Vincenzo Rota

Il fantasima

 

a cura di Monica Bisi e Maicol Cutrì

 

 

Biblioteca Pregoldoniana

 

 

lineadacqua edizioni

 

2022

 

 

 

Vincenzo Rota

Il fantasima

a cura di Monica Bisi e Maicol Cutrì

 

© 2022 Monica Bisi

© 2022 Maicol Cutrì

© 2022 lineadacqua edizioni

 

Biblioteca Pregoldoniana, nº 36

Collana diretta da Javier Gutiérrez Carou

Supervisore per i dialetti: Piermario Vescovo

Comitato scientifico: Beatrice Alfonzetti, Francesco Cotticelli, Andrea Fabiano, Javier Gutiérrez Carou, Simona Morando, Marzia Pieri, Anna Scannapieco e Piermario Vescovo

www.usc.gal/goldoni

javier.gutierrez.carou@usc.gal

Venezia - Santiago de Compostela

 

lineadacqua edizioni

san marco 3717/d

30124 Venezia

www.lineadacqua.com

 

ISBN dell’edizione completa: 9788832066890

 

La presente edizione è risultato dalle attività svolte nell’ambito dei progetti di ricerca Archivio del teatro pregoldoniano (FFI2011-23663), Archivio del teatro pregoldoniano II: banca dati e biblioteca pregoldoniana (FFI2014-53872-P) e Archivio del teatro pregoldoniano III: biblioteca pregoldoniana, banca dati e archivio musicale (PGC2018-097031-B-I00) finanziati dal Ministerio de Ciencia e Innovación spagnolo e dal FEDER. Lettura, stampa e citazione (indicando nome della curatrice, titolo e sito web) con finalità scientifiche sono permesse gratuitamente. È vietato qualsiasi utilizzo o riproduzione del testo a scopo commerciale (o con qualsiasi altra finalità differente dalla ricerca e dalla diffusione culturale) senza l’esplicita autorizzazione dei curatori e del direttore della collana.

 

 

 

 

Biblioteca Pregoldoniana, nº 36

 

 

 

Nota al Testo

 

Il testo è esemplato sull’unica edizione nota della commedia, pubblicata a Lugano nel 1748.[1] Il frontespizio è il seguente:

il / fantasima / commedia. / σοφς, εὐϑὐρρμων σ. // anno ciɔiɔccxlviii. // lugano, Nella stamperìa della suprema superiorità elvetica, nelle Prefetture Italiane. / con privilegio.

 

            L’edizione è anonima, ma l’attribuzione a Vincenzo Rota è dichiarata da Apostolo Zeno in una lettera a Francesco Brembato datata 21 marzo 1749 e pubblicata nel 1785:

Dell’autore della commedia del Fantasima, non si può sapere il suo vero nome, perché non gli piace di essere conosciuto. A lui, che mi è buon amico, avrei dato disgusto, se lo avessi da prima manifestato. Ma ora le cose sue lo han tradito, onde noto qui a molti, non temo di recargli spiacere, palesando a V. S. Illustrissima che mel ricerca. Egli si è il sig. abate don Vincenzo Rota, padovano, scrittore d’altre commedie tutte scritte, e tessute assai pulitamente, e comunemente applaudite.[2]

 

            L’attribuzione era già stata resa pubblica nel 1755, nella Drammaturgia di Leone Allacci accresciuta.[3] L’epigrafe in greco allude forse al gioco di occultamento cercato da Rota, «perché, come si evince dalla dedica ai lettori, l’autore temeva di incorrere in qualche forma di censura per avere riservato, qui più che altrove, largo spazio al carattere bizzarro e singolare della finta religiosa».[4] La citazione proviene infatti dalle lettere famigliari di Cicerone (Fam. IX, 22, 5), dove viene riportato il motto dell’antica scuola stoica: «il saggio parlerà con schiettezza».[5] Della commedia non si conoscono altre stampe, né tantomeno manoscritti. È possibile fissarne la composizione tra la fine del 1746 e il 1747: in data 19 dicembre 1746, infatti, Apostolo Zeno scrive a Guglielmo Camposanpiero di essere «occupatissimo» a trascrivere una novella inedita del Lasca,[6] che verrà poi sfruttata da Rota per comporre la commedia, come dichiarato nella nota introduttiva (p. 3).

L’edizione originale presenta a lato del testo una numerazione alternativa delle scene, secondo una prassi diffusa all’epoca, che permetteva alle compagnie teatrali di avere già una guida per passare dai cinque atti tradizionali a tre, più comodi da rappresentare. Ecco una tabella che permette un confronto rapido tra le due suddivisioni:

 

In cinque atti

In tre atti

I.1

I.1

I.2

I.2

I.3

I.3

II.1

I.4

II.2

I.5

II.3

I.6

II.4

I.7

II.5

I.8

II.6

I.9

II.7

I.10

II.8

I.11

II.9

I.12

II.10

I.13

II.11

I.14

III.1

II.1

III.2

II.2

III.3

II.3

III.4

II.4

III.5

II.5

III.6

II.6

III.7

II.7

III.8

II.8

III.9

II.9

III.10

II.10

III.11

II.11

III.12

II.12

IV.1

III.1

IV.2

III.2

IV.3

III.3

IV.4

III.4

IV.5

III.5

IV.6

III.6

IV.7

III.7

IV.8

III.8

IV.9

III.9

IV.10

III.10

V.1

III.11

V.2

III.12

V.3

III.13

V.4

III.14

V.5

III.15

V.6

III.16

V.7

III.17

V.8

III.18

V.9

III.19

 

 

 

Vincenzo Rota

Il fantasima

 

Commedia

 

 

 

A’ Leggitori

La più leggiadra novella, e piacevole, ch’io mi leggessi mai a miei dì, si è una inedita di Antonfrancesco Grazzini detto il Lasca; che per mezzo del signor Appostolo Zeno alle mani pervenutami, ebbi agio, non che di leggerla, di trascriverla ancora, e farne poi sopra da me a me le maggiori risate del mondo.[7] Li vari e tanti ridicoli accidenti che v’intervengono, il loro intreccio maraviglioso, la condotta, l’arte parvermi così materia acconcia per commedia, ch’entrommi a un tratto il baco di farnela; e ne la feci di fatto, come vedete. Chi ha letta la novella, vedrà quello ch’io giudicai bene ometterne, e quello che aggiugnervi: chi non l’ha letta, né vedrà, né accorgerassi di nulla. Pregovi solo, se discreti sete, e gentili, all’udire in bocca della pinzochera sconciatamente poste parole sagre, divote preci, od altro, di non iscandolezzarvi, e sinistramente interpetrando, di non lo attribuire a disprezzo, o derisione della cristiana religione cattolica, di cui vantomi, mercè di Dio, ossequioso figliolo, e dov’uopo sia, fino al sangue, e alla vita costantissimo difensore: ch’anzi null’altro in così fare io pretesi, fuorché l’insolente abuso superstizioso di certe donnicciuole schifalpoco detestare, che santità affettando, e devota saccenteria, non aprono bocca, che non mettano la lingua in Cielo (che meglio starebbe in un cesso); e come se con Domeneddio e co’ santi un’antica dimestichezza, e fratellanza avessero, tra i cicalamenti anche più inetti e profani i loro santi nomi ad ogni tratto frammischiano. Specchio de’ costumi, e maestra della vita è la vera commedia. Nella sua chiara vista mettersi deono i vizi, e le virtù; ord’altri ne tragga profitto, e a fuggir quelli impari, e queste ad abbracciare: e tale unicamente si è il fine ch’io mi proposi. Aggradite il buon volere, e il Ciel vi benedica.

 

ARGOMENTO

Maestro Manente medico, portato via ubbriaco per ordine di Lorenzo de’ Medici, è tenuto chiuso per un anno, senza ch’ei sapesse dove si fusse. Si fa creder universalmente ch’ei sia morto. Intanto la di lui moglie si rimarita. Dopo vien messo celatamente in libertà. Volendo egli entrar in sua casa, è tenuto per un impostore. Finalmente faccendosi apparire che tutto fosse avvenuto per arte magica, ritorna con la sua moglie contento.

 

PROLAGO

 

                                   Questa che in scena vien, i’ vo’ pur dirvela,

                                   non è in fatti comedia; ma intendetemi,[8]

                                   commedia voglio dir, di quelle tattere[9]

                                   vestita, ch’oggidì tra voi costumansi,

5                                  o spettatori, e spettatrici amabili.

                                   Da capo pur a’ piè disaminatela;[10]

                                   sotto, sopra, per tutto ove più aggradavi,

                                   che vel permette chi alla luce diedela;

                                   ed ella istessa è compiacente, facile,

10                                e veder, e toccar da tutti lasciasi,

                                   quanto però conviensi a zita nubile,

                                   verbigrazia scherzando, a caso vergine,

                                   per ispicchio, di volo, e senza scandalo,

                                   come ad una vestal né meno niegasi.

15                                Vedrete che non ha cuffia a girandola,

                                   o raggrinzata, o spanta, o fatta a nottola,

                                   o a coccio, o a foglia di lattuga, o cavolo,

                                   con code, o senza code, od altre simili

                                   del cervel femminil moderne cupole.

20                                Topè non porta o ritto, o crespo; e candida

                                   polve raccolta a volo dalla macine

                                   i crini a foco intorti non adultera.

                                   Ma il capo avendo d’ogn’impaccio libero,

                                   lascia i capegli, qual natura feceli,

25                                stretti da un nodo solo alla collottola

                                   scender liberamente giù per gli omeri.

                                   Dure balene a lei né ’l fianco pigiano,

                                   perché gentil si resti in busto, e gracile;

                                   né ’l petto, perchè fuor trabocchi, e spandasi.

30                                Dalla cintura ingiù non usa ascondersi

                                   in mezzo al centro di quei vasti circoli,

                                   che due palmi di qua di là si sfiancano,

                                   e si dilatan più, più che discendono;

                                   come campane, a cui li piedi mobili

35                                appunto di battaglio a doppio servono.

                                   Ma di bianca vestina pura e semplice

                                   che Verità, per dirvi il nome, appellasi,

                                   coverta vassi, e da pieghevol cingolo

                                   succinta il fianco fa veder il candido

40                                ignudo piede, a cui d’intorno avvolgonsi

                                   incrocicchiate assieme le flessibili

                                   guiggie de’ brevi calzaretti comici.

                                   Dal collo non le pendon altri ciondoli

                                   che un fido rilucente specchio nitido,[11]

45                                entro di cui ciascun la vostra immagine

                                   scorger potete, se specchiarvi piacciavi.

                                   Ma pazzo me, che ve la sto a descrivere;

                                   non la vedrete già da voi medesimi?

                                   Vi dirò sol ch’ell’è di suo carattere

50                                allegroccia, festosa, motteggevole,

                                   che il riso ha sempre in bocca, e con piacevoli

                                   novelluzze gli orecchi altrui solletica

                                   in guisa, che talor fuori de’ gangheri

                                   ti cava le mascella, o senza accorgerti

55                                una fontana a un tratto ti fa nascere,[12]

                                    che t’allaga, e t’inonda co’ suoi rivoli

                                   tutto il terren, ch’infra’ tuoi piedi serrasi.

                                   Ora com’è suo stil, per farvi ridere

                                   vuol narrarvi una beffa lepidissima,

60                                che fe’ Lorenzo a un briacon di medico,

                                   Lorenzo quel Magnifico de’ Medici,

                                   quel grande, saggio, amico delle lettere,

                                   che sì ben governò Firenze nobile,

                                   Firenze bella, e tanto a mastro Apolline,

65                                alle Muse, alle Grazie, ai Numi, agli uomini

                                   cara e diletta; quella idest medesima

                                   città, dov’ora siamo: ecco la cupola,

                                   che per l’ottava maraviglia contasi:

                                   la vedete, com’erge insù ’l comignolo?

70                                Orbè, finché qui sete, vagheggiatela,

                                   che doman non c’è più, ma troveretevi

                                   piantato invece il gran salon di Padova,

                                   o di Venezia il campanile altissimo,[13]

                                   o il Culiseo di Roma mezzo logoro,

75                                più che dal tempo, da costume barbaro.

                                   Or torno a bomba, e come testé dissivi,[14]

                                   l’autor, ch’io nol conosco, questa favola

                                   vestì alla foggia di quell’aureo secolo,

                                   che le parole eran non più che femmine

80                                e i fatti maschi; e le cose chiamavansi

                                   col nome suo senza veruno scrupolo.[15]

                                   Per altro ei si protesta e giura d’essere

                                   quanto Carlo, e Pipino, cristianissimo.[16]

                                   Questo il dice perché, s’alcun malevolo

85                                volesse giudicar da’ panni il monaco,[17]

                                   voi lo smentiate, e gl’insegniate a prendere

                                   non per la punta il ferro, ma pel manico.[18]

                                   Non vi tengo più in ciance, che già viensene

                                   il medico, ch’il nome di Fantasima

90                                alla commedia diede, perché credesi

                                    da tutti morto fin l’anno preterito.

                                   Attenti a ciò ch’ei dice, e zitti statevi,

                                   se tutto il resto ben volete intendere;

                                   che il dievidielbuondie, e ’l buon anno i’ lasciovi.

 

 

 

ATTORI

 

MAESTRO MANENTE, medico, marito di

BRIGIDA, rimaritata con

MICHELAGNOLO.

BURCHIELLO, amico di Manente.

VESPINA, serva di Brigida.

MADONNA DOROTEA, pinzochera.

NEPO, Negromante.

SINDICI.

NOTAIO.

CAPORALE con birri.

 

La scena è in Firenze.

 

 

 

                                   ATTO PRIMO

 

 

                                   SCENA PRIMA

 

                                   Borgo di Firenze. Maestro Manente vestito da marinaro.[19]

 

                                    Manente.

 

                                   Io ci arò infine a perder il cervello. Più che ci penso, meno la intendo. Un anno ch’io fui trasportato senz’avvedermene fuori di questo mondo, e non so dove finora io mi sia stato. Ritorno alla luce, so dir come. Vado al mio podere, e ne sono scacciato. Scrivo di propio pugno a mia moglie, e mi rigetta con improperi, e minacce. Che domin di travaganze sono codeste? Povero Manente! Un medico fisico, e cerusico tanto conto in Firenze in questo stato! Dov’è la mia toga, il mio collare, i miei batali? Io non so come mi entrar in città con questi panni. Ma che ho a fare? Convien pure ch’io vi vada, s’ho a vedere dov’ha a finire quest’incantesmo. Ah temo che si mi sieno posti dattorno tutti gli spiriti d’inferno per trastullarsi de’ fatti miei.[20]

 

 

                                   SCENA SECONDA

 

                                   Nepo negromante e Manente.

 

            nepo               Che si fa, Manente?

 

            manente        Ahimè, eccole qua le demonia.

 

            nepo               Non temere, maestro: io non son qua per offenderti; tu vedi uno spirito infernale, come ti pensi, ma un uomo in carne, come tu sei.

 

            manente        (a parte) (Io mi sento gelare.)

 

5          nepo               Che tremi dappoco? Guardami, mi conosci?

 

            manente        Io non so chi tu sia, né t’ho, ch’io mi ricordi, mai più veduto.

 

            nepo               Tel dirò. Io mi son uno che sin da fanciullo apparai per vaghezza l’arti magiche, e so cangiar a mio senno, e volger le umane vicende.

 

            manente        (a parte) (Ah egli è costui certamente che m’ha fatte le malìe. Mira cera da Malebranche!)

 

            nepo               Che pensi ora?

 

10        manente        Penso alle mie sventure io.

 

            nepo               Narrami che ti avvenne; posso consolarti.

 

            manente        Piacesse al Cielo che tu dicessi il vero.

 

            nepo               Dicoti che posso, e voglio; quand’io sappia da te puntualmente li tuoi accidenti passati.

 

            manente        (a parte) (Ormai sono a termine di dovere sperare anco ne’ diavoli.)

 

15        nepo               Che? Dubiti forse di mia parola?

 

            manente        No no; anzi mi ti raccomando, gentilissimo mago. (a parte) (Mi fa tutto tremare.)

 

            nepo               Raccontami adunque. (a parte) (Gran bietolone!)[21]

 

            manente        Sappi che è omai un anno, ch’io vivomi fuor del mondo.

 

            nepo               E dove se’ tu vissuto?

 

20        manente        Io non lo so.

 

            nepo               Come nol sai? Se’ tu stato in aria, in acqua, in inferno, dove?

 

            manente        Nol so.

 

            nepo               Tu mi pari un allocco. Che hai veduto colà dove tu eri?

 

            manente        Notte continua.

 

25        nepo               Se’ stato dunque negli abissi.

 

            manente        No, ch’io mi giacqui sur un letto sprimacciato.

 

            nepo               Sto a vedere, che tu per un anno abbia sempre dormito, e sognato.

 

            manente        Può essere anche questo.

 

            nepo               Non se ne trova né via né verso. Di’ su, che hai sognato?

 

30        manente        Se ben mi ricorda, io addormentaimi, sarà un anno, alla taverna delle Bertucce costà in Firenze, dove avevamo io, e Burchiello ed altri amici bevuto assieme, ch’era appunto di maggio; e che buoni vini v’avea quell’oste Amadore!

 

            nepo               (a parte) (Egli è il maggior ubbriacone della terra.) Che avvenneti poi?

 

            manente        M’avvenne che destatomi dopo un lungo saporito sonno, mi trovai colà dove non so dove io mi fossi, ch’era buio buio.

 

            nepo               Eccoci da capo. Che facesti colà?

 

            manente        Gittatomi dal letto così tentoni, me n’andai dove mi pensava che fosse una finestra, ma non la trovandovi, mi diedi brancolando alla cerca, tanto che mi venne trovato un uscio del necessario: sicché quivi orinai, perché ne aveva bisogno, e feci mio agio.

 

35        nepo               Buon pro, amico.

 

            manente        Indi raggirandomi per la camera…

 

            nepo               Vedi che ci se’ capitato? Tu se’ stato dunque in una camera.

 

            manente        Ma credi tu che fosse camera veramente?

 

            nepo               Nol dicesti or ora?

 

40        manente        Dissi, ma nol so.

 

            nepo               Questa è la favola dell’uccellino. Tira innanzi.[22]

 

            manente        Aggirandomi per quel buio me ne tornai finalmente a letto pauroso, e pieno di strana maraviglia, non sapendo io medesimo, in qual mondo mi fossi.

 

            nepo               Me l’hai detto già due paia di volte. Né ti partisti più di là?

 

            manente        Odi pure. Cominciandomi a venir fame, fui più volte tentato di chiamare; ma poi dalla paura ritenuto mi tacqui, aspettando quel che seguir dovesse de’ fatti miei. Di lì a poco sento toccar l’uscio, e dimenar il chiavistello: io mi scuoto tutto quanto, mi rizzo a sedere in sul letto; quando ve… ve…

 

45        nepo               Che vai balbettando? (a parte) (Chi non riderebbe?)

 

            manente        Ne tremo ancora in pensarlo.

 

            nepo               Eh via, tu mi sembri un fanciullo.

 

            manente        Quando vedo entrar dentro due vestiti di quegli abiti bianchi da frati insino in terra, con in testa un capperone per uno di quelli di via de’ Servi, che par che ridino, il quale dava loro infin su le spalle.[23]

 

            nepo               Tu avrai riso allora.

 

50        manente        Riso? Io me ne stava a man giunte, come un boto.

 

            nepo               Che fecero coloro?

 

            manente        Aveva l’uno la spada ignuda dalla mano, mi par, destra, sì destra, e dalla sinistra una gran torcia accesa; e l’altro dietro a lui ne veniva con un fardello. Entrati dentro riserrarono l’uscio subitamente; e quel della spada, e della torcia s’arrecò rasente la porta: l’altro distesa una tovagliola sopra un desco, ch’era dirimpetto al letto, ponvi su pane, capponi, vitella, arrosto, frutte, fiaschi, ed altre cose da toccar col dente.

 

            nepo               Ti sarai allora almeno consolato.

 

            manente        Un pochino. Fatto ciò, m’accenna ch’io vada a mangiare. Io che vedeva la fame nell’aria, rizzaimi ritto, e cosi com’ero in camicia, e scalzo m’avviai in verso le vivande. Ma colui mostratomi un palandrano, e un paio di pianelle che miei panni erano non so dove spariti, fece con cenni tanto, che mi misi l’uno e l’altro, e cominciai a mangiare con la maggior voglia del mondo.[24]

 

55        nepo              Chi di te più felice?

 

            manente        Quanto al mangiare e al bere, va bene; ma nella coda sta il veleno, dicea colui. Ascolta pure.[25]

 

            nepo               Di’, ch’io t’odo.

 

            manente        Allora coloro aperto l’uscio n’un baleno s’uscirono di camera, e serratomi dentro a chiavistello, mi lasciarono senza lume. Ciò nonostante trovata la bocca al buio, con quei capponi, e con quella vitella, e beendo al fiasco alzai il fianco miracolosamente; e consolavami tra me, che s’io aveva pur a morire, sarei morto oggimai a corpo pieno.

 

            nepo               Questa infatti non è poca consolazione per un tuo pari.

 

60        manente        Che vuoi? Tanto si gode, quanto si mangia, e si bee ve’. Poscia rassettate il meglio ch’io potei, le reliquie avanzate, le rinvolsi in quella tovagliola, e me ne tornai al letto.

 

            nepo               Tu vi facevi la vita de’ gaudenti colà. E questi sono i tuoi guai?

 

            manente        Ma non dì tu quello starsi tanto tempo rinchiuso così solo in quelle tenebre, con quefantasimi mattina e sera dinanzi agli occhi, che non so chi non ne fosse caduto morto a prima vista.

 

            nepo               Ammiro il tuo coraggio.

 

            manente        E la moglie, e la casa, e gli amici, e le mense del Magnifico, a cui beeasi così bene, restarne così a luogo privo, non la di’ tu sciagura?

 

65        nepo               Peggio sarebbe che perduta avessi ogni cosa per sempre.

 

            manente        E questo appunto è il mio spasimo maggiore: lasciami dire.

 

            nepo               Di’ pure, ch’io n’ho piacere.

 

            manente        Dopo tante angosce… ah, mi par tuttavia di sognare... non sogno, è vero, ora?

 

            nepo               Sei desto sì, se’ desto. (a parte) (Ah ah: s’ei non impazza, è un miracolo.)

 

70        manente        L’altr’ieri dunque entrate in camera quelle due solite anime bianche, mi accennano ch’io mi levi di letto; e fattomi vestire questi pannacci alla marinaresca, che tu vedi, mi cacciarono le manette; e gittatomi indosso un mantellaccio con un capperoccione infino al mento, mi menaroro via. Dopo aver camminato lunga pezza senza mai veder lume, né saper dove mi gissi, sentimi cavar quel mantellaccio di dosso, e trarmi le manette.

 

            nepo               E allora ti dierono libertà.

 

            manente        Così sperava io pure. Ma legatomi ad un tronco mi tirarono il cappellotto in su gli occhi, e lasciaronmi colà solo.

 

            nepo               Dove lasciaronti?

 

            manente        Ora l’udrai. Non t’annoiare, ti prego, perché n’arei tante da dire.

 

75        nepo               Di’ pure a tuo agio. (a parte) (Gliel’han fatta ben co’ fiocchi sì.)

 

            manente        In quella guisa rimasto, stetti alquanto in orecchi, e non sentendo romore, né strepito nessuno, cominciai a tirar le mani a me, e ruppi agevolmente que’ legami, ch’erano di vitalbe: sicché levatomi il cappello d’in su gli occhi, vidi fi   nalmente il cielo, e trovaimi colà tutto solo.

 

            nepo               Dove ti trovasti?

 

            manente        Non tel dissi ora?

 

            nepo               No che non me l’hai detto.

 

80        manente        Se ti dico io che non so dov’io m’abbia il cervello: sì colà in una valle della Vernia.

 

            nepo               Tu mi fai maravigliare, e ridere insieme.

 

            manente        Apparecchiati pur di piagnere.

 

            nepo               Ancora ce n’hai da dirmene?

 

            manente        Se n’ho da dirtene? Adesso cominciano li guai. Finora, via, c’è stato un po’ di male, e un po’ di bene: ma in avvenire povero Manente, che sarà di te mai?

 

85        nepo               Via non t’avvilire; seguita il tuo discorso.

 

            manente        Di là dunque mi traggo pieno tuttavia di stupore, e di paura; e già faceneodosi giorno alto, m’incammino al Mugello, dov’ho podere: vi trovo un nuovo lavoratore, gli chiedo ricovero, né vuol accogliermi: spedisco tosto una lettera di mia mano a mogliema perché mi mandi da rivestirmi de’ miei panni, e mi faccia conoscere per quello ch’io sono, e mi risponde un monte di villanie, cacciandomi alla malora come un raggiratore, e un birbante. Ora ridi, se puoi.[26]

 

            nepo               Anzi via più me ne fai voglia. Ora consolati, Manente, ch’io son qui per aiutari; e dicoti per tuo conforto ch’è ormai vicino il termine de’ tuoi travagli, e che pria di domane riavrai e moglie, e casa, e roba, e sarai riconosciuto per quel che sei.[27]

 

            manente        Quando mai ciò avvenga! Ma dimmi, è egli vero che siasi la mia moglie rimaritata con Michelagnolo orafo, come intesi сolà al Mugello?

 

            nepo               Verissimo.

 

90        manente        Mira ribalderia!

 

            nepo               Ma ciò avvenne, perché tutta Firenze credeasi che tu fossi di già morto.

 

            manente        Lo credei veramente buona pezza anch’io. Ma io odo, veggo, sento, mi movo, ho fame, sete… mi pare… credi tu ch’io sia vivo in fatti?

 

            nepo               Se’ vivo sì. Datti pure coraggio: entra in città, fatti vedere, e per sinistri accidenti, che tuttavia ti s’attraversino, soffri costantemente, e resisti, che rimarrai infine consolato.

 

            manente        Io mi sento alle tue parole colmar tutto addentro di gioia e di speranza.

 

95        nepo               Vanne pur animoso e conoscerai infine chi mi son io.

 

            manente        Te ne rimeriti il Cielo, o mio dolce confortatore.

 

            nepo               Odimi: non dir a persona né d’avermi veduto, né di ciò ch’io ti dissi, altrimenti guai a te, guai a te.

