tempo espresso dalla minima concisione della congiunzione et; cfr. Boerio s. v. ete, nel senso di «nulla», “minima quantità”; e si veda anche Muazzo, p. 677 s. v. mancar un et: «el gà tutto el so bisogno, quel che el sa desiderar, no ghe manca un et. No g’à mancà un et che nol casca e che nol se rompa la testa».

[207] L’azione si trasferisce rapidamente con una intensa condensazione del tempo, caratteristica dell’intero secondo atto, nel casino di Murano: le scene undicesima e dodicesima, in vero assai brevi, coprono il tempo di trasferimento in gondola di Pantalone, Arlichino, Beatrice e Bagolino, nell’isola di Murano in cui arriveranno subito dopo anche Leandro, Lucindo. Al centro della scena, secondo il genere della commedia cittadina veneziana, è una figurina caratterizzante, in questo caso quella dell’Improvvisante è probabile che anche i versi “improvvisati” dal personaggio prevedessero un accompagnamento musicale dal vivo (per questo cfr. tutte le arie di Pantalone e la scena del ballo nel Bullo, p. 41, pp. 44-45, pp. 51-53, p. 55, p. 61; per i cambi scena cfr. I.10.did, II.5.did, Bullo, II.5.did, p. 82 e Spezier, II.8.did).

[208] I versi dell’improvvisante descrivono allo spettatore il cambio di scena dichiarando apertamente che in questo momento i personaggi si trovano a Murano (cfr. Guccini pp. 16-18); il fatto che egli conosca per nome Pantalone e la sua dama, nonché la relazione prettamente economica (quel caro sior che ve mantien) che li lega, denota un’evidente abitudine di recarsi in quel luogo, forse addirittura di proprietà di Pantalone. Il metro dell’improvvisazione è ovviamente come da tradizione l’ottava rima; l’Improvvisante si trova in strada mentre Pantalone, Beatrice e Bagolino appaiono dalle finestre del Casino, che dunque gli spettatori vedono dall’esterno sulla strada; ne consegue che la battuta di Pantalone che apre la scena dall’interno; a pepiàn, “a piano terra”, indica il livello della stanza da cui i personaggi si affacciano.

[209] Cape, cfr. I.5.18.

[210] bozza, “bottiglia”. ♦ gotto, “bicchiere”.

[211] un occio che ’l me cava si l’è un spin, locuzione proverbiale, girata secondo la scansione del verso, cfr. levarse o cavarse un spin dai occi, «liberarsi da che che sia da se molto molesto» (Boerio s. v. spin), indicando che, al contrario di Bagolino, (“che lo caverebbe di torno come si cava uno spino dall’occhio”) Pantalone è molto generoso, il che gli fa ottenere oltre al vino anche la successiva mancia.

[212] l’è ben gagioso, cfr. I.12.4.

[213] sìela pur quella zatta benedìa, “sia pur benedetta quella mano”, (cfr. Bullo I.9.6, p. 79): l’improvvisante prende il denaro da Bagolino (dé qua), e ringrazia (v’amarzé: cfr. II.7.6). ♦ fradelli andémo che ho tirà su ’l seccio, la chiusa, mentre dichiara l’avvenuta corresponsione della mancia, conferma la presenza dei suonatori che accompagnano l’esibizione dell’improvvisante (cfr. II.13.2).

[214] bona parada, con riferimento al significato di parada, «dicono i nostri barcaioli del passaggio che fanno dal canale tragittando alcuni passeggeri da una sponda all’atra» (Boerio s. v.); si fa allusione all’obolo guadagnato con la stessa, (cfr. II.5.did).

[215] destrìghete, “spicciati”.

[216] per quanto Bagolino mi ha motivato, “secondo quanto mi ha detto Bagolino”: Leandro e Lucindo arrivano sotto le finestre del casino, d’accordo con Bagolino, in modo di interrompere bruscamente l’intrattenimento amoroso; la scena si svolge, come prima, ascoltando le voci di Pantalone, Beatrice e Bagolino dall’interno, fino alla loro uscita in seguito alle provocazioni dei due bulli.

[217] Èllo cotto quel figào gnancora, “non è ancora cotto quel fegato”; non si capisce se la domanda sia realistica (qualcuno sta cucinando?), oppure se si riferisce in maniera molto bassa (come da prassi per Pantalone, si veda ancora I.6.1) all’innamoramento di Beatrice, che non è ancora giunto al punto desiderato di “cottura”.

[218] Ti ti è cotto, è la formula di gioco che indica “sei stato preso”, “sei in trappola”, «Ghe giera po’ un zogo in carte e che i ghe diseva el zogo dei sgiavi e giera metterse tanti per parte della corte e chi sortiva nel correr a darghe una pacca sulla schena al compagno, quello i lo giamava ‘cotto’, o sia ‘sgiavo’ e dovea star fermo e come in prezon in quella parte della corte che el giera stà cusinà [...]» (Muazzo, p. 700), «Per scaldarse po’ l’inverno ai schiavi, che zè correrse l’un drio l’altro e quando se ghe ne giappa uno se dise “Ti zè cotto”» (Muazzo, p. 1134).

[219] ose, “voce”; a conferma dello svolgimento della scena tra interno ed esterno del casino.

[220] qualch baron, Bagolino fa risalire la voce a qualche mascalzone che passa di lì per caso, quando sa esattamente di chi si tratti, avendo organizzato egli stesso il tiro al vecchio; per baron cfr. Bullo I.1.5did, p. 68.

[221] Avìu, per avéu.baronagia, “gentaglia”, “manipolo di baroni” (vedi di nuovo Bullo I.1.5.did, p. 68). ♦ che ve sguoda un bocal de pisso in cào, “che vi svuoti un pitale di urina in testa”, con forma sguodar per svodar; la risposta di Pantalone anche se rappresenta un’azione tipica da chi è disturbato all’interno delle mura di casa, perde un tantino di efficacia minacciosa, dal momento che lo sappiamo trovarsi al piano terra.

[222] La risposta dei molestatori è decisamente offensiva.

[223] vegnìu a tender rede, l’espressione evidentemente proverbiale, rinvia all’azione di gettare le reti da pesca, ed ha significato di traslato sul tipo di ciapar in rede, “ingannare” (cfr. Boerio s. v. rede); qui nel senso di “volete mettermi alle strette”.sier canapiolo, “signorino ridicolo”, “da nulla”, cfr. Bullo I.3.4, p. 70. ♦ No faré gnente, “non cederò ai vostri affronti”.

[224] questa battuta, come la numero quaranta, sebbene non contrassegnata da una didascalia che lo specifichi, sembrerebbe rivolta verso l’interno del casino, cioè detta da Pantalone a Bagolino e Arlichino, allo scopo di misurare e preparare l’imminente scontro.

[225] è finita ancora la prima tavola: “è finita la prima portata del pranzo” (forse qui si ammette anche il significato letterale per II.13.20).

[226] scartozzi, cfr. Bullo I.3.3, p. 70. ♦ destruzzeressi un piatto de lasagne, “fareste fuori un piatto di lasagne”, detto per indicare l’impresa di forza di un bullo da quattro soldi. I diverbi che seguono procedono per metafore di portata culinaria.

[227] macaroni, per gnoco, «detto per aggettivo a uomo, gnocco; ignocco; balordo; sempliciotto; merlotto; più grosso che l’acqua de’ maccheroni» (Boerio s. v.), cfr. anche Bullo II.6.12, p. 85, e Muazzo, p. 524: «gnocco: maccacco».

[228] mangnéu de grasso, “mangiate in abbondanza”: il botta e risposta vede da una parte Leandro e Lucindo che vogliono mangiare tanto, e dall’altra Pantalone che tende a dargliele corte, offrendo scarti, come i seguenti: osseti da rosegar, “ossicini da rosicchiare”, ma anche «osso duro da rosegàr, detto figurato vale impresa di riuscita difficile o pericolosa» e anche, (calzante come minaccia da parte di Pantalone in questo caso), «egli ha a che fare con persona potente, contro cui difficilmente riuscirà» (Boerio s. v. osso).

[229] questa battuta comprova il significato dell’espressione proverbiale, ti me fa licar le zatte co fa l’orseta, annotata in II.3.1.

[230] so che destué i pavéri alla moda, “so che spegnete gli stoppini alla moda”: Pantalone reagisce bruscamente e dà, con questa battuta dai modi pesanti, dei sodomiti passivi ai baroni; cfr. anche l’attestazione oscena in Muazzo, p. 659: «de tanto in tanto me piase, nella cristianella de Dio, moggiar el pavero».

