Vincenzo Rota
Il fantasima
a cura di Monica Bisi e Maicol Cutrì
Biblioteca Pregoldoniana
lineadacqua edizioni
2022
Vincenzo
Rota
Il fantasima
a cura
di Monica Bisi e Maicol Cutrì
© 2022
Monica Bisi
© 2022
Maicol Cutrì
© 2022
lineadacqua edizioni
Biblioteca
Pregoldoniana, nº 36
Collana
diretta da Javier Gutiérrez Carou
Supervisore per i dialetti: Piermario Vescovo
Comitato scientifico: Beatrice Alfonzetti, Francesco Cotticelli, Andrea Fabiano, Javier Gutiérrez Carou, Simona Morando, Marzia Pieri, Anna Scannapieco e Piermario
Vescovo
www.usc.gal/goldoni
javier.gutierrez.carou@usc.gal
Venezia
- Santiago de Compostela
lineadacqua edizioni
san marco
3717/d
30124
Venezia
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ISBN dell’edizione completa: 9788832066890
La presente edizione è risultato dalle attività svolte nell’ambito
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Biblioteca Pregoldoniana,
nº 36
Nota al Testo
Il testo
è esemplato sull’unica edizione nota della commedia, pubblicata a Lugano nel 1748.[1]
Il frontespizio è il seguente:
il / fantasima / commedia. / Ὁ σοφὸς, εὐϑὐρρήμων
ἔσὴ. // anno ciɔiɔccxlviii. // lugano, Nella stamperìa
della suprema superiorità elvetica,
nelle Prefetture Italiane. / con privilegio.
L’edizione è anonima, ma l’attribuzione
a Vincenzo Rota è dichiarata da Apostolo Zeno in una lettera a Francesco Brembato datata 21 marzo 1749 e pubblicata nel 1785:
Dell’autore della commedia
del Fantasima, non si può sapere il suo
vero nome, perché non gli piace di essere conosciuto. A lui, che mi è buon amico,
avrei dato disgusto, se lo avessi da prima manifestato.
Ma ora le cose sue lo han tradito, onde
noto qui a molti, non temo di recargli spiacere, palesando a V. S. Illustrissima
che mel ricerca. Egli si è il sig. abate don Vincenzo
Rota, padovano, scrittore d’altre commedie tutte scritte, e tessute assai pulitamente,
e comunemente applaudite.[2]
L’attribuzione era già stata resa pubblica
nel 1755, nella Drammaturgia di Leone
Allacci accresciuta.[3]
L’epigrafe in greco allude forse al gioco di occultamento cercato da Rota, «perché,
come si evince dalla dedica ai lettori, l’autore temeva di incorrere in qualche
forma di censura per avere riservato, qui più che altrove, largo spazio al carattere
bizzarro e singolare della finta religiosa».[4]
La citazione proviene infatti dalle lettere famigliari di Cicerone (Fam. IX,
22, 5), dove viene riportato il motto dell’antica scuola stoica: «il saggio parlerà
con schiettezza».[5]
Della commedia non si conoscono altre stampe, né tantomeno manoscritti. È possibile
fissarne la composizione tra la fine del 1746 e il 1747: in data 19 dicembre 1746,
infatti, Apostolo Zeno scrive a Guglielmo Camposanpiero
di essere «occupatissimo» a trascrivere una novella inedita del Lasca,[6]
che verrà poi sfruttata da Rota per comporre la commedia, come dichiarato nella
nota introduttiva (p. 3).
L’edizione originale presenta a lato del testo una numerazione
alternativa delle scene, secondo una prassi diffusa all’epoca, che permetteva alle
compagnie teatrali di avere già una guida per passare dai cinque atti tradizionali
a tre, più comodi da rappresentare. Ecco una tabella che permette un confronto rapido
tra le due suddivisioni:
In cinque atti |
In tre atti |
I.1 |
I.1 |
I.2 |
I.2 |
I.3 |
I.3 |
II.1 |
I.4 |
II.2 |
I.5 |
II.3 |
I.6 |
II.4 |
I.7 |
II.5 |
I.8 |
II.6 |
I.9 |
II.7 |
I.10 |
II.8 |
I.11 |
II.9 |
I.12 |
II.10 |
I.13 |
II.11 |
I.14 |
III.1 |
II.1 |
III.2 |
II.2 |
III.3 |
II.3 |
III.4 |
II.4 |
III.5 |
II.5 |
III.6 |
II.6 |
III.7 |
II.7 |
III.8 |
II.8 |
III.9 |
II.9 |
III.10 |
II.10 |
III.11 |
II.11 |
III.12 |
II.12 |
IV.1 |
III.1 |
IV.2 |
III.2 |
IV.3 |
III.3 |
IV.4 |
III.4 |
IV.5 |
III.5 |
IV.6 |
III.6 |
IV.7 |
III.7 |
IV.8 |
III.8 |
IV.9 |
III.9 |
IV.10 |
III.10 |
V.1 |
III.11 |
V.2 |
III.12 |
V.3 |
III.13 |
V.4 |
III.14 |
V.5 |
III.15 |
V.6 |
III.16 |
V.7 |
III.17 |
V.8 |
III.18 |
V.9 |
III.19 |
Vincenzo Rota
Il fantasima
Commedia
A’ Leggitori
La più leggiadra novella, e piacevole, ch’io mi leggessi mai a miei dì, si
è una inedita di Antonfrancesco Grazzini detto il Lasca;
che per mezzo del signor Appostolo Zeno alle mani pervenutami, ebbi agio, non che
di leggerla, di trascriverla ancora, e farne poi sopra da me a me le maggiori risate
del mondo.[7] Li
vari e tanti ridicoli accidenti che v’intervengono, il loro intreccio maraviglioso, la condotta, l’arte parvermi
così materia acconcia per commedia, ch’entrommi a un tratto
il baco di farnela; e ne la feci di fatto, come vedete.
Chi ha letta la novella, vedrà quello ch’io giudicai bene ometterne, e quello che
aggiugnervi: chi non l’ha letta, né vedrà, né accorgerassi di nulla. Pregovi solo,
se discreti sete, e gentili, all’udire in bocca della pinzochera sconciatamente poste parole sagre, divote
preci, od altro, di non iscandolezzarvi, e sinistramente
interpetrando, di non lo attribuire a disprezzo, o derisione
della cristiana religione cattolica, di cui vantomi, mercè di Dio, ossequioso figliolo, e dov’uopo sia, fino al sangue,
e alla vita costantissimo difensore: ch’anzi null’altro
in così fare io pretesi, fuorché l’insolente abuso superstizioso di certe donnicciuole schifalpoco detestare,
che santità affettando, e devota saccenteria, non aprono bocca, che non mettano
la lingua in Cielo (che meglio starebbe in un cesso); e come se con Domeneddio e
co’ santi un’antica dimestichezza, e fratellanza avessero,
tra i cicalamenti anche più inetti e profani i loro santi nomi ad ogni tratto frammischiano.
Specchio de’ costumi, e maestra della vita è la vera commedia. Nella sua chiara
vista mettersi deono i vizi, e le virtù; ord’altri ne tragga profitto, e a fuggir quelli impari, e queste
ad abbracciare: e tale unicamente si è il fine ch’io mi proposi. Aggradite il buon
volere, e il Ciel vi benedica.
ARGOMENTO
Maestro Manente medico, portato via ubbriaco per ordine di Lorenzo de’ Medici,
è tenuto chiuso per un anno, senza ch’ei sapesse dove si fusse.
Si fa creder universalmente ch’ei sia morto. Intanto la di lui moglie si rimarita.
Dopo vien messo celatamente in libertà. Volendo egli entrar in sua casa, è tenuto
per un impostore. Finalmente faccendosi apparire che tutto
fosse avvenuto per arte magica, ritorna con la sua moglie contento.
PROLAGO
Questa che in
scena vien, i’ vo’ pur dirvela,
non è in fatti
comedia; ma intendetemi,[8]
commedia voglio
dir, di quelle tattere[9]
vestita, ch’oggidì
tra voi costumansi,
5 o
spettatori, e spettatrici amabili.
Da capo pur a’ piè disaminatela;[10]
sotto, sopra,
per tutto ove più aggradavi,
che vel permette chi alla luce diedela;
ed ella istessa
è compiacente, facile,
10 e veder, e toccar
da tutti lasciasi,
quanto però conviensi a zita nubile,
verbigrazia scherzando,
a caso vergine,
per ispicchio, di volo, e senza scandalo,
come ad una vestal né meno niegasi.
15 Vedrete che non ha
cuffia a girandola,
o raggrinzata,
o spanta, o fatta a nottola,
o a coccio, o
a foglia di lattuga, o cavolo,
con code, o senza
code, od altre simili
del cervel femminil moderne cupole.
20 Topè non porta o ritto, o crespo; e candida
polve raccolta
a volo dalla macine
i
crini a foco intorti non adultera.
Ma il capo avendo
d’ogn’impaccio libero,
lascia i capegli, qual natura feceli,
25 stretti da un nodo
solo alla collottola
scender liberamente
giù per gli omeri.
Dure balene a
lei né ’l fianco pigiano,
perché gentil
si resti in busto, e gracile;
né ’l petto, perchè fuor trabocchi, e spandasi.
30 Dalla cintura ingiù
non usa ascondersi
in mezzo al centro
di quei vasti circoli,
che due palmi
di qua di là si sfiancano,
e si dilatan più, più che discendono;
come campane,
a cui li piedi mobili
35 appunto di battaglio
a doppio servono.
Ma di bianca vestina
pura e semplice
che Verità, per
dirvi il nome, appellasi,
coverta vassi, e da pieghevol cingolo
succinta il fianco
fa veder il candido
40 ignudo piede, a cui d’intorno avvolgonsi
incrocicchiate
assieme le flessibili
guiggie de’ brevi calzaretti comici.
Dal collo non
le pendon altri ciondoli
che un fido rilucente
specchio nitido,[11]
45 entro
di cui ciascun la vostra immagine
scorger potete,
se specchiarvi piacciavi.
Ma pazzo me, che
ve la sto a descrivere;
non la vedrete
già da voi medesimi?
Vi dirò sol ch’ell’è di suo carattere
50 allegroccia,
festosa, motteggevole,
che il riso ha
sempre in bocca, e con piacevoli
novelluzze gli orecchi altrui solletica
in guisa, che
talor fuori de’ gangheri
ti cava le mascella, o senza accorgerti
55 una fontana a un tratto ti
fa nascere,[12]
che
t’allaga, e t’inonda co’ suoi rivoli
tutto il terren, ch’infra’ tuoi piedi serrasi.
Ora com’è suo
stil, per farvi ridere
vuol narrarvi
una beffa lepidissima,
60 che fe’ Lorenzo a un briacon di medico,
Lorenzo quel Magnifico
de’ Medici,
quel grande, saggio,
amico delle lettere,
che sì ben governò
Firenze nobile,
Firenze bella,
e tanto a mastro Apolline,
65 alle Muse, alle Grazie,
ai Numi, agli uomini
cara e diletta;
quella idest
medesima
città, dov’ora
siamo: ecco la cupola,
che per l’ottava
maraviglia contasi:
la vedete, com’erge insù ’l comignolo?