 

            manente        Non dubitare. (a parte) (Cacalocchio! Credo che costui sia il priore de’ diavoli: potrebbe farmi peggio che non m’avvenne: non parlo no.)[28]

 

 

                                    SCENA TERZA

 

                                    Nepo.

 

                                    Io mi sentiva scoppiar delle risa. Sapeva io già ch’ella era una beffa orditagli da questo principe Lorenzo de’ Medici, per di cui commissione portato via colui dormiglioso ed ebbro da due staffieri, senza ch’ei se n’accorgesse, fu tenuto a quel modo rinchiuso prima in palazzo; poi in Camaldoli: e che stando la di lui moglie al podere, s’era fatto credere a tutta Firenze, con un cadavere travestito de’ suoi panni, ch’ei fosse morto di contagio. Ma in udire ora le particolarità di cotal trama e udire dalla bocca medesima di colui che incappovvi, io n’ebbi il maggiore spasso del mondo. Ella è invero una burla un po’ troppo rilevata; ma la è appunto da gran signore, e da quel cervello così sottile, e bizzarro, com’è il Magnifico. Sta ora a me il condurla a termine, che a tal fine dal medesimo Lorenzo fui qua chiamato; e compierolla in guisa che ne rimarrà ognuno stordito, e se mai lo fui per l’addietro, sarò via più riputato per lo avvenire, e tenuto per un potentissimo negromante.

 

 

 

                                    ATTO SECONDO

 

 

                                    SCENA PRIMA

 

                                    Strada in città. Vespina ch’esce di casa.

 

                                    Ho inteso signora, ho inteso, farò, ch’ella venga tosto. Non son io già sorda, né stordita, che mi s’abbiano a replicar le cose cento volte. La è divenuta questa mia padrona da due giorni in qua così inquieta e fastidiosa, che non ci si può più. Non sa ciò che si faccia, né che si voglia: va, viene, dice, ridice, smania, alita, tira tanti d’occhi, che pare una ossessa. Si può dare? Mettersi in testa che possa essere risuscitato il suo primo marito Manente morto già da un anno, e sotterrato! Che venga il vermocane a chi le ha scritta quella lettera, che n’è stata tutta la rovina. Sentiremo ora su questo proposito l’oracolo di codesta Dorotea; purché la sia in casa, ché suol uscire sempre in albi, e gir per tutte le chiese a dar il lustro a marmi co’ ginocchi. Pinzochere, che vuoi ch’io ti dica? Madonna Dorotea è in casa?[29] (bussa alla porta)

 

 

                                    SCENA SECONDA

 

                                    Dorotea e Vespina.

 

            dorotea        Pace e carità: chi mi vuole? O se’ tu, Vespina?

 

            vespina          Io sì. Non mi credea di trovarvi, perché so il vostro costume.

 

            dorotea        È vero, figliola, io esco a far un po’ di bene di buon mattino. Ma oggi appena alzatami ho avuto a tener certa conferenza di spirito, che non m’ha lasciato escir se non ora, che smontava appunto le scale.[30]

 

            vespina          Per curiosità, che spirito era egli? Folletto forse?

 

5          dorotea        Che domini dì tu di folletti?

 

            vespina          Sì; non mi diceste voi ora di certa conferenza co’ spiriti? M’immagino ch’e’ sia uno di cotai spiriti familiari.

 

            dorotea        Tu se’ ben ignorantella. Conferenza di spirito, ti dissi, che vuol dire ragionamenti spirituali, dispute d’anima, e di coscienza: o vatti pensa di folletti!

 

            vespina          Ve’! Compatitemi, che in tai faccende io non ci ho troppa mano.

 

            dorotea        Lo so, lo so, che voi altre ragazzaccie siete tutte corpo, e nulla spirito.

 

10        vespina          C’è ben tutta spirito la mia padrona, anzi, per dirla, spiritata.[31]

 

            dorotea        Chi? Brigida? Fostu, pazzarella, di quella bontà. La non è già di quelle... di quelle d’oggidì; come verbograzia, l’Antonia dei Bengodi, m’intendi, quella costà vicina, ch’è tenuta una Magnificatte, e un’Alleluia e poi la fa… basta, Dio lo sa… non vo’ mormorare, ché la carità del prossimo nol vuole. Ti dico che Brigida la è una donna… una donna… vo’ tu più? Io so la sua coscienza più del Paternostro.[32]

 

            vespina          (a parte) (Senti che carità del prossimo!) Eh qui non ci entra coscienza, madonna. Vi dico che la mia padrona ha a conferire con voi certo caso un po’ scabroso.

 

            dorotea        Che scabroso? Venga, venga, ch’io glielo spianerò. Non sarà già il primo. Sai tu che caso e’ sia?

 

            vespina          Sollo, ma non vuol che ve lo dica io, perché è materia gelosa e teme d’essersi mal maritata con Michelagnolo.

 

15        dorotea        Come malmaritata? Se quel parentado è passato per le mie mani; e sai s’io metto piede in fallo.

 

            vespina          Eh so che avanza a voi più senno, che cresta all’oche.[33]

 

            dorotea        E poi non è ella già gravida? Che vuol di più?

 

            vespina          Non è questo. Teme che non sia tornato al mondo il suo primo marito.

 

            dorotea        Chi? Maestro Manente?

 

20        vespina          Appunto. Ci sono certi indizi, lettere, messi, infatti ella n’è così sbigottita, ch’esce talora del seminato.

 

            dorotea        Tu mi vuoi far ridere. Non sai che in inferno nullasteredentio? Chi è morto non risuscita più ve’. Lo vidi io a seppellire, e gli ho detta la requie: e più ti vo’ dire ch’egli è al Limbo: o va’.[34]

 

            vespina          Rivelazione, vero?

 

            dorotea        Non posso dir più. (si vede passar Manente)

 

 

                                    SCENA TERZA

 

                                    Manente, Dorotea, Vespina.

 

            vespina          Ahi ahi aiuto, Dorotea mia santa.

 

            dorotea        Che hai, figliola, che hai?

 

            vespina          Vedete colui? Lo vedete?

 

            dorotea        Vedo; se non m’inganno, un marinaio.

 

5          vespina         Non vedete ch’è Manente? (Dorotea cava gli occhiali, e lo squadra)

 

            manente        (a parte) (Quella è pur Vespina mia fante: come si spaventa al vedermi!)

 

            dorotea        Ne ha, ne ha di quella filosomia; ma per questo? Ci sono tanti che si somigliano.[35]

 

            vespina          Più che lo guardo, più mi par desso. Ahi ahi, Dorotea ei si move.

 

            dorotea        Non vuoi tu ch’ei si mova, s’è vivo?

 

10        manente        (a parte) (Ora mi sovviene: mi credon morto. Meglio è per non far qui baccano ch’io vada a trovar fra Sebastiano mio confessore; ch’ei solo mi può esser buon mezzano per disingannarle.)

 

            vespina          Ahimè, madonna, ci viene incontro.

 

            dorotea        No, ch’ei volta canto: se’ pazza?

 

 

                                    SCENA QUARTA

 

                                    Brigida, Dorotea e Vespina.

 

            brigida          Che strillare è codesto tuo in su la strada, che m’hai messo tutto il sangue in rivolta? Dimmi, che fai costà, sguaiataccia?

 

            vespina          Ah padrona. (guarda dattorno)

 

            brigida          Che c’è? Che hai? Mi fa tremare.

 

            dorotea        Non vi smarrite, figliola: ha le fraveggole costei.[36]

 

5          vespina          Che fraveggole? Vi dico io ch’egli era Manente.

 

            brigida          Ahimè: dov’è? Gli hai parlato? Che ti disse?

 

            vespina          Nulla… ma… 

 

            dorotea        Acquietatevi in nome di san Fermo. Vi dico io che la è una lusione di fantasia. Passò di qua non so qual marinaro ch’avea un po’ d’effigie del vostro defonto Manente – rechiesca –, si credette la ragazza ch’ei fosse desso, e cominciò a metter quelle strida.[37]

 

            brigida          Era un marinaro veramente?

 

10        dorotea        Al vestito: ma che sospetti sono codesti vostri d’uno ch’è ormai fetido, e inverminito: oh Signor Iddio, cos’è mai questa nostra carnaccia? Vermi, vermi e non homo. Onde figliola mia levatevi di testa cotai chimere, e non le badate.[38]

 

            vespina          Mi par tuttavia di vederlo.

 

            brigida          Orsù tornati in casa, che tu non se’ buona che a mettere scandali.

 

            vespina          Non so poi che areste fatto voi, se l’aveste veduto, com’io.

 

            brigida          Taci là, ti dico, petulante: vatti su, ch’ora io torno.

 

15        vespina          Io vo: ma egli era Manente, Manente sì.

 

            brigida          Se ti giungo.

 

            dorotea        Compatitela, ch’è ragazza.

 

 

                                    SCENA QUINTA

 

                                    Brigida e Dorotea.

 

            brigida          Ora sappiate, Dorotea, che non sono senza qualche ragione i nostri spasimi. E per questo appunto io mandava in cerca di voi, per comunicarvi caso strano che mi avvenne, per sentirne il parer vostro, e averne da voi alcun conforto.

 

            dorotea        Sia con Dio: da me non mancherà: ditemi che è ciò.

 

            brigida          Meo, quel figliolo del nostro lavoratore nuovo ch’ho al podere…

 

            dorotea        V’intendo, v’intendo.

 

5          brigida          Venne a me iermattina di buonissima ora, e recommi una lettera… credo averla in tasca… sì eccola: guardate un poco: conoscete vo’ il carattere?

 

            dorotea        (cava gli occhiali dal seno) L’ho veduto certo altre volte… mi par…

 

            brigida          Non è tutto minuto lo scritto del mio Manente?

 

            dorotea        È vero in mia coscienza. Ve’ là quell’O bello e tondo, ch’era propio di lui. Sarà, mi penso, qualche lettera scrittavi pria ch’e’ morisse.

 

            brigida          Eh sì; leggete pure.

 

10        dorotea        No no, leggete voi; che non mi regge troppo la vista per questa benedetta distillazione che mi cade di continuo dagli occhi.

 

            brigida          Lo so già ch’avete il dono delle lagrime.

 

            dorotea        Certo che bisogna piangerli ve’ li nostri peccatacci. Orsù leggete.

 

            brigida          «Carissima consorte.

                                    Dopo vari e strani casi, stato più d’un anno rinchiuso con pericolo tuttavia della vita, sono finalmente per miracolo di Dio uscito del pericolo».

 

            dorotea        Ei può fare certo de gran miracoli il Signor Iddio.

 

15        brigida          Io mi raccapriccio.

 

            dorotea        Via coraggio, seguitate.

 

            brigida          «A bocca poi vi conterò particolarmente il tutto. Bastivi saper per ora come in villa mi trovo vivo, e sano: e pregovi che subitamente spargendo per Firenze la novella, mi mandiate la mula, il saione, ed il palandrano d’acqua, gli stivali grossi, ed il cappello; e che fate sapere al lavoratore nuovo com’io sono il padrone, maestro Manente, vostro marito; acciocché siami aperta la casa, per poter a mio agio riposare la notte; ché la mattina vegnente per tempo verrò a Firenze a consolarvi; e teneramente v’abbraccio.

                                    Di Mugello,

                                    Vostro affettuosissimo consorte

                                    Maestro Manente»

 

                                    Che ve ne pare ora?

 

            dorotea        Sapete, ch’io pure ne strabilio? Ma qualche trama ci s’asconde, figliola. Poiché prima di tutto questo è certo, che Manente si morì meschino di morbo, come sapete. E ciò tanto è vero, che mi ricordo averlo veduto io, io sul cataletto, ch’aveva in testa quel suo berettone delle Pasque, e il volto tutto enfiato, e livido; e che tutte le persone turandosi il naso, e fiutando chi aceto, chi fiori, o erbe si stavano di lontano a riguardar le sue esequie; e fu seppellito nel cimitero di Santa Maria Novella: anzi per dargli qualche sollievo, gittaigli sopra la fossa de’ rosolacci, e de’ gettaioni una buona manata: guardate mo’ s’ei può esser vivo.

 

            brigida          Così me ne giunse allora la notizia in villa, e così di fatto credeimi anch’io; che altrimenti non sareimi certo rimaritata.

 

20        dorotea        Quanto a questo poi ci sono de’ teolaghi, che accordano in qualche caso o di antigenio, o d’impotenza, o di scelta più geniale, o che so io? Che non tengo più a memoria cotai frottole; le so ben per isperienza, perché a’ miei giorni, prima che mi ritirassi da questo mondaccio mi ricordo d’averne avuti fino a tre dei mariti vivi, cioè… non fate giudizi temerari… uno dopo l’altro: e sì non v’era allora tanta libertà di coscienza. Oh il mondo non è più mondo. E così… dov’era io ora con la testa?… sì, accordano li teolaghi in simili casi il prender un altro marito, vivente il primo.[39]

 

            brigida          (a parte) (Bisogna nascerci: fino di teologia ne sa!)

 

            dorotea        Ma a che proposito vi dicea io ciò?

 

            brigida          Di Manente, che…

 

            dorotea        Zitto, torno a testo. Egli è adunque morto, e non può certamente avervi scritto. Dall’altro canto quel carattere, quella confidenza, quelle particolarità darebbono a prima vista da pensare ai più accorti, sapete?

 

25        brigida          Vi dissi pure che noi non siamo sbigottite senza fondamento.

 

            dorotea        Eh sorella cara, voi non riflettete a una cosa.

 

            brigida          A che?

 

            dorotea        Che il mondo, come diceavi, è ormai così tristo, e sciaurato, che non ci si può più vivere. E per questo non è maraviglia, se talora si piange… E ne nos induca… (asciugandosi gli occhi)[40]

 

            brigida          (a parte) (Che anima di Dio!) Che volete voi inferirne?

 

30        dorotea        Che ci sono purtroppo degl’impostori, e dei ribaldi, che falsano caratteri per far precipitare le persone e tradire or l’uno, or l’altro.

 

            brigida          Così mi disse veramente anche il mio marito Michelagnolo.

 

            dorotea        E così è, figliola. E a quella lettera bisognava dar una risposta, che cantasse molto bene.

 

            brigida          Non dubitate ch’ei gliela diede a modo e a verso, minacciandolo, se tosto non s’andasse con Dio, che anderebbe egli lassù con un carico di manette, e vi manderebbe il Bargello. Oltre che a bocca ordinò a Meo che dicesse a suo padre che lo cacciasse via col malanno.

 

            dorotea        Sta bene. Onde datevi pace, e siate certa che cotestui è un qualche mariolo. (a queste parole sopraggiugne Michelagnolo)

 

 

                                    SCENA SESTA

 

                                    Michelagnolo e dette

 

michelagnolo         Un mariolo, un furbo, un falsario, sì; gliel’ho detto anch’io cento volte, e glielo ridico cento e una.

 

            dorotea        Non v’alterate, fratello, non v’alterate, ch’ella n’è omai persuasa.

 

michelagnolo         Che diavol di frenesia! immaginarsi ch’un morto abbia a scriverle una lettera. Hanno altro cheffare di là, che carteggiare. Sempliciotta.

 

            dorotea        Via via, tutti abbiamo le nostre debolezze, e né men voi sete farina da cialde no. O fragilità umana![41]

 

5          brigida          Io mi credo che se ne sarebbe sgomentato ognuno a prima giunta.

 

michelagnolo       Ma non a quel segno di tremare e d’impallidir come voi. E poi voler entrar in cetere col vicinato, e non appagarsi di mie ragioni?

 

            brigida          Io ricorro in sì fatti casi alle anime buone io.

 

            dorotea        Io sono una miserabile peccatrice. (Picchiandosi il petto)

 

            brigida          Vedi, come si chiama in colpa quella santerella!

 

10 michelagnolo    (a parte) (Volpona.)

 

            dorotea        Eh figliola ci vuol altro per esser sante, che darsi delle massima culpa nel petto. Non mi badate, sapete? Ch’io lo fo così per uso: lo appresi fin da piccina dalla mia balia, santa memoria; che quella sì… Oh se l’avessi conosciuta… vi dico da farne degli Agnusdei. Morì con la grillanda poverina. Anzi la mi lasciò una delle sue pianelle tutta rattoppata, e senza suolo: uh Signor Iddio! A piante nude, a piante nude la camminava per mortificarsi, che sia benedetta. Oh quella pianella poi non la do per un regno. Chi sa che non le abbiamo ancora a accender dinanzi la lampanetta? Basta, io fo quel che dico, quando dico torta. Vado, che sono aspettata. Restate in pace, figlioli… Diessira[42] (parte)

 

            brigida          Mi raccomando alle vostre orazioni. (entra)

 

michelagnolo         Non ti credo, se ti vedessi far miracoli.

 

 

                                    SCENA SETTIMA

 

                                    Michelagnolo.

 

                                    Infatti ognuno ha suoi guai, e la fortuna non ci fa mai un bene, che all’incontro non sorga un male. Troppo pareami d’esser felice con la mia Brigida, che toltane quella sua dabbenaggine, non v’è donna che mi andasse più a sangue di lei. Io avea col suo maritaggio raffermata la compagnia nell’arte con Nicolaio di lei fratello; il che tornavami molto a vantaggio, e avanzamento delle mie fortune. Avea la consolazione della prole avviata. Mi godea la roba, e la casa del suo primo marito: io viveami infine contentissimo, se non capitava colui a mettermi romori in casa, a scombuiarmi la moglie, e ad inquietar un poco me ancora: che quantunque io sappia che questo è un tranello ordito per uccellarci, mi mette nonostante in qualche confusione, non vedendo ancora dov’abbia la cosa a riuscire. Basta, una ne pensa il ghiotto, e l’altra il cuoco. Ci arò a esser anch’io a codesta danza. Badiamo intanto a’ nostri interessi.[43]

 

 

                                    SCENA OTTAVA

 

                                    Manente.

 

                                    Ecco là Michelagnolo, quello che si gode la mia moglie, come s’io non ci fossi più al mondo. Lasciando ire per ora, ch’io vo’ prima ad ogni modo parlare a Brigida; giacché per mia mala sorte non ho trovato il mio confessore, ch’è gito a stanziare in Bologna. Sono come zingani codesti frati: mutan covacciolo ogni tre giorni. Ma che è mai ciò? Nessuno più mi conosce. Incontro parenti, amici, vicini, non mi guardano nemmeno in faccia. Voglio ben che questo vestito possa alterarmi il sembiante; ma, diacine, questa faccia, questo sopraciglio, questa fronte, questi occhi fono pur quelli ch’io m’ebbi sempre. Or ora, mi conoscerà ben la mia moglie.[44] (bussa alla porta)

 

 

                                    SCENA NONA

 

                                    Brigida, alla finestra, e detto.

 

            brigida          Chi bussa costaggiù?[45]

 

            manente        Sono io, Brigida mia cara, aprimi.

 

            brigida          E chi siete voi?

 

            manente        Non mi vedi?

 

5          brigida          Sì vi vedo, ma non vi conosco. (a parte) (Costui certo è quello della lettera.)

 

            manente        (a parte) (Io arrabbio.) Vien giuso, vien giuso, e mi conoscerai.

 

            brigida          (a parte) (Come tutto rassomiglia a Manente!)

 

            manente        vieni ancora?

 

            brigida          Ditemi di costà chi voi siete, e ciò che voi cercate.

 

10        manente        Non lo vedi tu? Sono maestro Manente il tuo vero, e legitimo sposo e te cerco, che sei Brigida mia moglie.

 

            brigida          (a parte) (Fino a contraffare la voce!) Maestro Manente non siete voi già, pero ch’egli è morto, e sotterrato.

 

            manente        Come, Brigida, morto? Io non morì mai. Aprimi di grazia; non mi conosci tu, anima mia dolce? Son io però sì trasfigurato? Deh aprimi, se tu vuoi, e vedrai ch’io sono vivo.

 

            brigida          E che voi dovete esser quel tristo che mi scrivesti la lettera iermattina. Andate con Dio in malora; che se il mio marito vi ci trova guai a voi…

 

            manente        Tu ti se’ rimaritata eh ghiottoncella? Non ti bastavo io? Sono io forse fradicio? Dov’è il mio figliolo?[46]

 

15        brigida          Che figliolo? Che avete voi a fare meco? Andate, vi dico, via di costà per il vostro meglio.

 

            manente        (a parte) (O me vituperato!) Dicoti, Brigida, ch’io sono il tuo marito; m’intendi ancora?

 

 

                                    SCENA DECIMA

 

                                    Dorotea, che alza la gelosia della sua fenestra dirimpetto, e detti.

 

            brigida          Che c’è, Brigida? Con chi altercate voi?

 

            manente        (a parte) (Ci mancava anco questa bizzoca.)

 

            brigida          Con codesto birbone, che viene a insolentarmi. Egli è colui della lettera sapete? Ed ora vorrebbe entrarmi di più in casa. Parvi che sieno furfanterie da portarsi queste? Io non so perché non ti gitto un mattone in sul capo. Petulante, temerario.

 

            manente        Anche questo di più!

 

5          dorotea        Guarda, figliola mia, guarda bene, che questa sarà l’anima del tuo maestro Manente che anderà quivi oltre facendo penitenza, e però lo somiglia tutto al viso, e alla favella. Chiamala un poco, domandala, e scongiurala, se ella vuol nulla da te.

 

            manente        Che anima? che anima? Voglionmi far impazzare costoro. Brigida dico, aprimi.

 

            dorotea        Via, figliola, coraggio, scongiurala.

 

            manente        Taci tu, graffiasanti.[47]

 

            brigida          (a parte) (Io tremo tutta.) O anima devota, hai tu nulla sopra coscienza? Vuoi tu l’uffizio de’ morti? Hai tu a soddisfare voto niuno? Di’ pur ciò che tu vuoi, anima benedetta; e vatti con Dio.

 

10        manente        (a parte) (Riderei quasi.) Aprimi; torno a dire, Brigida mia, ch’io vottene certificare.

 

            dorotea        Siniquitate[48]

 

            brigida          Vuoi tu le messe di san Gregorio?[49]

 

            manente        Voglio la fava. Che sì ch’io te ne fo pentire?[50]

 

            dorotea        Basta, basta, Brigida, che l’anima s’inquieta. Rechiesca, rechiescat in pace. (facendo croccioni si ritira)[51]

 

15        brigida          Lusperpetua, lusperpetua luceat ei.[52] (fa lo stesso)

 

 

                                    SCENA UNDECIMA

 

                                   Manente.

 

                                    Che requie, che croccioni? Sono io dunque un fantasima, un’anima randaglia da essere scongiurato? O me confuso! Ma so ben donde avviene. S’infinge Brigida di non mi conoscere per non aver a lasciare il nuovo marito, ch’è un po’ più fresco, e rubizzo di me. Donne ingorde! E questo egli è tutto ordimento di quella picchiapetto di Dorotea. Colei colei me l’ha così guasta, e maliziata, che la era una colomba senza fele. Hanno il diavolo indosso codeste spigolistre, e non sono buone che a seminare zizanie, e dissensioni. Non vo per questo perdermi di coraggio. Ci sono tribunali anche in Firenze; c’è la giustizia, e soprattutto un principe, che di quanti uomini eccellenti, non pure virtuosi, ma amatori, e premiatori della virtù furono giammai nel mondo gloriosi, egli è uno certamente, e forse il primo. A lui, a lui ricorrerò, che sempre m’accolse umanamente e accarezzommi, come suo favorito. Possibile che nemmeno egli mi riconosca più? Ma così travestito… non vorrei che mi trattasse da pazzo… bisognerebbe… qui non c’è altri che Burchiello mio grand’amico, che possa aitarmi… Sì: ei sarà alle Bertucce, dov’è solito mangiare. Andiamo tosto.[53]

 

 

 

                                   ATTO TERZO

 

 

                                   SCENA PRIMA

 

                                   Michelagnolo.

 

                                   Non so che sia avvenuto, che Brigida mi mandò a chiamar così in fretta. Sta a vedere che c’è qualche novità di quel furfante dalla lettera. Ma vorrei io coglierlo, che lo concierei, ti so dir, per il dì delle feste. (s’odono strida di dentro)

 

 

                                   SCENA SECONDA[54]

 

                                   Brigida e Vespina, che fuggon di casa, e Michelagnolo.

 

            brigida          Ahi ahi, Vespina, non mi abbandonare.

 

            vespina          Son qua, son qua con voi, non dubitate.

 

michelagnolo         Fermatevi in buonora: dove correte? sete indemoniate?

 

            brigida          Vi dico che in quella casa non vo’ più starvi io.

 

5          vespina          Né men io assolutamente: guarda, guarda…

 

            brigida          Ahimè, ahi.

 

michelagnolo         Si può sapere che avete?

 

            vespina          Mi parve di veder quell’anima.

 

michelagnolo         Che anima, che anima? Dite su, parlate.

 

10        brigida          Ah marito mio, l’anima di Manente.

 

michelagnolo         Qualche malia certo v’è entrata addosso.

 

            brigida          Che malia? Vi dico che venne testé a batter alla porta Manente, Manente, m’intendete? vestito da marinaro, che volea ch’io gli aprissi: e l’ha veduto anche quella santa donna di Dorotea, ed ella, ella m’ha detto ch’è l’anima di Manente, che va cercando refrigerio.[55]

 

michelagnolo         O scempiataggine! E voi gli avete aperto?

 

            brigida          Dio me ne scampi. Dorotea, ed io l’abbiamo scongiurata, e mandata in pace.

 

15 michelagnolo     E ben? che avete ora? perché volete fuggirvi di casa?

 

            brigida          Perché, dite? Io mi credo che quella benedetta anima sia entrata già in casa, come vento, a porte chiuse. Vi si sente da per tutto strepiti, fracassi, rovine, diglielo tu, Vespina.[56]

 

            vespina          Io sono spasimata, e n’ho guasto tutto il sangue. Un rovistìo in cantina, come se le botti giucassero a cozzar tra di loro: piatti in cucina caduti dal cancello all’improvviso: la pentola rovesciata: il brodo spanto: il tegame rotto: il micino incantato con tanti d’occhiacci fuori, e col pelo ritto ritto dalla paura. Vi dico che la casa è piena di spiriti, e di morti: e credo che vi sia dentro tutto il Limbo e tutto lo ’nferno: io non vi starei né pur dipinta.[57]

 

michelagnolo         Sapete che v’ho a dire io? che se voi darete retta a quella miracolosa pinzochera, la vi farà impazzire davvero.[58]

 

            brigida          Oh non mi tacciate quella donna, che la è una santerella, ed io le ho tutta la fede.