[231] quando il tuo naso non c’impedisse, la risposta pronta del bravo si rifà ad espressioni correnti come: «dar del naso s’intende volerse intrigar nei fatti dei altri» (Muazzo p. 722), anche nella versione: «tettar de nazo, tettar intel culo o intel cesto zé l’istesso che infastidir e dar noia alle persone che diressimo anca parlando più schiettamente seccar i cogioni» (ivi p. 1065); «dar de naso a uno, fiutare uno, detto figurato vale seccare, importunare, molestar uno disturbarlo» (Boerio s. v. naso); «dar di naso in culo a qualcuno: intromettersi nelle sue faccende, andarvi a curiosare; recare molestia, fastidio» (Gdli s.v naso); (con lo stesso significato si veda anche l’uso di Calmo, in Belloni 2003, nota 3, p. 52); ma in questo caso l’espressione è ancora più bassa e materiale, cominciando un grave appesantimento delle offese, e indica che il naso di Pantalone messo nel culo impedisce l’operazione descritta nella battuta precedente, di destuar i pavéri.

[232] Hàla fenisto sta musica, “è finita questa musica”, nel senso di “vogliamo finirla”. ♦ cannoni, più che al senso metaforico comune di cannone, peraltro non registrato da Boerio, che si potrebbe connettere allo sparare delle insolenze da parte dei bravi, l’epiteto potrebbe intendersi nel senso del canon del servizial (cfr. Boerio s. v. servizial), «quella parte dello schizzatoio che viene riempiuta del liquore in cui entra lo stantufo», per cui la metafora, seguendo quanto espresso nelle battute precedenti, riguarda il clistere.

[233] fumo de raffiòi, “il fumo della pentola in cui bollono i ravioli”: aver paura di nulla.

[234] che ti batteressimo via le piàtole, “che ti facessimo saltar via le piattole” (a suon di bastonate).

[235] che si fago vista d’averzer la porta batté delongo ’l taccón, “che se mostro di voler aprire la porta state pronti subito a scappare”: la battuta, (come II.13.28), nonostante non vi sia indicazione didascalica, sembra essere rivolta a Bagolino e Arlichino all’interno del casino, allo scopo di allestire una strategia per non farsi gabbare all’apertura della porta da parte dei bulli.

[236] fio de donna Betta, fio de caldiera, espressioni spregiative, insulti; per la serie con fio de cfr. Bullo I.2.5, p. 69; in questo caso si può far notare il detto siora Betta dalla lengua schieta (Boerio s. v. ) per “parlare senza riguardo”, ma bisogna ricordare che Betta ricorre come nome tipico da prostituta, (cfr. Bettina e Betta Pottón in Bullo I.6.9, p. 74); per caldiera, propriamente il “paiolo”, (cfr. Boerio s. v.), è facile intuire l’allusione oscena; Muazzo, p. 197, riporta anche un toponimo: «son stà una volta svalizà alle Basse de Caldiera» (oggi Caldiero), come annota il curatore «zona tra Vicenza e Verona, all’epoca infestate dai malviventi»; probabile allusione inoltre al mestiere umile della caldirana.

[237] Pantalone, Bagolino e Arlichino escono armati con quanto hanno potuto trovare all’interno del casino: con spenton, probabilmente forma impropria per speón «spiedone; spiedo grande» (Boerio s. v.); oppure pezzo di legno che si usa per chiudere la porta, (anche se questa seconda accezione sembra da escludere perché indicata più precisamente dalla voce seguente), per cui si veda anche D’Onghia V, 58. ♦ stanga, pertica, sbarra «quel lungo e grosso pezzo di legno che si mette dietro all’uscio per serrarlo» (Boerio s. v.).

[238] tràpanalavezi, letteralmente “trapanapentole”, trapanar “forare col trapano”, “chi scava nella pietra per farne pentole” (lavezi); il tutto si intende come una delle solite metafore oscene, in relazione semantica con caldiera della battuta 42; il lavezo è un «vaso di pietra viva fatto al tornio, per cuocervi dentro la vivanda in cambio di pentola; esso ha il manico come il paiuolo» (Boerio s. v.); si veda anche Muazzo, p. 648 s. v. lavezo: «nualtri intendemmo piadenne, boccai, caini, piatti, squelle, antianni e cose simili fatte de terra, tanto che co’ i creppa e che i se rompe ghe zé el consalavezi che li ponta insieme con el fil de ferro e unisse le creppe e le sfeze e che zé uno che va attorno criando per le strade “chi vol consalavezi” e che vive de questo»; si veda anche Calmo, Sonetto [I] l’è pezzo haver el lavezzo scachìo, Belloni 2003, p. 51.

[239] Alon, voce tratta dal francese allons: “animo! su!”, “andiamo”, (cfr. Zolli 1971, pp. 164-165).

[240] vos commun no falla, modo proverbiale, “la voce diffusa non sbaglia”, col significato di “quello che si sente dire è vero”. ♦ a’ ’l rompess la fortàia, “facesse la frittata”, diffuso traslato per “andare in malora”. ♦ busogna, cfr. sopra II.2.7. ♦ aver pazienza a du vie, “aver pazienza doppia”. ♦ ho sentenziat el scritt a leze, “ho presentato denuncia scritta”; indica più precisamente la presentazione del contratto di prestito firmato da Pantalone all’autorità giudiziaria, cfr. sotto battuta 4. ♦ estrazion in bergamina in man ai sbir, “mandato d’arresto ufficiale” (bergamina, “carta pergamena” ad indicare il documento bollato). ♦ vog tirarme in segura, “voglio assicurarmi, mettermi al riparo”.

[241] non avevo volto, “non avevo maschera da coprirmi”.

[242] fiol de quell’omo da ben, ironico.

[243] salla, ridondanza interrogativa: “sa”.

[244] l’averà d’i lunari in capite, “avrà altro per la testa” (alla lettera “lunari”).

[245] La s’ covra, “si copra”: Celio in atto di deferenza si è tolto il cappello dal capo.

[246] anca lié, “anche lei”.

[247] Se i pagass così ben i so debiti come far ciàciari, “se pagassero così bene i loro debiti come sanno chiacchierare”.

[248] Brevibus verbis, “in breve”.

[249] ’l togh, “lo prendo”.

[250] È vero da Bologna, con ironia: anche il Dottore è di Bologna.

[251] l’odor l’è d’ gazìa, “è molto profumato”, con riferimento per traslato all’odore della gazìa, “gaggìa”, fiore particolarmente profumato.

[252] che farò d’le resoluzion, “che andrò fino in fondo”.

[253] vi potrà valere ne’ vostri bisogni, Celio, dopo aver tenuto col Dottore un contegno assai cerimonioso, chiude la scena con una battuta bassa e volgare, dimostrando così la falsità della galanteria ostentata in precedenza.

[254] toch d’arsura giazzada, “pezzo di poveraccio immiserito”, per arsure cfr. sopra III.5.30. ♦ Anca sonarm’la d’soravie, “anche canzonarmi in aggiunta”, riferito appunto alla chiusa volgare di Celio. ♦ zafaut, ricorre anche sotto in III.5.32, e potrebbe trattarsi di una caratterizzazione alla bolognese del veneziano zaffar, “prendere, zaffare”, da cui zaffi, “sbirri”, quindi epiteto riferito a Celio come “degno o prossimo all’arresto” (si veda anche gamauto, come “birro, sgherro” Boerio s. v.; e cfr. sopra II.13.1; citato in questo senso anche da Muazzo, p. 746 s. v. osellar, «zé diverse sere che vedo i gamautti a far la ronda qua dattorno, bisogna che i voggia tor su qualchedun e i lo va osellando, tanto che i lo cuccherà su e i farà de lu capiatur»).