70 Orbè, finché qui sete, vagheggiatela,
che doman non c’è più, ma troveretevi
piantato invece
il gran salon di Padova,
o di Venezia il
campanile altissimo,[13]
o il Culiseo di Roma mezzo logoro,
75 più che dal tempo,
da costume barbaro.
Or torno a bomba,
e come testé dissivi,[14]
l’autor, ch’io
nol conosco, questa favola
vestì alla foggia
di quell’aureo secolo,
che le parole
eran non più che femmine
80 e i fatti maschi;
e le cose chiamavansi
col nome suo senza
veruno scrupolo.[15]
Per
altro ei si protesta e giura d’essere
quanto
Carlo, e Pipino, cristianissimo.[16]
Questo
il dice perché, s’alcun malevolo
85 volesse
giudicar da’ panni il monaco,[17]
voi lo smentiate,
e gl’insegniate a prendere
non
per la punta il ferro, ma pel manico.[18]
Non vi tengo più
in ciance, che già viensene
il medico, ch’il
nome di Fantasima
90 alla commedia diede,
perché credesi
da tutti morto fin l’anno preterito.
Attenti a ciò
ch’ei dice, e zitti statevi,
se tutto il resto
ben volete intendere;
che il dievidielbuondie, e ’l buon anno i’ lasciovi.
ATTORI
MAESTRO MANENTE,
medico, marito di
BRIGIDA, rimaritata
con
MICHELAGNOLO.
BURCHIELLO,
amico di Manente.
VESPINA, serva
di Brigida.
MADONNA DOROTEA,
pinzochera.
NEPO, Negromante.
SINDICI.
NOTAIO.
CAPORALE con
birri.
La scena è
in Firenze.
ATTO PRIMO
SCENA
PRIMA
Borgo di Firenze.
Maestro Manente vestito da marinaro.[19]
Manente.
Io ci arò infine a perder il cervello. Più che ci penso, meno
la intendo. Un anno ch’io fui trasportato senz’avvedermene fuori di questo mondo,
e non so dove finora io mi sia stato. Ritorno alla luce, né
so dir come. Vado al mio podere, e ne sono scacciato. Scrivo di propio pugno a mia moglie, e mi rigetta con improperi, e minacce.
Che domin di travaganze sono
codeste? Povero Manente! Un medico fisico, e cerusico tanto conto in Firenze in
questo stato! Dov’è la
mia toga, il mio collare, i miei batali? Io non so come mi entrar in città con questi panni. Ma che ho a fare? Convien
pure ch’io vi vada, s’ho a vedere dov’ha a finire quest’incantesmo.
Ah temo che si mi sieno posti dattorno tutti gli spiriti
d’inferno per trastullarsi de’ fatti miei.[20]
SCENA
SECONDA
Nepo negromante e Manente.
nepo Che si fa, Manente?
manente Ahimè, eccole
qua le demonia.
nepo Non temere, maestro: io non son qua per offenderti; nè tu vedi uno spirito infernale, come ti pensi, ma un uomo
in carne, come tu sei.
manente (a parte) (Io mi sento gelare.)
5 nepo Che tremi dappoco? Guardami, mi conosci?
manente Io non so
chi tu sia, né t’ho, ch’io mi ricordi, mai più veduto.
nepo Tel dirò. Io mi son uno che sin da fanciullo apparai per vaghezza
l’arti magiche, e so cangiar a mio senno, e volger le umane vicende.
manente (a parte) (Ah egli è costui
certamente che m’ha fatte le malìe. Mira cera da Malebranche!)
nepo Che
pensi ora?
10 manente Penso alle
mie sventure io.
nepo Narrami che ti avvenne; posso consolarti.
manente Piacesse al
Cielo che tu dicessi il vero.
nepo Dicoti che posso, e voglio; quand’io sappia da te puntualmente li tuoi accidenti
passati.
manente (a parte) (Ormai sono a termine
di dovere sperare anco ne’ diavoli.)
15 nepo Che? Dubiti forse di mia parola?
manente No no; anzi mi ti raccomando, gentilissimo mago. (a
parte) (Mi fa tutto tremare.)
nepo Raccontami
adunque. (a parte) (Gran bietolone!)[21]
manente Sappi che è omai un anno, ch’io vivomi fuor del
mondo.
nepo E dove se’
tu vissuto?
20 manente Io non lo so.
nepo Come
nol sai? Se’ tu stato in aria, in acqua, in inferno, dove?
manente Nol so.
nepo Tu
mi pari un allocco. Che hai veduto colà dove tu eri?
manente Notte continua.
25 nepo Se’
stato dunque negli abissi.
manente No, ch’io mi
giacqui sur un letto sprimacciato.
nepo Sto
a vedere, che tu per un anno abbia sempre dormito, e sognato.
manente Può essere anche
questo.
nepo Non
se ne trova né via né verso. Di’ su, che hai sognato?
30 manente Se ben mi ricorda, io addormentaimi,
sarà un anno, alla taverna delle Bertucce costà in Firenze, dove avevamo io, e Burchiello ed altri amici bevuto assieme,
ch’era appunto di maggio; e che buoni vini v’avea quell’oste
Amadore!
nepo (a
parte) (Egli è il maggior ubbriacone della terra.) Che avvenneti poi?
manente M’avvenne che
destatomi dopo un lungo saporito sonno, mi trovai colà dove non so dove io mi fossi,
ch’era buio buio.
nepo Eccoci
da capo. Che facesti colà?
manente Gittatomi dal letto così tentoni, me n’andai dove mi pensava
che fosse una finestra, ma non la trovandovi, mi diedi brancolando alla cerca, tanto
che mi venne trovato un uscio del necessario: sicché quivi orinai, perché ne aveva
bisogno, e feci mio agio.
35 nepo Buon pro, amico.
manente Indi raggirandomi
per la camera…
nepo Vedi
che ci se’ capitato? Tu se’ stato dunque in una camera.
manente Ma credi tu che
fosse camera veramente?
nepo Nol dicesti or ora?
40 manente Dissi, ma
nol so.
nepo Questa
è la favola dell’uccellino. Tira innanzi.[22]
manente Aggirandomi per quel buio me ne tornai finalmente a
letto pauroso, e pieno di strana maraviglia, non sapendo
io medesimo, in qual mondo mi fossi.
nepo Me
l’hai detto già due paia di volte. Né ti partisti più di là?
manente Odi pure. Cominciandomi
a venir fame, fui più volte tentato di chiamare; ma poi dalla paura ritenuto mi
tacqui, aspettando quel che seguir dovesse de’ fatti miei. Di lì a poco sento toccar
l’uscio, e dimenar il chiavistello: io mi scuoto tutto quanto, mi rizzo a sedere
in sul letto; quando ve… ve…
45 nepo Che vai balbettando?
(a parte) (Chi non riderebbe?)
manente Ne tremo ancora
in pensarlo.
nepo Eh via, tu
mi sembri un fanciullo.
manente Quando vedo entrar
dentro due vestiti di quegli abiti bianchi da frati insino in terra, con in testa
un capperone per uno di quelli di via de’ Servi, che
par che ridino, il quale dava loro infin su le spalle.[23]
nepo Tu avrai
riso allora.
50 manente Riso? Io me ne
stava a man giunte, come un boto.
nepo Che
fecero coloro?
manente Aveva l’uno la
spada ignuda dalla mano, mi par, destra, sì destra, e dalla sinistra una gran torcia
accesa; e l’altro dietro a lui ne veniva con un fardello. Entrati dentro riserrarono
l’uscio subitamente; e quel della spada, e della torcia s’arrecò rasente la porta:
l’altro distesa una tovagliola sopra un desco, ch’era
dirimpetto al letto, ponvi su pane, capponi, vitella,
arrosto, frutte, fiaschi, ed altre cose da toccar col
dente.
nepo Ti
sarai allora almeno consolato.
manente Un pochino. Fatto
ciò, m’accenna ch’io vada a mangiare. Io che vedeva la fame nell’aria, rizzaimi ritto, e cosi com’ero in camicia, e scalzo m’avviai
in verso le vivande. Ma colui mostratomi un palandrano, e un paio di pianelle che miei panni erano non so
dove spariti, fece con cenni tanto, che mi misi l’uno e l’altro, e cominciai a mangiare
con la maggior voglia del mondo.[24]
55
nepo Chi
di te più felice?
manente Quanto al mangiare
e al bere, va bene; ma nella coda sta il veleno, dicea colui. Ascolta pure.[25]
nepo Di’,
ch’io t’odo.
manente Allora coloro
aperto l’uscio n’un baleno s’uscirono di camera, e serratomi dentro a chiavistello,
mi lasciarono senza lume. Ciò nonostante trovata la bocca al buio, con quei capponi,
e con quella vitella, e beendo al fiasco alzai il fianco
miracolosamente; e consolavami tra me, che s’io aveva
pur a morire, sarei morto oggimai a corpo pieno.
nepo Questa
infatti non è poca consolazione per un tuo pari.
60 manente Che vuoi? Tanto
si gode, quanto si mangia, e si bee ve’. Poscia rassettate
il meglio ch’io potei, le reliquie avanzate, le rinvolsi in quella tovagliola, e me ne tornai al letto.
nepo Tu
vi facevi la vita de’ gaudenti colà. E questi sono i tuoi guai?
manente Ma non dì tu
quello starsi tanto tempo rinchiuso così solo in quelle tenebre, con que’ fantasimi mattina e sera dinanzi
agli occhi, che non so chi non ne fosse caduto morto a prima vista.
nepo Ammiro
il tuo coraggio.
manente E la moglie,
e la casa, e gli amici, e le mense del Magnifico, a cui beeasi
così bene, restarne così a luogo privo, non la di’ tu sciagura?
65 nepo Peggio
sarebbe che perduta avessi ogni cosa per sempre.
manente E questo appunto
è il mio spasimo maggiore: lasciami dire.
nepo Di’
pure, ch’io n’ho piacere.
manente Dopo tante angosce… ah, mi par tuttavia di sognare...
non sogno, è vero, ora?
nepo Sei desto
sì, se’ desto. (a parte) (Ah ah: s’ei non impazza,
è un miracolo.)
70 manente L’altr’ieri dunque
entrate in camera quelle due solite anime bianche, mi accennano ch’io mi levi di
letto; e fattomi vestire questi pannacci alla marinaresca,
che tu vedi, mi cacciarono le manette; e gittatomi indosso
un mantellaccio con un capperoccione
infino al mento, mi menaroro via. Dopo aver camminato
lunga pezza senza mai veder lume, né saper dove mi gissi, sentimi cavar quel mantellaccio di dosso, e trarmi le manette.
nepo E allora
ti dierono libertà.
manente Così sperava
io pure. Ma legatomi ad un tronco mi tirarono il cappellotto in su gli occhi, e
lasciaronmi colà solo.
nepo Dove
lasciaronti?
manente Ora l’udrai.