 

20        vespina          So io s’è una santerella, che la trovai tante volte accanto al focolare co’ paternostri in mano rapita in estasi di maniera che a riscuoterla, non dirò le strida, ma né meno le spinte e gli urti bastavano.

 

            brigida          La vedrai, la vedrai un giorno tutta trinci la gonnella sforbicinata dalli divoti tornar a casa senza cioppa.[59]

 

            vespina          (a parte) (Senza testa piuttosto!)

 

michelagnolo         (a parte) (O stolida credulità!) Io non intendo ora di tacciare veruno. Vi dico bene che mi maraviglio di voi, Brigida, che avendo finora vantato fior di senno, e di saviezza, vi lasciate ora indurre a bagatelle, e a creder novelle da spaventar i fanciulli. Parevi ch’un morto abbia a vestirsi da marinaro, e venir all’uscio a garrire con voi? Io me n’arrossisco per parte vostra. Lasciate, lasciate, che codeste scimunite donnicciuole si credano ciò che vogliono, e voi date loco alla ragione; e non vogliate con tai deliri fantastici pregiudicare al concetto vostro, alla vostra salute, e, tolgalo il Cielo, a quella ancora della innocente creaturina che portate nel ventre, primo dolce frutto de’ nostri amplessi. Del resto lasciatene la cura a me, che vedrete fra poco, s’egli è uno spirito errante, o pur un corpo vivo e vero d’un furfante.[60]

 

            brigida          Io non so a chi mi credere. Voi dite il vero, e Dorotea non dice mai il falso… e quegli strani accidenti?

 

25 michelagnolo     Accidenti del gatto. È forse la prima volta ch’ei v’ha rotte e scodelle, e pentole, e tegami?

 

            vespina          Ma se vi dico che il gatto si stava lì quato quato in un cantone tutto anch’esso sbigottito.

 

michelagnolo         Tu se’, Vespina, una metti confusione, e un attizzafoco che invece di confortar la padrona, la sconturbi maggiormente con le tue vigliaccherie. Orsù non le badate punto, Brigida mia; e fidatevi di me, che provvederò ben io a questi sconci. Rientrate, rientrate in casa. Tira là tu, apri la porta.[61]

 

            brigida          Così sola io non vi sto certo in quella casa. Vien qua, Vespina, chiama giù madonna Dorotea.

 

            vespina          Io vo’ tosto. (bussa alla porta di Dorotea)

 

30 michelagnolo     Dorotea vi tornerà a metter delle chimere in capo da sgomentarvi.

 

            brigida          No no, quand’io ho allato quella donna, io mi dormo fra due guanciali.[62]

 

michelagnolo         Fate a vostra posta, se così volete. (a parte) (Quanta pazienza!)[63]

 

            vespina          Bisogna ch’ella sia nelle sue solite estasi.[64] (torna a bussare)

 

            brigida          Se vi dico io ch’essa sta più in cielo che in terra.

 

35 michelagnolo     (a parte) (O alla noce di Benevento.)[65]

 

 

                                   SCENA TERZA

 

                                   Dorotea e detti.

 

            dorotea        Sanità e pace, figlioli. Ho voluto finire il bespro per quell’anima, prima di scendere. Che c’è di novo?[66]

 

michelagnolo         (tirandola da parte) Voi siete, Dorotea, una donna dabbene, e di coscienza…

 

            dorotea        Per grazia del Signor Iddio.

 

michelagnolo         Non vogliate, vi prego, metter altri spaventi a mia moglie, né ragionarle più d’anime, né di fantasime.

 

5          dorotea        Ma, fratello, quell’anima di Manente vuol certo qualche sollievo; altrimenti la farà sempre dattorno alla vostra casa.

 

michelagnolo         Bene, a questo ci penserò io.

 

            dorotea        Che siate benedetto. Le messe dei lunedì sapete?

 

michelagnolo         E se fossero dei martedì?

 

            dorotea        No, non servono: del lunedì, vi dico.

 

10 michelagnolo     (a parte) (Si può dar superstizione!) Ho inteso, ma voi non parlate più di morti.

 

            dorotea        E se vorrete, vi farò indegnamente una dozzina di passaggi il dì del Perdono: e mi contento d’una crazia per passaggio.[67]

 

michelagnolo         Sì sì, come volete. (a parte) (Quanti inganni!)

 

            dorotea        Dio vel rimeriti. Or bene che vi occorre da me, figliola mia.

 

            brigida          Vorrei che mi veniste un po’ a tener compagnia, finché mio marito bada alle sue faccende.

 

15        dorotea        volontieri; ma aspettate, ch’io vada per il mio lavoro.

 

            brigida          Ora io sono contenta; e voi, se volete, gite pure pe’ fatti vostri.[68]

 

michelagnolo         Vo’ prima vedervi a rientrar in casa, perché, se capitasse mai quel tristo, gliene facessi pentire.[69]

 

            dorotea        (dopo aver aperta la porta in fessura, caccia dentro il capo, e chiama) Nicolosa… Non m’ode: sarà allo sgabello. Alibecca, Alibecca. (si sente dalla gelosia sonare un campanello) Raccogli, figliola, li miei lavori, e recameli su la porta. (torna a sonare)

 

            vespina          Che vuol dir, madonna, quel tintin?[70]

 

20        dorotea        Quella è la voce della modestia.

 

            vespina          Ve’! Io mi credea qualche pecora col sonaglino al collo. Ma che è questa voce della modestia?

 

            dorotea        Tu se’ molto curiosa.

 

            brigida          Non ne lascia una certo.

 

            dorotea        Ti dirò. Le mie discepole non voglio che dalla via si facciano udire mai a dir parola; perché nascono tanti casi… oh Signor Iddio!... fin nella voce femminile s’innamorano oggidì gli uomini: e ti vo’ dire ch’io ebbi a’ miei dì parecchi fiutacupidi dattorno per null’altro che per sentirmi a parlare: basta… Delitta iuventuti. Ora io per ovviare a tal pericolo ho fatta una rubrica alle mie scolare, che né dalla gelosia, né dalla porta non mi rispondano mai che col sonaglino.[71]

 

25        vespina          Si può dar governo di maestra![72]

 

            brigida          Altro che Camaldoli![73]

 

michelagnolo         (a parte) (Quante schifiltà!) 

 

                                   (Si sente suonare alla porta.)

 

            dorotea        Vengo, figliola.

 

            vespina          (a parte) (Mira, se non par una chiocciola.)[74]

 

                                   (Dalla porta si vede una mano inguantata che porge a Dorotea un paniere.)

 

30        dorotea        Lodato Dio. Siate buone, sapete? (replicar il tintin) Ora andiamo, Brigida.

 

            brigida          Prendi tu, Vespina, quel canestro.

 

            vespina          Date qua, madonna. Che bei lavori avete? (lo scuopre)

 

            dorotea        Ah curiosa, curiosa.

 

            vespina          Uh! che funicelle son queste?

 

35        brigida          Lascia vedere.

 

michelagnolo         (a parte) (Da legarle tutte e tre.)

 

            dorotea        Eh, non è roba per voi, figliole.

 

            brigida          Ma pure a che servono?

 

            dorotea        Questo è il mio passatempo dopo le orazioni, ammanire stromenti di penitenza alli miei allievi. Sono discipline da flagellarsi.[75]

 

40 michelagnolo     (a parte) (Che ostentazione!)

 

            vespina          Con tanti nodi?

 

            dorotea        E tanti peccatacci che si fanno?

 

            brigida          È vero.

 

            vespina          Io non vengo già alla vostra scola io.

 

45        dorotea        No, no non se’ chiamata tu alla strada della perfezione.

 

michelagnolo         (a parte) (Della perdizione vuoi dire.)

 

            brigida          Or via andiamo.

 

            dorotea        Restate in pace, fratello.

 

michelagnolo         Ve la raccomando, Dorotea.

 

50        dorotea        Statevi quieto.

 

 

                                   SCENA QUARTA

 

                                   Michelagnolo.

 

                                   Ti venga la contina e il fistolo, vecchia ipocritona. Ch’io ti volessi per casa? Tuttavia è d’uopo per ora contentare la moglie per ovviar a’ mali maggiori. Mi maraviglio ben di quel ribaldone, come egli abbia fin tentato d’introdursi in casa. Non mi credeva io mai, che non essendogli riuscito il primo disegno, si dovesse lasciar più vedere. E chi fa ancora le sue machine? Ma le prevenirò ben io col farlo catturare; che il bargello li conosce tutti a fiuto codesti birboni. Intanto per tutto ciò che può accadere vo’ ire tosto agli uffiziali della peste, al libro della sagrestia di Santa Maria Novella, allo speziale, donde si cavò la cera, ai becchini, e alla vicinanza, e farmi da tutti far fede in iscritto, come messer Manente in casa sua morissi di morbo, e fu sotterrato; e vedrassi allora chi è costui.[76]

 

 

                                   SCENA QUINTA

 

                                   Burchiello e Manente.

 

            burchiello   Parmi ancor di travedere che tu sii Manente vivo e sano, cui piansi già morto.

 

            manente        Tu solo, Burchiello, tra tanti amici, e parenti m’hai riconosciuto.[77]

 

            burchiello   Come non t’aveva io a conoscere a tanti segni evidenti, e specialmente a quella voglia di porco salvatico che tu porti rasente il polso di quella mano? Il più strano avvenimento io non udì mai, di quello che tu m’hai narrato; e per quanto aggiromi di cervello, non sovvi trovare stiva.[78]

 

            manente        Io medesimo son fuori di me, e parmi d’esser nuovo affatto in questo mondo.

 

5          burchiello   Né in tanto tempo ti se’ accorto mai dove tu ti fossi, né chi erano coloro che ti recavano il vitto?

 

            manente        Come mai, se non v’erano colà finestre; e coloro erano così travestiti, e impappaficati, ch’io non potea, non che nella faccia, né men negli occhi raffigurarsi?[79]

 

            burchiello   Né ci vedevi mai lume.

 

            manente        Se non quello della torcia: e in questi ultimi giorni calò giù non so come dal palco di sopra una lampanetta, che dì, e notte sempre stava accesa, di maniera che rendeva la stanza alquanto luminosa. E allora mi rallegrai un poco, e cantava per isvagarmi qualche canzonetta al mio solito, che sai s’io ho bella voce; o recitava le Selve d’Amore del nostro Magnifico.[80]

 

            burchiello   Tu mi fai ridere, e maravigliare insieme; né altro bendine io so trovare a questa matassa se non ch’ella sia stata una beffa appunto di Lorenzo.[81]

 

10        manente        Come di Lorenzo? Sai pure ch’io era suo dimestico, e ch’ei compiacevasi oltre modo del mio umore piacevole, e bizzarro.

 

            burchiello   Sì; ma non ti sovviene di quella villania che tu gli facesti a Careggi, ed egli allora se ne tacque?[82]

 

            manente        È vero. Ma le Muse hanno pure il campo libero, ed io n’avea mille ragioni.[83]

 

            burchiello   Maestro Manente, i principi sono principi; e fanno di così fatte cose spesso a nostri pari, quando vogliamo star con esso loro a tu per tu; e specialmente Lorenzo. Non sai tu ch’egli non comincia impresa che non finisca; e non ha mai fatto disegno ch’egli non abbia colorito; e non gli venne mai voglia che non se la cavasse? Egli è il diavolo l’avere a far con chi fa, può, e vuole.[84]

 

            manente        Tu me ne fai quasi dubitare; e dove io aveva io lui fondata ogni speranza, mi veggo quasi schiusa anche questa strada, e restomi confuso come prima sfiduciato. Ma come mai si credettero ch’io morissi, non essendo io stato né malato, né portato su la barra, né alla sepoltura, almeno ch’io me n’avvedessi.

 

15        burchiello   Fosti benissimo, non tu, ma un altro in tua vece.

 

            manente        Io non t’intendo.

 

            burchiello   Dirotti. Il giorno dopo che tu mancasti di Firenze, e fu quella sera, se ti ricorda, che fossimo a bere assieme alle Bertucce…[85]

 

            manente        Di questo mi ricordo, che così dormiglioso com’io era…

 

            burchiello   E cotto dal vino.

 

20        manente        Può essere: sentendomi menar via pensai di certo che fossero i garzoni dell’oste co’ miei compagni, e amici, che mi conducessero a casa. Ma per via poscia perdei e sentimenti e memoria, m’accorsi se non il giorno addietro d’esser colà dove ti dissi.[86]

 

            burchiello   Guarda, se tu avevi legato l’asino a buona caviglia. Orbene, il dì seguente si sparse voce che tu eri malato, e che t’eri fatto vedere dalla finestra ad una tua vicina con la gola tutta fasciata di stoppa, e lana sucida. Onde perché allora era in Firenze sospetticcio di peste, e se n’erano scoperte già infette alcune case, tutti si pensarono che tu dovessi avere il gavocciolo.[87]

 

            manente        Io non ebbi già cotal morbo.[88]

 

            burchiello   Così credeasi: tanto che il Magnifico diede ordine che ti venisse ad assistere un servigiale degli ammorbati, e fece mettere al tuo uscio la banda.

 

            manente        Io ne trasecolo.

 

25        burchiello   Il giorno dopo lo spedalingo piangendo fece intendere al vicinato, e a chi passava, come tu in sul fare del dì eri passato da questa vita presente. E infatti il giorno istesso su le ventitré ore fosti portato su d’un cataletto con solenne processione di preti, e frati a Santa Maria Novella, ed ivi su le scale gittato a capo innanzi entro un avello.

 

            manente        No io, che non fuivi gittato.

 

            burchiello   Sollo; ma tutti si pensarono indubitatamente che tu fossi quel morto: tanto più ch’aveva in dosso il tuo giubbone, e la tua beretta da rispetto in testa, che parevi propio desso.

 

            manente        Qualche demonio certo m’ha fatta la beffa.

 

            burchiello   Ed io ti replico che il demonio sarà stato Lorenzo.

 

30        manente        Sia come tu vuoi. Ma io che modo ho io ora a governarmi in questa involtura? Consigliami tu, caro amico.[89]

 

            burchiello   Il miglior partito sembrami di ricorrere agli Otto, e darti loro a conoscere, e raccontar ordinatamente quanto ti avvenne. Io intanto troverò a casa uno de’ principali di quel magistrato mio amico grandissimo, e ne lo informerò com’io la sento, il che gioverà non poco all’uopo nostro.[90]

 

            manente        Io mi lascio in tutto guidar da te. Ma parti ch’io abbia a comparir dinanzi al magistrato con questi panni?

 

            burchiello   No; vien pur meco, che ti troverò da rivestirti da medico.

 

            manente        Il Ciel te lo rimeriti. Quanto giova ne’ bisogni un buon amico.

 

 

                                   SCENA SESTA

 

                                   Vespina.

 

                                   Discipline, e rosari, e corone, né ancora basta. Ora le manca il libretto spirituale, m’immagino per far qualche scongiura alla mia padrona, che si sta lì cotanto sdilinquita, e cascatoia, che la par tolta or ora dallo spedale. Io non so a che si tenga al fianco quella squarquoia, che con quel continuo pissi pissi, e sospirar, ch’ella fa, e vederla poi tener a quel modo gli occhi in molle, e il collo a vite, e le nocca col petto sempre in lite, la fa venir propriamente l’agonia. Ma la vuol così; così sia. Vo per il libretto.[91]

 

 

                                   SCENA SETTIMA

 

                                   Nepo e Vespina.

 

            nepo               Odimi, Vespina.

 

            vespina          Aiuto, Dorotea, l’anima…

 

            nepo               No; t’inganni; non temere.

 

            vespina          Mira barbone! Par quello del vecchio Satanasso.

 

5          nepo               Accostati.

 

            vespina          No io, che non so, se voi siate uomo, o bestia.

 

            nepo               Son uomo, son uomo, e più che uomo ch’io ti farò veder prodigi, che oltrapassano le forze umane.

 

            vespina          Non vo’ veder miracoli no.

 

            nepo               Ti scoprirò segreti li più occulti, e impenetrabili.

 

10        vespina          Ditemi questo: dov’era avviata io ora?

 

            nepo               Ah ah: a prender un libretto in casa Dorotea, che stassi ora con Brigida.

 

            vespina          Costui è un profeta!

 

            nepo               Non ti maravigliar, o Vespina, che il presente, e il passato è facile indovinarlo; ma il saper l’avvenire, questo è d’ammirarsi.

 

            vespina          Anche l’avvenire sapete?

 

15        nepo               Sollo quanto il presente.

 

            vespina          (a parte) (Vo’ farmi un po’ strolagare.) Ditemi in grazia, m’ho a maritare io, o restarmi così zitella?[92]

 

            nepo               Tu prenderai fra due anni marito.

 

            vespina          Bel giovane?

 

            nepo               Un giovinotto leggiadro, ben disposto, gagliardo.

 

20        vespina          Che voi siate benedetto.

 

            nepo               Ma perch’ei sarà un portapolli, un giocatore, un briacone, e ruberà ai padroni, sarà cacciato in galera, e forse anco su le forche.[93]

 

            vespina          (a parte) (Su le forche tu, stregone indiavolato.) Su le forche? poverino.

 

            nepo               Non t’attristare per questo. Ne prenderai poscia un altro piacevole, bonario, indulgente, che si lasciarà da te menar come un bufalo; e tu col far cortesie a tutti arricchirai di molto.[94]

 

            vespina          Di cortesia poi me ne picco io: non la cedo a qualunque dama di Firenze.[95]

 

25        nepo               Ora quel ch’io volea dirti, è questo, che maestro Manente tuo primo padrone è vivo e sano qui in Firenze; ed è quello appunto che scrisse a Brigida, e che venne a bussare alla sua porta. A lei dunque dirai che se ne dia pace, che non abbia paura di spiriti, che non presti fede alla pinzochera, e che prima di domani sarà ricongiunta al suo primo sposo, e disciolta dal secondo: e diglielo ve’; altrimenti te n’avrai a pentire, sì te n’avrai a pentire. Addio.

 

            vespina          No, che non arò a pentirmene. Ha un ceffo colui che Dio ne guardi ogni fede! Cristiano. A chi debbo io credere? Tutti dicono che Manente fu seppellito, e costui vuol che sia vivo. Sia come si vuole, narrerò a Brigida quanto il mago m’impose; ch’io non vorrei ch’ei mi facesse entrar in corpo qualche diavolo: poveretta me. (entra da Dorotea)

 

 

                                   SCENA OTTAVA[96]

 

                                   Manente vestito da medico e Burchiello.

 

            burchiello   Vedi tu, Manente, se tutti cominciano già a riconoscerti per quel che sei, e a prevalersi ancora dell’opera tua?[97]

 

            manente        Mercé tua, fido amico.

 

            burchiello   Vorrei mo’ che tu in codesta cura, ch’io t’ho messa per le mani, vi riuscissi con onore.

 

            manente        Ne temo assai.

 

5          burchiello   Perché? è egli male sì disperato?

 

            manente        È mal maligno, e pochi ne campano.

 

            burchiello   Ma di che indole è mai questo male maligno, che impossibile ne sia, o cotanto difficile la guarigione?

 

            manente        A te posso svelare il mistero, che sei uomo discreto. Ma nol far ad altri palese, perché troppo ci perderebbe l’arte nostra.

 

            burchiello   Fidati pure di me.

 

10        manente        Pochi sono tra noi dottori di medicina, ma pochi ve’ che sappiano ciò che si pescano, perché non si studia la natura, ch’è la nostra sola maestra. Ora ne’ mali gravi avviene per lo più che non conoschiamo né la loro indole, né i lor principi, e per conseguenza né men sappiamo i loro rimedi. Che sarebbe di noi, se confessassimo una tal ignoranza? Tu lo vedi. Per riparare adunque al nostro smacco, e fallimento, si studiò di trovar un termine che ci esentasse dall’obbligo di guarirli; e fatto ci venne di trovar quello di maligno, il quale per nostra buona sorte fa tanta impressione nelle menti degli uomini, che tosto che battezziamo qualche malattia con tal nome, tutti ci accordano di buon grado che non possa l’infermo, e non debba più sopravvivere; e resta così salvo il nostro onore, e la sportula. Onde noi, bontà della umana dabbenaggine, prevalendoci di sì comodo riparo, tutti i morbi che a prima vista, e al primo tocco di polso non conosciamo, gli dichiariamo maligni, non perché sieno incurabili, ma perché non sapiamo curarli. Regola generale però si è in tali casi, per far qualche cosa, di spillare la vena al malato, ordinargli qualche cordiale, e Dio gliela mandi buona. Eccoti tutto l’arcano del maligno: ma st.[98]

 

            burchiello   Dio mi guardi da mal maligno.

 

            manente        In questa cura nonostante ch’ho intrapresa, io dissi ch’è mal maligno per tenermi in riputazione, caso ch’ei si morisse: che sta sempre bene aggravar la malattia, e tener in forse l’infermo. Per altro spero di dartelo sano; poiché finalmente non ha che un po’ di dolor di testa… non mi par che ci sia febbre… mangia di buon appetito… basta, mi consiglierò un po’ meglio con Ipocrasso, e saprò dirtene.[99]

 

            burchiello   Te lo raccomando. (a parte) (In che mani sta mai la nostra vita!) Vedi Vespina: attendiamola!

 

 

                                    SCENA NONA

 

                                   Vespina, Manente e Burchiello.

 

            vespina          Nol raccapezzava mai questo benedetto libretto. Ne ha tanti in quel suo oratorio e di grandi, e di piccini, di stracciati, di unti e bisunti, che ne disgrazio ai pizzicagnoli. (s’abbatte in Manente) Ahi ahi requiescarpe.[100]

 

            burchiello   Vien qua, Vespina, fermati, non ti sgomentare: che credi tu di vedere?

 

            vespina          Il fantasima di messer Manente.

 

            burchiello   Che fantasima? Egli è Manente in corpo, e in anima. Accostati, non aver paura.

 

5          vespina          Io intirizzisco tutta.

 

            manente        Non mi conosci più?

 

            burchiello   Guardalo pure da capo a piedi, palpalo, toccalo: gli spiriti, e i morti non hanno né polpa, né ossa, come vedi avere lui.

 

            vespina          Sete desso veramente?

 

            manente        Sì sono Manente vivo, e sano, ho già mai provato la morte.

 

10        vespina          Dove dunque sete stato finora, che ognuno vi credea già morto, e infradiciato?[101]

 

            manente        Saprailo poi. Basta per ora che tu n’accerti mia moglie.

 

            vespina          Pensate s’ella mel crede, se appena posso crederlo io medesima.

 

            manente        Tu se’ peggio d’un giudeo. Non m’hai tocco adesso con le mani?

 

            vespina          V’ho tocco, è vero, ma non v’ho sentito niente da uomo vivo.

 

15 burchiello           Vanne, Vespina, vanne, e conforta la tua padrona a riceverlo.

 

            vespina          Fatto sta che Michelagnolo se ne contenti, ch’il suo marito è ora egli.

 

            burchiello   Nol sarà più; vatti pure.

 

            vespina          Corro a dirglielo. O miracoli! Ora comincio credere allo stregone.

 

 

                                    SCENA DECIMA

 

                                   Burcbiello e Manente.

 

            manente        Si può dar cervellaggine di donne? Dubitar anche di ciò che veggono con gli occhi propi, e toccano con le mani?

 

            burchiello   Non te ne far maraviglia. La donna di sua natura è di prima impressione: ha il cervello come il cristallo, che non perde più la sua prima forma, se non si rompe.

 

            manente        Ella è però una gran dura condizione trovar la moglie in braccio altrui, e non potergliela ritorre. Chi sa come arammela diserrata quel bufalaccio di Michelagnolo![102]

 

            burchiello   Di questo non ti dar pena. Quel ch’è fatto è fatto. Tornerà Brigida in tuo grembo com’ella è. Ci vuol pazienza. Tu non se’ finalmente di quei contenti.

 

5          manente        Contento eh? Tu sai, s’io sto su le mode.[103]

 

            burchiello   Mirala, mirala che si è affacciata alla finestra per vederti.

 

            manente        I’ vo’ certo parlarle.

 

            burchiello   Accostiamoci bel bello.[104]

 

 

                                    SCENA UNDICESIMA

 

                                   Brigida, Dorotea e Vespina alla finestra, e detti.

 

            vespina          Lo vedete, lo vedete colà con Burchiello?

 

            brigida          Osmedio, par tutto desso così in giubbone.[105]

 

            vespina          Vi dico ch’egli è desso dessissimo.

 

            brigida          Che ne dite voi, Dorotea?

 

5          dorotea        Non ci vedo bene… mi pare… ma s’egli è morto già.

 

            brigida          Se dico io ch’è la sua anima.

 

            manente        No ti dico, Brigida mia, ch’io non son morto.

 

            brigida          Ah Dorotea, l’anima m’ha veduto.

 

            dorotea        Non dubitate, ch’io stovvi allato.

 

10        manente        Fermati, ascoltami, cor mio.

 

            burchiello   Di che temete, Brigida? Fovvi fede io ch’egli è il vostro marito.

 

            manente        Non mi vedi tu, speranza mia, non m’odi? Aprimi, che mi toccherai ancora.

 

            brigida          Toccarti? guardimi Dio.

 

            vespina          L’ho toccato io pure, e mi par di carne, e d’ossa, come gli altri.

 

15        brigida          Io non so cosa tu t’abbia tocco; so bene ch’ei morì.

 

            dorotea        È vero. Chi abita in auditorio…

 

            brigida          A porta inferi.

 

            dorotea        Amen.[106]

 

                                   (Brigida e Dorotea si ritirano.)

 

 

                                   SCENA DODICESIMA

 

                                   Manente e Burchiello.

 

            manente        Mi darei al diavolo. Vedi come sono testarde, e rincaponite? Quella culifessa, quella bizzocaccia, quella n’è tutto lo scandalo; che s’io esco di questo farnetico non frusta più certo i mattoni di mia casa colei.[107]

 

            burchiello   Orsù non perdiam tempo. Vanne agli Otto; che uno de’ capi già n’è informato, e n’avrà a quell’ora ragguagliati anche gli altri. Ti faranno ragione, non dubitare, e riavrai ogni cosa.