[255] matti int’el cào chi sparagna per dir po item lasso, “fuori di cervello chi risparmia per poi lasciare in testamento”; «[...] item po’ zé una clausula o una spezie de repitizion che se dopera nei testamenti. Item lasso una mansionaria libera. Item lasso a quell’altro la strada d’andarse a far ben busarar e così discorrendo» (Muazzo p. 608). ♦ Chiribin, nome proverbiale del diavolo, da cui il metterghe la cóa, “metterci la coda, intromettersi”. ♦ dagnora me tocca ’l lotto a mi, varé, “sempre tocca a me il lotto, guardate”, in riferimento antifrastico all’estrazione del gioco del lotto, chiapar sto lotto, «detto ironicamente, aver sì fatta sorte o fortuna; e s’intende in senso opposto, cioè aver questo discapito, questa sfortuna» (Boerio s. v.). ♦ in ton, “in tono”, essere in ton «stare in tuono; essere in carne; essere grassicciuolo; esser fresco e in buon stato, stare bene» (Boerio s. v. ton). ♦ se va strenzendo, “si vanno stringendo, si vanno complicando, aggravando”. ♦ ha levào la cartolina, «termine del foro ex Veneto ed era il mandato esecutorio che si otteneva per l’esecuzione forzata reale e personale contro i debitori civili» (Boerio s. v.); levare, “rilevare”. ♦ ferma là sula bottega dagnora i cresse, “i fermi (cioè i segnali del sequestro) sulla bottega continuano a crescere”. ♦ no vòi saverghene una patacca, “non voglio saperne nulla”, cfr. stimar o valer una patacca, «stimar o non valere un nulla, una patacca o una foglia di porro», (patacca, “moneta di infimo valore”): Pantalone enuncia tutti i problemi che gli si accollano intorno per poi dichiarare la sua totale indifferenza al fallimento (come già in II.8.2; e come lui Arlichino in II.8.1 e Celio in II.11.1). ♦ m’ha fidào, “mi ha affidato”. ♦ vòi ciamar la mia raìse, “voglio chiamare la mia cara”, raìsa, «radice; appellativo affettivo col quale ci si rivolge ad un bambino, vita mia, radice, sostegno della vita» (cfr. Folena); Muazzo, p. 926, aggiunge: «per dirghe a una bella ragazza “ti zé el mio ben, la mia colonna”, se ghe dise: “ti zé le mie raise”».Redutto, cfr. sopra Pantalone Bullo II.3.1. ♦ a risegarli e tagiàr, “ a rischiarli e tagliare”, nel senso della parola taglio nel gioco; cfr. Boerio s. v. tagiar e tagiador, e più sopra nota II.3.1; è interessante che la battuta, aperta e chiusa da vogio, presenti una struttura di frase a cornice, di vivacità effusiva (cfr. la definizione di Spitzer di stilema “affettivo”, e il diffuso uso che ne fa Goldoni per riprodurre le strutture del linguaggio popolare, in Vescovo 1993, pp. 68-70). ♦ chi sa che no faga tre fià sette, “chissà che non possa vincere al gioco, che non possa moltiplicare i denari”; proprio riguardo la dicitura della moltiplicazione si può vedere Muazzo, p. 479: «un fia un, fa un; do fia do, fa quattro; tre fia tre, fa nove», mentre in un altro punto, p. 1031, riporta una specie di filastrocca, probabilmente riferita al festeggiamento della vincita al gioco o a un colpo di fortuna: «tre fià sette vintiun, bazemme el cul e no disé gnente a nessun».

[256] varé, “guardate”. ♦ senza de vu no gh’è remedio che possa star un colo, nel senso traslato da cólo, “gocciolatura”, quantità minima (cfr. cólo d’ogio, nel Boerio); “senza di voi non posso fare nulla”.

[257] paronzinetti, “padroncini”, piccoli padroni o figli del padrone, per «bell’imbusti», cfr. II.5.17.

[258] frasconi insolenti, cfr. I.12.12.

[259] son sbrizzào zó del ponte, “sono scivolato giù dal ponte” (in acqua). ♦ daresto i impirava un drìo l’altro co’ fa i beccafighi, “altrimenti li avrei infilzati come tanti uccellini” (sullo spiedo; a conferma dell’armamento improvvisato in II.13.44did); cfr. Muazzo, p. 572 s. v. impirar: «[...] el l’à impirà con la spada come se faravve d’un beccafigo».

[260] sarave intrigào, “sarei in difficoltà”, per le conseguenze dell’atto.

[261] nelle parole di Beatrice dietro una finta gentilezza, cioè il preoccuparsi della sorte dell’amato, si nasconde il timore di non aver più di che sostentarsi, (come confermato anche in III.2.12).

[262] ancùo ho da vénzer, “oggi devo vincere”.

[263] co vu me se’ a lài, “se voi mi siete di fianco” (la parola con -i finale rappresenta un tratto caratteristico del veneziano antico come indicato in Formentin, cfr. I.13.23).

[264] Quel dalle carte, “chi tiene il banco”, cfr. le scene iniziali del gioco nel Bullo, pp. 23-24. La scena si è spostata nella sala da gioco (per i cambi scena si veda I.10.did, II.5.did, II.13.didBullo, II.5.did, p. 82 e Spezier, II.8.did).

[265] la vaga in le camere che se laóra, “vada nelle camere che si gioca”: la sala grande del Ridotto è ancora priva di pubblico e Celio viene invitato ad andare nelle stanze laterali.

[266] ciaperò ’l tolin, la battuta indica l’ingresso di Pantalone nello stanzino: “voglio proprio mettermi al tavolino” (da gioco), nel senso di “tenere il banco”; «piccola tavola per lo più quadrata che serve a vari usi; tavolino da gioco» (Boerio s. v. tolìn).

[267] teleri, propriamente sono i “telai”, ma qui, in relazione al gioco, “tavoliere”: «tavolino sul cui ripiano sono disegnati i riquadri per il gioco della dama, degli scacchi, dei dadi, del tric trac; per estensione tabellone su cui sono riportati suddivisioni, simboli, figure, usato in particolari giochi di società o di ruolo. In senso generico: tavolo da gioco» (gdli s. v. tavoliere), in questo caso, per quanto alla precedente battuta 6, il “tavoliere” non è direttamente disegnato sul tavolino.

[268] senteve qua, zògia, steme a lài, “sedetevi qua gioia, statemi a fianco”, per lài cfr. III.2.16.

[269] e mi me dà tanto ’l cuor de vadagnar che no poderessi creder, “e io ho tanto in cuore di guadagnare che non potreste credere”.

[270] no crieremo no, “non litigheremo”. ♦ e varé quanti, ’i vadagno, tutti i xe vostri, “quelli che guadagno saranno vostri”. ♦ tutti fina uno, “tutti fino all’ultimo”.

[271] Taglia certa gente che non ha genio di metter, “sta giocando / tenendo banco certa gente che non ha intenzione di puntare”, per i termini del gioco si vedano ancora le scene iniziali del Bullo, in particolare per tagliare, I.2.4, p. 68. ♦ signor padre che fa banco, “il signor padre che tiene il gioco”. ♦ andiamo a metter, “andiamo a puntare”.

[272] le mette ben la so segonda, sottinteso “puntata”. ♦ avé venzo, “avete vinto”. ♦ Ve diol el gargato, “vi duole la gola”, riferito a Celio che fa solo cenni col capo e non parla per non farsi scoprire dal padre, mentre la maschera ne copre i connotati. ♦ saldi a sto resto, locuzione da gioco che precede il taglio o la puntata sul tipo di rien ne va plus.mo cospetto, mo debotto, dirave de qualcossa, formula eufemistica per bestemmia evitata, “per poco avrei detto”. ♦ pagài, come l’italiano far pace della didascalia che precede, “andare a pari”, “pareggiare”. ♦ zó ’l lico è furbesco per “giù i soldi”; lico, «gergale per denaro in rapporto a lico e licheto, cosa ghiotta» (boerio s. v. licheto), dove è registrata anche l’espressione lico de’ bezzi.hallo cattào sonica delongo, va qui riportata primariamente la voce registrata da Muazzo, p. 973 e 986, perché indica l’uso della parola associato precisamente al gioco delle carte, purtroppo però senza spiegazione: «co’ zogo a zoghetti, fasso sempre sonica colle carte», e «co’ zogo, fasso sempre sonica»; sembrerebbe qui una sorta di mossa; mentre in riferimento all’atteggiamento assente del giocatore misterioso possiamo basarci sulle più generiche indicazioni di Boerio, basate su sonica per “nenia”, “solfa”, qui nel senso di “si è incantata la musica della vittoria”: «al longo andar sta sonica no me piase gnente», e «le gran soniche che fé sempre per una strazzeria de gnente». ♦ fionazze de chi digo mi, insulto riferito alle carte. ♦ giusto a filo, “a puntino”, rafforzativo di giusto; confrontare le varie locuzioni del Boerio s. v. filo.fatto su ’l conto, “ha aumentato il conto, guadagnato”; è la battuta con la quale Pantalone sigla la perdita totale del denaro. ♦ venzi, “vinti”, con crudo dialettismo che si riflette nella didascalia in italiano. ♦ m’avé curào pulito, giusto a cico, “mi avete pelato a puntino”; nel testo originale con grafia chico; Boerio riporta sia la grafia a chico, che a cico, come modi avverbiali: “a puntino”; Muazzo riporta la grafia gicco per l’espressione «a gicco (xè l’istesso che appena)». ♦ a revéderse a una pì bella, “arrivederci a un’occasione migliore”. ♦ faghe de atto, “fagli una riverenza”, “salutalo”. ♦ che ’l trotolo è andato, “che la trottola è andata”, locuzione per indicare la fine di una cosa; il contrario di «inviar el trottolo, la qual frase doperemo e se servimo nel discorso per denotar co’ se principia una qualche azion», Muazzo p. 1062 s. v. trottolo, trottoletto. ♦ chi vuol sponze, letteralmente “chi vuole spugne”; forse richiamo da venditore (cfr. Bullo II.13.1, p. 89), tra ironia e disperazione, mentre Pantalone esibisce la borsa vuota. Curioso come la scena della rovina definitiva, pur coinvolgendo almeno tre personaggi, risulti come un monologo: sembra voler sottolineare che Pantalone è da se stesso unica vera causa dei propri guai.