Non t’annoiare, ti prego, perché n’arei tante da dire.
75 nepo Di’
pure a tuo agio. (a parte) (Gliel’han fatta ben co’ fiocchi sì.)
manente In quella guisa
rimasto, stetti alquanto in orecchi, e non sentendo romore,
né strepito nessuno, cominciai a tirar le mani a me, e ruppi agevolmente que’ legami, ch’erano di vitalbe: sicché levatomi il cappello
d’in su gli occhi, vidi fi nalmente il cielo, e trovaimi colà
tutto solo.
nepo Dove
ti trovasti?
manente Non tel dissi ora?
nepo No
che non me l’hai detto.
80 manente Se ti dico io che non so dov’io m’abbia il cervello:
sì colà in una valle della Vernia.
nepo Tu
mi fai maravigliare, e ridere insieme.
manente Apparecchiati
pur di piagnere.
nepo Ancora
ce n’hai da dirmene?
manente Se n’ho da dirtene? Adesso cominciano li guai. Finora,
via, c’è stato un po’ di male, e un po’ di bene: ma in avvenire povero Manente,
che sarà di te mai?
85 nepo Via
non t’avvilire; seguita il tuo discorso.
manente Di là dunque
mi traggo pieno tuttavia di stupore, e di paura; e già faceneodosi
giorno alto, m’incammino al Mugello, dov’ho podere: vi trovo un nuovo lavoratore,
gli chiedo ricovero, né vuol accogliermi: spedisco tosto una lettera di mia mano
a mogliema perché mi mandi da rivestirmi de’ miei panni,
e mi faccia conoscere per quello ch’io sono, e mi risponde un monte di villanie,
cacciandomi alla malora come un raggiratore, e un birbante. Ora ridi, se puoi.[26]
nepo Anzi via più me ne fai voglia. Ora
consolati, Manente, ch’io son qui per aiutari; e dicoti per tuo conforto ch’è ormai vicino il termine de’ tuoi
travagli, e che pria di domane riavrai e moglie, e casa,
e roba, e sarai riconosciuto per quel che sei.[27]
manente Quando mai ciò
avvenga! Ma dimmi, è egli vero che siasi la mia moglie
rimaritata con Michelagnolo orafo, come intesi сolà al Mugello?
nepo Verissimo.
90 manente Mira ribalderia!
nepo Ma
ciò avvenne, perché tutta Firenze credeasi che tu fossi
di già morto.
manente Lo credei veramente
buona pezza anch’io. Ma io odo, veggo, sento, mi movo, ho fame, sete… mi pare… credi tu ch’io sia vivo in fatti?
nepo Se’ vivo sì. Datti pure coraggio:
entra in città, fatti vedere, e per sinistri accidenti, che tuttavia ti s’attraversino,
soffri costantemente, e resisti, che rimarrai infine consolato.
manente Io mi sento alle
tue parole colmar tutto addentro di gioia e di speranza.
95 nepo Vanne
pur animoso e conoscerai infine chi mi son io.
manente Te ne rimeriti
il Cielo, o mio dolce confortatore.
nepo Odimi: non dir a persona né d’avermi
veduto, né di ciò ch’io ti dissi, altrimenti guai a te, guai a te.
manente Non dubitare.
(a parte) (Cacalocchio! Credo che costui
sia il priore de’ diavoli: potrebbe farmi peggio che non m’avvenne: non parlo no.)[28]
SCENA TERZA
Nepo.
Io mi sentiva scoppiar delle risa. Sapeva io già ch’ella era una beffa orditagli
da questo principe Lorenzo de’ Medici, per di cui commissione portato via colui
dormiglioso ed ebbro da due staffieri, senza ch’ei se n’accorgesse, fu tenuto a
quel modo rinchiuso prima in palazzo; poi in Camaldoli: e che stando la di lui moglie
al podere, s’era fatto credere a tutta Firenze, con un cadavere travestito de’ suoi
panni, ch’ei fosse morto di contagio. Ma in udire ora le particolarità di cotal trama e udire dalla bocca medesima di colui che incappovvi, io n’ebbi il maggiore spasso del mondo. Ella è invero
una burla un po’ troppo rilevata; ma la è appunto da gran signore, e da quel cervello
così sottile, e bizzarro, com’è il Magnifico. Sta ora a me il condurla a termine,
che a tal fine dal medesimo Lorenzo fui qua chiamato; e compierolla
in guisa che ne rimarrà ognuno stordito, e se mai lo fui per l’addietro, sarò via
più riputato per lo avvenire, e tenuto per un potentissimo negromante.
ATTO SECONDO
SCENA PRIMA
Strada in città. Vespina ch’esce di casa.
Ho inteso signora, ho inteso, farò, ch’ella venga tosto. Non son io già sorda,
né stordita, che mi s’abbiano a replicar le cose cento volte. La è divenuta questa
mia padrona da due giorni in qua così inquieta e fastidiosa, che non ci si può più.
Non sa ciò che si faccia, né che si voglia: va, viene, dice, ridice, smania, alita,
tira tanti d’occhi, che pare una ossessa. Si può dare? Mettersi in testa che possa
essere risuscitato il suo primo marito Manente morto già da un anno, e sotterrato!
Che venga il vermocane a chi le ha scritta quella lettera,
che n’è stata tutta la rovina. Sentiremo ora su questo proposito l’oracolo di codesta
Dorotea; purché la sia in casa, ché suol uscire sempre
in albi, e gir per tutte le chiese a dar il lustro a marmi
co’ ginocchi. Pinzochere, che vuoi ch’io
ti dica? Madonna Dorotea è in casa?[29] (bussa
alla porta)
SCENA SECONDA
Dorotea e Vespina.
dorotea Pace e carità:
chi mi vuole? O se’ tu, Vespina?
vespina Io sì. Non mi credea di trovarvi,
perché so il vostro costume.
dorotea È vero, figliola,
io esco a far un po’ di bene di buon mattino. Ma oggi appena alzatami ho avuto a
tener certa conferenza di spirito, che non m’ha lasciato escir
se non ora, che smontava appunto le scale.[30]
vespina Per curiosità, che spirito era egli? Folletto
forse?
5 dorotea Che domini dì
tu di folletti?
vespina Sì; non mi diceste voi ora di certa conferenza
co’ spiriti? M’immagino ch’e’
sia uno di cotai spiriti familiari.
dorotea Tu se’ ben ignorantella.
Conferenza di spirito, ti dissi, che vuol dire ragionamenti spirituali, dispute
d’anima, e di coscienza: o vatti pensa di folletti!
vespina Ve’! Compatitemi, che in tai faccende io non ci ho troppa mano.
dorotea Lo so, lo so,
che voi altre ragazzaccie siete tutte corpo, e nulla spirito.
10 vespina C’è ben tutta spirito la mia padrona, anzi,
per dirla, spiritata.[31]
dorotea Chi? Brigida?
Fostu, pazzarella, di quella
bontà. La non è già di quelle... di quelle d’oggidì; come verbograzia,
l’Antonia dei Bengodi, m’intendi, quella costà vicina, ch’è tenuta una Magnificatte, e un’Alleluia
e poi la fa… basta, Dio lo sa… non vo’ mormorare, ché la carità del prossimo nol vuole. Ti dico che Brigida la è una donna… una donna… vo’
tu più? Io so la sua coscienza più del Paternostro.[32]
vespina (a
parte) (Senti che carità del prossimo!) Eh qui non ci entra coscienza, madonna.
Vi dico che la mia padrona ha a conferire con voi certo caso un po’ scabroso.
dorotea Che scabroso?
Venga, venga, ch’io glielo spianerò. Non sarà già il primo. Sai tu che caso e’ sia?
vespina Sollo, ma non vuol che ve lo dica io, perché
è materia gelosa e teme d’essersi mal maritata con Michelagnolo.
15 dorotea Come malmaritata?
Se quel parentado è passato per le mie mani; e sai s’io metto piede in fallo.
vespina Eh so che avanza a voi più senno, che cresta
all’oche.[33]
dorotea E poi non è ella
già gravida? Che vuol di più?
vespina Non è questo. Teme che non sia tornato
al mondo il suo primo marito.
dorotea Chi? Maestro
Manente?
20 vespina Appunto. Ci sono certi indizi, lettere,
messi, infatti ella n’è così sbigottita, ch’esce talora del seminato.
dorotea Tu mi vuoi far
ridere. Non sai che in inferno nullasteredentio?
Chi è morto non risuscita più ve’. Lo vidi io a seppellire, e gli ho detta la requie:
e più ti vo’ dire ch’egli è al Limbo: o va’.[34]
vespina Rivelazione, vero?
dorotea Non posso dir
più. (si vede passar Manente)
SCENA TERZA
Manente, Dorotea, Vespina.
vespina Ahi ahi aiuto,
Dorotea mia santa.
dorotea Che hai, figliola,
che hai?
vespina Vedete colui? Lo vedete?
dorotea Vedo; se non
m’inganno, un marinaio.
5
vespina Non vedete ch’è Manente? (Dorotea cava
gli occhiali, e lo squadra)
manente (a parte)
(Quella è pur Vespina mia fante: come si spaventa
al vedermi!)
dorotea Ne ha, ne ha di quella filosomia;
ma per questo? Ci sono tanti che si somigliano.[35]
vespina Più che lo guardo, più mi par desso. Ahi
ahi, Dorotea ei si move.
dorotea Non vuoi tu ch’ei
si mova, s’è vivo?
10 manente (a parte)
(Ora mi sovviene: mi credon morto. Meglio è per non
far qui baccano ch’io vada a trovar fra Sebastiano mio confessore; ch’ei solo mi
può esser buon mezzano per disingannarle.)
vespina Ahimè, madonna, ci viene incontro.
dorotea No, ch’ei volta
canto: se’ pazza?
SCENA QUARTA
Brigida, Dorotea e Vespina.
brigida Che strillare è codesto tuo in su la strada,
che m’hai messo tutto il sangue in rivolta? Dimmi, che fai costà, sguaiataccia?
vespina Ah padrona. (guarda dattorno)
brigida Che c’è? Che hai? Mi fa tremare.
dorotea Non vi smarrite,
figliola: ha le fraveggole costei.[36]
5 vespina Che fraveggole?
Vi dico io ch’egli era Manente.
brigida Ahimè: dov’è? Gli hai parlato? Che ti disse?
vespina Nulla… ma…
dorotea Acquietatevi
in nome di san Fermo. Vi dico io che la è una lusione
di fantasia. Passò di qua non so qual marinaro ch’avea
un po’ d’effigie del vostro defonto Manente – rechiesca –, si credette la ragazza ch’ei fosse desso,
e cominciò a metter quelle strida.[37]
brigida Era un marinaro veramente?