 

            manente        Voglialo Iddio; che ne sono così sbalordito, ch’io non do più né imbus, né imbas.[108]

 

 

 

                                   ATTO QUARTO

 

 

                                   SCENA PRIMA

 

                                   Michelagnolo.

 

                                   Vo’ venir a consolar un po’ la mia Brigida. Ho fatto tanto, che quel ribaldone non verrà più a insolentar la mia casa. Altro che messe dei lunedì; i ceppi, prigione e forca ancora ci vuol per anime sì fatte. E a Badia[109] se n’è andato appunto, or ora per man de’ birri. E come intrepido, e baldanzoso! Aveva di più indosso il giubbone da medico, e contraffaceva così appuntino il portamento, l’aria, la statura, il volto, i lineamenti di Manente, che parea propio desso: tanto che compatisco adesso mogliema, e Dorotea, se lo credettero la di lui anima, giacché non poteano crederlo più vivo. Come il si facciano codesti ciurmatori, io nol saprei. Ma sogliono per lo più aver fratellanza co’ stregoni, che fanno d’ogni ragione malie e incantesimi. A questa volta pero non gli varrà, cred’io, cotal fratellanza.

 

 

                                   SCENA SECONDA

 

                                   Vespina e Michelagnolo.

 

            vespina          Ho veduto dalla finestra, e sono venutavi incontro per dirvi cosa che ne stupirete.

 

michelagnolo         Dirottene io una che ne godrai.

 

            vespina          Ditemla, se Dio vi consoli.

 

michelagnolo         Ecco la vostra curiosità. Narra tu prima la tua.

 

5          vespina          Sappiate ch’io trovai qui poco fa su la via certo omaccione grande della persona, e benfatto, di carnagione tanto ulivigna, che pendeva in bruno: aveva il capo calvo, il viso affilato, e macilento, la barba bruna e lunga per infino al petto, e vestito di rozzi, e stravaganti panni.[110]

 

michelagnolo         Tu mi dipingi al vivo un negromante.

 

            vespina          E tale io credo ch’e’ sia. Poiché oltre avermi rivelate molte cose passate, presenti, e future, mi profetizzò tra l’altre che pria di domane maestro Manente ritornerà con Brigida, e voi ne sarete discacciato: e inculcommi con minacce ch’io tosto glielo dovessi dire alla padrona; e che quello che bussò alla porta, era egli desso, e che dovesse credergli.

 

michelagnolo         E tu gliele hai dette cotai baie?

 

            vespina          E come subito! Troppa paura io n’ebbi.

 

10 michelagnolo     Ecco s’io dicea vero, che codesti bricconi hanno lega co’ maliardi. Quest’è, che fanno così travedere.[111]

 

            vespina          E di fatto ripassò di lì a poco per qua quell’istesso fantasima accompagnato da Burchiello.

 

michelagnolo         Da Burchiello?

 

            vespina          Sì, da quel grand’amico del mio padrone.

 

michelagnolo         Come mai un uomo sì accorto lasciarsi anch’esso gabbare!

 

15        vespina          E parlò meco, e con la padrona, e Dorotea; ma non gli credono esse, e lo tengono tuttavia per la sua anima.

 

michelagnolo         Anima sì. Che panni avea egli?

 

            vespina          Da medico.

 

michelagnolo         (a parte) (È quello appunto.) Vien, vien meco.

 

            vespina          Ma la novella che avete a dirmi?

 

20 michelagnolo     La udirai in casa.

 

            vespina          È bella?

 

michelagnolo         Bellissima. È afflitta mia moglie?

 

            vespina          Afflittissima. Non la potreste narrar prima a me?

 

michelagnolo         No, ti dico.

 

 

                                    SCENA TERZA

 

                                   Caporale con birri e detti.

 

            capitano       Sete prigione.

 

            vespina          Ahimè li birri.

 

michelagnolo         Chi prigione?

 

            capitano       Voi d’ordine degli Otto.

 

5          vespina          Sbaglierete signor caporale: questi egli è Michelagnolo Buonaiuti.

 

            capitano       E Michelagnolo Bonaiuti noi vogliamo.

 

michelagnolo         Intendo, intendo il motivo. Ma faccia colui pure il diavolo a quattro, a sette ancora, ch’io ho meco le fedi, e non ne ho paura.

 

            capitano       Non n’avete paura? Eh là legatelo.

 

            vespina          O povera me, o povero lui: il mio padrone legato? Dorotea, Brigida, vi menano via anche l’altro marito.

 

10 michelagnolo     Consola, consola la Brigida, che sarò tosto disciolto.[112]

 

 

                                    SCENA QUARTA

 

                                    Brigida, Dorotea e Vespina.

 

            brigida          Tu vuoi farmi cader morta con codesto tuo strillare: che hai?

 

            vespina          Guardate, guardate colà il vostro marito prigione.

 

            brigida          Ah Michelagnolo, ah marito mio, ah sciaurata me! Che hai tu fatto qualche bararia ne’ contratti? qualche froda nelle manifatture? Lo so, lo so, come sete fatti voi altri artieri.[113]

 

            dorotea        Non fate giudizi temerari, figliola. Tribolazioni, tribolazioni, ch’il Ciel vi manda.[114]

 

5          brigida          Il canchero, che vi roda.

 

            vespina          E la peste.

 

            dorotea        Dio vel rimeriti.

 

            brigida          Compatitemi, la m’è scappata.

 

            vespina          Perdonatemi, non mi son potuta trattenere.

 

10        dorotea        Dio vel rimeriti, vi dico. Ma v’accorgerete, v’accorgerete chi era Dorotea, quand’io non ci sarò più. Non l’ho a dir io; ma guai a Firenze se manca questo straccio di donna. So io se mi piagnerebbono e giovani, e vecchi, e maritati, e da maritare, e preti, e frati, e fanti, e birri, e fino a giudei; che non è ora ch’io non abbia all’uscio un nugol di gente chi per consigli, chi per conforto, chi per imbasciate, chi per sogni, chi per auguri, chi per pronostici, chi per ricette; ed io fo tutto, son da per tutto, pongo mano a tutto, e tutti grazie a Dio restano contenti dell’opera mia, e mi danno benedizioni… più del Benedicite.[115]

 

            brigida          Eh non ho ora a conoscervi, Dorotea mia. Sia non detto quel ch’ho detto. Ma che farò, meschina me? Di due mariti non ne ho più nessuno.

 

            dorotea        Mancano mariti? O santa pazienza! Ve ne troverò un terzo io.[116]

 

 

                                   SCENA QUINTA

 

                                   Vespina.

 

                                   Manco male che la santa tabacchina vi rimedierà. Quante n’ha contate delle sue prodezze! Io mi credo ch’ella sia la maggior ruffiana, spia, e strega del mondo. Vecchia porca, poltrona, gaglioffa. Mi par mill’anni, che la se ne vada in malora fuori di questa casa; o che v’andrò io; che non vo’ spiritare con tanti diavolesimi che veggo nascere. Povera Vespina dove se’ mai capitata! Quanto era meglio ch’io mi stessi della mia capannuccia in campagna a munger capre, e cacciar le pecore in santa pace, che non venire in mezzo a’ guai delle città! E vo’ certo, s’io vivo, colà tornarmene a finir contenta i miei giorni in compagnia d’un qualche bel pastorello, o anche capraro, come vorrà la sorte. Io son poi di facile contentatura.[117]

 

 

                                   SCENA SESTA

 

                                   Tribunale.

 

                                   Uno degli otto sindici e Manente.

 

            sindaco         Abbiamo già inteso l’accidente occorsoti. Ora qual è la differenza che tu hai con Michelagnolo Buonaiuti?

 

            manente        Dirollo, spettabili signori. In tempo del mio lungo allontanamento, o per dir meglio sotterramento, Brigida mia mogliera credendosi, per quel che inteso avete, ch’io fossi veramente morto, rimaritossi con codesto Michelagnolo. Ond’ei entrò al possesso non che di mia moglie, della roba, e della casa mia; ed ora ch’io grazie agl’Iddii sono ritornato alla luce, ei mi contrasta il mio, pretendendo ch’io non sia Manente, ma un giuntatore e un falsario: il che quanto sia vero, voi da quanto v’ho narrato e che voi medesimi vedete con gli occhi vostri, potete abbastanza comprendere. Pregovi perciò d’avvalorare con l’autorità vostra, e con la retta giustizia le mie pretese; e di rendermi con le mie facoltà la mia Brigida, di cui sono stato, sono, e sarò, finché campo, il vero, ed unico sposo.[118]

 

            sindaco         Caporale, sia condotto a noi Michelagnolo. Né hai sospetto alcuno, o conghiettura, chi possa averti portato via dalla taverna?

 

            manente        Di chi mai sospettare, s’ero addormentato, e appena, me ne ricorda?

 

5          sindaco         Non hai veduto né meno chi ti condusse in quella valle della Vernia?

 

            manente        Né meno. Poiché dopo essermi, com’ho detto, da quell’albero disciolto, per quanto guatassi intorno, o rizzassi l’orecchio non potei né udire mai né veder anima vivente; finché non uscii della valle; che allora un vetturale fecemi risovvenir della Vernia, perch’io non conosceva più quel luogo, benché più volte vi fossi stato a sollazzo co’ miei amici.

 

            sindaco         Egli è infatti un caso strano molto, e ridicoloso. Ora intenderemo l’altra parte.

 

 

                                   SCENA SETTIMA

 

                                   Michelagnolo scortato, notaio e detti.

 

michelagnolo         (a parte) (Vedilo costà il mariolo; e con che fronte!)

 

            manente        (a parte) (Mira l’usurpatore, e come ardito!)

 

            sindaco         Ora dì tu, Michelagnolo, le tue ragioni, e la cosa pura, e schietta com’ella è.

 

michelagnolo         Dico, spettabilissimi giudici, che rimasta vedova Brigida un anno fa del suo primo marito, ch’era maestro Manente a voi ben noto, e non codesto impostore…

 

5          manente        Un trufatore se’ tu.

 

            sindaco         Olà rispetto al tribunale.

 

michelagnolo         Rimasta ella vedova, da Nicolaio suo fratello, e mio compagno nell’arte d’orafo, fu consigliata, e pregata strettamente a rimaritarsi meco; e in capo a sei mesi facemmo di fatto il parentado, e restonne ella per mia buona sorte ingravidata.

 

            manente        Per tua malora vuoi dire.

 

            sindaco         Lascialo parlare, Manente.

 

10 michelagnolo     Che poi il maestro sia morto realmente, e sotterrato, io n’ho qui meco fedi tali, che non possono lasciar loco a verun dubbio. Eccole.

 

            sindaco         Notaio, leggi codeste fedi.

 

            notaio           Fede degli uffiziali della peste.

                                   Anno etc. mense etc. die etc.

                                   Faciamo fede giurata noi infrascritti uffiziali della peste, come maestro quondam Manente della Pieve a Santo Stefano, fisico, e cerusico, che abita nella via de’ Fossi ľanno scorso attaccato dal morbo si morì in due giorni, come appare dal registro F. etc. In fede di che etc.

                                    Data dallo spedale degli ammorbati.

                                   Noi, Macaone Gomorrèa, Esculapio Tencone, presidenti dello spedale.

 

                                   Fede dello speziale.

                                   Io sottoscritto fo fede con giuramento d’aver venduta la cera seguente per li funerali del quondam maestro Manente medico di via de’ Fossi l’anno scorso, adì 27 maggio etc.

                                   - Torcie num. 2 d’una libbra per il catafalco.

                                   - Candele d’un’oncia num. 60 per preti, e frati.

                                   - Candelotto di mezza libbra per il pievano.

                                   - Candelette d’un quarto d’oncia da dispensarsi num. 100.

                                   Io Leandro Gabba, all’insegna della Bugia.

 

                                   Fede dei becchini.

                                   Attestiamo noi sottoscritti, e giuriamo d’aver sotterrato in un avello delle scale di Santa Maria Novella l’anno passato, tanti maggio, maestro Manente medico abitante nella via de’ Fossi; e d’avervi ben sigillata la lapida per il fetore pestifero ch’e’ rendeva.

                                   Noi, Meo Fossa, Sandro Camiciotta, becchini attuali.

 

            manente        (a parte) (Quanti giuramenti falsi!) 

 

            notaio           Fede del sagrestano di Santa Maria Novella.

 

15        manente        (a parte) (Anche il sagrestano spergiuro!)

 

            notaio           Die etc. mense Maio etc. anno etc.

                                   Ego infrascriptus fidem facimus, iuramento protestamus, qualiter dominus quondam magister de Manentis doctor in utroque physicus, et cerusicus, qui habitationem habet in via Fossorum, sepultus fuit in avello scalarum nostrae ecclesiae intitulatae S. Maria Novella anno passato mense Maio, die etc. cum solemnitatibus, et exequiis ritualiter celebratis supra cadaver antequam sepeliretur. In quorum fidem etc.

                                   Datum ecclesia parochiali S. Mariae Novellae.

                                   Nos Procopius Saccagnella praesbiter laureatas, eiusdem ecclesiae sagrestanus.[119]

 

            manente        Costui ne sa tanto di latino, quanto noi altri medici.

 

            notaio           Fede del vicinato…

 

            sindaco         Basta così. Che ne dì tu, Manente?

 

20        manente        Dico, protesto, e giuro a dispetto di tutte codeste fedi false ch’io sono Manente, e che fui sempre vivo, come ora lo sono.

 

            sindaco         E tu, Michelagnolo?

 

michelagnolo         Ed io rispondo che sono fedi legitime, che sono vivi, e sani quei che me le hanno fatte.

 

            sindaco         Qui c’è sotto qualche tradimento. Orsù confessate chi era quel morto che fu seppellito per Manente.

 

michelagnolo         Manente medesimo.

 

25        manente        Tu se’ un bugiardo, ch’io son desso, morì mai.

 

            sindaco         Or saprassi la verità. Caporale, dagli a costui della fune, e poi all’altro, e sieno collati, finché confessano il vero.[120]

 

                                   (Vien legato Manente.)

 

            manente        Ah spettabilissimi sindici, qual colpa è la mia? Perché ho io a soffrir la tortura? Come poss’io sapere chi si fosse quel cadavere portato alla fossa in mio scambio, s’io mi stava rinchiuso allora non so dove? Ahimè infelice, e sventurato? Dopo un anno intero di tante tribolazioni, dopo aver perduta e moglie, e roba, e tetto, ho a esser legato come un malfattore, e mi si aranno di più a slogare l’ossa per non poter dire ciò ch’io non posso sapere?[121]

 

 

                                   SCENA OTTAVA[122]

 

                                   Nepo e detti.

 

            nepo               Discostatevi, discostatevi, uomini, ch’io vengo per favellare alli sindici, e per iscoprire la verità.[123]

 

            sindaco         Chi è? che vuole costui? Sospendi, caporale.

 

            manente        Ah profeta falso.[124]

 

            nepo               Non disperar, Manente.

 

5 michelagnolo       Ecco lo stregone in suo aiuto.

 

            nepo               Acciocché la verità, come piace a Dio, sia manifesta a tutti, sappiate, come maestro Manente costì non morì mai; e tutto quello che gli è intervenuto, è stato per arte magica, per virtù diabolica, e per opera mia, che sono Nepo da Galatrona.[125]

 

            sindaco         Nepo da Galatrona? Guai a noi.

 

            nepo               Nepo da Galatrona son io, il quale fo fare alle demonia ciò che mi pare, e piace; e così fui quello che lo feci, mentr’egli dormiva su di un pancone in San Martino, portar da’ diavoli in un palazzo incantato, e nel modo appunto che da lui avete udito, lo tenni per infino che una mattina in sul far del giorno lo feci lasciar ne’ boschi di Vernia, avendo fatto a uno spirito folletto pigliare un corpo aereo simile al suo, e fingere che fosse maestro Manente ammalato di peste; e finalmente mortosi fu in vece di lui sotterrato; onde di poi ne nacquero tutti quanti quegli accidenti che voi vi sapete.[126]

 

            sindaco         (a parte) (Gran Nepo onnipotente!)

 

10        manente        (a parte) (Potea farmi di peggio?)

 

            nepo               Tutte queste cose ho fatte far io per far questa burla, e questo scorno a maestro Manente in vendetta d’una ingiuria ricevuta già nella pieve a Santo Stefano da suo padre, non avendo potuto valermene seco, perch’e’ morissi sul punto ch’io volea vendicarmene.[127]

 

            manente        (a parte) (Fosse vissuto egli un po’ più.)

 

            sindaco         (a parte) (Che odo mai!)

 

michelagnolo         (a parte) (Ora sono spacciato.)

 

15        nepo               E perché voi conosciate che le mie parole sono verissime, mandate ora a scoprire l’avello, dove fu sotterrato colui che fu creduto il medico; e se voi non vedete segni manifesti della verità di quel ch’io v’ho favellato, tenetemi per un bugiardo e per un giuntatore, e fatemi mozzar il capo.[128]

 

            sindaco         No, no, non abbisogniamo di segno alcuno: troppo c’è noto il potere, e la virtù di Nepo da Galatrona.

 

            nepo               Dicovi che mandiate pure a scoperchiar quella fossa; ch’io vo’ vederne pienamente persuaso questo Michelagnolo, che tuttavia n’è dubbioso.

 

michelagnolo         Credo, credo ogni cosa.

 

            sindaco         Andate via, caporale, e notaio; scoprite l’avello, tornate tosto, e riferite.

 

20        manente        (a parte) (Me n’addiedi già ch’egli aveami fatto l’incanto.)[129]

 

michelagnolo         (a parte) (Io non so più dove ascondermi dalla vergogna, e dalla rabbia.)

 

            manente        Tu se’ molto infocolato Michelangnolo: hai finito il bel tempo ne’?[130]

 

michelagnolo         Potevi restartene dove tu eri.

 

            manente        Per far piacere a te eh tristo?

 

25 michelagnolo     Se tu sei briaco sempre come monna; tuo danno.[131]

 

            manente        Che n’è a te, dì, s’io beo, e mi briaco ancora? Tu c’hai per questo a usurpar la mia donna?

 

michelagnolo         Non è più tua, quando tu se’ morto.

 

            manente        Chi t’ha detto ch’io sia morto mai?

 

michelagnolo         Tutta Firenze.

 

30 manente               Tu, e Firenze, tutti bugiardi.

 

michelagnolo         Chi lo sapeva che tu fossi vivo a casa del diavolo, e che avessi a tornar al mondo?

 

            manente        Né tu, né io; ma dovevi lasciare star la mia moglie.

 

            nepo               Orsù datevi pace. Ti basti, Michelagnolo, d’esserti finora servito della donna, e della roba, di Manente, come di cosa tua. Rinunziala di buon grado a chi n’è il legitimo padrone, se non vuoi ch’a te n’avvenga peggior danno, e vergogna.

 

michelagnolo         Piglisi pure ogni cosa.

 

35        manente        Sto a veder che vi borbotti su ancora.

 

            nepo               Manente, racconsolati, e impara a rispettare gli uomini grandi, e di virtù sovrumana.

 

            manente        In che t’offesi io mai?

 

            nepo               Della colpa dei padri ne portano soventemente la pena i figlioli. Servati d’esempio. Guardati dal provocar l’ira de’ potenti almeno per pietà della tua prole, quand’anche tu potessi sottrartene. Orvia, già scoperto è l’avello: già apparvero i segni: già i messi ritornano. Uditene, uditene le voci. (s’odono clamori di dentro)[132]

 

 

                                    SCENA NONA

 

                                    Caporale, notaio e detti.

 

            caporale,

            notaio           Miracolo, miracolo.

 

            sindaco         Che avvenne?

 

            notaio           Io non ho più fiaato.

 

            caporale       Io tre… mo tutto.

 

5          nepo               (a parte) (Io crepo dalle risa.)

 

            sindaco         Su via narrate, vigliacchi.

 

            manente        (a parte) (Che sia mai?)

 

            notaio           Appena il sagrestano, attaccatovi l’uncino, tirò su la lapida, che ’n un tratto preso il volo all’insù ahi spavento… s’escì dalla sepoltura un mostro nero nero come la pece, e visibilmente poggiando verso il cielo andò tanto alto, che egli scoperse Careggi, e dociando poi si difilò a quella volta, dove fu in meno d’un’ottava d’ora. Non saprei dire la confusione, la maraviglia, il terrore di tutti i circostanti, che gridando «aita», «misericordia», correano, e non sapean dove. Il sagrestano per la paura cadde all’indietro, e tirosse la lapida addosso, che tutta gl’infranse una coscia. Li frati, e preti chi qua, chi là come pecore scompigliate dal lupo. Infatti tutta Firenze a romore.[133]

 

            sindaco         Ma che avete veduto? Che mostro era egli?

 

10        notaio           Chi diceva che quello era uno spirito in forma di scoiatolo con l’alie: chi un serpente che aveva gittato fuoco: e altri vogliono che sia stato un demonio convertito in pipistrello. Ma vi so dir io, ch’egli era un diavolino vero, e reale.

 

            caporale       Diavolino, e come! Hogli vedute io le cornicina, e il piè d’oca.[134]

 

michelagnolo         Egli è peggio di Simon Mago questo Nepo.[135]

 

            sindaco         Io ne resto sbalordito. Ora parmi che questa lite per essere tanto intricata, e frammischiata co’ diavoli, sia bene rimetterla al Magnifico Lorenzo, che oltre l’averne egli piacere grandissimo, e’ sarà appunto giudice ottimo di sì fatte cause.[136]

 

            nepo               Saviamente vi consigliate; ed ei solo può darne sentenza sopra che buona sia.

 

15        sindaco         A voi frattanto, Michelagnolo, e Manente, doniamo la libertà, e comandiamo che niuno sia ardito d’appressarsi a cento braccia nella via de’ Fossi, né di favellare alla Brigida sotto pena delle forche, infino a tanto la lite non sia giudicata, e non riceviate la sentenza del Magnifico, che vi sarà per il notaio recata.[137]

 

                                   (S’alzano, e partono.)

 

michelagnolo         (a parte) (Non posso darmi pace che colui sia Manente: ma non sono ancora disperato.) (via)

 

            nepo               Vedi, Manente, s’io n’ho attenuta la parola?

 

            manente        Che tu sii benedetto, Nepo miracoloso. Ma Lorenzo? Posso sperare?

 

            nepo               Sta di buon animo: deciderà a tuo favore.

 

20        manente        Io parto tutto consolato.

 

 

                                    SCENA DECIMA

 

                                    Nepo.

 

                                   Io non ne poteva più dal prurito di ridere; e mi credo che Lorenzo se ne sgangheri tuttavia le mascella; che già d’ora in ora vien minutamente ragguagliato d’ogni particolarità. Se l’hanno pure ingozzata codesti ciondoloni. Quanto fa travedere la guasta fantasia! Il diavolino ch’escì dell’avello altro non fu che un colombaccio nero come carbone arrecato da Careggi, e messo celatamente in quella sepoltura a questo fine. L’animale ingordo, ch’era stato parecchie ore al buio senza beccare, veduto il lume, ti so dire con che impeto sarà sbucatone fuori, e che spavento avrà messo ne’ circostanti. Infatti il valoroso principe pensò, governò, e a fine condusse la beffa da par suo. Sedò col mio mezzo ogni litigio, e tolse ogni disordine che potea nascerne. È nota a tutti la mia possanza, e facilmente ognuno presterà fede a’ miei detti; ma più d’ogni altro Manente, ch’è di sì buona pasta, come Martino d’Amelia.[138]

 

 

 

                                   ATTO QUINTO

 

 

                                   SCENA PRIMA

 

                                   Strada.

 

                                   Brigida in porta.

 

                                   Vorrei pur vedere, se ritorna ancora quella tapinella di Vespina con qualche nuova di Michelagnolo. Io n’ho tale angoscia al cuore, che parmi d’avere a restar vedova un’altra volta; credo che siavi donna al mondo più di me tribolata. Dopo quella lettera io non ebbi più pace: perdei la fame, il sonno, l’amore alla casa, al figliolo, alle faccende, al lavoro, infatti non son più Brigida. Non è momento ch’io non m’abbia dinanzi agli occhi quel fantasima di Manente; né fo passo ch’io non l’oda e non mel senta a’ fianchi. Chi sa ch’ei non m’abbia preso a perseguitare per la fede violata di non unirmi ad altr’uomo dopo di lui? Ma quant’altre rompono tutto giorno sì fatti voti, e pure si dormono i loro sonni tranquilli? A me sola tocca l’esserne punita. Ma confido in Dorotea, che mi placherà con le sue orazioni, come m’ha promesso, quell’anima. Che quanto a ciò che mi riferì Vespina d’ordine del negromante, sono tutte fole, menzogne, imposture. Che negromanti? Ciarlatani, che voglion farla da Nepo da Galatrona esigliato già da questa città a milanta mille miglia. Il mio Michelagnolo, questo mi preme, che non posso indovinare, perché sia stato catturato: e quella ragazza non vien mai con qualche risposta. Chi sa quanto avrò a dormir sola! Ma… lo veggo io? sì è desso. Oh come torbido se ne viene, e pensieroso![139]

 

 

                                   SCENA SECONDA

 

                                   Michelagnolo e Brigida.

 

michelagnolo         Quanto instabile, o cieca fortuna! Eccomi rapito a un tratto ogni tuo dono.

 

            brigida          Michelagnolo mio, ti riveggo pur liberato.

 

michelagnolo         Ahimè chi incontro! Pena le forche: svigna, svigna. (fugge via)

 

            brigida          Che vedo? che ascolto? È Michelagnolo quegli? Son io Brigida? Sogno? vaneggio? Quand’io sperava ch’ei mi corresse tra le braccia, da me si fugge, come diavolo dalla croce? Mi sono io forse in qualche mostro orrido trasformata? Ahi me infelice! dov’è uno specchio?[140]

 

 

                                    SCENA TERZA

 

                                   Vespina e Brigida.

 

            vespina          Buone nuove, buone nuove.

 

            brigida          Vespina, dimmi, guardami, son io dessa?

 

            vespina          Come, se siete dessa?

 

            brigida          Son io Brigida la tua padrona? Ho io la mia solita sembianza? Che ti par di vedere veggendo me?

 

5          vespina          (a parte) (Io trasecolo. Che sia impazzita poverina?)

 

            brigida          Non mi rispondi? Non mi guardi? Ah meschina me! Qualche fattucchieria m’è stata fatta, qualche incanto: Dorotea, Dorotea.