[273] la risposta di Beatrice rivela di colpo il suo unico interesse: il denaro.

[274] sora marcào, “oltre il prezzo”, “oltre la misura giusta”, “in aggiunta” (cfr. espressioni simili in III.1.31, e Bullo II.9.15, p. 87).

[275] gh’ho bù desdita, “ho avuto sfortuna”.

[276] cusì ’i gh’avéssio mi in scarsella, “così li avessi io in tasca”.

[277] de vantazo, come III.3.18, “in aggiunta”.

[278] Mo no fé che la ve salta cusì presto, “non perdete la pazienza per così poco”, cfr. saltar la barila in I.10.6. ♦ in cosa imbàttela sta musica, locuzione, “cosa intendete dire”, “qual è la vostra intenzione”.

[279] mi porterà un corno che lo marida, espressione spregiativa; alla lettera “un corno che lo mariti”, nel senso di “che lo incorni”, forse con risvolto osceno.

[280] in veritàe benedetta, “in santa verità”, formula di giuramento. ♦ quella zattina, “quella manina”, come epiteto affettuoso (cfr. i numerosi luoghi in cui viene usata questa espressione come in Bullo I.9.6, p. 79).

[281] se mi fallate, “se mi ingannate”.

[282] Baroni, cfr. Bullo I.1.5.did, p.68.

[283] se zioga alla bona bassetta, gioco di carte, cfr. Bullo I.2.4, p. 68. ♦ si volé metter, sior, monéa la vol esser, il baro si certifica che Arlichino abbia i soldi per la puntata.

[284] III.4.3-7 Va’ do soldi, aseno, Arlichino comincia dando dell’asino al baro; si innesca così un pericoloso equivoco che corre fino alla battuta 7, in cui, temendo la reazione violenta del giocatore, il servo finge di essere più sciocco di quanto non sia, chiamando “asino” il cavallo delle carte, aseno a do soldi.

[285] da Lodi, il toponimo qui è usato in senso offensivo per dire “sciocco”; si confrontino le scene del Bullo col galliner che viene insultato in quanto non veneziano, attraverso un elenco di toponimi di terraferma (I.11, pp. 32-33). Forse qui potrebbe trovarsi la sfumatura dell’uso gergale registrato in III.12.4 (da lodo “brutto”), per dire: “con costui siamo messi male”.

[286] destrighémose, “sbrighiamoci”.

[287] sier carogna, altra variazione della variopinta serie con sier / fio de.

[288] Mo caro vu, la ghe va de sbalzo, bisogna molarla per forza, la battute del barone sembra contenere tra virgole una sorta di a parte: come a dire: “l’ha passata liscia per un pelo”, “l’ha sbalzata”, riferendosi all’aggiustamento di Arlichino visto alla battuta 7; per la chiusura bisogna molarla per forza, il significato è “bisogna mollare”, “dargli ragione”, perché è uno sciocco.

[289] Grassi co’ fa’ ciodi, locuzione gergale per antifrasi “grassi come chiodi”, riferita alla somma infima della puntata di Arlichino. ♦ co sto ruinazzo, come rovinasso, “calcinaccio”, presumibilmente riferito al rumore della prosopopea di Arlichino in rapporto all’infima miseria della puntata.

[290] Falalalalalalela, Arlichino per la gioia della vincita canta il suo motivetto (cfr. I.10.8 e I.10.10), e rilancia la posta.

[291] Bravo, metté ben la segonda, me piasé: il baro si compiace del fatto che Arlecchino tenti una seconda puntata.

[292] sonarghela, secondo l’espressione suonarla a uno: “dirgli il fatto suo”, anche con violenza; cfr. Bullo I.3.4, p. 70, gué quel vostro subiotto.

[293] gabbà, “ingannato”.

[294] il barone utilizza il ricorrente comportamento del bullo che prende le ultime parole del malcapitato per incalzare il dialogo con una minaccia (cfr. Bullo III.5.29, p. 96 e Spezier II.8.5); Arlichino, come si evince dalla battuta seguente, è uso alla medesima tecnica.

[295] davagnào, “guadagnato” per metatesi di vadagnào.

[296] Anche qui senza alcuna avvertenza l’azione passa dal Ridotto alla scena di strada; nel tempo in cui si è svolta la scenetta comica con Arlichino e i bari, Pantalone ha riaccompagnato a casa Beatrice e la scena è ritornata quella dell’esterno con case. ♦ Çito, ghe xe no so chi, che forse chi sa, la frase appare una sorta di ragionamento ad alta voce, come se Pantalone passasse velocemente in rassegna le persone che conosce per capire se può andare di nuovo in prestito di denari, e potrebbe essere svolta così: “zitto forse c’è qualcuno che mi può aiutare, ma non saprei chi”. ♦ la me n’ha deslubiào, come desluviào “diluviato”, riferito ai denari, la forma deslubiar con rinvio a desluviar è registrata anche da Boerio; per il significato cfr. anche Muazzo, p. 413: «desluviar zé l’istesso che magnar senza mastegar e ingiottir i bocconi come i vien su». ♦ Daresto deboto son dove che posso esser, “d’altra parte tra un po’ sarò dove devo essere”, con probabile riferimento già alla prigione. ♦ bolli, intimazion, citazion, elenco di provvedimenti giudiziari a suo carico. ♦ psì, bona notte, interiezione, modo di dire che vale “non c’è più niente da fare”. ♦ a dozene i vien, “vengono a dozzine”, nel senso proverbiale di “le disgrazie non vengono mai da sole”. ♦ l’è intrigada la manestra, modo di dire per cui cfr. I.12.1. Le battute dalla seconda alla settima, nonostante l’assenza di didascalie, sono da considerarsi una sorta di a parte: il Dottore sopraggiunge, Pantalone sembra sentire quello che dice, perché esprime dei commenti ironici a riguardo; ma la vera interazione dialogica comincia alla battuta ottava, quando il Dottore saluta Pantalone.

[297] do volte mezi, in risposta alla battuta immediatamente precedente in cui il Dottore si lamenta della paura di perdere tutti i suoi cinquecento ducati, Pantalone cerca di indorare ironicamente la pillola dicendogli che non li perderà tutti, ma solo metà, per due volte. ♦ ’l se va a picar, “si va a impiccare”; nonostante la garanzia e lo stato di maggior sicurezza per esser uno che ha da aver, invece di uno che ha da dar, il Dottore vive la situazione in modo tragico, dato il suo attaccamento al denaro.

[298] Si no l’è un strigon, che ’l me ne fassa nasser, “se non è un mago (un negromante), che me ne faccia nascere” (dei denari): ultima ipotesi strampalata di Pantalone, tra lo scherzo e la disperazione, per risollevarsi dal mare di debiti in cui si è cacciato.

[299] basa-la man, formula di cortesia, cfr. II.7.14.