10 dorotea Al vestito: ma che sospetti sono codesti vostri d’uno
ch’è ormai fetido, e inverminito: oh Signor
Iddio, cos’è mai questa nostra carnaccia? Vermi,
vermi e non homo. Onde figliola mia levatevi di testa
cotai chimere, e non le badate.[38]
vespina Mi par tuttavia di vederlo.
brigida Orsù tornati in casa, che tu non se’ buona
che a mettere scandali.
vespina Non so poi che areste
fatto voi, se l’aveste veduto, com’io.
brigida Taci là, ti dico, petulante: vatti su,
ch’ora io torno.
15 vespina Io vo: ma egli era Manente, Manente sì.
brigida Se ti giungo.
dorotea Compatitela,
ch’è ragazza.
SCENA QUINTA
Brigida e Dorotea.
brigida Ora
sappiate, Dorotea, che non sono senza qualche ragione i nostri spasimi. E per questo
appunto io mandava in cerca di voi, per comunicarvi caso strano che mi avvenne,
per sentirne il parer vostro, e averne
da voi alcun conforto.
dorotea Sia con Dio:
da me non mancherà: ditemi che è ciò.
brigida Meo, quel figliolo del nostro lavoratore
nuovo ch’ho al podere…
dorotea V’intendo, v’intendo.
5 brigida Venne a me iermattina di buonissima
ora, e recommi una lettera… credo averla in tasca… sì
eccola: guardate un poco: conoscete vo’ il carattere?
dorotea (cava gli
occhiali dal seno) L’ho veduto certo altre volte… mi par…
brigida Non è tutto minuto lo scritto del mio Manente?
dorotea È vero in mia
coscienza. Ve’ là quell’O bello e tondo, ch’era propio
di lui. Sarà, mi penso, qualche lettera scrittavi pria ch’e’
morisse.
brigida Eh sì; leggete pure.
10 dorotea No no, leggete
voi; che non mi regge troppo la vista per questa benedetta distillazione che mi
cade di continuo dagli occhi.
brigida Lo so già ch’avete il dono delle lagrime.
dorotea Certo che bisogna
piangerli ve’ li nostri peccatacci. Orsù leggete.
brigida «Carissima consorte.
Dopo vari e strani casi, stato più d’un anno rinchiuso
con pericolo tuttavia della vita, sono finalmente per miracolo di Dio uscito del
pericolo».
dorotea Ei può fare certo
de gran miracoli il Signor Iddio.
15 brigida Io mi raccapriccio.
dorotea Via coraggio,
seguitate.
brigida «A bocca poi vi conterò particolarmente il tutto. Bastivi saper per ora come
in villa mi trovo vivo, e sano: e pregovi che subitamente
spargendo per Firenze la novella, mi mandiate la mula, il saione, ed il palandrano d’acqua, gli stivali grossi, ed il cappello; e che
fate sapere al lavoratore nuovo com’io sono il padrone, maestro Manente, vostro
marito; acciocché siami aperta la casa, per poter a mio
agio riposare la notte; ché la mattina vegnente per tempo verrò a Firenze a consolarvi;
e teneramente v’abbraccio.
Di Mugello,
Vostro affettuosissimo consorte
Maestro Manente»
Che ve ne pare ora?
dorotea Sapete, ch’io
pure ne strabilio? Ma qualche trama ci s’asconde, figliola. Poiché prima di tutto
questo è certo, che Manente si morì meschino di morbo, come sapete. E ciò tanto
è vero, che mi ricordo averlo veduto io, io sul cataletto, ch’aveva in testa quel
suo berettone delle Pasque, e il volto tutto enfiato,
e livido; e che tutte le persone turandosi il naso, e fiutando chi aceto, chi fiori,
o erbe si stavano di lontano a riguardar le sue esequie; e fu seppellito nel cimitero
di Santa Maria Novella: anzi per dargli qualche sollievo, gittaigli
sopra la fossa de’ rosolacci, e de’ gettaioni una buona manata: guardate mo’ s’ei
può esser vivo.
brigida Così me ne giunse allora la notizia in
villa, e così di fatto credeimi anch’io; che altrimenti
non sareimi certo rimaritata.
20 dorotea Quanto a questo
poi ci sono de’ teolaghi, che accordano in qualche caso
o di antigenio, o d’impotenza, o di scelta più geniale,
o che so io? Che non tengo più a memoria cotai frottole;
le so ben per isperienza, perché a’
miei giorni, prima che mi ritirassi da questo mondaccio
mi ricordo d’averne avuti fino a tre dei mariti vivi, cioè… non fate giudizi temerari…
uno dopo l’altro: e sì non v’era allora tanta libertà di coscienza. Oh il mondo
non è più mondo. E così… dov’era io ora con la testa?…
sì, accordano li teolaghi in
simili casi il prender un altro marito, vivente il primo.[39]
brigida (a parte) (Bisogna nascerci: fino
di teologia ne sa!)
dorotea Ma a che proposito
vi dicea io ciò?
brigida Di Manente, che…
dorotea Zitto, torno
a testo. Egli è adunque morto, e non può certamente avervi scritto. Dall’altro canto
quel carattere, quella confidenza, quelle particolarità darebbono
a prima vista da pensare ai più accorti, sapete?
25 brigida Vi dissi pure che noi non siamo sbigottite
senza fondamento.
dorotea Eh sorella cara,
voi non riflettete a una cosa.
brigida A che?
dorotea Che il mondo,
come diceavi, è ormai così tristo, e sciaurato, che non ci si può più vivere. E per questo non è
maraviglia, se talora si piange… E ne nos induca…
(asciugandosi gli occhi)[40]
brigida (a parte) (Che anima di Dio!) Che
volete voi inferirne?
30 dorotea Che ci sono
purtroppo degl’impostori, e dei ribaldi, che falsano caratteri per far precipitare
le persone e tradire or l’uno, or l’altro.
brigida Così mi disse veramente anche il mio marito
Michelagnolo.
dorotea E così è, figliola.
E a quella lettera bisognava dar una risposta, che cantasse molto bene.
brigida Non dubitate ch’ei gliela diede a modo
e a verso, minacciandolo, se tosto non s’andasse con Dio, che anderebbe egli lassù
con un carico di manette, e vi manderebbe il Bargello. Oltre che a bocca ordinò
a Meo che dicesse a suo padre che lo cacciasse via col malanno.
dorotea Sta bene. Onde
datevi pace, e siate certa che cotestui è un qualche mariolo.
(a queste parole sopraggiugne Michelagnolo)
SCENA SESTA
Michelagnolo e dette
michelagnolo Un mariolo, un furbo, un falsario, sì; gliel’ho detto anch’io
cento volte, e glielo ridico cento e una.
dorotea Non v’alterate,
fratello, non v’alterate, ch’ella n’è omai persuasa.
michelagnolo Che diavol
di frenesia! immaginarsi ch’un morto abbia a scriverle una lettera. Hanno altro
cheffare di là, che carteggiare. Sempliciotta.
dorotea Via via, tutti
abbiamo le nostre debolezze, e né men voi sete farina da cialde no. O fragilità
umana![41]
5 brigida Io mi credo che se ne sarebbe sgomentato
ognuno a prima giunta.
michelagnolo Ma non a quel segno di tremare e d’impallidir come voi. E
poi voler entrar in cetere col vicinato, e non appagarsi di mie ragioni?
brigida Io ricorro in sì fatti casi alle anime
buone io.
dorotea Io sono una miserabile
peccatrice. (Picchiandosi il petto)
brigida Vedi, come si chiama in colpa quella santerella!
10 michelagnolo (a parte) (Volpona.)
dorotea Eh figliola ci
vuol altro per esser sante, che darsi delle massima
culpa nel petto. Non mi badate, sapete? Ch’io lo fo così per uso: lo appresi
fin da piccina dalla mia balia, santa memoria; che quella sì… Oh se l’avessi conosciuta…
vi dico da farne degli Agnusdei. Morì con la grillanda
poverina. Anzi la mi lasciò una delle sue pianelle tutta rattoppata, e senza suolo:
uh Signor Iddio! A piante nude, a piante nude la camminava per mortificarsi, che
sia benedetta. Oh quella pianella poi non la do per un regno. Chi sa che non le
abbiamo ancora a accender dinanzi la lampanetta? Basta,
io fo quel che dico, quando dico torta. Vado, che sono aspettata. Restate in pace,
figlioli… Diessira…[42] (parte)
brigida Mi raccomando alle vostre orazioni. (entra)
michelagnolo Non ti credo,
se ti vedessi far miracoli.
SCENA SETTIMA
Michelagnolo.
Infatti
ognuno ha suoi guai, e la fortuna non ci fa mai un bene, che all’incontro non sorga
un male. Troppo pareami d’esser felice con la mia Brigida,
che toltane quella sua dabbenaggine, non v’è donna che mi andasse più a sangue di
lei. Io avea col suo maritaggio raffermata la compagnia
nell’arte con Nicolaio di lei fratello; il che tornavami molto a vantaggio, e avanzamento delle mie fortune.
Avea la consolazione della prole avviata. Mi godea la roba, e la casa del suo primo marito: io viveami infine contentissimo, se non capitava colui a mettermi
romori in casa, a scombuiarmi la moglie, e ad inquietar
un poco me ancora: che quantunque io sappia che questo è un tranello ordito per
uccellarci, mi mette nonostante in qualche confusione, non vedendo ancora dov’abbia
la cosa a riuscire. Basta, una ne pensa il ghiotto, e l’altra il cuoco. Ci arò a
esser anch’io a codesta danza. Badiamo intanto a’ nostri
interessi.[43]
SCENA OTTAVA
Manente.
Ecco là Michelagnolo, quello che si gode la mia
moglie, come s’io non ci fossi più al mondo. Lasciando ire per ora, ch’io vo’ prima
ad ogni modo parlare a Brigida; giacché per mia mala sorte non ho trovato il mio
confessore, ch’è gito a stanziare in Bologna. Sono
come zingani codesti frati: mutan covacciolo ogni tre
giorni. Ma che è mai ciò? Nessuno più mi conosce. Incontro parenti, amici, vicini,
non mi guardano nemmeno in faccia. Voglio ben che questo vestito possa alterarmi
il sembiante; ma, diacine, questa faccia, questo sopraciglio, questa fronte, questi occhi fono pur quelli ch’io
m’ebbi sempre. Or ora, mi conoscerà ben la mia moglie.[44]
(bussa alla porta)
SCENA
NONA
Brigida, alla finestra, e detto.
brigida Chi bussa costaggiù?[45]
manente Sono io, Brigida
mia cara, aprimi.
brigida E chi siete voi?
manente Non mi vedi?