 

            vespina          Fermatevi: ditemi, che vi sentite?

 

            brigida          Ah ch’io non sono più io: son tradita, son rovinata. Dorotea, dico.

 

 

                                    SCENA QUARTA

 

                                    Dorotea e dette.

 

            dorotea        V’ho sentito a chiamarmi in fretta; che c’è di nuovo, figliola?

 

            brigida          Vien qua, Dorotea mia, osservami bene.

 

            dorotea        Vi vedo.

 

            brigida          Che ve ne pare?

 

5          vespina          (a parte) (Io non so ancora dov’ella se l’abbia.)

 

            dorotea        Parmi di veder Brigida; e bene?

 

            brigida          Brigida vera e reale?

 

            dorotea        Che dimande sono queste?

 

            vespina          (a parte) (Da pazza.)

 

10        brigida          Quella di prima?

 

            dorotea        Quellissima. Voi vi sentite in fregola ne’, figliola mia, e vorreste un po’ baloccarvi?[141]

 

            brigida          ritrovate in me alcuna mostruosità?

 

            dorotea        Mi par che vo’ siate più bella, e rubiconda che mai; che Dio vi benedica.[142]

 

            vespina          (a parte) (Se non fosse briaca.)

 

15        brigida          E pur me l’ha trovata testé Michelagnolo.

 

            dorotea        Che? è uscito già di prigione? Me ne consolo, me ne consolo in conscienza mia. Dov’è egli?

 

            brigida          L’ho veduto io or ora, se pur non era la sua ombra.

 

            dorotea        Voi avete, Brigida mia, il cervello pieno zeppo di fantasimi.

 

            vespina          (a parte) (E di pazzia.)

 

20        dorotea        E a liberarvene sarebbe a proposito per trentasette mattine un sciloppo d’erba cacciadiavoli con una certa orazioncina ch’io dirovvi sopra il cаро.[143]

 

            vespina          Insegnatela anche a me, che siate santa, codesta vostra orazione.

 

            dorotea        Ci hai fede ?

 

            vespina          Che sono una luterina io?[144]

 

            dorotea        Basta, te la dirò, ma tenterai a impararla. Uditela voi ancora, Brigida.

 

25        brigida          Dite pure; ma sbrigatevi.

 

            dorotea        Bada bene.

 

            vespina          Son tutta qua.

 

            dorotea        Procummanaramingo

                                   andève nosenomina

                                   defrollo de sofritto

                                   monine chenche suppile.[145]

 

            vespina          (a parte) (Non par la Sibilla?)

 

30        dorotea        Che ne dì, Vespina?

 

            vespina          Uh che orazionaccia indiavolata!

 

            dorotea        Non te l’ho detto io, che la sarà scabrosa per te? E così, Brigida, che v’ha detto in fatti Michelagnolo vostro?

 

            brigida          Detto? Mi vide appena, che quasi veduta avesse la Befana, o la tregenda mi volse le spalle, e fuggissi n’un baleno strillando come spaventato. Temo perciò di non esser diventata qualche mostro.[146]

 

            dorotea        Io ne resto maravigliata; né valmi qui, s’ho a dirla, né meno quel po’ di spirito profetico ch’io ho.[147]

 

35        vespina          (a parte) (Oh la profetessa che salta nelle stoppie.)[148]

 

            dorotea        Per altro assicuratevi su la mia coscienza che sete quella di prima.

 

            brigida          Che ho a credere io mai?

 

            vespina          E per questo sete così sgomentata? Badate, badate a me, che senza tanti spiriti di profezia dirovvi io la faccenda com’è.

 

            brigida          Lo sai tu dunque, e non mi dì nulla?

 

40        vespina          Come avea a dirvelo, se appena qua capitata mi assaliste con cento interrogatori, perdonatemi, da farnetica, né mi lasciaste dir parola?

 

            brigida          Su via dì tosto.

 

            dorotea        Sii buona zita: ci vuol carità: bisognava subito trarla di pena.[149]

 

            vespina          Vi direi il nome delle feste io, mona salamistra santinfizza.[150]

 

            dorotea        Ah linguaccia, linguaccia da forno![151]

 

45        brigida          Vuo’ tu finirla.

 

            vespina          Sappiate che Michelagnolo fu lasciato in libertà dagli Otto con espresso comando, pena le forche, che non debba accostarsi alla vostra casa, né parlate con voi, finché non è giudicata la lite.

 

            brigida          Che lite ha egli con chi?

 

            vespina          Ora vengono le buone nuove.

 

            dorotea        Ora via consolala un poco.

 

50        vespina          Quell’anima che voi avete scongiurata, fu messa in ceppi.

 

            brigida          Dì tu vero?

 

            vespina          Verissimo.

 

            brigida          Ringraziato Iddio, che non mi verrà più a inquietare.

 

            dorotea        Vado tosto a far cantare il Tadeo alle mie discepole.[152]

 

55        vespina          Aspettate che non v’ho detto il meglio.

 

            dorotea        Vedete, Brigida, se quello era un baroncione, come vi dissi da prima?[153]

 

            brigida          Domine fallo tristo.[154]

 

            vespina          (a parte) (Adagio, disse Biagio.) E quell’anima fu che fece catturare anco Michelagnolo.[155]

 

            brigida          Ah ribaldo: perché?

 

60        vespina          Perché pretende d’esser il vero vostro Manente. C’è Nepo da Galatrona per testimonio, ch’è quel negromante ch’io vi dissi.

 

            brigida          Che ascolto!

 

            dorotea        Oh Signor Iddio!

 

            vespina          Michelagnolo lo smentisce con certe scritte. Gli Otto stanno sospesi. La causa è rimessa al principe, e se ne attende a momenti la sentenza. Andate ora, madonna, a far cantare il Tadeo.

 

            dorotea        Se non si canterà adesso, si canterà dopo la sentenza, saccentina.

 

65        brigida          Ahimè, chi te le ha dette queste cose?

 

            vespina          Ser Rampicone notaio or ora, ch’è tutto mio.[156]

 

            brigida          E queste sono le buone nuove?

 

            vespina          Buonissime dico. Ricuperate pure un marito che piagneste tanto.

 

            brigida          Piansi il canchero che ti divori. Nacqui io pure sfortunata! Ch’io abbia a riunirmi con quel vecchio?

 

70        dorotea        Vi compatisco, figliola, perché po’ poi quel Michelagnolo era altra cosa: ve l’ho proposto io. Nonostante bisogna rimettersi al voler del Cielo. Non piagnete figliola mia: il caso non è tanto disperato: il diavolo non è sempre così brutto, come si dipinge. Via, diamo che Manente sia risuscitato; che si abbiano a rompere con Michelagnolo i legami congiugali; e per questo? non possono restar tuttavia i legami geniali? Non potete amarvi nonostante l’un l’altro? tener segreta corrispondenza? carteggiare? appostar i vostri congressi, e sollazzarvi? Sono forse massime nuove queste? Fino i bottegai le sanno, non che i dottori. Fidatevi di Dorotea; e non dubitate, ch’io non sono mai per mancarvi della mia debole assistenza, e direzione.[157]

 

            brigida          Certo che di tante belle cose ch’io sentiva narrarmi di suo marito dalla comare Pipa, e da tant’altre ammogliate, vi giuro che con quel vecchio rantacoso io non ne assaggiai mai stilla, se non dopo ch’io conobbi Michelagnolo: e averlo così a perdere…[158]

 

            dorotea        Vi dico che ci sarà il suo rimedio. Si tratta della vostra salute; cappita, ci arei carico di coscienza a non aitarvi.

 

            brigida          Voi sola potete consolarmi.

 

            vespina          Un’altra Dorotea poi così caritatevole non v’è al mondo.

 

75        brigida          Tira via di qua tu, cianciona, con le tue buone nuove.

 

            vespina          Io sperava d’averne la mancia.

 

            brigida          La mancia sarà un randello d’in sul capo, se non taci.

 

            dorotea        Via siate buone: andiamo.

 

            vespina          (a parte) (Tutta la sua ira è quel vecchio.) 

 

 

                                    SCENA QUINTA

 

                                    Manente.

 

                                   Infatti è vero che sovente tal pera mangia il padre che al figliolo allega i denti. Mira, se quel Nepo se la prese con me da maladetto senno, per non aver potuto raccattarsi con mio padre! Tenermi un anno intero in un palazzo incantato! Palazzo di vero. Diemeneguardi da tai palazzi. Catapecchie, tombe piuttosto. Egli è però un negromante discreto, e pietoso. Che s’ei non veniva a rivelare il mistero, io non mettea certo più piede in mia casa. E per questo canto io gliene so grado; e vo’ farmelo mio particolar avvocato, e protettore. Mandar così senza che se n’avvedano le persone invisibilio? Lo chiamo far miracoli io.[159]

 

 

                                   SCENA SESTA

 

                                   Burchiello e Manente.

 

            burchiello   Sono omai stanco dal cercarti. Mi consolo, caro amico, che tu sarai tra poco fuor de’ triboli.

 

            manente        Che te ne pare eh di quel Nepo? Potea egli farmela più solenne?

 

            burchiello   (a parte) (Gran babbocchio!) E tu se’ pur fermo ch’ella sia stata arte di Nepo?[160]

 

            manente        E di chi poi?

 

5          burchiello   Di Lorenzo ti dico; e non sono io solo di questo parere.

 

            manente        Tu mi faresti ridere. Che? Son io nato ieri sera, che non m’accorgessi delle beffe ch’un vuol farmi? Ma dove c’entrano diavoli, e incantesimi chi può avvedersene? Vedrai, vedrai le maraviglie che se ne farà il Magnifico, quand’e’ venga a risaperlo, e quanto glien’increscerà per mia parte.

 

            burchiello   (a parte) (Egli è un lavar carboni con costui.) E Michelagnolo che ne dice?[161]

 

            manente        Michelagnolo mi guarda in cagnesco, e sbuffa d’ogni parte. Ma voglia, o non voglia, converragli star alla sentenza.

 

            burchiello   Eccolo appunto a questa volta. Scostiamoci un poco, ch’ei vien tra sé borbottando; e lasciati regger da me.

 

10        manente        Come tu vuoi.

 

 

                                    SCENA SETTIMA

 

                                    Michelagnolo e detti.

 

michelagnolo         Non posso a meno di non passar di questa via; con tutto che dovrei starmene lontano. Il piede istesso non volendo mi ci porta. Non intesi mai dolore sì acerbo, come questo d’avermi a distaccar dalla mia cara Brigida. Quanto m’amava ella mai! quant’io lei! Che piaceri, che dolcezze faceami fruire! Cosa più dolce a’ miei dì non gustai di quella.

 

            manente        (a parte) (Ah ghiottone ribaldo.)

 

            burchiello   (a parte) (Statti cheto.)

 

michelagnolo         E pur conviene darsi pace. Altri che il demonio con le sue corna non ci potea entrare a rovinarmi. E non si ardono vivi codesti stregoni? Se pur non si aspetta che mandino in fumo la città tutta сol territorio.

 

5          burchiello   (a parte) (Vien pur meco.) Michelagnolo, la cosa è ormai in termine che ti converrà far di necessità virtù.

 

            manente        Buona sera, Michelagnolo. (a parte) (Mira viso arcigno!)

 

michelagnolo         Tu vedi, Burchiello, lo stato mio. Se colui è Manente, io sono al lumicino: perduta moglie, sostanze, e tutto.[162]

 

            manente        Contentati, che n’hai avuto il possesso tanto tempo. Tu strigni i denti?

 

            burchiello   Non lo aizzare tu. Ad ogni modo io voglio che voi facciate una bella paciona assieme; che Manente poi è uomo discreto vorrà in tutto il tuo danno.

 

10 michelagnolo     Io mi rimetto in te.

 

            manente        Che viene a dire?

 

            burchiello   Odi, Manente. Comunque ita sia la faccenda, tu di Michelagnolo non hai che dolerti. Fece egli ciò che tu medesimo fatto avresti, in simil caso. Tu vedi dall’altro canto quante perdite ei viene a fare. Non mi sembra ragionevole ch’egli innocentemente scapiti tutto.

 

            manente        Che? ho a lasciargli la moglie tuttavia?

 

            burchiello   Non dico io ciò. Ma di marito che l’era, fallo diventar suo compare.

 

15        manente        Come ciò?

 

            burchiello   Sai ch’ella n’è rimasta già gravida. Il bambino che nascerà, levalo tu alla fonte; e strignete così tra voi una parentela spirituale.[163]

 

            manente        Questo può farsi. Ma non vo’ io già che quel figliolo sia a mio conto.[164]

 

michelagnolo         Né men io lo voglio. Egli è mio sangue, e sarà mio. E se a Dio piace, cresciuto ch’egli sia, vo’ botarlo fraticino di Santa Maria Novella, e che si chiami fra’ Succhiello, che fu già un solenne predicatore della mia casa.[165]

 

            burchiello   Sia in buon’ora. Oltra di ciò parmi bene che quel po’ di dota che diegli Brigida, tu gliela lasci di buon grado, ond’ei seguiti a far bene i fatti suoi con Niccolaio tuo cognato.

 

20        manente        Vedrò che dota ella è.

 

michelagnolo         Non m’ha dato già un regno.

 

            burchiello   Basta; le cose si accomoderanno.

 

 

                                   SCENA OTTAVA

 

                                   Notaio e detti.

 

            notaio           Ho piacere di trovarvi amendue assieme, presente anco Burchiello, che farà testimonio ch’io v’ho consegnata, e clara voce letta, spiegata, dichiarata eccetera la sentenza definitiva, precisa, inappellabile del nostro magnifico principe.

 

            burchiello   A’ notai non mancano certo ciarle.

 

            manente        Lodato il Cielo, escirò di travagli una volta.

 

michelagnolo         Udiamo per la sentenza.

 

5          burchiello   Leggi, Rampicone.

 

            manente        Aspetta, aspetta, ch’io vo’ in ogni modo che sia presente anco mogliema, perché non ci sia infine da che dire.

 

            burchiello   Sta bene: chiamala.

 

            manente        Brigida, Brigida. Mi par mill’anni d’abbracciarla. (Picchia alla porta)

 

 

                                    SCENA NONA

 

                                   Brigida, Dorotea, Vespina e detti.

 

            brigida          Ahimè, Dorotea.

 

            manente        Ancora dubiti? O moglie mia sospirata. (l’abbraccia)

 

            brigida          Ho a creder dunque che tu sii il vero Manente?

 

            burchiello   Accertati ch’egli è desso.

 

5          brigida          Posso fidarmi, Michelagnolo?

 

michelagnolo         Puoi sì; purtroppo.

 

            vespina          Se ve lo dissi io.

 

            dorotea        Risparmierai, Michelagnolo, le messe dei lunedì per un’altra volta.

 

michelagnolo         Vanne in malora, cacatessa gabbadei.[166]

 

10        manente        Sei qua eh, pinzochera? Ci riparleremo poi. Cara la mia Brigida.

 

            dorotea        Domine aiutaci. È meglio andarsene a salvummefacche. O mondo, mondo. (va bel bello a casa sua)[167]

 

            vespina          Mi consolo, padron mio antico.

 

            manente        Addio, Vespina. Vieni, Brigida, odi tu pure la sentenza del nostro Magnifico. Leggi tu.

 

            notaio           Noi Lorenzo de’ Medici signore di Firenze, ec.

                                   Essendosi trovato che maestro Manente creduto già morto, e sotterrato, è vivo tuttavia, e sano; e volendo noi giusta le leggi della nostra equità riparare i disordini avvenuti in tutto il tempo che da Nepo negromante da Galatrona egli fu tenuto rinchiuso nel palazzo incantato

 

15        brigida          Che odo mai!

 

            manente        Vedi, Burchiello, se fu opera di Nepo?

 

            burchiello   Non vo’ garrire ora. Segui.[168]

 

            notaio           Dichiariamo, sentenziamo, vogliamo ex quacumque etc. non obstante etc. prout etc

 

            manente        Tu hai pieno il foglio di cetere, e di sonagli.[169]

 

20        notaio           Formole sagrosante. Primo, che per tutto il vegnente giorno Michelagnolo debbia aver cavate le robe ch’egli vi portò di casa maestro Manente…

 

            manente        Che vi ha portato egli?

 

michelagnolo         Lo vedrai.

 

            notaio           Secondo, che la Brigida con quattro camicie solamente, colla gamurra, colla cioppa se ne vada a stare a casa del fratello Niccolaio per infino a tanto che ella partorisca.

 

            brigida          Quattro camicie sole per quattro mesi?

 

25        manente        Via, ti starai a letto finché si fa il bucato. Ci sono altre signore, che te, che fanno così.

 

            notaio           Terzo, che fatto ch’ella abbia il bambino, stia in arbitrio di Michelagnolo a torlo, o no; e non lo volendo, lo possa pigliare il medico

 

            manente        Dicovi che non vo’ bastardelli per casa io.

 

            notaio           Non m’interrompere. Se non, si mandi agl’Innocenti.

 

            brigida          Che innocenti, che innocenti?

 

30 michelagnolo     Non dubitare, Brigida, che non vi andrà: lo vo’ per me.

 

            notaio           Quarto, che le spese del parto in tutti i modi vadano addosso a Micbelagnolo

 

michelagnolo         Questo carico di più?

 

            manente        Che? Holla ingravidata io?

 

            notaio           Se voi altercate, non ne verremo mai a capo. Quinto e ultimo, che il maestro Manente si ritorni a casa sua a godere col figliuolo; e che dipoi uscita di parto la Bigida si torni a maestro Manente, ed egli la debba pigliare per buona, e per cara.

                                   Datum Palatio etc. die etc. anno etc.

                                   In quorum fidem etc. sigillo nostro etc.[170]

 

35        burchiello   Dalla là, ser Cetera, al maestro, e vanne pe’ fatti tuoi.

 

            notaio           E la mia fatica?

 

            burchiello   Sarà rimeritata. Tira via. Che vi pare di tal sentenza?

 

michelagnolo         (a parte) (Crudele.)

 

            manente        La non può esser più giusta. Andiamo in casa, Brigida mia, che t’ho a narrare un fascio d’accidenti li più strani del mondo.

 

40        brigida          Quanto ci piangi, il mio babbo!

 

            vespina          (a parte) (Lo dica Michelagnolo.)

 

            manente        Ed ora riderai. Mira fardello che hai fatto tu! Hai caricata, ti so dire, la dose, Michelagnolo.[171]

 

            burchiello   Vo’ prima che tu lo abbracci, e che vi riconciliate assieme.

 

            manente        Orsù sia pace tra noi.

 

45 michelagnolo     Sia. (s’abbracciano)

 

            manente        Sarà tuo compare, Brigida.

 

            brigida          L’arò caro, (a parte) (ma più marito).

 

            manente        Vieni pur, Michelagnolo, e tu Burchiello, che ceneremo per questa sera tuttassieme, e faremo un po’ di baldoria.[172]

 

            vespina          Ringraziato il Cielo! Sono svaniti i fantasimi, e terminò ogni cosa in lieto fine, toltone quel po’ di rancoretto della padrona per il vecchio. Voi potete girvene, o spettatori, a vostro agio; e s’evvi piaciuta la novella, datene qualche segno.[173]

 

                                    FINE

                                    del Fantasima

 

 

 

 

Bibliografia

 

Bibliografia su e di Vincenzo Rota

Carrer, Luigi, Biografia degli italiani illustri nelle scienze, lettere ed arti del secolo XVIII e de’ contemporanei, a cura di Emilio de Tipaldo, Venezia, tipografia di Alvisopoli, 1835, vol. II, p. 47.

Cicogna, Emanuele Antonio, Saggio di bibliografia veneziana, Venezia, Merlo, 1847, vol. I.

Fanzago, Francesco, Memorie dell ab. Francesco Fanzago, Padova, Conzatti, 1798.

Ferrari, Giovanni Battista, Vitae virorum illustrium Seminarii Patavini, Typis Seminarii, 1815.

Rota, Vincenzo, La zoccoletta pietosa, Venezia, Occhi, 1743.

______________, La morta viva, Venezia, Occhi 1747.

______________, Il pastor geloso. Favola boschereccia tragica di chi la inventò, Venezia, Occhi, 1744.

______________, Il fantasima, Lugano, Stamperia della suprema Superiorità Elvetica, 1748.

______________, Il Lavativo. Racconto burlesco, Venezia, Colombani, 1767.

______________, L’Incendio del Tempio di sant’Antonio, poema in VI canti in ottava rima, Roma, stamperie di s. Ignazio, 1749, poi, con l’aggiunta di note, Conzatti, Padova 1753.

______________, L’arte del disamorarsi tratta da Ovidio alla moderna gioventù, Parma, Carmignani, 1759.

 

Postumi:

Rota, Vincenzo, L’Encomio della Mosca, di Luciano, recato in terza rima da Vincenzo Rota, Padova, tipografia del Seminario, 1818.

______________, La Noce di Ovidio. Versione in terza rima dell'abate Vincenzo Rota, Padova, Minerva, 1819.

______________, Il Gallo. Dialogo di Luciano tradotto da Vincenzo Rota, Venezia, Tipografia d’Alvisopoli, 1818.

______________, Baccanale, in cui si tratta che devesi vivere allegramente, Padova, Minerva, attribuito a Rota,  ma senza nome dell’autore e senza data.

Salvadé, Anna Maria, Travestimento e contaminazione: le scritture teatrali di Vincenzo Rota (1703-1785), in Goldoni «avant la lettre»: esperienze teatrali pregoldoniane (1650-1750), a cura di Javier Gutiérrez Carou, Venezia, lineadacqua, 2015, pp. 643-652.

Scifoni, Felice, Dizionario biografico universale contenente le notizie più importanti sulla vita e sulle opere degli uomini celebri, […] ..., prima versione dal francese, Firenze, Passigli, 1845-46, vol. 4.

Vedova, Giuseppe, Biografia degli scrittori Padovani, Padova, Minerva, 1836, vol. 2.

 

Altri saggi

Amaduri, Agnese Declinazioni del comico: gli esiti tragici della beffa ne «Le Cene» di A. F. Grazzini, in Le forme del comico. Atti delle sessioni parallele del XXI Congresso dell’ADI (Associazione degli Italianisti) Firenze, 6-9 settembre 2017 a cura di Francesca Castellano, Irene Gambacorti, Ilaria Macera, Giulia Tellini, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2019 (consultabile on line all’indirizzo https://www.italianisti.it/pubblicazioni/atti-di-congresso/le-forme-del-comico/21_02_favaro_amaduri.pdf).

Bárberi Squarotti, Giorgio, Struttura e tecnica delle novelle del Grazzini, in «Giornale Storico della letteratura italiana», CXXXVIII, 1961, pp. 497-521, poi in Anton Francesco Grazzini, Le Cene, Introduzione di Giorgio Bárberi Squarotti, note di Ettore Mazzali, Milano, BUR, 1989.

Bruscagli, Riccardo, Un modello bipolare per la novella del Cinquecento: Lasca e Giraldi, in https://etudesitaliennes.hypotheses.org/files/2014/02/RiccardoBruscagli.pdf.

Calderari, Callisto, Bibliografia luganese del Settecento, vol. i, Le edizioni Agnelli di Lugano. Libri, periodici, Bellinzona, Casagrande, 1999, pp. 376-377.

Matarrese, Tina, Il Settecento, Bologna, il Mulino, 1993.

Quondam, Amedeo, La vittoria del «Novellino» nella tradizione delle forme narrative brevi, «Carte Romanze» 7/1 (2019), pp. 195-253.

Stäuble, Antonio, Antecedenti boccacciani in alcuni personaggi della commedia rinascimentale, «Quaderns d’Italià», 14, 2009, pp. 37-47.

 

Opere citate

Allacci, Lione, Drammaturgia di Lione Allacci accresciuta e continuata fino all’anno mdcclv, Venezia, Presso Giambattista Pasquali, 1755.

Donato, Elio, Aeli Donati quod fertur commentum Terenti, accedunt Eugraphi commentum et scholia Bembina, recensuit Paulus Wessner, I, Lipsiae, Teubner, 1902

Fanfani, Pietro, Vocabolario della lingua italiana, seconda edizione, Firenze, Le Monnier, 1865.

Grazzini, Antonfrancesco, La prima e la seconda cena. Novelle di Antonfrancesco Grazzini detto il Lasca alle quali si aggiunge una novella della terza cena, che unitamente colla prima ora per la prima volta si dà alla luce; colla vita dell'autore; e con la dichiarazione delle voci più difficili, Londra, appresso G. Nourse [ma Parigi, Molini], 1756.

_______________________, La Pinzochera: comedia d’Antonfrancesco Grazini, academico fiorentino, detto il Lasca, Venezia, Bernardo Giunti e fratelli, 1582

_______________________, The story of doctor Manente, being the tenth and last story from the suppers of A. F. Grazzini, called il Lasca, translation and introduction by D. H. Lawrence, Firenze, Orioli, 1929.

«Novelle della Repubblica Letteraria per l’anno MDCCIL», n. 2, 11 gennaio 1749.

«Novelle letterarie pubblicate in Firenze l’anno MDCCLIII», t. XIV, n. 51, 21 dicembre 1753.

Lawrence, David Herbert, Phoenix. The Posthumous Papers of D. H. Lawrence, edited and with an introduction by Edward D. McDonald, London, William Heinemann, 1936.

Vocabolario degli accademici della Crusca (1612-1738)

Zeno, Apostolo, Lettere di Apostolo Zeno Cittadino Veneziano Istorico e Poeta cesareo […]. Seconda edizione, in cui le lettere già stampate si emendano, e molte inedite se ne pubblicano, 6 voll., VI, Venezia, Sansoni, 1785.

Tavola delle abbreviazioni

GDLI = Grande dizionario della lingua italiana, fondato da Salvatore Battaglia, completato sotto la direzione di Giorgio Barbèri Squarotti, Torino, UTET, 1961-2002, 21 voll. + 2 voll. di Supplementi (2004-2009).

Grazzini, Le cene = Antonfrancesco Grazzini (Il Lasca), Le cene, a cura di Riccardo Buscagli, Roma, Salerno Editrice, 1976 (si cita indicando il numero della cena, della novella e del paragrafo).

LEI = Lessico etimologico italiano, edito per incarico della Commissione per la filologia romanza da Max Pfister; [poi] edito per incarico della Commissione per la filologia romanza da Max Pfister e Wolfgang Schweickard, Wiesbaden, Reichert, 1979- (30 voll. previsti, in corso di pubblicazione).