[300] notéi sul libro d’i scossi, “annotateli sul libro delle riscossioni”, libro delle uscite; metter sul libro dei scossi significa «porre al libro dell’uscita alcuna cosa, vale far conto di averla perduta» (Boerio s. v. scosso).

[301] pampalugo, “scioccone, stolido”; «zé l’istesso che cogion» (Muazzo p. 829).

[302] strapazzar, “maltrattare”.

[303] no me stornì, “non mi seccate”, stornir significa «stordire; sbalordire; imbalordire, torre il capo» (Boerio s. v.).

[304] Quel che ti ha tra i occi e la bocca, “il naso”, modo di dire come nell’espressione “un palmo di naso”, niente; ma cfr. anche dar del naso a uno, II.13.35, per “seccare”, con la sfumatura assai più volgare di dar del naso in culo.

[305] sier Iacodin, nome di ebreo da commedia, cfr. La Pelarina di Goldoni, (per cui si veda Bullo II.13.1, p. 89); e Muazzo, p. 532: «son andà sta mattina in Ghetto novo da Giaccodin a scoder el mio tabarro che l’aveva messo in studio»; il nome qui è utilizzato come fosse un insulto, evidentemente connesso all’attività di usuraio; sempre Muazzo riporta il vocabolo in altro luogo (p. 986 s. v. scoder) con la lettera minuscola, il che fa pensare a una conferma di un uso di nome comune, derivato dal nome proprio, con significato generico per ebreo: «son andà a scoder da un giacodin in ghetto el mio tabarro d’inverno». ♦ ve la querelarò, quella scrittura, al Piovego, “andrò a querelarvi per usura esibendo il contratto alla magisratura del Piovego”, «Magistratura della repubblica veneta che giudicava nelle materie d’usura e dei contratti lesivi» (Boerio s. v.).

[306] gnoch, “gnocco”, qui inteso, a differenza di II.13.30 dove è riferito come aggettivo a persona, nel senso di «bernoccolo o bernoccio e corno: cioè enfiato che fa la percossa» (Boerio s. v. gnoco), vale come minaccia.

[307] peàda, “pedata, calcio”. ♦ dottor senza dottrina, modo di dire irriverente che rimanda con ogni probabilità al detto registrato da Muazzo, p. 359: «dottor senza dottrina che non conosce la merda dall’orina».

[308] pezzada, storpiatura bolognese di peada, termine usato da Pantalone nella battuta precedente. ♦ Adess al zafaut, al zafaut, “presto, arrestatelo, arrestatelo” cfr. III.1.31.

[309] no ghe ne vòi saver de gnente, continua l’atteggiamento incosciente di Pantalone. ♦ vorave querelar el scritto daseno, “vorrei davvero denunciare il contratto” (per il tasso d’usura). ♦ impiantar st’altra gazìa, cfr. I.6.1. ♦ e che la vaga, “che vada come deve andare”.

[310] quella ciera, “quell’accoglienza”.

[311] che sem’ al bass, “che siamo a terra, messi male” (con i soldi).

[312] non voglio travagliarmi niente niente, continua il parallelismo tra l’atteggiamento di Pantalone, III.5.33, quello del figlio, e quello del servo, neanche mi, nella battuta seguente.

[313] Angela vedendo Celio parlare con Beatrice lo crede infedele, secondo i sospetti già dichiarati in II.12.3-4.

[314] da quel che l’è, il giudizio di Arlichino su Angela è piuttosto deciso.

[315] Anche in questa scena, nonostante l’assenza di didascalie, è da presupporre un finto dialogo: il Dottore e Pantalone sono in scena entrambi, ma non si vedono, e non parlano tra loro, se non dalla battuta settima, in cui il Dottore fischia per chiamare gli zaffi, che egli ha preventivamente allertato. Il Dottore comincia elencando tutti gli insulti ricevuti da Pantalone nella scena quinta del terzo atto, esplicitando così, come per gradi, il crescendo della sua arrabbiatura. ♦ E no ’l gh’anderà al cald, “e non ci andrà in prigione”, antonomastico di “andare al fresco”. ♦ i zaff i è là da dré, “le guardie sono lì dietro”. ♦ starò za spettandol, “starò qui ad aspettarlo”.

[316] Madé, particella discorsiva (dal greco ma dia): “no, mai no”, cfr. Boerio s. v..l’è andada sbusa, “l’affare è andato in fumo”.

[317] La me’ gi’ esser, “la meglio deve essere”, gi’ esser è volgarizzamento del latino per “debet esse”, “el diè esse”, cfr. Bullo II.17.1, p. 93. ♦ gh’ho mo vogia da andarghe che crepo, s’intende da Beatrice: Pantalone non può andare a trovare l’amata se non ha con se del denaro.

[318] corp de mi, interiezione d’ira. ♦ sùbia, “fischia”: agli zaffi per chiamarli: anche nell’italiano della didascalia iniziale della scena seguente (forse per distrazione).

[319] t’ farò la sguàita, “ti spierò”, “ti terrò d’occhio”; «far la sguàita [...] spiare o codiare alcuno» (Boerio s. v.); «el nostro gatto l’à fatto tanto la sguaita che l’à brincà alla fin el sorse» (Muazzo, p. 481).

[320] braghessine, camisa, cioè con l’abito da sotto, spogliati dei loro vestiti, rimasti in biancheria intima; gli zaffi chiamati dal Dottore arrivano nell’esatto momento in cui Celio e Arlichino sono cacciati a bastonate dalla casa di Angela, (cfr. Bullo III.22.did, p. 101), e mentre Pantalone viene allo stesso modo bastonato da Beatrice, da cui aveva tentato di rifugiarsi (come indicato in III.7.8did).

[321] e scuffa, dal verbo scuffiare, “mangiare velocemente e con ingordigia” (Gdli); qui per “prendere”, in relazione anche ai precedenti to’, to’, to’ e to’ (battuta 2) e al seguente to’ suso, di Beatrice (battuta 9), che sottolineano la bastonatura.

[322] donne perverse, femene malegnaze, scrovazze desfamàe, il crescendo di insulti per il genere femminile è commisurato al contegno lessicale che i personaggi hanno tenuto durante lo svolgimento della commedia: Celio fa il punto sulla perversione, ossia il gusto di far fare agli uomini quello che esse vogliono; Pantalone vede in questo un carattere malvagio; e infine Arlichino insiste sull’appetito da bestie delle femmine, definendole “scrofe infami”; infamar uno significa “togliergli la fama”: qui è assai probabile un lapsus di Arlichino che confonde fama con fame.

[323] III.8.22-24 come sopra si presenta un altro crescendo, questa volta riferito alla condizione degli uomini caduti nella trappola (chi casca in rede), che termina con mincion e pampalugo, entrambi valgono “sciocco, stupido, stolido”.

[324] spesazze, “spese consistenti”.

[325] sangue spanto, “sangue versato”.

[326] guarse ’l becco, “aguzzare, appuntirsi il becco”, osceno: si riferisce al fine materiale del corteggiamento; (arrotare, dicesi degli strumenti da taglio, come indicato in Bullo I.3.5, p. 70).

[327] andào dagnora cola gobba, cfr. I.8.4 il significato di andar gobbo.

[328] son tropp andà dré quella robba, la rima di Arlichino si concede un’allusione più prosastica, come è suo costume.

[329] serro la cheba ma è scampào l’osello, “chiudo la gabbia quando l’uccello è già scappato”, qui riferito al fatto di essersi accorto di aver speso inutilmente troppo tardi.

[330] la rima di Arlichino, come sopra, è assai esplicita.

[331] III.8.46-48 gli insulti prendono forma sempre più concreta e offensiva: prima “traditrice senza scrupoli”, poi “assassina e cagna” e infine “brutta puttana”.

[332] III.8.49-54 i tre amanti in rovina cercano conforto nell’idea di una possibile vendetta del destino sulle donne, che non saranno più mantenute da loro. ♦ le pacche della scóa, “i colpi della scopa”. ♦ ti anderà a pepiàn in Carampana, “andrai a lavorare al piano terra del bordello” (per Carampane confronta Bullo I.6.9, p. 74), sarai ridotta all’infimo livello della prostituzione. ♦ ti deventerà una marziliana, cfr. I.8.8:barca da trasporto”, qui vale “prostituta”, “nave scuola”, “prostituta grassa”.