5 brigida Sì vi vedo, ma non vi conosco. (a parte)
(Costui certo è quello della lettera.)
manente (a parte)
(Io arrabbio.) Vien giuso, vien giuso, e mi conoscerai.
brigida (a parte) (Come tutto rassomiglia
a Manente!)
manente Né vieni ancora?
brigida Ditemi di costà chi voi siete, e ciò che
voi cercate.
10 manente Non lo vedi
tu? Sono maestro Manente il tuo vero, e legitimo sposo
e te cerco, che sei Brigida mia moglie.
brigida (a parte) (Fino a contraffare la
voce!) Maestro Manente non siete voi già, pero ch’egli è morto, e sotterrato.
manente Come, Brigida,
morto? Io non morì mai. Aprimi di grazia; non mi conosci tu, anima mia dolce? Son
io però sì trasfigurato? Deh aprimi, se tu vuoi, e vedrai ch’io sono vivo.
brigida E che voi dovete esser quel tristo che
mi scrivesti la lettera iermattina. Andate con Dio in
malora; che se il mio marito vi ci trova guai a voi…
manente Tu ti se’ rimaritata
eh ghiottoncella? Non ti bastavo io? Sono io forse fradicio?
Dov’è il mio figliolo?[46]
15 brigida Che figliolo? Che avete voi a fare meco? Andate, vi dico, via
di costà per il vostro meglio.
manente (a parte)
(O me vituperato!) Dicoti, Brigida, ch’io sono il tuo
marito; m’intendi ancora?
SCENA
DECIMA
Dorotea, che alza la gelosia della sua fenestra dirimpetto, e detti.
brigida Che c’è, Brigida? Con chi altercate voi?
manente (a parte)
(Ci mancava anco questa bizzoca.)
brigida Con codesto birbone, che viene a insolentarmi. Egli è colui della lettera sapete? Ed ora vorrebbe
entrarmi di più in casa. Parvi che sieno furfanterie da
portarsi queste? Io non so perché non ti gitto un mattone
in sul capo. Petulante, temerario.
manente Anche questo
di più!
5 dorotea Guarda, figliola
mia, guarda bene, che questa sarà l’anima del tuo maestro Manente che anderà quivi oltre facendo penitenza, e però lo somiglia tutto
al viso, e alla favella. Chiamala un poco, domandala, e scongiurala, se ella vuol
nulla da te.
manente Che anima? che anima? Voglionmi
far impazzare costoro. Brigida dico, aprimi.
dorotea Via, figliola,
coraggio, scongiurala.
manente Taci tu, graffiasanti.[47]
brigida (a parte) (Io tremo tutta.) O anima
devota, hai tu nulla sopra coscienza? Vuoi tu l’uffizio de’ morti? Hai tu a soddisfare
voto niuno? Di’ pur ciò che tu vuoi, anima benedetta; e vatti con Dio.
10 manente (a parte)
(Riderei quasi.) Aprimi; torno a dire, Brigida mia, ch’io vottene
certificare.
dorotea Siniquitate…[48]
brigida Vuoi tu le messe di san Gregorio?[49]
manente Voglio la fava.
Che sì ch’io te ne fo pentire?[50]
dorotea Basta, basta,
Brigida, che l’anima s’inquieta. Rechiesca, rechiescat in pace. (facendo croccioni si ritira)[51]
15 brigida Lusperpetua,
lusperpetua luceat ei.[52] (fa
lo stesso)
SCENA UNDECIMA
Manente.
Che
requie, che croccioni? Sono io dunque un fantasima, un’anima randaglia da
essere scongiurato? O me confuso! Ma so ben donde avviene. S’infinge Brigida di
non mi conoscere per non aver a lasciare il nuovo marito, ch’è un po’ più fresco,
e rubizzo di me. Donne ingorde! E questo egli è tutto ordimento di quella picchiapetto di Dorotea. Colei colei
me l’ha così guasta, e maliziata, che la era una colomba senza fele. Hanno il diavolo indosso codeste spigolistre, e non sono
buone che a seminare zizanie, e dissensioni. Non vo per questo perdermi di coraggio.
Ci sono tribunali anche in Firenze; c’è la giustizia, e soprattutto un principe,
che di quanti uomini eccellenti, non pure virtuosi, ma amatori, e premiatori della
virtù furono giammai nel mondo gloriosi, egli è uno certamente, e forse il primo.
A lui, a lui ricorrerò, che sempre m’accolse umanamente e accarezzommi,
come suo favorito. Possibile che nemmeno egli mi riconosca più? Ma così travestito…
non vorrei che mi trattasse da pazzo… bisognerebbe… qui non c’è altri che Burchiello
mio grand’amico, che possa aitarmi… Sì: ei sarà alle Bertucce,
dov’è solito mangiare. Andiamo tosto.[53]
ATTO TERZO
SCENA
PRIMA
Michelagnolo.
Non so che sia avvenuto, che Brigida mi mandò a chiamar
così in fretta. Sta a vedere che c’è qualche novità di quel furfante dalla lettera.
Ma vorrei io coglierlo, che lo concierei, ti so dir, per
il dì delle feste. (s’odono strida di dentro)
SCENA
SECONDA[54]
Brigida
e Vespina, che fuggon di casa,
e Michelagnolo.
brigida Ahi ahi, Vespina,
non mi abbandonare.
vespina Son qua, son qua con voi, non dubitate.
michelagnolo Fermatevi in buonora: dove correte? sete
indemoniate?
brigida Vi dico che
in quella casa non vo’ più starvi io.
5 vespina Né men io assolutamente:
guarda, guarda…
brigida Ahimè, ahi.
michelagnolo Si può sapere che avete?
vespina Mi parve di
veder quell’anima.
michelagnolo Che anima, che anima? Dite su, parlate.
10 brigida Ah marito mio,
l’anima di Manente.
michelagnolo Qualche malia certo v’è entrata addosso.
brigida Che malia?
Vi dico che venne testé a batter alla porta Manente, Manente, m’intendete? vestito
da marinaro, che volea ch’io gli aprissi: e l’ha veduto
anche quella santa donna di Dorotea, ed ella, ella m’ha detto ch’è l’anima di Manente,
che va cercando refrigerio.[55]
michelagnolo O scempiataggine! E voi gli avete aperto?
brigida Dio me ne scampi. Dorotea, ed io l’abbiamo scongiurata,
e mandata in pace.
15 michelagnolo E ben? che avete ora? perché volete fuggirvi
di casa?
brigida Perché, dite?
Io mi credo che quella benedetta anima sia entrata già in casa, come vento, a porte
chiuse. Vi si sente da per tutto strepiti, fracassi, rovine,
diglielo tu, Vespina.[56]
vespina Io sono spasimata,
e n’ho guasto tutto il sangue. Un rovistìo in cantina,
come se le botti giucassero a cozzar tra di loro: piatti
in cucina caduti dal cancello all’improvviso: la pentola rovesciata: il brodo spanto:
il tegame rotto: il micino incantato con tanti d’occhiacci fuori, e col pelo ritto
ritto dalla paura. Vi dico che la casa è piena di spiriti,
e di morti: e credo che vi sia dentro tutto il Limbo e tutto lo ’nferno: io non vi starei né pur dipinta.[57]
michelagnolo Sapete che v’ho a dire io? che se voi darete retta a quella miracolosa pinzochera,
la vi farà impazzire davvero.[58]
brigida Oh non mi tacciate quella donna, che la è una santerella,
ed io le ho tutta la fede.
20 vespina So io s’è una
santerella, che la trovai tante volte accanto al focolare co’
paternostri in mano rapita in estasi di maniera che a riscuoterla, non dirò le strida,
ma né meno le spinte e gli urti bastavano.
brigida La vedrai,
la vedrai un giorno tutta trinci la gonnella sforbicinata
dalli divoti tornar a casa senza cioppa.[59]
vespina (a parte) (Senza testa piuttosto!)
michelagnolo (a
parte) (O stolida credulità!) Io non intendo ora di tacciare veruno. Vi dico
bene che mi maraviglio di voi, Brigida, che avendo finora
vantato fior di senno, e di saviezza, vi lasciate ora indurre a bagatelle, e a creder
novelle da spaventar i fanciulli. Parevi ch’un morto abbia a vestirsi da marinaro,
e venir all’uscio a garrire con voi? Io me n’arrossisco per parte vostra. Lasciate,
lasciate, che codeste scimunite donnicciuole si credano
ciò che vogliono, e voi date loco alla ragione; e non vogliate con tai deliri fantastici pregiudicare al concetto vostro, alla
vostra salute, e, tolgalo il Cielo, a quella ancora della
innocente creaturina che portate nel ventre, primo dolce frutto de’ nostri amplessi.
Del resto lasciatene la cura a me, che vedrete fra poco, s’egli è uno spirito errante,
o pur un corpo vivo e vero d’un furfante.[60]
brigida Io non so a
chi mi credere. Voi dite il vero, e Dorotea non dice mai il falso… e quegli strani
accidenti?
25 michelagnolo Accidenti del gatto. È forse la prima volta
ch’ei v’ha rotte e scodelle, e pentole, e tegami?
vespina Ma se vi dico che il gatto si stava lì quato quato in un cantone tutto anch’esso
sbigottito.
michelagnolo Tu se’, Vespina,
una metti confusione, e un attizzafoco che invece di confortar
la padrona, la sconturbi maggiormente con le tue vigliaccherie. Orsù non le badate
punto, Brigida mia; e fidatevi di me, che provvederò ben io a questi sconci. Rientrate,
rientrate in casa. Tira là tu, apri la porta.[61]
brigida Così sola io
non vi sto certo in quella casa. Vien qua, Vespina, chiama
giù madonna Dorotea.
vespina Io vo’ tosto.
(bussa alla porta di Dorotea)
30 michelagnolo Dorotea vi
tornerà a metter delle chimere in capo da sgomentarvi.
brigida No no, quand’io
ho allato quella donna, io mi dormo fra due guanciali.[62]
michelagnolo Fate a vostra posta, se così volete. (a parte) (Quanta pazienza!)[63]
vespina Bisogna ch’ella
sia nelle sue solite estasi.[64] (torna a bussare)
brigida Se vi dico
io ch’essa sta più in cielo che in terra.
35 michelagnolo (a parte)
(O alla noce di Benevento.)[65]
SCENA
TERZA
Dorotea
e detti.
dorotea Sanità e pace, figlioli. Ho voluto
finire il bespro per quell’anima, prima di scendere. Che
c’è di novo?[66]
michelagnolo (tirandola
da parte) Voi siete, Dorotea, una donna dabbene, e di coscienza…
dorotea Per grazia del Signor Iddio.
michelagnolo Non vogliate, vi prego, metter altri spaventi a mia moglie, né ragionarle
più d’anime, né di fantasime.
5 dorotea Ma, fratello, quell’anima di
Manente vuol certo qualche sollievo; altrimenti la farà sempre dattorno alla vostra
casa.
michelagnolo Bene, a questo ci penserò io.
dorotea Che siate benedetto. Le messe
dei lunedì sapete?
michelagnolo E se fossero dei martedì?
dorotea No, non servono: del lunedì,
vi dico.