Rohlfs = Gerhard Rohlfs, Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti [ed. or. Historische Grammatik der Italienischen Sprache und ihrer Mundarten, 1949], trad. di Temistocle Franceschi, Maria Caciagli Fancelli, [Salvatore Persichino], Torino, Einaudi, 1966-1969, 3 voll. (si cita indicando il numero di paragrafo).

T-B = Niccolò Tommaseo e Bernardo Bellini, Dizionario della lingua italiana, Torino, UTET, 1865-1879, 4 voll.

 

 



[1] Lo stampatore non è indicato, ma grazie alle ricerche di Anna Maria Salvadè (Travestimento e contaminazione, cit., p. 649) è possibile identificarlo con la ditta Agnelli di Lugano, come si evince da Callisto Calderari, Bibliografia luganese del Settecento, vol. I, Le edizioni Agnelli di Lugano. Libri, periodici, Bellinzona, Casagrande, 1999, pp. 376-377.

[2] Lettere di Apostolo Zeno […], seconda edizione, cit., vol. VI, Venezia, Appresso Francesco Sansoni, 1785, p. 390.

[3] Drammaturgia di Lione Allacci accresciuta e continuata fino all’anno mdcclv, Venezia, Presso Giambattista Pasquali, 1755, col. 877: «Il Fantasima. Commedia (in prosa). – in Lugano nella Stamperia Helvetica. 1748 in 8 – dell’Abate Vincenzo Rota».

[4] Salvadè, Travestimento e contaminazione, cit., p. 649.

[5] Il motto propriamente recita: σοφς εθυρρημονσει.

[6] Lettere di Apostolo Zeno, cit., vol. VI, p. 325.

[7] La più leggiadra […] del mondo: l’autore dichiara in apertura le fonti dell’inventio della commedia che presenta ai lettori, il cui argomento è tratto dalla decima novella della terza Cena di Antonfrancesco Grazzini, detto il Lasca, ricevuta tramite Apostolo Zeno (cfr. qui Introduzione). Unica resa pubblica fra le novelle che avrebbero dovuto costituire la terza cena, la decima racconta una «beffa» ordita da Lorenzo vecchio de’ Medici ai danni di un medico presuntuoso. ♦ Entrommi […] il baco: modo di dire che significa «mi venne forte desiderio», analogo all’espressione «avere il baco di», che Crusca IV scioglie con «avere pretensione di»; «avere genio di». ♦ Chi ha letta la novella, vedrà quello, ch’io giudicai bene ometterne, e quello, che aggiungervi: l’autore omette il minuzioso racconto dell’ordirsi della beffa, i particolari del processo e il destino del figlio di Brigida e Michelagnolo; mentre aggiunge numerose scene di cui protagonista è Dorotea, rappresentante dell’atteggiamento superstizioso di cui l’autore vuole mettere in luce la gravità. Pregovi solo […] all’udire in bocca della pinzochera sconciatamente poste parole sacre […] di non iscandolezzarvi: consapevole delle critiche che avrebbero potuto anche a ragione sollevarsi dagli ambienti ecclesiastici che ben conosceva, Rota specifica fin da subito che le giaculatorie e le formule di preghiera latine pronunciate con troppa disinvoltura e con evidenti errori dalla pinzocchera non sono da considerarsi irriverenti nei confronti della religione cattolica, ma strumenti per porre in ridicolo chi impiega formule legate alla liturgia senza comprenderne il senso e stravolgendone la forma, con il risultato di tradire la propria ignoranza e la propria incompetenza. ♦ schifalpoco: aggettivo nella tradizione cinquecentesca, solitamente attribuito a monna: donna che simula ostentatamente falsa modestia, ritrosia, riservatezza. Ma nel Grazzini è attestato l’intento ingiurioso dell’attributo, qui certamente condiviso da Rota (GDLI, vol. X, p. 811, voce Monna). ♦ specchio dei costumi: giusta la celebre formula tradizionalmente attribuita a Cicerone (De re publica, IV, 11). Il libro, come è noto, ci è giunto frammentario e l’attribuzione si trova negli scritti di Elio Donato che nel Rinascimento accompagnavano un’edizione delle commedie di Terenzio (De Comoedia et Tragoedia, I, 22).

[8] Non è commedia: il prologo – qui nella forma prolago, regolarmente attestata in Crusca IV – si apre con l’esplicita presa di distanza del testo rispetto alle commedie sue contemporanee, in voga a metà del Settecento. A dispetto delle mode, Il fantasima non è né vestito di stracci – con polemico riferimento alla Commedia dell’Arte – né si pone al livello delle commedie volgari; né, si vedrà, è soverchiamente addobbato di retorica.

[9] tattere: minuzie, masserizie di poco conto; cianfrusaglie (cfr. Crusca IV, ad locum). Nel contesto teatrale termine è utilizzato, probabilmente per traslato, per indicare gli stracci con cui venivano confezionati alcuni costumi. Nel Tommaseo-Bellini si trova un riferimento al linguaggio comico di Giovanni Battista Fagiuoli: «Io non ho bruscoli, tattere, l’onor mio è più limpido» (Gl’inganni lodevoli, III.10), dove «tattera» assume il significato di «Tacca» (Crusca IV), cioè di difetto, di vizio, di magagna. Dicendo che Il fantasima non è vestito di tattere, l’autore intende forse qui dire che è privo di quei difetti che normalmente presenta una commedia comune, ordinaria, di quelle cui il pubblico è abituato.

[10] Da capo pur a’ piè disaminatela: inizia con questo invito la lunga metafora continuata, subito volta in prosopopea, intessuta di malizia, che, invitando gli spettatori ad analizzare la commedia in ogni sua parte, la paragona ad una giovane donna nubile, con numerosi riferimenti alla sfera dell’eros e della corporeità. La descrizione dei costumi della commedia-giovane donna lascia intendere che l’opera non ha orpelli inutili, né ornamenti retorici, ma la sua vicenda aderisce il più possibile al reale (ovvero ai fatti raccontati nella novella del Lasca da cui trae origine). La sua veste si chiama infatti «Verità»: verità nella rappresentazione dei costumi e dei vizi umani. Nell’esclusione di una retorica elaborata si potrebbe forse riconoscere, per contrasto, un riferimento all’arte della parola esercitata con estrema perizia dal celebre personaggio di fra Cipolla, e dunque, per metonimia, un riferimento sia all’orizzonte della novella, sia a quello della critica alla religiosità bigotta.

[11] Che un fido e rilucente specchio nitido: unico monile che pende dal collo della Commedia-giovinetta, correlativo oggettivo della funzione della commedia già ricordata dall’autore.

[12] Una fontana a un tratto ti fa nascere: metafora continuata che indica le lacrime cui portano le risa.

[13] ecco la Cupola […] finchè qui sete, vagheggiatela, / che doman non c’è più, ma ritroveretevi / piantato invece il gran Salon di Padova, / o di Venezia il Campanile: incursione metateatrale con la quale l’autore rompe per un attimo l’illusione ricordando al pubblico che quello che vede è una scenografia che cambia con il trascorrere dei giorni e delle rappresentazioni.

[14] Or torno a bomba: modo di dire di origine antica, almeno latina, che in senso figurato indica l’intenzione del parlante di tornare al punto di partenza del discorso. Se ne trovano occorrenze nella letteratura rinascimentale (Pulci, Stanze carnacialesche e Pietro Aretino, I ragionamenti, viii, 210, Buonarroti il giovane, cfr. GDLI, voce Bomba; Monica Quartu - Elena Rossi, Dizionario dei modi di dire, Milano, Hoepli, 2012, voce: Bomba).

[15] L’autor […] questa favola / vestì alla foggia di quell’aureo secolo, / che le parole eran non più che femmine, e i fatti maschi; e le cose chiamavansi / col nome suo senza veruno scrupolo: il detto popolare che attribuisce al genere femminile le parole e a quello maschile i fatti si trova in Boccaccio, Decameron, 2.9; 2.10; 5.10 (cfr. Teodolinda Barolini, Le parole son femmine e i fatti son maschi: Toward a Sexual Poetics of the Decameron, «Studi sul Boccaccio», 21 (1993): 175-197), riferimento che rinsalda il legame fra la commedia e la tradizione della novella. Al di là dello specifico significato leggibile nel Decameron, nel particolare contesto del Prologo Rota sposta l’attenzione dalle differenze fra le attitudini di genere alla questione importante del rapporto fra parole e cose, tra linguaggio come strumento di rappresentazione e realtà come materia rappresentata, come esplicitano i versi che immediatamente seguono la citazione e che trasportano il lettore da un contesto noto improntato a faceta leggerezza ad una riflessione filosofica sulla portata del linguaggio, inaspettata quanto straniante nel prologo della commedia.

[16] Per altro ei si protesta e giura d’essere / quanto Carlo, e Pipino, Cristianissimo: ironica iperbole attraverso la quale si richiama l’attenzione sull’appartenenza religiosa dell’autore, accostato nientemeno che a Carlo Magno e a Pipino il Breve (per l’identità fra autore e colui che pronuncia il prologo, l’ironia è in realtà autoironia). La necessità della precisazione viene dalla preoccupazione di Rota di evitare fraintendimenti, come lasciano intendere chiaramente i versi successivi.

[17] Questo il dice perché, s’alcun malevolo / volesse giudicar da’ panni il monaco: i messaggi importanti del prologo sembrano in gran parte affidati alla condivisa sapienza dei proverbi. Non giudichino l’autore i critici sulla base di una lettura superficiale e letterale della figura di Dorotea: il testo non intende porre in ridicolo le pratiche religiose, ma la deriva di tali pratiche verso atteggiamenti superstiziosi.

[18] gl’insegniate a prendere / non per la punta il ferro, ma pel manico: le raccomandazioni ai lettori di non proceder a giudizi frettolosi proseguono sempre sulla scorta della saggezza popolare, che questa volta attinge al lessico del duello attraverso una forma proverbiale che varia sul più noto Prender qualcosa di punta.

[19] Manente vestito da marinaio: come da consuetudine, uno dei topoi della commedia è la perdita dell’identità originaria e il travestimento, intenzionale o subìto.

[20] Dov’è la mia toga il mio collare, i miei batali? Collare: striscia di panno lino, che si porta dagli uomini attaccata alla goletta (Crusca IV). Batalo: anche batolo: striscia di panno attaccata alla toga, che magistrati, avvocati, dottori portavano, pendente sulla spalla, come segno del loro grado (Aldo Gabrielli, Grande dizionario italiano, Milano, Hoepli, 2020). Crusca IV, che lo definisce come «Falda del cappuccio, che copriva le spalle», riporta come esempio un’occorrenza del termine nel Decameron, dove appare come parte dell’abbigliamento proprio di un medico.

[21] (a parte) (Gran bietolone!): persona insulsa e sciocca, semplicione (vocabolario Treccani).

[22] la favola dell’uccellino: con questa espressione, o con l’analoga canzone dell’uccellino, i fiorentini intendono una situazione di dialogo nella quale si dubita continuamente o ci si beffa l’uno dell’altro o si formula sempre la medesima domanda riportando la discussione al punto di partenza, tanto che non se ne viene mai a capo (cfr. Le origini della lingua italiana compilate dal s.re Egidio Menagio, gentiluomo francese, Ginevra, Chouët, 1685, p. 19, che per un esempio dell’espressione rinvia al Dialogo di Messer Benedetto Varchi intitolato l’Ercolano, 1570, trattato pionieristico nel contesto degli studi sulla lingua italiana).

[23] per uno di quelli di via de’ Servi: la via fiorentina che unisce piazza Duomo a piazza dell’Annunziata, dove trovava sede l’Ordine dei Servi di Maria, congregazione religiosa nata a Firenze nel XIII secolo.

[24] Io che vedeva la fame nell’aria: espressione popolare, ma cfr. Pulci, Morgante XVIII, 196.

[25] nella coda sta il veleno, dicea colui: ancora una volta il dettato sia affida ad un’espressione popolare, in questo caso derivata dalla tradizione latina (in cauda venenum). Riferita letteralmente alla conformazione dello scorpione, che nasconde il proprio veleno nella coda, è impiegata in senso figurato per indicare l’inaspettato inasprirsi di un discorso che proprio nelle battute finali voglia rivelare il suo carattere polemico.

[26] Mogliema: mia moglie, nella forma del possessivo enclitico. Occorrenze in Boccaccio, poi diffusa prevalentemente nelle zone meridionali d’Italia.

[27] riavrai e moglie, e casa, e roba: riferimento antifrastico all’elenco di quanto verrà restituito, insieme alle persecuzioni, a coloro che avranno lasciato tutto per seguire il Signore (Mc 10,30).

[28] Cacalocchio: interiezione popolare, esclamazione di stupore. Composto dall’imperativo di cacare e da occhio (GDLI, vol. II, p. 474).

[29] Che venga il vermocane: imprecazione di origine antica che augura all’interlocutore un accidente, corrispondente al plautino Dii te perdant. Il vermocane è appellativo popolare di una malattia in grado di colpire animali e uomini, che prende il nome dell’anellide polichete marino Hermodice carunculata, noto anche come verme di fuoco, comune nel Mediterraneo, errante, carnivoro, con il corpo rivestito di ciuffi di setole che, penetrando nella pelle, possono infiggere punture dolorose (cfr. Dizionario della Lingua italiana Treccani, ad locum) dar il lustro a marmi co’ ginocchi: espressione popolare che, con evidente ironia, indica e critica la pertinacia del soggetto nell’inginocchiarsi a terra nelle chiese. Il Vocabolario degli accademici della Crusca, alla voce Lustro riporta l’espressione «dare il lustro a’ marmi co’ ginocchi» occorrente nel poema eroicomico di Lorenzo Lippi, Il Malmantile racquistato (Firenze 1688, ma sotto pseudonimo già 1676). Cfr. Crusca IV, vol. 3, p. 105. Pinzochere: l’origine del termine sembra provenire dal latino medievale Pinzocarus affine a Bizochus (pizzocco è forma originaria di bizzoco, a -zz si sotiuisce poi il nesso nasale nz, sec. XIII), che indicava persona appartenente, come laico, a un ordine o a una congregazione religiosa e conducente vita devota di preghiera e carità. Per estensione il termine è passato ad indicare persona che ostenta una religiosità puramente esteriore, dunque sinonimo di bacchettone, bigotto (cfr. Dizionario della Lingua italiana Treccani). Il dizionario etimologico rende ragione anche dell’identità fra pinzochero e bigotto: pinzochero è colui che «porta abito di religione stando al secolo; così appellato a ragione dell’abito color bigio, detto in Francia biset», che in italiano diventa bizzo (bigio), poi allungato in bizzocco, che equivale a pizzo, poi alterato in pizzocco e infine pizzocchero (Bonomi, Dizionario etimologico della lingua italiana, ad locum). Il termine pinzochero in contesto burlesco e nell’orizzonte dei modi di dire popolari occorre già in Decameron VIII.9.

[30] Conferenza di spirito: espressione che almeno fino al XVIII secolo indica un momento di meditazione personale e di preghiera le cui illuminazioni sono poi condivise in gruppo e, per estensione, anche la meditazione predicata da un sacerdote a un pubblico di devoti (cfr. Giuseppe Maria Prola, Guida a’ Congregati di Maria, Roma, Bernabò, 1709; Daniello Bartoli, Della Vita e dell’Istituto di S. Ignazio Fondatore della Compagnia di Gesù, Roma, Domenico Manelfi, 1650). Evidente qui l’intento dissacrante dell’autore, tramite il personaggio di Vespina, nei confronti della deriva di una pratica cardine della spiritualità non solo gesuitica, divenuta col tempo appannaggio indebito di chiunque voglia ostentare una sorta di confidenza con Dio. La banalità dell’equivoco costruito dalle battute della serva è la controparte retorica della banalizzazione cui è stato ridotto l’esercizio di meditazione spirituale, così come rimette in discussione la profondità della dimensione spirituale anche la battuta di poco successiva.

[31] C’è ben tutta spirito la mia padrona, anzi, per dirla, spiritata, con cui ancora Vespina, definendo la propria padrona, accosta indebitamente lo spirito in quanto contrapposto al corpo al participio spiritata nel suo significato di ‘sconvolta, fuori di sé’.

[32] ch’è tenuta una Magnificatte, e un’Alleluia: duplice esempio di storpiatura del lessico liturgico. Il cantico del Magnificat che fa parte della preghiera dei Vespri e l’acclamazione Alleluja che introduce la proclamazione della Parola di Dio sono impiegati qui come metaforizzanti per caratterizzare una donna e, inoltre, il congiuntivo latino che apre il cantico di Maria è volgarizzato in un’espressione che vorrebbe avvicinarsi all’italiano ma che in realtà non esiste. lo so la sua coscienza più del Paternostro: modo di dire che ancora una volta introduce nelle figure del linguaggio colloquiale (nel caso specifico nella costruzione di un’iperbole) il lessico evangelico e liturgico.

[33] che avanza a voi più senno, che cresta all’oche: proverbio popolare toscano, intessuto di ironia, in prima battuta per la contrapposizione fra l’area semantica del senno e quella invece legata, sempre nella tradizione popolare, all’oca, animale cui non vengono attribuite particolari doti di intelligenza; all’opposizione si associa, in seconda battuta, il paradosso, in quanto, non appena vi si ponga mente, si deve osservare che le oche non hanno la cresta, la quale dunque non può esser d’avanzo.

[34] in inferno nullasteredentio? […] e gli ho detta la requie: storpiature dal linguaggio ecclesiastico, tratte dall’Officio dei defunti, III.7.

[35] filosomia: popolare per fisionomia, come registra anche il Tommaseo nel suo dizionario, contrassegnando il lemma come caduto in disuso. Crusca IV registra una occorrenza del termine nel Granchio, commedia di Lionardo Salviati (1566), dato che, tra gli altri, conferma il legame fra la commedia di Rota e il clima culturale del XVI secolo.

[36] Fraveggole: è una forma arcaica (e probabilmente scorretta) per ‘traveggole’, che compare ad esempio nelle vecchie edizioni delle Cene del Lasca (cfr. Pietro Fanfani, Vocabolario della lingua italiana, seconda edizione, Firenze, Le Monnier, 1865, s. v.).

[37] Acquietatevi in nome di S. Fermo: la pinzochera sceglie con cura il santo a cui votarsi. Basandosi non tanto sulle caratteristiche del Santo, quanto, con ironia dell’autore, sul principio di somiglianza che lega il suo nome alla grazia richiesta, per ottenere quiete Dorotea invoca san Fermo. rechiesca: consueta italianizzazione della preghiera latina.

[38] Vermi, vermi e non homo: cfr. Salmo 22.7: Dorotea inserisce in un contesto del tutto corporeo, che ponga davanti agli occhi dell’interlocutrice il presunto avanzato stato di decomposizione del cadavere del marito, la citazione dal salmo di Davide – ben più complessa nel suo significato – in cui l’identificazione con i vermi è anche metafora del legame con la terra, e dunque con il peccato. Si noti ancora una volta la tendenza del personaggio a frammischiare latino e italiano e a interpretare arbitrariamente il testo sacro, tanto da tradurre il latino «vermis», al singolare, e che l’autore biblico riferisce a sé stesso in senso morale, con l’italiano «vermi», al plurale e con l’enfasi di una ripetizione che contribuisce a dare forma all’immagine, tutta materiale, del processo di corruzione della carne.

[39] poi ci sono de' teolaghi, che accordano […] non tengo più a memoria cotai frottole; le so ben per isperienza: Dorotea enuncia qui il principio su cui basa la propria condotta: noncuranza delle indicazioni e delle regole codificate, definite qui «frottole» in nome dell’esperienza – approssimativa – di pratiche a suo avviso cristiane. Nel suo atteggiamento l’autore esemplifica e pone evidentemente in discussione quello di molti.

[40] E ne nos induca: come di consueto, Dorotea inserisce nel flusso del discorso citazioni latine, frammischiandole confusamente a parole italiane

[41] né men voi sete farina da cialde no. O fragilità umana!: detto passato nell’uso popolare che significa non essere del tutto mondi, immuni da sporcizie (morali in questo caso). La farina per le cialde deve invece essere pura e bianca più d tutte le altre (Crusca, alla voce Farina). Crusca riporta come riferimento letterario il Morgante (XVI, 58) di Pulci.

[42] ci vuol altro per esser sante, che darsi delle massima culpa nel petto. Non mi badate, […] Ch’io lo fo così per uso: nella involontaria verità dell’enunciato tutta l’ironia dell’autore che si prende gioco del personaggio della pinzochera, facendole pronunciare una frase il cui contenuto letterale corrisponde al giudizio dell’autore, e la cui effettiva intenzione, nei desideri del personaggio, è di ostentare un’umiltà che in realtà mira al plauso. Massima culpa, come è noto, è espressione che fa parte del Confiteor, preghiera che si recita durante l’atto penitenziale del rito della santa Messa, che, in concomitanza con la triplice ripetizione del termine «colpa», prevede un triplice gesto con cui ogni membro dell’assemblea si batte un pugno sul petto in segno di autoaccusa. vi dico da farne degli Agnusdei: l’Agnus Dei, oltre che incipit di una formula liturgica appartenente sia al rito della s. Messa, sia alla preghiera del Rosario, è anche un sacramentale, cioè un oggetto di devozione cui si attribuisce valore non autonomo, ma in relazione allo stato di grazia dell’anima di colui che lo porta o ne fa uso. Nello specifico, l’Agnus Dei ha la forma di un ovale di cera candida, recante sopra una delle facce l’impronta dell’agnello pasquale, simbolo del Cristo, accovacciato sul libro dell’Apocalisse dai sette sigilli, e reggente con le zampe un vessillo crociato. Lungo l’orlo dell’ovale corre la scritta più o meno abbreviata: Ecce agnus Dei, qui tollit peccata mundi (Giovanni, I, 29). L’altra faccia solitamente porta impressa l’immagine di uno o più santi, iscrizioni, simboli sacri oppure lo stemma del papa. In fondo alla faccia dove si trova l’agnello si appone il nome del pontefice regnante, con la data del pontificato, la quale viene talvolta ripetuta anche nell’altra faccia (cfr. G. Cast, ad vocem, Enciclopedia italiana Treccani, 1929). L’evidente iperbole, che fa della balia una santa tale da poter comparire su una delle facce di tali medagliette, tradisce naturalmente l’ironia dell’autore nei confronti, probabilmente, dell’uso che di questi sacramentali veniva fatto. Grillanda: forma antica e popolare ottenuta per metatesi da ghirlanda. L’espressione «morir con la grillanda» significa «morire vergine», che, seguita in questi versi dal commento «poverina» lascia intendere che Dorotea abbia quantomeno le idee un po’ confuse per esempio sul significato della verginità in relazione alla santità e, d’altra parte, che la sua scelta di ritirarsi dal mondo e non aver più mariti non corrisponde ad un atto di volontà, ma all’accomodarsi ad una situazione effettiva. Crusca nella lessicografia riporta un esempio letterario dell’impiego dell’espressione in Il marmantile racquistato, poema eroicomico composto da Lorenzo Lippi a metà del Seicento ma pubblicato solo nel 1676, poi nel 1750 a Firenze per i tipi di Nestenus e Moücke. Nelle note al Marmantile si legge infatti: «Morir colla ghirlanda. Significa Morir vergine. A coloro che muoiono in concetto di vergini, quando si portano al sepolcro, costumasi di porre in testa una ghirlanda di fiori in segno della loro castità. Qui il poeta scherza, come è solito farsi, quando si discorre d’una donna impudica, che si dice: Ell’ha giurato di morir colla ghirlanda: ed è detto ironicamente, e per intendere: Ella vuol portare il vanto e la corona delle donne impudiche» (2, 861).  La nota di commento crea un contesto di riferimento che getta luce sulla prospettiva anche di Rota nei confronti di figure femminili simili a Dorotea e alla sua balia. Io so quel che dico, quando dico torta: detto popolare originato da un verso poetico. Il Biscioni, infatti, ricostruisce così le origini del detto, che non rimanda ad altro che all’attestazione rimarcata della consapevolezza del parlante sulla materia di cui tratta: «siccome noi amiamo molto di parlare con parole alludenti a’ detti de’ Poeti; quindi è che, volendo noi dire: so quel che dico: si è detto con quel verso del Berni che include questo sentimento; e quel: quando dico Torta, non v’ha che fare, ma perché sta accoppiato in quel verso, è divenuto un detto comune» (la citazione dal Biscioni è riportata in Sebastiano Paoli, Modi di dire toscani ricercati nella loro origine, Venezia, Simone Occhi, 1740, CLXXIII, p. 287, che allega riferimenti letterari quali, ancora una volta, Pulci, Morgante [XVIII, 116 per il primo verso, ma nel canto non si ritrova l’espressione «quando dico torta», e infatti manca anche il riferimento al numero dei versi] e Lippi, Il malmantile racquistato, I, 19). Diessira: accorpamento in un’unica parola e contestuale storpiatura dell’espressione latina dies irae, celebre incipit di una delle cinque sequenze della Messa per i defunti in latino secondo il rito tridentino, da recitarsi al termine della funzione. È attribuita a Tommaso da Celano e una versione rivista è presente anche nella Liturgia delle ore. I versi in rima baciata venivano dapprima cantati secondo la melodia gregoriana; poi furono materia di numerose opere in musica. All’epoca della stesura della commedia il Dies irae aveva già conosciuto diverse trasposizioni musicali che ne avevano certamente aumentato la notorietà fra il pubblico. L’operazione di Dorotea rispecchia la tendenza, molto diffusa nel popolo, di ripetere le espressioni latine della Messa senza comprenderne il significato, con il rischio di creare espressioni e immagini prive di corrispettivi nella realtà, cui tuttavia era facile dare credito.