[333] mal del flusso, il Boerio registra “dissenteria” (a cui è assimilabile tra l’altro il pesantissimo flusso e riflusso da la porta da drìo del La bottega del caffé di Goldoni); molto sforzata la rima col precedente scusso, per “scuso”; ma potrebbe indicare anche la “gonorrea” o scolo, non registrato dal Boerio in quanto sempre restìo nel trattare argomenti scabrosi; si veda di contro il più disinibito Muazzo, p. 321: «i mali zé molti che vien al padre cazzo, col va massime in busi francesi o spagnoli, che per lo più se va coonestando la cosa col nome generico de mal de donne, e zé fra i molti el sporofigo, el scolamento (che i ghe dise che dal primo no se varrisce mai), e la pannogia. Per lo più i nostri zentilomeni e altre persone nobili, co’ i zé ben impestai sin alle reggie e ai oggi, i la giama gotta; i preti, frati, vescovi, gardenali e chi songiomi flussion»; e ancora per gonorrea, ivi, p. 562: «zé l’istesso che rilassazion de’ reni troppa frequenza d’orina; la zé una parola doperata dai medici per significar quel che ò dito».

[334] III.8.10-60 il lamento a tre voci di Pantalone, Arlichino e Celio, cacciati in sottoveste dalle donne e picchiati, è con ogni probabilità, vista la scansione ritmica, da pensarsi intonato se non cantato su musica: si confronti la scansione dei duetti d’addio degli innamorati.

[335] ancora una volta un cambio di scena che introduce luoghi diversi dall’esterno con case: questa volta la cella della prigione (cfr. I.10.did, II.5.did, II.13.didBullo, II.5.did, III.3.did, p. 82 e Spezier, II.8.did).

[336] III.10.1 Nella scena di Pantalone in prigione prende corpo, anche con l’aiuto della musica del violino suonato dal compagno di cella, la melodia del flon, evidentemente nota al pubblico, come testimonia anche Muazzo, p. 475, che riporta: «fin flon zé un nome d’un balletto». L’aria del flon su cui Pantalone improvvisa il suo lamento da prigioniero, per quanto sappiamo dalle attestazioni sembra essere un motivo musicale e una danza. La ricorrenza del motivo del flon all’interno delle commedie di Mondini e Bonicelli ne prova la diffusione. La struttura prevede una divisione in strofa e ritornello e si presta perciò alle improvvisazioni secondo la tradizione del contrafactum: le variazioni intervengono soltanto sulla parte narrativa della strofa, mantenendo invariato il ritornello. Qui Pantalone utilizza la melodia del flon per ricordare i propri errori e il proprio comportamento sconsiderato; attraverso il canto ripropone al pubblico la sua storia come ammonimento a non fare lo stesso, secondo l’idea dell’exemplum vitae. Si svolge così il nodo narrativo della commedia nel pentimento e nel ravvedimento del vecchio, che si prepara alla fortunata sorpresa dell’epilogo, e alla conseguente possibilità di cambiare vita, forte del fatto che la cattiva esperienza non gli consentirà di ripetere gli stessi sbagli. Il flon ritornerà anche nel Pantalon pezier, con altre improvvisazioni (Spezier II.8.3, II.9.6 e III.15.1). ♦ se m’ha fatto nìi per le cusiùre, “mi si sono fatti nidi (di ragno) per le cuciture”, modo proverbiale per indicare l’estremo stato di miseria. ♦ un sior carissimo che andava col capotto de velùo, “una persona d’alto bordo che andava col cappotto di velluto”, cioè vestito molto elegante. ♦ consoléssimo, “consoliamoci”. ♦ no i vegnerà a batter per el fitto, “non verranno a bussare alla porta per riscuotere l’affitto”. ♦ trar zó le serraùre, “scassinare le serrature”. ♦ guardian, “secondino, guardiano”. ♦ che daga la testa in sti ferri, “che prenda a testate le sbarre”. ♦ soné, soné, il comando è in questo caso al compagno di prigione che si è fatto prestare un violino dal guardiano della cella (ma è da considerare, qui come altrove, la presenza di musicisti a disposizione della rappresentazione). ♦ 1 colombera, “stanza per i colombi”, qui vale prigione. ♦ 2 ve vogio cantar, la passione di Pantalone per il canto è assodata. ♦ 4 siori, Pantalone si rivolge direttamente alla platea. ♦ 5 sta niova canzonetta sull’agiare (cfr. Bullo I.4.2, p. 72) del flon, queste parole mettono in evidenza la tecnica di improvvisazione illustrata sopra, come se Pantalone avvisasse il pubblico dicendo “l’aria la conoscete, ma state attenti alle parole perché sono nuove e adatte all’occasione”. ♦ 7-8 Flon flon marié vu belle, flon flon marié vui don, il ritornello, a differenza della strofa, non sembra mutare. ♦ 9 La xe sora de quelli, Pantalone enuncia l’argomento della canzone. ♦ 11 bordelli, qui nel senso generico di “strepiti, divertimenti”. ♦ 14 i butta via a orbón, “spendono e spandono alla cieca” (senza guardar gnente). ♦ 15 che che non è, “in men che non si dica”. ♦ 16 se scoverze ’l mal, “si scopre il problema grave”. ♦ 17 co se scorla la stiora, cfr. I.1.55. ♦ 18 cavedal, “capitale”. ♦ 19-20 no scorre pì le riode si no ghe dé l’onzión, cfr. I.7.10. ♦ 21 carissimetti, “cari” con doppio suffisso -issimi ed -etti, espressione affettuosa che imita il modo delle donne per lusingare gli amanti allo scopo di ottenerne (e porta zó) regali. ♦ 23 scùffie coi cornetti, “cuffie con ornamenti”: le cuffie erano molto usate dalle donne veneziane, spesso erano voluminose e abbellite da ricami o perle; i cornetti, non attestati, potrebbero riferirsi alla forma di corno, tipica del copricapo del doge. ♦ 24 còttoli, “sottane”; mantò, “copriabiti” (cfr. I.3.22). ♦ 25 parasù, “ciuffi posticci per acconciature” (cfr. I.8.12); galani, “nastri di ornamento”, «che venivano appuntati al vestito in alternativa od in combinazione con fiori veri od artificiali» (il termine ricorre ne Le morbinose e ne I rusteghi di Goldoni, cfr. Vitali s. v.). ♦ 26 e bezzi a tombolón, “e i denari se ne vanno a capitombolo”, come risultato della serie di regali. ♦ 28 con inzegno fin, ironico per “senza testa, senza pensiero”. ♦ 29-30 i dà i so scopelotti al gramo scuelottìn, cfr. II.1.1. ♦ 31-32 e quelle moneòle i ciappa su a palpón, “e prendono a manate di quelle monetine”. ♦ 33 pizzegài, “pizzicati”, nel senso di feriti, colpiti dalla freccia di Cupido, definito niente meno che un barone (cfr. Bullo I.1.5.did, p. 68): da quel baron d’Amor (34). ♦ 35-36 che zó per ogni lài i spande ’l so suór, “che disperdono il loro sudore (cioè il guadagno del loro lavoro) da ogni parte”, per lài cfr. III.2.16. ♦ 37 sangue e bezzi e robba, le spese sono tali che dissanguano; cfr. anche l’espressione riportata da Muazzo, p. 574: «i dise che i bezzi zé el primo sangue». ♦ 38 per qualche buon boccon, “per qualche buon bocconcino” nel senso di “bella ragazza”. ♦ 39 in malora, “in rovina”, inteso, come è successo già a Pantalone, “anche se già in malora”. ♦ 41-42 i se la vuol far fuora dagnora col ziogar, “vogliono consumare tutto col giocare sempre”. ♦ 43-44 bestemmie, rabbia, dogia, passión, il comportamento di chi gioca non per reale divertimento, quanto più per disperazione: maledicono con rabbia la loro situazione di dolore e patimenti. ♦ 45-46 mincioni, pàmpani, “stupidi, stolidi”, «se ghe dise a un omo scimunito e de poco spirito» (Muazzo p. 863), come pampalugo; da ben, vale come rafforzativo affermativo. ♦ 47 çerti compagnoni, ironico per indicare le cattive compagnie che contribuiscono allo sperpero. ♦ 48 taccài, “attaccati”. ♦ 49 magnarse ’l soo, “consumare i propri averi”. ♦ 50 boria e ambizión, “per l’ambizione di voler strafare”. ♦ 55-56 i para zó ogni tanto pilole a strangolón, “costretti a parar giù pillole a strozzamento”, s’intende che gli amanti, oltre a dissipare le proprie fortune, devono anche sopportare patimenti e privazioni, prima di esser ripagati (cfr. la battuta di Bagolino flemma e moneda, II.10.24). ♦ 57-58 se destruze el corpo e ’l cavedal, l’assenza di denaro si riflette immediatamente su un peggioramento delle condizioni di vita, e dunque sulla salute; come indicato precisamente in seguito (61-62): mal in borsa, int’i nervi, int’i ossi, int’el polmón. ♦ 59-60 ’l ben sempre ghe sfuze e ghe succiede ’l mal, nel mancato discernimento tra il bene e il male sta l’origine della rovina. ♦ 63-68 e forsi che culìa ... bertón, “e può anche essere che colei che li fa penare, dietro le spalle li deve star già dileggiando, facendo giochi e divertimenti col ganzo”, per bertón cfr. II.3.7. ♦ 69 zó da cavallo, “disarcionato”, metafora per indicare che sono terminati i denari. ♦ 70 cattiva sorte i trà, “si imbattono nella sfortuna”. ♦ 71 se mùa delongo ’l ballo, “la situazione cambia repentinamente”, secondo l’uso dell’espressione “cambiar musica”. ♦ 72 desù più non se va, inteso sia secondo la metafora del cavallo, cioè “non si monta più in sella”, nel senso della difficoltà di risollevarsi dai debiti; sia in senso letterale, con sfumatura oscena, “non si sale più da lei, a casa sua”: esattamente come è successo a Pantalone, soprattutto per ciò che segue (74): la ciappa sul bastón, “prende in mano il bastone”. ♦ 75 so mi quel che ve digo, Pantalone ricorda al pubblico che la canzone è costruita sulla sua esperienza personale. ♦ 79-80 siben che ste carogne le xe de sta rasón, “è pur vero che queste carogne la pensano così”. ♦ 81 grami chi trà via ’l soo, “miseri coloro che gettano via il proprio patrimonio”. ♦ 83 grami chi mette a còo, probabilmente “miseri coloro che mettono al collo”, nel senso del donare; la rima con soo si reggerebbe allora sul dileguo della liquida. ♦ 85-86 ció, ció, le mie raìse ció, tutto de ti son: tutte espressioni già usate da Pantalone (cfr. III.2.1, II.5.7 e III.3.14). ♦ 87 chi se confida, “coloro che si fidano”. ♦ 89 che i spera, che i rida, la speranza di ottenere corrispondenza amorosa, e le risa dei divertimenti per intrattenere la dama. ♦ 94 el vostro tegnì a man, “tenete i vostri avere sotto mano, vicini”. ♦ 95 ciappeve al mio consegio, “prendetevi, attenetevi al mio consiglio”. ♦ 96 a pian, “con calma”. ♦ 97-98 le prattiche e le donne, né ’l ziogo no xe bon, si veda l’espressione «chiapàr de le pratiche, pigliare delle male pratiche o amiciczie» (Boerio s. v. pratica), connesso al precedente compagnoni; perciò: “non è bene frequentar cattive compagnie, né donne, e nemmeno darsi al gioco”. ♦ 100 quando che bezzi avé, finché si ha una posizione economica di rilievo si viene benvoluti. ♦ 103 ma si la rioda zira, “se gira la ruota” (della fortuna). ♦ 104 i ve trà int’un cantón, “vi gettano in un angolo”. ♦ 107-108 imparéla a mie spese, che l’è un bell’imparar, Pantalone si riferisce al fatto di poter offrire il suo esempio al pubblico a mo’ di avvertimento, senza bisogno che qualcun altro si rovini come lui. ♦ 109 no ho ‘bùo giudizio, “non sono stato in grado di giudicare”. ♦ 111 Fenisso de stuffarve, cominciano così le ultime due strofe di congedo. ♦ 115 cusì ’l gh’avesse ancora, “se avesse ancora tempo”, nel senso di “se potesse tornar indietro”. ♦ 121-122 almanco abbiéle a care per l’agiare del flon, chiusa con captatio benevolentiae che fa riferimento alla popolarità dell’aria, direttamente eseguita da Pantalone (che vi si esibisce anche nello Spezier), accompagnandosi col violino, secondo la tipologia del canto accompagnato dalla viola da braccio. ♦ che ghe paghessimo el frùo, “che gli pagassimo il consumo, l’affitto” dello strumento.