10 michelagnolo (a parte) (Si può dar superstizione!) Ho inteso,
ma voi non parlate più di morti.
dorotea E se vorrete, vi farò indegnamente
una dozzina di passaggi il dì del Perdono: e mi contento d’una crazia per passaggio.[67]
michelagnolo Sì sì, come volete. (a parte) (Quanti inganni!)
dorotea Dio vel
rimeriti. Or bene che vi occorre da me, figliola mia.
brigida Vorrei che
mi veniste un po’ a tener compagnia, finché mio marito bada alle sue faccende.
15 dorotea Sì volontieri;
ma aspettate, ch’io vada per il mio lavoro.
brigida Ora io sono
contenta; e voi, se volete, gite pure pe’ fatti vostri.[68]
michelagnolo Vo’ prima vedervi a rientrar in casa, perché,
se capitasse mai quel tristo, gliene facessi pentire.[69]
dorotea (dopo aver aperta la porta in fessura, caccia
dentro il capo, e chiama) Nicolosa… Non m’ode: sarà allo sgabello. Alibecca, Alibecca. (si sente dalla gelosia sonare un campanello)
Raccogli, figliola, li miei lavori,
e recameli su la porta. (torna a sonare)
vespina Che vuol dir,
madonna, quel tintin?[70]
20 dorotea Quella è la voce della modestia.
vespina Ve’! Io mi
credea qualche pecora col sonaglino al collo. Ma che è
questa voce della modestia?
dorotea Tu se’ molto curiosa.
brigida Non ne lascia
una certo.
dorotea Ti dirò. Le mie discepole non voglio che dalla via si facciano udire mai
a dir parola; perché nascono tanti casi… oh Signor Iddio!... fin nella voce femminile
s’innamorano oggidì gli uomini: e ti vo’ dire ch’io ebbi a’
miei dì parecchi fiutacupidi dattorno per null’altro che
per sentirmi a parlare: basta… Delitta iuventuti. Ora
io per ovviare a tal pericolo ho fatta una rubrica alle mie scolare, che né dalla
gelosia, né dalla porta non mi rispondano mai che col sonaglino.[71]
25 vespina Si può dar
governo di maestra![72]
brigida Altro che Camaldoli![73]
michelagnolo (a
parte) (Quante schifiltà!)
(Si sente suonare
alla porta.)
dorotea Vengo, figliola.
vespina (a parte) (Mira, se non par una chiocciola.)[74]
(Dalla porta
si vede una mano inguantata che porge a Dorotea un paniere.)
30 dorotea Lodato
Dio. Siate buone, sapete? (replicar
il tintin) Ora andiamo, Brigida.
brigida Prendi tu, Vespina,
quel canestro.
vespina Date qua, madonna. Che bei lavori avete?
(lo scuopre)
dorotea Ah curiosa, curiosa.
vespina Uh! che funicelle
son queste?
35 brigida Lascia vedere.
michelagnolo (a
parte) (Da legarle tutte e tre.)
dorotea Eh, non è roba per voi, figliole.
brigida Ma pure a che
servono?
dorotea Questo è il mio passatempo dopo
le orazioni, ammanire stromenti
di penitenza alli miei allievi. Sono discipline da flagellarsi.[75]
40 michelagnolo (a parte)
(Che ostentazione!)
vespina Con tanti nodi?
dorotea E tanti peccatacci che si fanno?
brigida È vero.
vespina Io non vengo
già alla vostra scola io.
45 dorotea No, no non se’ chiamata tu alla
strada della perfezione.
michelagnolo (a
parte) (Della perdizione vuoi dire.)
brigida Or via andiamo.
dorotea Restate in pace, fratello.
michelagnolo Ve la raccomando, Dorotea.
50 dorotea Statevi quieto.
SCENA
QUARTA
Michelagnolo.
Ti venga la contina e il fistolo,
vecchia ipocritona. Ch’io ti volessi per casa? Tuttavia
è d’uopo per ora contentare la moglie per ovviar a’ mali
maggiori. Mi maraviglio ben di quel ribaldone, come egli abbia fin tentato d’introdursi in casa.
Non mi credeva io mai, che non essendogli riuscito il primo disegno, si dovesse
lasciar più vedere. E chi fa ancora le sue machine? Ma le prevenirò
ben io col farlo catturare; che il bargello li conosce tutti a fiuto codesti birboni.
Intanto per tutto ciò che può accadere vo’ ire tosto agli uffiziali
della peste, al libro della sagrestia di Santa Maria Novella, allo speziale, donde
si cavò la cera, ai becchini, e alla vicinanza, e farmi da tutti far fede in iscritto,
come messer Manente in casa sua morissi di morbo, e fu
sotterrato; e vedrassi allora chi è costui.[76]
SCENA
QUINTA
Burchiello
e Manente.
burchiello Parmi ancor di
travedere che tu sii Manente vivo e sano, cui piansi già morto.
manente Tu solo, Burchiello, tra tanti
amici, e parenti m’hai riconosciuto.[77]
burchiello Come non t’aveva io a conoscere a
tanti segni evidenti, e specialmente a quella voglia di porco salvatico che tu porti rasente il polso di quella mano? Il più
strano avvenimento io non udì mai, di quello che tu m’hai narrato; e per quanto
aggiromi di cervello, non sovvi
trovare stiva.[78]
manente Io medesimo son fuori di me, e parmi d’esser nuovo
affatto in questo mondo.
5 burchiello Né in tanto tempo ti se’ accorto mai dove tu ti fossi, né chi erano
coloro che ti recavano il vitto?
manente Come mai, se non v’erano colà finestre; e coloro erano così travestiti, e
impappaficati, ch’io non potea,
non che nella faccia, né men negli occhi raffigurarsi?[79]
burchiello Né ci vedevi mai lume.
manente Se non quello della torcia:
e in questi ultimi giorni calò giù non so come dal palco di sopra una lampanetta, che dì, e notte sempre stava accesa, di maniera
che rendeva la stanza alquanto luminosa. E allora mi rallegrai un poco, e cantava
per isvagarmi qualche canzonetta al mio solito, che sai
s’io ho bella voce; o recitava le Selve d’Amore
del nostro Magnifico.[80]
burchiello Tu mi fai ridere, e maravigliare insieme; né altro bendine
io so trovare a questa matassa se non ch’ella sia stata una beffa appunto di Lorenzo.[81]
10 manente Come di Lorenzo? Sai pure ch’io
era suo dimestico, e ch’ei compiacevasi oltre modo del
mio umore piacevole, e bizzarro.
burchiello Sì; ma non ti sovviene di quella
villania che tu gli facesti a Careggi, ed egli allora se ne tacque?[82]
manente È vero. Ma le Muse
hanno pure il campo libero, ed io n’avea mille ragioni.[83]
burchiello Maestro Manente, i principi sono
principi; e fanno di così fatte cose spesso a nostri pari, quando vogliamo star
con esso loro a tu per tu; e specialmente Lorenzo. Non sai tu ch’egli non comincia
impresa che non finisca; e non ha mai fatto disegno ch’egli non abbia colorito;
e non gli venne mai voglia che non se la cavasse? Egli è il diavolo l’avere a far
con chi fa, può, e vuole.[84]
manente Tu me ne fai quasi dubitare; e dove io aveva io lui fondata ogni speranza,
mi veggo quasi schiusa anche questa strada, e restomi confuso come prima sfiduciato. Ma come mai si credettero
ch’io morissi, non essendo io stato né malato, né portato su la barra, né alla sepoltura,
almeno ch’io me n’avvedessi.
15 burchiello Fosti benissimo, non tu, ma un altro
in tua vece.
manente Io non t’intendo.
burchiello Dirotti. Il giorno dopo che tu mancasti
di Firenze, e fu quella sera, se ti ricorda, che fossimo a bere assieme alle Bertucce…[85]
manente Di questo mi ricordo, che così
dormiglioso com’io era…
burchiello E cotto dal vino.
20 manente Può essere: sentendomi menar
via pensai di certo che fossero i garzoni dell’oste co’
miei compagni, e amici, che mi conducessero a casa. Ma per via poscia perdei e sentimenti
e memoria, né m’accorsi se non il giorno addietro d’esser
colà dove ti dissi.[86]
burchiello Guarda, se tu avevi legato l’asino
a buona caviglia. Orbene, il dì seguente si sparse voce che tu eri malato, e che
t’eri fatto vedere dalla finestra ad una tua vicina con la gola tutta fasciata di
stoppa, e lana sucida. Onde perché allora era in Firenze sospetticcio
di peste, e se n’erano scoperte già infette alcune case, tutti si pensarono che
tu dovessi avere il gavocciolo.[87]
manente Io non ebbi già cotal morbo.[88]
burchiello Così credeasi:
tanto che il Magnifico diede ordine che ti venisse ad assistere un servigiale degli
ammorbati, e fece mettere al tuo uscio la banda.
manente Io ne trasecolo.
25 burchiello Il giorno dopo lo spedalingo piangendo fece intendere
al vicinato, e a chi passava, come tu in sul fare del dì eri passato da questa vita
presente. E infatti il giorno istesso su le ventitré ore fosti portato su d’un cataletto
con solenne processione di preti, e frati a Santa Maria Novella, ed ivi su le scale
gittato a capo innanzi entro un avello.
manente No io, che non fuivi gittato.
burchiello Sollo; ma tutti si pensarono indubitatamente
che tu fossi quel morto: tanto più ch’aveva in dosso il tuo giubbone, e la tua beretta
da rispetto in testa, che parevi propio desso.
manente Qualche demonio certo m’ha fatta
la beffa.
burchiello Ed io ti replico che il demonio sarà
stato Lorenzo.
30 manente Sia come tu vuoi. Ma io che
modo ho io ora a governarmi in questa involtura? Consigliami
tu, caro amico.[89]
burchiello Il miglior partito sembrami di ricorrere
agli Otto, e darti loro a conoscere, e raccontar ordinatamente quanto ti avvenne.
Io intanto troverò a casa uno de’ principali di quel magistrato mio amico grandissimo,
e ne lo informerò com’io la sento, il che gioverà non poco all’uopo nostro.[90]
manente Io mi lascio in tutto guidar
da te. Ma parti ch’io abbia a comparir dinanzi al magistrato con questi panni?
burchiello No; vien pur meco, che ti troverò
da rivestirti da medico.
manente Il Ciel te lo rimeriti. Quanto
giova ne’ bisogni un buon amico.
SCENA
SESTA
Vespina.
Discipline,
e rosari, e corone, né ancora basta. Ora le manca il libretto spirituale, m’immagino
per far qualche scongiura alla mia padrona, che si sta lì cotanto sdilinquita, e
cascatoia, che la par tolta or ora dallo spedale. Io non so a che si tenga al fianco
quella squarquoia, che con quel continuo pissi pissi, e sospirar, ch’ella fa, e
vederla poi tener a quel modo gli occhi in molle, e il collo a vite, e le nocca col petto sempre in lite, la fa venir propriamente l’agonia.