[43] Non v’è donna che m’andasse più a sangue di lei: Crusca IV riporta: «Andare a sangue, vale Piacere, Sentirsi l’uomo inclinato a porre amore a quello, di che si tratta» e trae esempi di questa espressione dalle commedie La Trinuzia di Agnolo Firenzuola (1551) e Il donzello di Giovanmaria Cecchi (1585), nonché dalla traduzione secentesca degli Annali di Tacito (in Opere di Bernardo Davanzati. Volgarizzamento dell’opere di Cornelio Tacito, Nesti, Firenze, 1637). Scombuiarmi la moglie: «scombuiare» significa porre in disordine, dissipare. L’esempio riportato da Crusca III e IV è ancora ripreso dalla traduzione secentesca di Tacito, questa volta dalla Vita di Giulio Agricola. Un tranello ordito per uccellarci: il verbo «uccellare», letteralmente «tendere insidie agli uccelli» per catturarli, giusta Crusca, è impiegato in senso figurato già nelle novelle del Boccaccio nel significato di «beffare» e «burlare».  Con inconsapevole rovesciamento dei termini, Michelagnolo interpreta come una burla la legittima difesa della propria identità da parte di Manente, il quale, per contro, interpreta come evento (incomprensibile) la beffa di cui è vittima lungo tutta la commedia. Una ne pensa il ghiotto, e l’altra il cuoco: variazione con decezione finale della più canonica forma proverbiale «una ne pensa il ghiotto, e l’altra il tavernaio» riportata in Crusca IV con il corredo di alcuni esempi, tratti in parte dall’orizzonte burlesco, come le novelle del Pecorone o la commedia La Clizia, ma anche da un’opera come la Storia fiorentina di Varchi, profondo conoscitore del linguaggio popolare e autore di commedie, che così introduce il proverbio: «Ma come dicono i volgari con quel proverbio plebeo» (15.600). Il significato è analogo a quello del detto «fare i conti senza l’oste», che sottolinea la distanza di due modi di pensare indipendenti e spesso contraddittori rispetto ad una medesima questione. Ci arò a esser anch’io in codesta danza: a partire da Crusca IV il detto proverbiale «essere in danza», o «entrare in danza» assume, oltre al significato letterale di farsi vedere in scena, quello traslato di «ritrovarsi in qualche affare impacciato»; da cui l’analogo «Essere in ballo» (cfr. Crusca I e poi IV alla voce «danza»).

[44] Diacine: variante rara di «diancine». Esclamazione usata in luogo della parola «diavolo», solitamente per esprimere meraviglia (Crusca III). questa faccia, questo sopraciglio, questa fronte, questi occhi sono pur quelli ch’io m’ebbi sempre: consueto atteggiamento di colui che nella tradizione burlesca è vittima di un cambio di identità e si meraviglia di come i suoi amici e parenti non lo riconoscano.

[45] Costaggiù: avverbio di tempo attribuito alla tradizione toscana e alla lingua letteraria.

[46] Sono io forse fradicio? giusta Crusca III, ad vocem, «fradicio» o «fracido» significa putrefatto, corrotto fisicamente, e qui, per traslato e in relazione al contesto, invecchiato, non prestante. Il termine ben si inserisce nell’orizzonte concettuale dei dialoghi delle scene precedenti, intessuti di terminologia legata alla putrefazione della carne.

[47] Graffiasanti: nome composto che significa picchiapetto, ipocrita (cfr. Crusca IV). Con la stessa immediatezza con cui unisce verbo e sostantivo (il primo non senza iperbole, il secondo impiegato per metonimia: il santo per la statua), il termine genera un’efficacissima immagine di facile riconoscimento per la sua familiarità rispetto all’esperienza quotidiana popolare e descrive l’atteggiamento di chi compulsivamente tocca le statue dei Santi in segno di (discutibile) devozione. Anche nelle parole di Manente si riconosce la voce dell’autore, critico nei confronti del tipo di devozione rappresentato dalla pinzochera.

[48] Siniquitate...: nel contesto della preghiera di intercessione per i defunti che Dorotea immagina possa richiedere quella che presume essere l’anima di Manente che vaga per la città, la pinzochera recita un famoso verso del Salmo penitenziale 130 (129), conosciuto, dal suo incipit nella Vulgata, come il De prufundis e previsto al termine della Messa per i defunti. Si tratta del verso 3: «si iniquitates observaveris, Domine»: anche in questo caso l’espressione è storpiata nella impropria fusione di congiunzione e sostantivo e così depauperata della sua sacralità.

[49] Messe di san Gregorio: prassi diffusa nella Chiesa intorno all’anno Mille e legata ad un episodio della vita di san Gregorio Magno. Si tratta di trenta Messe a suffragio dell’anima di un defunto celebrate per trenta giorni consecutivi, soggette, però, nel tempo, ad interpretazioni non del tutto ortodosse e sconfinanti nell’automatismo, tanto che il Concilio di Trento inserisce le Messe gregoriane negli abusi da correggere (cfr. Acta Concilii Tridentini, t. VIII, p. 743 e 917). Per questa presa di posizione da parte del Concilio, il riferimento alle messe gregoriane appare nella commedia nella sua funzione, ancora una volta, di critica nei confronti di pratiche che vorrebbero essere devote, ma in realtà rispondono a meccanismi legati al calcolo e all’utile, in una dimensione meramente umana e terrena.

[50] Voglio la fava: secca e volgare risposta alla domanda «Vuoi le messe di san Gregorio?» che, per decezione, abbassa il discorso dall’orizzonte liturgico a quello della sessualità più popolare che copre di metafore tratte dal mondo, in questo caso, vegetale i riferimenti al rapporto fisico e agli organi della riproduzione. Il desiderio di Manente è meramente corporeo, in netta opposizione rispetto a quello attribuito da Brigida alla sua anima, opposizione che genera effetto comico e ridicolizzazione delle pratiche devozionali-superstiziose oggetto di critica lungo tutta la commedia.

[51] Rechiesca, rechiescat in pace. (facendo croccioni si ritira): ostinata nel pensare che Manente sia un’anima e dunque incapace di prendere atto della realtà, Brigida insiste nel voler pregare in suffragio di Manente e si ritira in casa ripetendo la formula di chiusura della Requiem æternam, sempre parte della Messa per i Defunti, italianizzandola come di consueto, e accompagnandola con segni di croce la cui goffa amplificazione è sottolineata dall’autore nella didascalia.

[52] Lusperpetua, lusperpetua luceat ei: Brigida chiude la scena sulla scorta di Dorotea, recitando il verso che precede immediatamente quello pronunciato dalla pinzochera, accorpando ancora una volta, secondo un uso evidentemente molto diffuso nel sostrato popolare, il sostantivo e l’aggettivo e sostituendo la x con la più famigliare s.

[53] Anima randaglia: forma rara per «randagia», che vaga ancora in terra dopo la morte in attesa di una giustizia o di un’espiazione, secondo le credenze pagane degli antichi rimaste in parte nella tradizione popolare. Anche questa affermazione testimonia di diffuse convinzioni ben lontane dalla prospettiva della fede cattolica, probabilmente condivise anche dalle donne che si dicono così pie. Picchiapetto…spigolistre: il lessico impiegato da Manente è intriso del giudizio negativo nei confronti di Dorotea e dell’universo morale – o immorale – che rappresenta. «picchiapetto», che, come il precedente «graffiasanti» unisce verbo e sostantivo evocando l’ipocrisia di gesti di pietà volutamente ostentati o reiterati per abitudine, è qui abbinato a «spigolistro», vale a dire falso profeta, ingannatore. Crusca IV riporta un’efficace descrizione di questo carattere, tratta dalle Novelle di Agnolo Firenzuola (1552):

 

Spigolistro non importa altro nella sua propria significazione, che una sorta di brigate superstiziose, alle quali non bastano i vangeli, ma par loro poca la regola di san Benedetto, ed è come a dire oggi pinzochere, o altri simili nomi dimostranti con gli atti esteriori più, che con la verità, una professione di santa vita; e però disse il Boccaccio nel luogo per voi allegato, spigolistre, a cui più pesano le parole, che i fatti, e più di parer s'ingegnano, che d'esser buone; ma perchè queste cotali ec. vanno disprezzate della persona, e cercan d'apparire magre, e pallide in faccia, acciocchè ec. la brigata creda, ch'elle digiunino, queste magre, che non son se non la pelle, o l'osso, come è la fante nostra, da quel tempo in quà furono chiamate spigolistre. (Novelle, 6.258).

 

«Spigolistra» si trova in coppia con «picchiapetto» anche in una novella del Decamerone: «E certo io starei pur bene, se tu alla moglie d’Ercolano mi volessi agguagliare, la quale è una vecchia picchiapetto, spigolistra» (V.10) Ci sono tribunali anche in Firenze; c’è la giustizia, e soprattutto un Principe […]. A lui, a lui ricorrerò […]. Possibile che nemmeno egli mi riconosca più? Ma così travestito ... non vorrei che mi trattasse da pazzo: Manente chiude l’atto con una serie di considerazioni involontariamente comiche, che tali appaiono, infatti, solo agli occhi del lettore, progressivamente divertito dalla pervicace ingenuità del protagonista. Vittima della beffa ordita da Lorenzo, Manente si rivolgerà paradossalmente proprio a lui nell’intento di farsi fare giustizia.

[54] Le prime battute presentano una tendenza al verso: le prime due sono endecasillabi, la terza un settenario più un endecasillabo.

[55] refrigerio: il significato è di «alleviamento della sofferenza morale, del dolore, dell’afflizione», ma uscito dalla bocca della devota Dorotea il termine indicherà più nello specifico il «suffragio per un defunto, allo scopo di liberarlo dalle pene del purgatorio» (GDLI, s. v.).

[56] rovine: «frastuono, clamore confuso, suono sgradevole e disarmonico» (GDLI, s. v.).

[57] spasimata: nel senso di ‘sconvolta’ (cfr. GDLI, s. v.: «Stravolto da un profondo turbamento»). ♦ giucassero: forma arcaica del toscano, attestata, per esempio, in Boccaccio (cfr. Rohlfs, § 131). ♦ cancello: come fanno i piatti a essere posizionati sopra a un cancello? Probabilmente indica l’anta che li tiene chiusi nella credenza: un significato che sembra non avere altre attestazioni. ♦ spanto: «versato» (GDLI, s. v.), come conseguenza della «pentola rovesciata». ♦ né pur dipinta: l’espressione proverbiale Non ci starei in quella casa neanco dipinto significa «Non mi ci potrei vedere a niun modo, Non ci vorrei neanco l’imagine mia» (T-B, s. v. Dipinto).

[58] miracolosa pinzochera: il personaggio di Dorotea corrisponde al tipo della «pinzochera», presa qui di mira da Rota attraverso la sciocca credulità di Brigida, le velenose battutine a parte di Vespina e le spazientite invettive di Michelagnolo. Miracolosa ha in questo senso un valore ironico, a indicare come il popolo ritenga una santa quella che è appena una pinzochera, che contribuisce, invece di testimoniare la verità, a fomentare l’equivoco stregonesco di Manente fantasma.

[59] La battuta, fortemente popolaresca, si ispira a un’ottava del poemetto comico La Bucchereide di Lorenzo Bellini (1643-1704), uscito postumo nel 1729. Descrivendo le caratteristiche burlesche della sua musa, Bellini scrive: «E dì s’ella non è una santerella, / e un dì m’aspetto d’averla a vedere / tutta trinci la cresta, e la gonnella, / sforbicinata dalla devozione / tornare a casa senza ciapperone» (ed. Firenze, Giovan Gaetano Tartini e Santi Franchi, 1729, p. 81). Parafrasando la battuta di Brigida, Dorotea è tanto santa, che un giorno la si vedrà tornare a casa senza il cappuccio (cioppa, «mantellina che si poteva rovesciare a guisa di cappuccio sul capo», GDLI, s. v.) e con la gonna a pezzi (tutta trinci, cioè «[…] costituita da tagli […] o orli frastagliati», GDLI, s. v. Trincio) strappata (sforbicinata, nello specifico «tagliata con forbicine», GDLI, s. v., hapax di Bellini) dai devoti. Evidente l’ironia verso la devozione popolare per le reliquie, tra le pratiche religiose che Rota sottopone a critica attraverso il personaggio di Dorotea.

[60] garrire: «chiacchierare» (GDLI, s. v.), con evidente valore ironico. ♦ concetto: nel senso di ‘senno, intelligenza’.

[61] la sconturbi: nel senso di «turbare, agitare nell’intimo; mettere in apprensione o a disagio una persona» (GDLI, s. v., con attestazioni quasi esclusivamente dalla letteratura comica). Assieme ai neologismi metti confusione e attizzafoco, contribuisce a rendere con lingua espressionista l’agitazione di Michelagnolo.

[62] L’espressione proverbiale Dormire tra due guanciali significa «stare sul sicuro, senza pensieri» (T-B, s. v. Guanciale).

[63] Fate a vostra posta: ‘fate come avete deciso’.

[64] Bisogna che: indica la causa necessaria (‘la ragione sarà che’). La battuta è ironica: Dorotea starà dormendo come al solito.

[65] «Noce di Benevento. Pianta rinomatissima, dove il volgo credeva che si radunassero i folletti e le streghe» (T-B, s. v. Noce). Leggendo fra le righe: più che una santa, il cui spirito in estasi raggiunge il paradiso, Dorotea è una strega, il cui spirito si credeva che raggiungesse in sogno il luogo del sabba.

[66] Le formule para-ecclesiastiche di Dorotea, sfruttate per tutta la scena, contribuiscono a definire il suo carattere di fanatica, ottenendo un sicuro effetto comico. Il suo fanatismo finisce per consolidare la credenza nel fantasma, nonostante i tentativi da parte di Michelagnolo di mostrarne l’infondatezza. ♦ bespro: così nel testo a stampa. La forma attesa è vespro, ma più che di un refuso sembra trattarsi di un caso di regionalismo, dato che è attestata la forma brespo per vespro in veneziano e bèspro a Istria (cfr. Rohlfs, § 167). Cfr. anche infra, V.7.18, l’uso di botarlo per votarlo.

[67] Dorotea non manca di chiedere una crazia («moneta toscana del valore di cinque quattrini, composta di una lega di rame e d’argento», dunque «moneta di valore minimo», GDLI, s. v.) per i servigi spirituali che potrebbe fornire, mostrando la sua vera natura di pinzochera e di opportunista. Da notare la retorica della captatio benevolentiae nella richiesta di una moneta di poco valore e nell’uso della formula per passaggio, cioè ‘se capita, senza impegno’. Retorica, però, subito smascherata da Michelagnolo nella battuta successiva («quanti inganni!»).

[68] gite: ‘andate’.

[69] tristo: riferito al presunto fantasma, vale sia «cattivo, malvagio», sia «accorto, furbo» (T-B, s. v.); ambiguità volutamente lasciata aperta da Michelagnolo, che crede trattarsi di un inganno.

III.3.18. I nomi delle giovani seguaci di Dorotea, che non entrano mai in scena, provengono probabilmente dal Decameron. La Niccolosa compare della novella quinta della nona giornata, seducendo Calandrino per farlo cadere nella beffa organizzata contro di lui dai faceti Bruno, Buffalmacco e Nello. Alibech è la ben nota protagonista della decima novella della terza giornata, educata dal monaco Rustico a pratiche più veniali che religiose. In entrambi i casi si tratta di racconti incentrati su beffe e inganni, come lo è anche la commedia di Rota. Da notare che le «discepole» di Dorotea, dedite alla «modestia» e tenute lontane dai «fiutacupidi», vengono appellate con nomi che non possono che rievocare due personaggi femminili che hanno invece ben poco di modesto e di devoto. Un espediente ironico, stavolta più sottile, per prendersi gioco della devozione fanatica e ipocrita della «pinzochera». ♦ gelosia: indicazione scenica che fa riferimento al «serramento di finestra che permette di guardare dall’interno senza essere visti dall’esterno, costruito su telaio fisso o mobile, con stecche inclinate (persiane) o incrociate fittamente (grata) o anche con lastre traforate di legno o metallo» (GDLI, s. v. Gelosia2).

[70] tintin: «voce colla quale si esprime il suono del campanello» (T-B, s. v.); onomatopea che sembra avere la sua prima occorrenza in Dante, Paradiso, X, 143: «tin tin sonando con sì dolce nota».

[71] fiutacupidi: «rubacuori, seduttore» (GDLI, s. v.), termine coniato da Pietro Aretino. ♦ Delitta iuventuti: storpiatura popolaresca del versetto biblico Delicta juventutis meae, et ignorantias meas, ne memineris, («Non ricordarti dei peccati della mia gioventù, né delle mie trasgressioni», da Salmi, 25 [24], 7). Il latino storpiato è un sicuro indizio della conoscenza sommaria dei testi sacri che ha Dorotea. ♦ rubrica: ancora un termine proveniente dal lessico ecclesiastico, che indica, nei libri liturgici, una «norma cerimoniale distinta per la scrittura rossa dalle formule di frequenza» (GDLI, s. v.). La parodia si fa pesante: l’attività di Dorotea con le sue allieve viene connotata come un officio sacro, al pari della messa.

[72] governo: nel senso di ‘titolo, mansione’.

[73] Camaldoli era (ed è ancora) la sede di un celebre monastero.

[74] chiocciola: sarà una rara forma diminutiva (se non una storpiatura della servetta Vespina) di chioccia, cioè «la gallina, quando cova l’uova, e guida i pulcini» (T-B, s. v.), a cui è assimilata la figura di Dorotea con le sue allieve.

[75] Altra stoccata polemica di Rota nei confronti di una pratica religiosa attraverso il personaggio di Dorotea, in questo caso la flagellazione corporale per espiare i peccati. Ma non può non venire il sospetto che questa allusione, se sommata ai nomi parlanti delle allieve, abbia anche un risvolto ironico più malizioso.

[76] L’imprecazione con il ricorso a termini che indicano malanni, come fistolo (variante di fistola), e nello specifico la febbre, come contina, è tipica del teatro comico. La formula «ti venga il fistolo» (o «la fistola») si riscontra nella Lena di Ariosto (v. 1684) e nell’Idropica di Guarini (III.3.44). «Che le venga la contina!» è nella Mandragora di Machiavelli (IV.8). ♦ vecchia ipocritona: la formula, indirizzata ancora al personaggio della pinzochera, è già nella Zoccoletta pietosa di Rota (Venezia, Simone Occhi, 1748, at. i, sc. i, p. 11). ♦ machine: nel senso di «pensata per nuocere altrui e giovare a sé» (T-B, s. v.).

III.5. Tutta la scena segue da vicino la novella del Lasca, ripetendo talvolta le espressioni così come sono. Rota affida al dialogo tra Burchiello e Manente due porzioni del racconto: il rapimento di Manente, rievocato dal protagonista per analessi, e l’incontro con l’amico Burchiello, successivo alla sua liberazione.

[77] Cfr. Grazzini, Le cene, III, 10, 116: «Tu solo, Burchiello, tra tanti amici e parenti mi hai riconosciuto […]».

[78] Come mai: ‘come avrei potuto’. voglia di porco salvatico: cioè a forma di porco selvatico. L’espediente di un segno della pelle che permette il riconoscimento del protagonista e scioglie l’equivoco è tipico della commedia, secondo il noto archetipo della cicatrice di Ulisse. Cfr. Grazzini, Le cene, III, 10, 115: «[…] quasi ridendo li prese la mano sinistra, e mandatoli alquanto in suso la manica della camiciuola, li venne a vedere rasente il polso una voglia di porco salvatico». trovare stiva: «trovare il modo più idoneo per fare o risolvere qualcosa» (GDLI, s. v. Stiva1, con attestazioni nel Lasca).

[79] impappaficati: «che hanno i capi avvolti in un cappuccio» (GDLI, s. v.). Il termine proviene dalla novella del Lasca, usato appunto per indicare gli sgherri di Lorenzo de’ Medici mandati a prelevare Manente (cfr. Grazzini, Le cene, III, 10, 9).

[80] Rota riscrive attraverso le parole di Manente il racconto in terza persona del Lasca, mantenendo alcune porzioni di testo (rese qui di seguito in corsivo): «E così avendo fatto bucare il palco di sopra, gli fece acconciare una lampanetta, che dì e notte sempre stava accesa, di maniera che rendeva la stanza alquanto luminosa. Laonde il medico scorgeva quello che egli mangiava e ciò che egli faceva, tanto che, per rimeritare in parte coloro che gli facevano quel comodo, ancora che non sapesse chi egli si fossero, cantava sovente certe canzonette che egli era solito cantare a desco molle in compagnia de’ suoi beoni, e diceva qualche volta improvviso. E perché egli aveva bella voce e buona pronunzia, recitava spesso certe stanze di Lorenzo, che nuovamente erano uscite fuora, chiamate Selve d’Amore […]» (Grazzini, Le cene, III, 10, 63-64). ♦ lampanetta: diminutivo di lampana, cioè «lampada, lucerna» (GDLI, s. v.), hapax del Lasca. ♦ Selve d’Amore: stanze di ottave scritte da Lorenzo de’ Medici verso al fine del XV secolo.

[81] bendine: forma toscana arcaica che corrisponde a ‘bandolo’ (cfr. LEI, vol. I/5, p. 775).

[82] Cfr. Grazzini, Le cene, III, 10, 121: «Io me l’indovinai sempre, perché egli ti avessi a fare una burla simile, d’allora in qua, che dicendo seco improvviso a Careggi, tu li facesti quella villania». Careggi è il nome di un quartiere storico di Firenze.

[83] Cfr. ivi, 122: «Il medico si scusava con dire che le Muse hanno il campo libero, e che aveva mille ragioni […]». Le Muse hanno il campo libero, cioè i prodotti dell’ingegno (compresa l’organizzazione di una burla) devono essere liberi, non possono essere sottoposti a censura.

[84] Cfr. ivi, 121: «maestro Manente, i prìncipi son prìncipi, e fanno di così fatte cose spesso a’ nostri pari, quando vogliamo stare con esso loro a tu per tu» e 120: «non sapete voi ch’egli non comincia impresa che egli non finisca, e non ha mai fatto disegno che egli non abbia colorito? E non gli venne mai voglia che e’ non se la cavasse? Egli è il diavolo l’aver a far con chi sa, può e vuole».

III.5.14. barra: ‘bara’.

[85] Cfr. Grazzini, Le cene, III, 10, 7: «[…] maestro Manente aveva tanto bevuto nell’osteria delle Bertucce, che egli si era imbriacato di sorte che egli non si reggeva in piedi […]».

[86] III.5.18-19-20. Le tre battute scorporano una porzione del testo del Lasca (in corsivo le corrispondenze dirette): «Il medico, cotto non meno dal sonno che dal vino, sentendosi menar via, pensò di certo che fussero i garzoni dell’oste, o suoi compagni o amici, che lo conducessero a casa; e così, dormiglioso ed ebro quanto mai potesse essere un uomo, si lasciava guidare dove a coloro veniva bene» (ivi, 10). ♦ dormiglioso: «che comincia a sentire gli effetti del sonno» (GDLI, s. v.).

[87] Cfr. Grazzini, Le cene, III, 10, 15-17: «[…] contraffacendo la voce del medico chiamò dalla finestra della corte una sua vicina, dicendo che si sentiva un poco di mala voglia, e che gli doleva un poco la gola, la quale a bella posta si aveva fasciata con stoppa e lana sucida. Era allora in Firenze sospetticcio di peste, e se ne erano scoperte in quei giorni alcune case; […] per il che in vero quasi tutti i vicini, e tutti dolorosi, pensarono che egli dovesse avere il gavocciolo». Gavocciolo indica il «bubbone della peste» (GDLI, s. v.).

[88] Cfr. ivi, 19: «Il Magnifico disse che gli era bene mettervi chicchessia che lo governasse; […] e facessesi dare a messere un servigiale pratico e sufficiente». Servigiale qui indica l’«inserviente di un ospedale» (GDLI, s. v.).

[89] Cfr. ivi, 123: «Ma nella fine, facendosi tardi, chiese parere e consiglio con esso loro maestro Manente, in che modo si avesse a governare di questa involtura […]».

[90] agli Otto: gli Otto di Guardia e Balia, magistratura dell’antica Firenze che si occupava di giustizia criminale.

[91] sdilinquita e cascatoia: endiadi di due sinonimi che significano ‘illanguidita, svenevole’. ♦ squarquoia: «decrepita, rincitrullita dagli anni» (GDLI, s. v.). ♦ pissi pissi: voce onomatopeica che significa qui «parlottio continuo, insistente» (GDLI, s. v.), riferito probabilmente alle preghiere di Dorotea. ♦ gli occhi in molle … in lite: la bizzarra formula proviene dal Malmantile racquistato di Lorenzo Lippi, II, 9, 7-8: «Tenendo gli occhi in molle e il collo a vite, / e le nocca col petto sempre in lite». Secondo le note di Paolo Minucci, le tre azioni significano «lagrimando», tenendo il «collo torto, come fanno i bacchettoni», e «dandosi delle pugna nel petto»; insomma, «intende che costui stava sempre orando, e descrive assai bene un ipocrito o devoto in apparenza, e falso» (Il Malmantile racquistato di Perlone Zipoli, colle note di Puccio Lamoni e d’altri, Firenze, Michele Nestenus e Francesco Moücke, 1731, p. 142).

[92] strolagare: «esercitare l’astrologia» (GDLI, s. v. Strologare).

[93] portapolli: «ruffiano» (GDLI, s. v.).

[94] menar come un bufalo: «burlarlo, fargli fare quello che si vuole» (GDLI, s. v. Bufalo; espressione che torna in Goldoni). ♦ far cortesie: esercitare la prostituzione.

[95] ‘della mia cortesia me ne occupo io; non è minore di quella delle nobili signore di Firenze’.

[96] Ripreso a esercitare il mestiere di medico, Manente si dedica a un amico di Burchiello, che gli chiede consiglio. L’occasione serve a Rota per sottoporre a critica i medici, che spesso etichettano come «male maligno» cioè che non riescono a diagnosticare.

[97] dell’opera tua: di medico.

[98] ciò che si pescano: «Non sa quel ch’e’ si peschi, Non sa quel ch’e’ si faccia» (T-B, s. v. Pescare). ♦ sportula: «parcella spettante a un professionista» (GDLI, s. v.). ♦ spillare la vena al malato: critica la pratica diffusa dei salassi. ♦ st: suono onomatopeico che richiama al silenzio su quanto detto.

[99] Ipocrasso: forma storpiata di Ippocrate (che indica, per metonimia, le sue opere mediche), presa da Boccaccio, Decameron, VIII, 9, 38.