[337] qualche conzalavezi, “colui che ripara col fil di ferro le stoviglie rotte”, cfr. II.13.45; e cfr. anche Muazzo, p. 619 s. v. liccapiatti: «e chi li conza i piatti de terra, co’ i se rompe e che i va za per le strade a criando, i se giama conzalavezzi e i li unisce col farghe do busi o tre e quanti che ghe n’è bisogno col trivello e con tocchi de ferretto sottilo e nualtri ghe disemo a chi zé de mestier “caro vu, deghe do o tre ponti a sto piatto, che el se m’à crepà, el se m’à averto, el se m’à sfezo”». Celio è evidentemente così malvestito (come indicato nella didascalia) da sembrare un povero mestierante ambulante.

[338] all’ose, “dalla voce”.

[339] ’l me fa peccào, “mi fa pena”.

[340] sbrìndoli per campagna, proverbiale che indica l’andare malconcio, cfr. «sbrindoloso, vestito di cenci» (Boerio s. v.), senza una meta, cfr. «andar sbrindolando, andar a girone, a zonzo, a ronda, vale andar attorno e non saper dove. Ronzare in qua e in là; andare in tregenda, vale aggirarsi senza proposito alcuno» (Boerio s. v. sbrindolàr).

[341] séu in corte de qualche strazzeferut, “lavorate alle dipendenze di qualche straccivendolo”, «chiamasi tra noi il ferravecchio, che gira per la città e compra non solo ferro vecchio, ma sferre d’ogni genere; ed anche cenci. Costui va gridando chi ha strazze? fero vechio? roba vechia da tocar bezzi; poi grida più forte strazze fer rut» (Boerio s. v.); si veda anche Bullo II.14.1, p. 91.

[342] avete il morbino: «volontà di ridere, scherzare, star sulle burle», anche «allegria, bel tempo» e «allegria smoderata» (cfr. Folena s. v.).

[343] stago megio qua che in palùo, “sto meglio qui che in palude”, a indicare luogo desolato «basso fondo di laguna di natura arenosa o pantanosa e talvolta anche crepacea, coperto dal più al meno di piante, che va ricoperto dall’acqua marina quando questa è nel suo colmo e scoperto dal riflusso» (Boerio s. v.).

[344] d’i gardellini in pastizzo, “cardellini in pasticcio” (cotti dentro una crosta di pasta), ironico per indicare pietanza scelta e prelibata, impossibile da mangiare in prigione; si noti un esempio di frase a cornice, per cui cfr. III.2.1.

[345] dimelo che no te ’l diga, forma proverbiale del tipo di “senti chi parla”. ♦ ciappa ’l tratto avanti, “vai avanti di un pezzo”; indica che Celio lo ha superato sulla stessa cattiva strada; l’espressione viene riportata anche da Muazzo, p. 531: «l’è cogion anca lu come i so veggi: el sa giappar el tratto davanti, come ognun de nu. Andeghela a far se sé capaci, che ve stimo; l’è andà a scuola avanti de vu», e ancora, p. 550: «quando uno arriva a conseguir una cosa, sia carica sia beni sia patrocinio, prima dell’altro che concorra per l’istesso effetto se dise: “l’à giappà el tratto avanti”»; si veda infine, p. 554: «giappar el tratto avanti zé anticipar le base e far avanti del stabilio e del compagno quella tal data cosa».

[346] co ti me vedevi mi andar a orza, con la successiva metafora di tener dretto ’l timón, indica l’uscita di rotta: orza «quella corda che si lega nel capo dell’antenna del naviglio da man sinistra»; «andar a orza vale a nave sbandata a sinistra» (Boerio s. v.), quindi con la necessità di raddrizzare la rotta col timone.

[347] sono in stato di andarmi a vender in gallìa, “sono ridotto talmente male che non mi resta altro da fare che remare in galera”.