Ma la vuol così; così sia. Vo per il libretto.[91]
SCENA
SETTIMA
Nepo e Vespina.
nepo Odimi, Vespina.
vespina Aiuto,
Dorotea, l’anima…
nepo No; t’inganni; non temere.
vespina Mira barbone! Par quello del vecchio Satanasso.
5 nepo Accostati.
vespina No io, che
non so, se voi siate uomo, o bestia.
nepo Son uomo,
son uomo, e più che uomo ch’io ti farò veder prodigi, che oltrapassano
le forze umane.
vespina Non vo’ veder
miracoli no.
nepo Ti scoprirò segreti li più occulti, e impenetrabili.
10 vespina Ditemi questo:
dov’era avviata io ora?
nepo Ah ah: a prender
un libretto in casa Dorotea, che stassi ora con Brigida.
vespina Costui è un
profeta!
nepo Non ti maravigliar, o Vespina,
che il presente, e il passato è facile indovinarlo; ma il saper l’avvenire,
questo è d’ammirarsi.
vespina Anche l’avvenire
sapete?
15 nepo Sollo
quanto il presente.
vespina (a parte) (Vo’ farmi un po’ strolagare.) Ditemi in grazia, m’ho a maritare io, o restarmi
così zitella?[92]
nepo Tu prenderai fra due anni marito.
vespina Bel giovane?
nepo Un giovinotto leggiadro, ben disposto,
gagliardo.
20 vespina Che voi siate
benedetto.
nepo Ma perch’ei sarà un portapolli, un giocatore,
un briacone, e ruberà ai padroni, sarà cacciato in galera,
e forse anco su le forche.[93]
vespina (a parte) (Su le forche tu, stregone indiavolato.)
Su le forche? poverino.
nepo Non t’attristare
per questo. Ne prenderai poscia un altro piacevole, bonario, indulgente, che si
lasciarà da te menar come un bufalo; e tu col far cortesie
a tutti arricchirai di molto.[94]
vespina Di cortesia
poi me ne picco io: non la cedo a qualunque dama di Firenze.[95]
25 nepo Ora quel
ch’io volea dirti, è questo, che maestro Manente tuo primo
padrone è vivo e sano qui in Firenze; ed è quello appunto che scrisse a Brigida,
e che venne a bussare alla sua porta. A lei dunque
dirai che se ne dia pace, che non abbia paura di spiriti, che non presti fede alla
pinzochera, e che prima di domani sarà ricongiunta al suo primo sposo, e disciolta
dal secondo: e diglielo ve’; altrimenti te n’avrai a pentire, sì te n’avrai a pentire.
Addio.
vespina No, che non
arò a pentirmene. Ha un ceffo colui che Dio ne guardi ogni fede! Cristiano. A chi
debbo io credere? Tutti dicono che Manente fu seppellito, e costui vuol che sia
vivo. Sia come si vuole, narrerò a Brigida quanto il mago m’impose; ch’io non vorrei
ch’ei mi facesse entrar in corpo qualche diavolo: poveretta me. (entra da Dorotea)
SCENA
OTTAVA[96]
Manente
vestito da medico e Burchiello.
burchiello Vedi tu, Manente, se tutti cominciano già a riconoscerti per quel che sei, e a
prevalersi ancora dell’opera tua?[97]
manente Mercé tua, fido amico.
burchiello Vorrei mo’ che tu in codesta cura,
ch’io t’ho messa per le mani, vi riuscissi con onore.
manente Ne temo assai.
5 burchiello Perché? è egli male sì disperato?
manente È mal maligno, e pochi
ne campano.
burchiello Ma di che indole è mai questo male
maligno, che impossibile ne sia, o cotanto difficile la guarigione?
manente A te posso svelare il mistero,
che sei uomo discreto. Ma nol far ad altri palese, perché
troppo ci perderebbe l’arte nostra.
burchiello Fidati pure di me.
10 manente Pochi sono tra noi dottori di
medicina, ma pochi ve’ che sappiano ciò che si pescano, perché non si studia la
natura, ch’è la nostra sola maestra. Ora ne’ mali gravi avviene per lo più che non
conoschiamo né la loro indole, né i lor principi, e per
conseguenza né men sappiamo i loro rimedi. Che sarebbe di noi, se confessassimo
una tal ignoranza? Tu lo vedi. Per riparare adunque al nostro smacco, e fallimento,
si studiò di trovar un termine che ci esentasse dall’obbligo di guarirli; e fatto
ci venne di trovar quello di maligno, il quale per nostra buona sorte fa tanta impressione
nelle menti degli uomini, che tosto che battezziamo qualche malattia con tal nome,
tutti ci accordano di buon grado che non possa l’infermo, e non debba più sopravvivere;
e resta così salvo il nostro onore, e la sportula. Onde noi, bontà della umana dabbenaggine,
prevalendoci di sì comodo riparo, tutti i morbi che a prima vista, e al primo tocco
di polso non conosciamo, gli dichiariamo maligni, non perché sieno incurabili, ma perché non sapiamo
curarli. Regola generale però si è in tali casi, per far qualche cosa, di spillare
la vena al malato, ordinargli qualche cordiale, e Dio gliela mandi buona. Eccoti
tutto l’arcano del maligno: ma st.[98]
burchiello Dio mi guardi da mal maligno.
manente In questa cura nonostante ch’ho
intrapresa, io dissi ch’è mal maligno per tenermi in riputazione, caso ch’ei si
morisse: che sta sempre bene aggravar la malattia, e tener in forse l’infermo. Per
altro spero di dartelo sano; poiché finalmente non ha che un po’ di dolor di testa… non mi par che ci sia febbre… mangia di buon
appetito… basta, mi consiglierò un po’ meglio con Ipocrasso,
e saprò dirtene.[99]
burchiello Te lo raccomando. (a parte) (In che mani sta mai la nostra vita!)
Vedi Vespina: attendiamola!
SCENA NONA
Vespina, Manente e Burchiello.
vespina Nol raccapezzava mai questo benedetto libretto. Ne ha tanti in
quel suo oratorio e di grandi, e di piccini, di stracciati, di unti e bisunti, che
ne disgrazio ai pizzicagnoli. (s’abbatte
in Manente) Ahi ahi requiescarpe.[100]
burchiello Vien qua, Vespina, fermati, non ti sgomentare: che credi tu di vedere?
vespina Il fantasima di messer Manente.
burchiello Che fantasima? Egli è Manente in corpo, e in anima.
Accostati, non aver paura.
5 vespina Io intirizzisco
tutta.
manente Non mi conosci più?
burchiello Guardalo pure da capo
a piedi, palpalo, toccalo: gli spiriti, e i morti non hanno né polpa, né ossa, come
vedi avere lui.
vespina Sete desso
veramente?
manente Sì sono Manente vivo, e sano,
né ho già mai provato la morte.
10 vespina Dove dunque sete stato finora, che ognuno vi credea già morto, e infradiciato?[101]
manente Saprailo
poi. Basta per ora che tu n’accerti mia moglie.
vespina Pensate s’ella
mel crede, se appena posso crederlo io medesima.
manente Tu se’ peggio d’un giudeo. Non m’hai tocco adesso con le mani?
vespina V’ho tocco, è vero, ma non v’ho sentito niente da uomo
vivo.
15 burchiello Vanne, Vespina, vanne, e conforta
la tua padrona a riceverlo.
vespina Fatto sta che
Michelagnolo se ne contenti, ch’il suo marito è ora egli.
burchiello Nol sarà più; vatti pure.
vespina Corro a dirglielo.
O miracoli! Ora comincio credere allo stregone.
SCENA DECIMA
Burcbiello e Manente.
manente Si può dar cervellaggine di
donne? Dubitar anche di ciò che veggono con gli occhi
propi, e toccano con le mani?
burchiello Non te ne far maraviglia.
La donna di sua natura è di prima impressione: ha il cervello come il cristallo,
che non perde più la sua prima forma, se non si rompe.
manente Ella è però
una gran dura condizione trovar la moglie in braccio altrui, e non potergliela ritorre. Chi sa come arammela diserrata
quel bufalaccio di Michelagnolo![102]
burchiello Di questo non ti dar pena. Quel ch’è fatto è fatto.
Tornerà Brigida in tuo grembo com’ella è. Ci vuol pazienza. Tu non se’ finalmente di quei contenti.
5 manente Contento eh? Tu sai, s’io sto
su le mode.[103]
burchiello Mirala, mirala che
si è affacciata alla finestra per vederti.
manente I’ vo’ certo parlarle.
burchiello Accostiamoci bel bello.[104]
SCENA UNDICESIMA
Brigida,
Dorotea e Vespina alla finestra, e detti.
vespina Lo vedete, lo vedete colà con Burchiello?
brigida Osmedio, par tutto desso
così in giubbone.[105]
vespina Vi dico ch’egli
è desso dessissimo.
brigida Che ne dite
voi, Dorotea?
5 dorotea Non ci vedo bene… mi pare… ma
s’egli è morto già.
brigida Se dico io
ch’è la sua anima.
manente No ti dico, Brigida mia, ch’io
non son morto.
brigida Ah Dorotea,
l’anima m’ha veduto.
dorotea Non dubitate, ch’io stovvi allato.
10 manente Fermati, ascoltami, cor mio.
burchiello Di che temete, Brigida?
Fovvi fede io ch’egli è il vostro marito.
manente Non mi vedi tu, speranza mia, non m’odi? Aprimi, che mi toccherai ancora.
brigida Toccarti? guardimi Dio.
vespina L’ho toccato
io pure, e mi par di carne, e d’ossa, come gli altri.
15 brigida Io non so cosa
tu t’abbia tocco; so bene ch’ei morì.
dorotea È vero. Chi abita
in auditorio…
brigida A porta inferi.
dorotea Amen.[106]
(Brigida e
Dorotea si ritirano.)
SCENA
DODICESIMA
Manente
e Burchiello.
manente Mi darei al diavolo. Vedi come
sono testarde, e rincaponite? Quella culifessa, quella
bizzocaccia, quella n’è tutto lo scandalo; che s’io esco
di questo farnetico non frusta più certo i mattoni di mia casa colei.[107]
burchiello Orsù non perdiam tempo. Vanne agli Otto; che uno de’ capi già n’è informato,
e n’avrà a quell’ora ragguagliati anche gli altri. Ti faranno ragione, non dubitare,
e riavrai ogni cosa.
manente Voglialo Iddio; che ne sono così sbalordito, ch’io non do più né imbus, né imbas.[108]
ATTO QUARTO
SCENA
PRIMA
Michelagnolo.