[100] raccapezzava: ‘trovavo’. ♦ pizzicagnoli: espressione comica per alludere «alla destinazione di testi letterari di scarso valore (per avvolgere merci di pizzicheria)» (GDLI, s. v.). ♦ requiescarpe: Antonio Maria Biscioni, nelle note al Malmantile racquistato, rileva che «è uno storpiamento del latino Requiescat [dalla preghiera cristiana per i defunti], fatto dalla plebe, non già per derisione delle cose sacre, ma per un certo suo modo di formare equivoci sopra tali parole latine» (Il Malmantile racquistato, cit., p. 160). Paolo Minucci nota invece che «possa aver origine dalla diligenza che si pone nel fare che i morti, quando son portati alla sepoltura, abbiano, se son uomini, un par di scarpe nuove» (ibidem).

[101] infradiciato: «marcito, imputridito» (GDLI, s. v.).

[102] arammela: ‘me l’avrà’.

[103] sto su le mode: propriamente significa «tenersi aggiornato sulle novità» (GDLI, s. v. Moda); nel discorso di Manente vorrà dire ‘mi adeguo a quello che succede’.

[104] bel bello: «dell’andare […] che non sia rapido e forte» (T-B, s. v.).

[105] Osmedio: esclamazione che indica stupore sotto forma di invocazione. Non ho trovato altre attestazioni.

[106] III.11.16-17. Dorotea traduce sommariamente l’avvio del salmo 91 (90): «Qui habitat in adiutorio Altissimi, in protectione Dei caeli commorabitur», che significa propriamente: «Chi sta sotto la protezione dell’Altissimo e dimora all’ombra dell’Onnipotente», alludendo al fatto che le anime dei defunti se ne stanno in paradiso. Brigida completa quasi in antifona il versetto, facendo notare che Manente sembra piuttosto uno spirito che dimora nell’inferno, richiamando Isaia, 38, 10: «Vadam ad portas inferi». Si tratta comunque di un’espressione popolare, che significa propriamente: ‘vada all’inferno’ (cfr. GDLI, s. v. Andare).

[107] culifessa: il termine compare in un sonetto del Lasca, Più tosto in alto mar tra duri scogli, v. 9: «Le Muse spigolistre e culifesse». Lo stampatore Francesco Moücke annota: «è posto qui come sinonimo di […] lezioso e attoso, e che faccia molti bisbigliamenti e pissi pissi; i quali si sogliono accompagnare, particolarmente dalle donne pinzochere, con quei lezi e atti della persona, con cui par loro poter ad altri persuadere la loro verità; parendo in verità, che siano tutte quante dirotte dalla collottola fino alle parti deretane» (Rime di Anton Francesco Grazzini, detto il Lasca, Firenze, Francesco Moücke, 1741, vol. I, p. 308). ♦ bizzocaccia: dispregiativo di bizzocco, «bacchettone, ipocrita» (GDLI, s. v.), derivato da pinzochero e attestato in Burchiello. ♦ non frusta più certo i mattoni: il termine frustamattoni compare nel Malmantile racquistato, I, 67, 2, e secondo Paolo Minucci indica «quelli che giornalmente vanno in una casa o bottega, e non vi spendono mai un soldo, o non vi portano utile alcuno […]; perché non son d’altro giovamento che frustare, cioè spazzare, e ripulire colle scarpe i mattoni, i quali son quelle lastre, fatte di terra cotta, colle quali si lastricano i pavimenti delle stanze» (Il Malmantile racquistato, cit., p. 100).

[108] non do più né imbus, né imbas: l’espressione, chiara storpiatura di termini latini, compare nella Fiera di Buonarroti il Giovane, di cui scrive Anton Maria Salvini: «viene a tacciarsi la maniera di quei notai, che riempiono i contratti di parole di simile desinenza, e le ripetono più volte, scrivendole con abbreviature di lunghi tratteggi di penne» (La Fiera, commedia di Michelagnolo Buonarruoti il Giovane, e La Tancia, commedia rusticale del medesimo, coll’Annotazioni dell’abate Anton Maria Salvini, Firenze, Tartini e Franchi, 1726, p. 379). La battuta di Manente significherà: ‘non capisco più nulla, sono confuso’.

[109] Badia, contrada delle prigioni in Firenze [nota dell’autore].

[110] Cfr. Grazzini, Le cene, III, 10, 155: «[…] era grande della persona e ben fatto, di carnagione tanto ulivigna che pendeva in bruno, aveva il capo calvo, il viso affilato e macilente, la barba bruna e lunga per infino al petto, e vestito di rozzi e stravaganti panni […]». Ulivigna vale ‘olivastra’.

[111] travedere: «vedere una cosa per un’altra» (T-B, s. v.).

[112] disciolto: «slegato, messo in libertà, libero» (GDLI, s. v.).

[113] artieri: «artigiani» (GDLI, s. v.).

[114] Il giudizio temerario è «quello che la nostra mente forma senza ragione sulla vita altrui» (T-B, s. v. Temerario). Si tratta comunque di un concetto tradizionale della teologia (iudicium temerarium), come era prevedibile in una battuta del personaggio di Dorotea.

[115] benedizioni: si tratta ironicamente di compensi materiali, soprattutto vivande; Benedicite indica infatti la «preghiera che fanno segnatamente i religiosi prima di mettersi a mensa; che le vivande nell’atto del cibarsene siano da Dio benedette» (T-B, s. v.).

[116] Alle mansioni poco ordinarie (e poco cristiane) di cui Dorotea si è detta esperta (sogni, auguri, pronostici, ricette), ora si aggiunge anche il ruolo di sensale, se non di ruffiana.

[117] tabacchina: «sensale di matrimoni» (GDLI, s. v.). Gli insulti di Vespina riprendono nello specifico le mansioni non ordinarie elencate da Dorotea. Ma si tratta anche di battute non nuove nella commedia per denigrare personaggi simili; cfr. ad esempio Il Viluppo di Girolamo Parabosco: «Ah vecchia porca, tu volevi adunque far diventare la mia padrona una femina del peccato […]» (ed. Venezia, Gabriel Giolito de’ Ferrari, 1547, c. 44r). ♦ gaglioffa: «furfante, ribalda, briccona (ed è spesso usato come ingiuria)» (GDLI, s. v.). ♦ diavolesimi: «diavolerie» (GDLI, s. v.), con unica altra attestazione nella Bucchereide di Lorenzo Lippi (ed. cit., p. 17).

[118] giuntatore: «imbroglione, truffatore» (GDLI, s. v.).

[119] IV.7.12-16. Le dichiarazioni giurate di coloro che hanno partecipato alla burla sono un piccolo gioiello di realismo burocratico e al tempo stesso occasione di caricatura lessicale. In particolare, Rota si diverte a creare nomi parlanti riguardo al mestiere che ognuno esercita. Per i medici, si nota un contrasto tra i nomi di leggendari medici dell’antica Grecia, Macaone ed Esculapio, e i cognomi, che indicano, rispettivamente, una malattia venerea (gonorrea) e il bubbone della peste (tincone). Dello speziale è suggerita la disonestà attraverso il cognome (gabba, cioè «inganno, beffa», GDLI, s. v.) e il luogo di lavoro (bugia significa sia ‘candela’, sia ‘menzogna’). I becchini hanno cognomi abbastanza facili da identificare in base al loro lavoro, come Fossa e Camiciotta («corto camice da lavoro», GDLI, s. v.). Un gioco di contrasti coinvolge il sagrestano, che porta il nome di un celebre retore e teologo antico, Procopio di Gaza, e il cognome che allude invece alla malavita (Saccagnella, o da saccagnare, «picchiare, malmenare», o da saccagno, «coltello», GDLI, s. v.).

[120] Dar della fune e collare sono termini che indicano la tortura mediante la corda per ottenere una confessione: legate la mani dietro alla schiena con una fune, l’imputato veniva con essa sollevato da terra e fatto cadere nel vuoto più volte. Si ricorderà la dura descrizione della pratica giudiziaria che ne dà Manzoni nella Storia della colonna infame, ma forse non è noto che nell’esemplare delle Cene del Lasca appartenuto allo scrittore proprio il passo che allude alla pena minacciata a Manente (III, 10, 130: «cominciarono a minacciare aspramente di volergli dare della fune») è sottolineato e segnalato con un «nota bene» (cfr. La prima e la seconda cena. Novelle di Antonfrancesco Grazzini detto il Lasca, alle quali si aggiunge una novella che ci resta della terza cena, Milano, Società Tipografica de’ Classici Italiani, 1810, p. 426, esemplare conservato presso la biblioteca di Villa Manzoni a Brusuglio, collocazione MANZ.BRU. A.07. 200; riproduzione consultabile nel portale digitale Manzoni Online, url:  https://www.alessandromanzoni.org/biblioteca/esemplari/9950 [u. c. 09/09/2022]).

[121] La supplica disperata di Manente ha sicuramente una funzione teatrale precisa, quella di creare tensione prima dello scioglimento nella scena successiva. Ma non si può non apprezzare la forza delle parole che esprimono la protesta di innocenza e la perplessità per tutto il male ricevuto, soprattutto considerando che la pratica della tortura era ancora diffusa al tempo e che doveva passare ancora un quindicennio prima che Beccaria pubblicasse il Dei delitti e delle pene. In particolare la domanda finale, «mi si aranno di più a slogare l’ossa per non poter dire ciò ch’io non posso sapere?», sembra elevare per un attimo il personaggio comico e meschino di Manente a una condizione universale che trascende i limiti della burla e della presa in giro previsti da Rota.

[122] Per le battute di Nepo, Rota si serve ancora una volta di porzioni di testo prelevate direttamente dalla novella del Lasca.

[123] Cfr. Grazzini, Le cene, III, 10, 154: «Discostatevi, discostatevi, uomini da bene, fatemi largo, ch’io vengo per favellare al vicario, e per iscoprire la verità».

[124] Riprende il proverbiale monito evangelico: «Attendite a falsis prophetis» (Matteo, 7, 15).

[125] Cfr. Grazzini, Le cene, III, 10, 156: «Acciocché la verità, come piace a Dio, sia manifesta a tutti, sappiate come maestro Manente costì non morì mai; e tutto quello gli è intervenuto, è stato per arte magica, per virtù diabolica e per opra mia, che sono Nepo di Galatrona […]».

[126] Cfr. ivi, 156-158: «[…] sono Nepo di Galatrona, il quale fo fare alle demonia ciò che mi pare e piace. E così io fui quello che lo feci, mentre ch’egli dormiva in San Martino, portar dai diavoli in un palazzo incantato; e nel modo appunto che da lui avete udito, lo tenni per infino che una mattina in sul far del giorno lo feci lasciare nei boschi di Vernia; avendo fatto a uno spirito folletto pigliare un corpo aereo simile al suo, e fingere che fusse maestro Manente ammalato di peste; e finalmente mortosi, fu invece di lui sotterrato; onde di poi ne nacquero tutti quanti degli accidenti che voi vi sapete».

[127] Cfr. ibidem: «Tutte queste cose ho fatte fare io, per far questa burla e questo scorno a maestro Manente, in vendetta d’una ingiuria ricevuta già nella Pieve a San Stefano da suo padre, non avendo potuto mai valermene seco per cagione d’un breve, il quale egli portava sempre addosso, in cui era scritta l’orazione di san Cipriano». Da notare il cambiamento nella trama fatto da Rota, che sostituisce la scusa di un amuleto tra il sacro e il superstizioso con una scusa più immediata, cioè la morte. ♦ morissi: ‘si morì’.

[128] Cfr. ibidem: «E perché voi conosciate che le mie parole sono verissime, andate ora a scoprire l’avello dove fu sotterrato colui che fu creduto il medico; e se voi non vedete segni manifesti della verità di quel che io v’ho favellato, tenetemi per un bugiardo e per un giuntatore, e fatemi mozzare il capo».

[129] Me n’addiedi: ‘me ne accorsi’ (voce del verbo addare).

[130] infocolato: «eccitato, irritato, turbato» (GDLI, s. v.). Lo scambio di battute mordaci tra Manente e Michelagnolo è sviluppato da Rota a partire da un breve accenno del Lasca: «infocolati e adirati, si erano dette villanie da cani» (Grazzini, Le cene, III, 10, 144). ♦ hai finito il bel tempo: espressione popolare che si può rendere con ‘la tua buona sorte è finita’. ♦ ne’: forma contratta e popolare per ‘non è vero?’.

[131] come monna: espressione popolare che significa «ubriaco fradicio» (GDLI, s. v. Monna, con il significato di «scimmia»).

[132] Della colpa … i figlioli: proverbio di origine biblica (cfr. Esodo, 20, 5; Levitico, 26, 39; Isaia, 14, 21).

[133] Cfr. Grazzini, Le cene, III, 10, 162-163: «[…] il  sopradetto  sagrestano,  attaccatovi l’uncino, tirò su la lapida, e in presenza di più di mille persone scoperchiò l’avello; onde quel colombo, che aveva nome Carbone, sendo stato parecchi ore al buio e senza beccare, veduto il lume, ’n un tratto, volando, prese il volo allo in su, e si uscì della sepoltura; e visibilmente poggiando in verso il cielo, andò tanto alto, che egli scoperse Careggi, e docciando poi si difilò a quella volta, dove fu in meno d’un ottavo d’ora: della qual cosa ebbero i circostanti tanta meraviglia e tanto spavento, che ciascuno, gridando: – Gesù, misericordia –, correva e non sapeva dove. Il sagrestano per la paura cadde all’indietro, e tiròsse la lapida addosso, che tutta gl’infranse una coscia, della quale stette poi molti giorni e settimane impacciato». ♦ docciando: nel senso di «scendere, calare in basso» (GDLI, s. v.). ♦ a romore: ‘in scompiglio’.

[134] IV.9.10-11. Cfr. ibidem: «Chi diceva che n’era uscito uno spirito, e in forma di scoiattolo, ma che egli aveva l’alie; e chi un serpente, e che gli aveva gittato fuoco; altri volevano che fosse stato un demonio convertito in pipistrello; ma la maggior parte affermava essere stato un diavolino; ed eravi chi diceva d’averli veduto la cornicina e i piè d’oca». Le cornicina (diminutivo di corna) e il piè d’oca sono gli attributi popolari del diavolo.

[135] L’espressione proviene ancora dal Lasca, che l’attribuisce al popolo che osserva l’entrata in scena di Nepo: «[…] mezzo mezzo impauritine, non si arrischiavano a guardarlo fiso in volto, dubitando colla maggior parte un altro Simon Mago o un nuovo Malagigi» (ivi, 160). Nepo viene dal popolo accostato a Simon Mago, il quale, secondo il testo evangelico, «già da tempo esercitava nella città le arti magiche e faceva stupire la gente di Samaria, spacciandosi per un personaggio importante. Tutti, dal più piccolo al più grande, gli davano ascolto […]. E gli davano ascolto, perché già da molto tempo li aveva incantati con le sue arti magiche» (Atti, 8, 9-11).

[136] Cfr. ivi, 135: «[…] li pareva fusse bene scriverne al Magnifico, che si trovava al Poggio, e rimetterla in lui, per lo essere querela tanto intricata, e malagevole a darvi sentenzia sopra che buona fusse. Piacque a tutti quanti sommamente questo suo parere, dicendo che, oltre l’averne egli piacere grandissimo, e’ serà appunto giudice ottimo di fatte cause».

[137] Cfr. ivi, 136: «[…] comandarono loro che niuno fusse ardito d’appressarsi a cento braccia nella via de’ Fossi, né di favellare alla Brigida sotto pena delle forche, infino a tanto che la lite non fusse giudicata, la quale avevano rimessa nel Magnifico […]».

[138] l’hanno pure ingozzata: ‘ci sono cascati, se la sono bevuta’. ♦ ciondoloni: qui nel senso di ‘coloro che si fanno ingannare, abbindolare’ (cfr. T-B, s. v.: «persona dappoco per lentezza di moti e di pensieri e di volontà»). ♦ Martino d’Amelia: uno sciocco, secondo un modo di dire popolare. Il riferimento di Rota è forse La Calandra del Bibbiena, commedia celebre del Cinquecento, in cui vengono accostati per la loro stupidità e credulità Martino da Amelia, appunto, e un certo Giovanni Manente (personaggio che compare già in alcuni componimenti burleschi dell’Aretino), nome che non può non richiamare il protagonista della vicenda del Fantasima: «come il vulgo usa dire, se mangiasse fieno sarebbe un bue: perché poco meglio è che Martino da Amelia o Giovan Manente» (La Calandra. Commedia elegantissima per messer Bernardo Dovizi da Bibbiena, a cura di Giorgio Padoan, Padova, Antenore, 1985, p. 79). Cfr. anche il prologo alla commedia attribuito a Castiglione: «[…] Martino da Amelia (el quale crede la stella diana essere suo moglie […]». (ivi, p. 61).

[139] millanta mille: «mille volte mille, un milione (per lo più con valore iperbolico, per indicare una cifra indeterminata ed eccezionalmente elevata)» (GDLI, s. v. Millantamila; prime attestazioni in Aretino).

[140] Sogno? vaneggio?: riecheggia una battuta della Merope (1713) di Scipione Maffei, IV.7.18: «Dove, dove son io? sogno? vaneggio?».

[141] fregola: «voglia grande […]. Diciamo Andare in fregola de’ gatti, quando sono in amore» (nota di Paolo Minucci, in Il Malmantile racquistato, cit., p. 39). Dorotea pensa che Brigida sia in confusione d’amore perché pronta già a prendere marito, e dunque voglia divertirsi con qualche scherzo per svagarsi (baloccarsi).

[142] rubiconda: ‘rossa in volto’. Dorotea pensa perché innamorata, mentre Brigida è solo confusa e agitata per il comportamento di Michelagnolo.

[143] un sciloppo d’erba cacciadiavoli: uno sciroppo di iperico, erba comunemente nota come cacciadiavoli.

[144] luterina: ‘seguace di Lutero, protestante’. Il termine sembra non avere altre attestazioni.

[145] L’«orazioncina» di Dorotea è un nonsense composto di evidente tracce comiche (defrollo e sofritto appartengono, per esempio, al lessico culinario), che possono ricordare alcuni sonetti del Burchiello. Sembra dunque più una formula magica da strega, se non un’affabulazione da ciarlatana, che una preghiera devota, come nota Vespina subito dopo.

[146] tregenda: «convegno notturno di diavoli, streghe e altri spiriti», quindi per estensione «i diavoli, le streghe, gli spiriti stessi riuniti» (GDLI, s. v.).

[147] valmi: ‘mi vale, mi basta’.

[148] salta nelle stoppie: se le stoppie sono i gambi secchi rimasti nei campi dopo la mietitura, saltarvi sopra significherà mettersi in difficoltà.

[149] zita: «giovane donna, ragazza», ma anche «donna nubile» (GDLI, s. v.), a ribadire l’ambiguo ruolo di sensale che Dorotea cerca di ritagliarsi, anche con la servetta.

[150] I termini burleschi usati per offendere Dorotea provengono ancora una volta dal Malmantile racquistato. Secondo l’annotatore Paolo Minucci, salamistra significa letteralmente «maestra di sala», ma viene usato popolarmente per «una donna saccente, dottoressa, affannona, e simili; e per derisione diciamo madonna salmistra» (Il Malmantile racquistato, cit., p. 268), proprio come fa Vespina. Per santinfizza, invece, «s’intendono certi torcicolli, che stanno tutto il giorno davanti a una immagine d’un santo, perché si creda, che essi facciano orazione», cioè degli ipocriti e falsi devoti (ivi, p. 563).

[151] Linguaccia significa ovviamente «malalingua, maldicente» (T-B, s. v.), ma la variante linguaccia da forno sembra provenire dalla commedia Il don Pilone (1711) di Girolamo Gigli, un adattamento in italiano del Tartuffe di Molière, nella battuta che la vecchia Pernella rivolge alla servetta Dorina Zitella (cfr. sopra, IV.4.42): «Ah linguaccia da spazzare un forno» (Il don Pilone, ovvero Il Bacchettone falso. Commedia tratta nuovamente dal franzese da Girolamo Gigli, Lucca, Marescandoli, 1711, p. 4).

[152] Ancora una storpiatura del latino ecclesiastico per Dorotea: Tedeo sta per Te Deum, inno cristiano di ringraziamento e di gioia.

[153] Baroncione: peggiorativo di barone nel senso di uomo disonesto e abile nella truffa (T-B, s. v.). Il termine compare anch’esso nel Don Pilone di Gigli, in una battuta di Dorina (ed. cit., p. 25).

[154] Domine: ‘oh Signore’, ancora un’invocazione latina dal repertorio ecclesiastico.

[155] Adagio, disse Biagio: modo di dire popolare che compare nel Malmantile racquistato, con una lunga nota di Paolo Minucci che tenta di spiegarne l’origine: o «per causa della rima e del bisticcio», o per una storiella popolare che coinvolge un contadino di nome Biagio che si trovò a gridare: «Adagio, adagio!» (Il Malmantile racquistato, cit., p. 617).

[156] Rampicone significa propriamente «ferro grande uncinato» (T-B, s. v.): attribuito come nome al notaio, finora indicato in forma anonima, alluderà alla sua rapacità e avidità. Cfr. a proposito V.9.36, dove il notaio, appena concluso il suo compito, chiede subito: «E la mia fatica?».

[157] legami geniali: se i legami coniugali sono quelli contratti con la stipula del matrimonio, i legami geniali sono quelli più pratici legati alla condivisione del letto matrimoniale. In poche parole, Dorotea, da sensale e ruffiana qual è, suggerisce che Manente sarà marito di Brigida sulla carta, ma Michelagnolo lo sarà nella pratica, come amante.

[158] comare Pipa: non può non richiamare alla mente i Ragionamenti di Pietro Aretino, in particolare la seconda parte, in cui la Nanna e la Pippa, appunto, discutono di prostituzione, di tradimenti e di ruffianeria. ♦ vecchio rantacoso: espressione ingiuriosa diffusa in letteratura, a designare di solito un vecchio ormai inadatto alla vita coniugale. ♦ non ne assaggiai mai stilla: ‘non ne toccai mai neanche un pezzetto’, con evidente allusione oscena.

[159] tal pera … i denti: «proverbio che vale che de’ disordini e degli errori del padre ne tocca a far la penitenza il più delle volte a’ figliuoli» (T-B, s. v. Allegare). Cfr. Grazzini, Le cene, III, 10, 177: «Maestro Manente credendosi veramente che la cosa fussi passata come aveva raccontato Nepo, trovandosi a ragionamento, diceva spesso: – Tal pera mangia il padre, che al figliuolo allega i denti – . Il qual detto, riducendosi poi in proverbio, è durato per infino a’ tempi nostri […]». ♦ da maladetto senno: «tremendamente» (GDLI, s. v. Senno). ♦ raccattarsi: forse nel senso di ‘ritrovarsi e dunque risolvere la faccenda tra di loro’. ♦ gliene so grado: ‘gliene sono grato’ (sapere grado a qualcuno significa «attribuirgliene merito, dimostrarglisi grato, esprimergli riconoscenza», GDLI, s. v. Grado2).

[160] babbocchio: ‘babbeo, scioccone’.

[161] lavar carboni: ‘perdere tempo, fare un’azione inutile’. 

[162] sono al lumicino: «vuol dire essere in estremo di vita, e viene dall’uso, che è nello spedale di S. Maria Nuova di mettere un piccolo lume a un crocifisso al letto di coloro che sono agonizzanti» (nota di Paolo Minucci, in Il Malmantile racquistato, cit., p. 533).

[163] levalo tu alla fonte: ‘fagli da padrino nel battesimo’.

[164] sia a mio conto: ‘io debba mantenerlo’.

[165] Cfr. Grazzini, Le cene, III, 10, 178: «[…] fu poscia da Michelagnolo preso e allevato per infino in dieci anni, e doppo, mortogli suo padre, fu fatto da i suoi fraticino in Santa Maria Novella; e col tempo venne molto litterato, e diventò un solenne predicatore; e per gli suoi arguti motti e dolci piacevolezze fu chiamato dalla gente fra’ Succhiello». ♦ botarlo: variante toscana di votarlo (cfr. Rohlfs, § 167), nel senso di ‘fargli prendere i voti’.

[166] cacatessa: «mala femmina» (T-B, s. v.). ♦ gabbadei: compare nel Malmantile racquistato (VII, 68, 7), accanto al già visto santinfizza; Paolo Minucci annota: «rinnegato; uno, che gabba, cioè inganna le deità, adorandone oggi una, e domani un’altra, rinnegando la prima» (Il Malmantile racquistato, cit., p. 563).

[167] salvummefacche: cfr. ancora Il Malmantile racquistato, V, 47, 4, con la nota di Paolo Minucci: «parole latine corrotte [salvum me fac], e ridotte in una, usate assai dalla plebe ignorante, per intendere andare in salvo» (ed. cit., p. 398).

[168] garrire: ‘litigare’.

[169] sonagli: parole che suonano bene ma che significano poco o nulla. Come al solito, Rota si diverte a restituire la forma realistica del documento notarile, così da poterne criticare, attraverso le battute dei personaggi popolari, l’eccesso di formule latine e di lessico burocratico.

[170] V.9.20-34. Cfr. Grazzini, Le cene, III, 10, 170-171: «E di poi sentenziò il Magnifico in questo modo: che per tutto il vegnente giorno Michelagnolo dovesse aver cavato tutte le robe, che egli vi portò, di casa maestro Manente; e che la Brigida con quattro camicie solamente, colla gammurra e colla cioppa se ne andasse a stare a casa il fratello per infino a tanto che ella partorisse; e che di poi, fatto il bambino, stesse in arbitrio di Michelagnolo a tòrlo o no; e non lo volendo, lo potesse pigliare il medico: se non, si mandi agli Innocenti; e che le spese del parto in tutti i quanti i modi vadano addosso a Michelagnolo, e che il maestro si torni a casa sua a goder col figliuolo; e che di poi, uscita di parto la Brigida, ed entrata in santo, si torni a maestro Manente, e che maestro Manente la debba ripigliare per buona e per cara».

[171] La battuta non è molto chiara, ma sembra che fardello si riferisca alla gravidanza di Brigida.

[172] Cfr. Grazzini, Le cene, III, 10, 172: «[…] la sera d’accordo cenarono tutti quanti insieme con la Brigida in casa pure di maestro Manente in compagnia di Burchiello […]».

[173] Il tradizionale epilogo è affidato alla servetta, che invita gli spettatori a battere le mani, se la commedia è stata di loro gradimento. Da notare l’uso del termine novella invece che commedia, probabilmente per richiamare i debiti nei confronti del Lasca.