[348] petto intrégo: probabilmente un modo di dire che si riferisce a una condizione di insufficienza fisica: cfr. Muazzo, p. 960, alla voce strettezza de petto: «el patisce strettezze de petto. L’è stretto de petto e per questo nol pol far certe fadighe, perché ogni tanto ghe manca el respiro» (forse vi è la possibilità che si debba leggere intregò, per “intricato”, comunque con un significato affine); oppure potrebbe indicare debolezza di carattere, se si considera che Muazzo, p. 841, riporta l’uso del vocabolo petto «per aver coraggio: “el gà petto de resister a qualunque cosa”», e per intiero, p. 582: «l’è intiero, gnancora toccà»; qui potrebbe significare: “hai un animo ancora inesperto”, “non hai capacità di resistere a una simile condizione di fatica”.

[349] magazeno, “osteria”, cfr. Bullo I.5.26, p. 73. ♦ ho una fame che m’ispirito, qui, a differenza di I.6.1, il significato è letterale e vale “muoio di fame”.

[350] al penacchio de mezo, “all’albero di mezzo” (della nave), nel senso di farsi impiccare.

[351] mi ho fatto ’l callo, per l’abitudine perpetuata di stare allegramente, qui ovviamente ironico.

[352] oh, mondo, fatto a tondo, modo proverbiale. ♦ me masena ’l coresin, “mi strazia (mi macina) il cuore”.

[353] da cercantino, da mendicante; il cercante è colui che in una confraternita ha l’ufficio di svolgere la questua. Diana, putto, come nome proprio al maschile dovrebbe ricorre l’insolito Diano.

[354] ’l tant bon temp, tanti comodi, tant formai, tanti marangoni, la sequenza di rinvii alle condizioni della bella vita che mette insieme formaggi e falegnami è un pezzo di demenzialità eccezionale. ♦ fortuna desfortuna, “fortuna sfortuna”. Tutta la conversazione che segue (battute 1-8) utilizza termini della lingua zerga, con la giustificazione di una comunicazione segreta non decifrabile dalla guardia (formigoto, battuta 5), tra padrone e servo. Si veda Vescovo 1987, pp. 53-55. ♦ canzonar, “parlare” (Prati 234). ♦ luminosa, “finestra” (Prati 199), secondo il campo semantico che connette lume / luce a guardare / vedere, per cui si confronti anche l’espressione di Pantalone me tien lumào in I.13.11.

[355] Come stanzia la bolla d’i gambari: in Vescovo 1987 si propone “come alloggia la galera”, considerato che bolla indica “città” (Prati 44 e Nuovo modo, 8,23); sembra possibile aggiungere connotazioni allusive, sia per quanto riguarda il contesto, sia per alcuni esempi legati al toponimo Treviso, per cui cfr. la nota a Bullo I.2.3, p. 68.

[356] Da lodi, “malamente”, proposto in Vescovo1987 a partire da lodo per “brutto” (Prati 112 e Nuovo modo 7,16).

[357] El vostro formigotto è trucado a intagiar?, “il vostro secondino è in grado di intendere?”, da formiga per “soldato”, “questurino” (Prati 146); si è già visto il significato di trucar per “rubare” in Bullo I.1.2, p. 67, qui forse vale più “imbrogliare”, connesso a intagiar, per cui Boerio annota «detto familiarmente accorgersi; insospettirsi»; qui vale “usare il gergo”, se si considera anche che il parlare in gergo vale come imbrogliare chi non può capire.Come stanzia vostra madre?, “come alloggia la vostra pancia?”, si cfr. il significato di mare in II.10.5 e III.12.25 (anche Spezier I.16.2 e I.16.2).

[358] smorfirave, “mangerebbe”, da smorfire “mangiare” (Prati 244), probabilmente nel senso di togliere la morfa, “fame” (Nuovo modo, 29,19). ♦ impiraùra d’urti, “bocconi di pane infilzati”, da impirar (per cui cfr. III.2.7) e urto gergale per “pane” (Prati 8 e Nuovo modo 32, 13 e 45, 13). ♦ co un pèr de sgionfose de ciaretto ve farave do crichi, “con un paio di fiaschi di vin chiaretto vi farebbe due bevute”, sempre in Vescovo 1987, a partire dall’annotazione di sgionfose per «mammelle piene di latte» in Boerio, si propone qualcosa di più morbido come “otre”, invece di “fiasco”. ciaro è “vino” (Nuovo modo, 16,2). Per crichi si può ipotizzare la derivazione da crica, «nome di giuoco di carte» (Boerio s. v.), per cui vale l’associazione descritta per vin da poniciò, in Bullo II.5.5, p. 83; oppure una derivazione da crico «martinello, ordigno in uso presso gli artiglieri per alzar pesi» (Boerio), mettendolo in relazione con il movimento di tirare indietro la testa che si fa quando si beve dalla bottiglia o dalla borraccia.

[359] castagnar, probabilmente da intendere secondo un generico: “parlare”, anche se far castagna significa “essere scoperto” (Prati 231); in questo senso Pantalone sta “scoprendo” le sue richieste ad Arlichino. stanzia niberta, “non c’ è niente”, “non si passa nulla”: niberta vale “no” (Nuovo modo, p. 352), “niente” (Prati 251).

[360] ciassetti, “divertimenti”, “spassi” (Boerio). ardor, “pane”, dalla voce gergale artone (Nuovo modo, 5, 15). scalfetto de lenza, “bicchierino d’acqua”, da scalpho “bicchiere” (Nuovo modo 6, 16 e 39, 24); lenza “acqua” (Nuovo modo 3, 7 e 26, 22).

[361] çercand, “elemosinando”.

[362] noma sto gramo servitor, “solamente questo misero servitore”.

[363] cospetto de Dina, (per Diana), interiezione, bestemmia; curioso che il giovane scelga il proprio nome come imprecazione, quasi a dire “maledetto me”.

[364] secchéme la mare, “datemi noia”, “spaccatemi la testa”, mare vale “utero” (cfr. II.10.5 e Spezier I.16.2 e I.16.2). ♦ I’ hòi mo persi tutti fina uno, “li ho persi tutti fino all’ultimo”.

[365] ti ti è, Diana, Pantalone sembra riconoscere il ragazzo. ♦ grolletta de zambelotto amarizò, probabilmente quest’espressione gergale si riferisce un capo di vestiario, dato che in diversi luoghi si trova camellotto, cambellotto, “panno di lana di cammello o di capra”; rimane tuttavia da chiarire il significato preciso dell’espressione, soprattutto per quanto riguarda il rapporto con grolletta (il Boerio riporta per grola: «detto per agg. a donna, segrenna; lunga lunga; sciocca sciocca come gli asparagi di montagna. È lunga magra e sgroppata») e con amarizo (per cui il Boerio riporta «amarizo o marizo, a marezzo, a foggia d’onde», in questo caso riferibile all’andamento del tessuto); «cameloto o cambeloto, cambellotto o ciambellotto e cammellino. Drappo fatto di pelo di capra. Cameloto de Brusseles, brussellino» (cfr. Boerio s. v.); il Folena riporta: «camelotto, tessuto di pelo di cammello, cammellotto»; e anche il Muazzo cita il «cambellotto baracannà, cambellotto de Brusselles»; l’origine del tessuto è antichissima e, anche se il pelo di cammello o di capra ne costituivano la particolarità, già a partire dal XVI secolo ne cominciarono a circolare anche di seta e di lana, (cfr. Vitali s. v.). ♦ un boro de pan traverso, “un soldo di pane povero, fatto in casa”. ♦ batizar, “annacquare”, forse qui intende “inzuppare” nell’acqua.

[366] frasca, “bamboccio”, cfr. Bullo II.6.16, p. 85. ♦ stà sui to costrai, “sta nei termini” (i costrai sono le tavole della barca, cfr. Boerio s. v.).

[367] fio d’una caldiera, cfr. II.13.42.

[368] me passa le zanze, “mi passa la passione per le cose frivole”, cfr. I.7.6.

[369] L’allegrezza di Celio che corre ad avvisare il padre che presto verrà scarcerato perché l’eredità lasciata dal fratello morto improvvisamente ha permesso il risarcimento immediato dei debiti, ricorda la conclusione de La putta onorata. Nella commedia goldoniana si tratta di uno svelamento improvviso: Donna Pasqua confessa a Pantalone di aver scambiato i bambini nella culla, rendendo così improvvisamente Pasqualino erede del vecchio mercante, e consentendogli di conseguenza di sposare la sua innamorata Bettina (cfr. III.23, III.29 e III.30).

[370] Celio congeda il pubblico ricordando di prendere la storia ― cosa che sembra difficile, vista la condizione ― come exemplum vitae.