Vo’
venir a consolar un po’ la mia Brigida. Ho fatto tanto, che quel ribaldone non verrà più a insolentar
la mia casa. Altro che messe dei lunedì; i ceppi, prigione e forca ancora ci vuol
per anime sì fatte. E a Badia[109] se
n’è andato appunto, or ora per man de’ birri. E come intrepido, e baldanzoso! Aveva
di più indosso il giubbone da medico, e contraffaceva così appuntino il portamento,
l’aria, la statura, il volto, i lineamenti di Manente, che parea
propio desso: tanto che compatisco adesso mogliema, e Dorotea, se lo credettero la di lui anima, giacché
non poteano crederlo più vivo. Come il si facciano codesti
ciurmatori, io nol saprei. Ma sogliono per lo più aver
fratellanza co’ stregoni, che fanno d’ogni ragione malie
e incantesimi. A questa volta pero non gli varrà, cred’io,
cotal fratellanza.
SCENA
SECONDA
Vespina e Michelagnolo.
vespina Ho veduto dalla finestra, e sono venutavi incontro per dirvi
cosa che ne stupirete.
michelagnolo Dirottene io una che ne godrai.
vespina Ditemla, se Dio vi consoli.
michelagnolo Ecco la vostra curiosità. Narra tu prima
la tua.
5 vespina Sappiate ch’io
trovai qui poco fa su la via certo omaccione grande della persona, e benfatto, di
carnagione tanto ulivigna, che pendeva in bruno: aveva il capo calvo, il viso affilato,
e macilento, la barba bruna e lunga per infino al petto, e vestito di rozzi, e stravaganti
panni.[110]
michelagnolo Tu mi dipingi al vivo un negromante.
vespina E tale io credo
ch’e’ sia. Poiché oltre avermi rivelate molte cose passate,
presenti, e future, mi profetizzò tra l’altre che pria
di domane maestro Manente ritornerà con Brigida, e voi ne sarete discacciato: e
inculcommi con minacce ch’io tosto glielo dovessi dire
alla padrona; e che quello che bussò alla porta, era egli desso, e che dovesse credergli.
michelagnolo E tu gliele hai dette cotai baie?
vespina E come subito!
Troppa paura io n’ebbi.
10 michelagnolo Ecco s’io dicea vero,
che codesti bricconi hanno lega co’ maliardi. Quest’è,
che fanno così travedere.[111]
vespina E di fatto
ripassò di lì a poco per qua quell’istesso fantasima accompagnato
da Burchiello.
michelagnolo Da Burchiello?
vespina Sì, da quel
grand’amico del mio padrone.
michelagnolo Come mai un uomo sì accorto lasciarsi anch’esso
gabbare!
15 vespina E parlò meco,
e con la padrona, e Dorotea; ma non gli credono esse, e lo tengono tuttavia per
la sua anima.
michelagnolo Anima sì. Che panni avea
egli?
vespina Da medico.
michelagnolo (a
parte) (È quello appunto.) Vien, vien meco.
vespina Ma la novella
che avete a dirmi?
20 michelagnolo La udirai in casa.
vespina È bella?
michelagnolo Bellissima. È afflitta mia moglie?
vespina Afflittissima.
Non la potreste narrar prima a me?
michelagnolo No, ti dico.
SCENA TERZA
Caporale
con birri e detti.
capitano Sete prigione.
vespina Ahimè li birri.
michelagnolo Chi prigione?
capitano Voi d’ordine degli Otto.
5 vespina Sbaglierete
signor caporale: questi egli è Michelagnolo Buonaiuti.
capitano E Michelagnolo
Bonaiuti noi vogliamo.
michelagnolo Intendo, intendo il motivo.
Ma faccia colui pure il diavolo a quattro, a sette ancora, ch’io ho meco le fedi,
e non ne ho paura.
capitano Non n’avete paura? Eh là legatelo.
vespina O povera me,
o povero lui: il mio padrone legato? Dorotea, Brigida, vi menano via anche l’altro
marito.
10 michelagnolo Consola, consola la Brigida, che sarò tosto disciolto.[112]
SCENA QUARTA
Brigida,
Dorotea e Vespina.
brigida Tu vuoi farmi
cader morta con codesto tuo strillare: che hai?
vespina Guardate, guardate
colà il vostro marito prigione.
brigida Ah Michelagnolo, ah marito mio, ah sciaurata
me! Che hai tu fatto qualche bararia ne’ contratti? qualche
froda nelle manifatture? Lo so, lo so, come sete fatti voi altri artieri.[113]
dorotea Non fate
giudizi temerari, figliola. Tribolazioni, tribolazioni, ch’il Ciel
vi manda.[114]
5 brigida Il canchero,
che vi roda.
vespina E la peste.
dorotea Dio vel
rimeriti.
brigida Compatitemi,
la m’è scappata.
vespina Perdonatemi,
non mi son potuta trattenere.
10 dorotea Dio vel
rimeriti, vi dico. Ma v’accorgerete, v’accorgerete chi era Dorotea, quand’io non
ci sarò più. Non l’ho a dir io; ma guai a Firenze se manca questo straccio di donna.
So io se mi piagnerebbono e giovani, e vecchi, e maritati,
e da maritare, e preti, e frati, e fanti, e birri, e fino a giudei; che non è ora
ch’io non abbia all’uscio un nugol di gente chi per consigli,
chi per conforto, chi per imbasciate, chi per sogni, chi per auguri, chi per pronostici,
chi per ricette; ed io fo tutto, son da per tutto, pongo
mano a tutto, e tutti grazie a Dio restano contenti dell’opera mia, e mi danno benedizioni…
più del Benedicite.[115]
brigida Eh non ho ora a conoscervi, Dorotea mia. Sia non detto quel ch’ho detto.
Ma che farò, meschina me? Di due
mariti non ne ho più nessuno.
dorotea Mancano mariti? O santa pazienza!
Ve ne troverò un terzo io.[116]
SCENA
QUINTA
Vespina.
Manco
male che la santa tabacchina vi rimedierà. Quante n’ha contate delle sue prodezze!
Io mi credo ch’ella sia la maggior ruffiana, spia, e strega del mondo. Vecchia porca,
poltrona, gaglioffa. Mi par mill’anni, che la se ne vada
in malora fuori di questa casa; o che v’andrò io; che non vo’ spiritare con tanti
diavolesimi che veggo nascere.
Povera Vespina dove se’ mai capitata! Quanto era meglio
ch’io mi stessi della mia capannuccia in campagna a munger capre, e cacciar le pecore
in santa pace, che non venire in mezzo a’ guai delle città!
E vo’ certo, s’io vivo, colà tornarmene a finir contenta i miei giorni in compagnia
d’un qualche bel pastorello, o anche capraro, come vorrà
la sorte. Io son poi di facile contentatura.[117]
SCENA
SESTA
Tribunale.
Uno
degli otto sindici e Manente.
sindaco Abbiamo già inteso l’accidente
occorsoti. Ora qual è la differenza che tu hai con Michelagnolo
Buonaiuti?
manente Dirollo, spettabili signori. In tempo del mio lungo allontanamento,
o per dir meglio sotterramento, Brigida mia mogliera credendosi, per quel che inteso
avete, ch’io fossi veramente morto, rimaritossi con codesto
Michelagnolo. Ond’ei entrò al
possesso non che di mia moglie, della roba, e della casa mia; ed ora ch’io grazie
agl’Iddii sono ritornato alla luce, ei mi contrasta il
mio, pretendendo ch’io non sia Manente, ma un giuntatore e un falsario: il che quanto
sia vero, voi da quanto v’ho narrato e che voi medesimi vedete con gli occhi vostri,
potete abbastanza comprendere. Pregovi perciò d’avvalorare
con l’autorità vostra, e con la retta giustizia le mie pretese; e di rendermi con
le mie facoltà la mia Brigida, di cui sono stato, sono, e sarò, finché campo, il
vero, ed unico sposo.[118]
sindaco Caporale, sia condotto a noi
Michelagnolo. Né hai sospetto alcuno, o conghiettura, chi possa averti portato via dalla taverna?
manente Di chi mai sospettare, s’ero
addormentato, e appena, me ne ricorda?
5 sindaco Non hai veduto né meno chi
ti condusse in quella valle della Vernia?
manente Né meno. Poiché dopo essermi,
com’ho detto, da quell’albero disciolto, per quanto guatassi intorno, o rizzassi
l’orecchio non potei né udire mai né veder anima vivente; finché non uscii della
valle; che allora un vetturale fecemi risovvenir della
Vernia, perch’io non conosceva
più quel luogo, benché più volte vi fossi stato a sollazzo co’
miei amici.
sindaco Egli è infatti un caso strano molto, e ridicoloso. Ora intenderemo l’altra
parte.
SCENA
SETTIMA
Michelagnolo scortato, notaio e detti.
michelagnolo (a parte) (Vedilo
costà il mariolo; e con che fronte!)
manente (a parte) (Mira l’usurpatore,
e come ardito!)
sindaco Ora dì tu, Michelagnolo, le tue ragioni, e la cosa pura, e schietta com’ella
è.
michelagnolo Dico, spettabilissimi giudici,
che rimasta vedova Brigida un anno fa del suo primo marito, ch’era maestro Manente
a voi ben noto, e non codesto impostore…
5 manente Un trufatore
se’ tu.
sindaco Olà rispetto al tribunale.
michelagnolo Rimasta ella vedova, da Nicolaio suo fratello,
e mio compagno nell’arte d’orafo, fu consigliata, e pregata strettamente a rimaritarsi
meco; e in capo a sei mesi facemmo di
fatto il parentado, e restonne ella per mia buona sorte
ingravidata.
manente Per tua malora vuoi dire.
sindaco Lascialo parlare, Manente.
10 michelagnolo Che poi il maestro sia morto realmente,
e sotterrato, io n’ho qui meco fedi tali, che non possono lasciar loco a verun dubbio. Eccole.
sindaco Notaio, leggi codeste fedi.
notaio Fede degli uffiziali della peste.
Anno etc. mense etc. die etc.
Faciamo fede giurata noi infrascritti uffiziali della
peste, come maestro quondam Manente della Pieve a Santo Stefano, fisico, e cerusico, che abita nella via de’
Fossi ľanno scorso attaccato dal morbo si morì in due giorni, come appare dal registro
F. etc. In fede di che etc.
Data dallo spedale degli
ammorbati.
Noi, Macaone Gomorrèa, Esculapio
Tencone, presidenti dello spedale.
Fede
dello speziale.
Io
sottoscritto fo fede con giuramento d’aver venduta la cera seguente per li funerali del quondam maestro Manente medico di via de’ Fossi l’anno scorso, adì 27 maggio etc.
-
Torcie num. 2 d’una
libbra per il catafalco.
-
Candele d’un’oncia num. 60 per preti, e frati.
-
Candelotto di mezza libbra per il pievano.
-
Candelette d’un quarto d’oncia da dispensarsi num. 100.
Io
Leandro Gabba, all’insegna della Bugia.
Fede
dei becchini.
Attestiamo
noi sottoscritti, e giuriamo d’aver sotterrato
in un avello delle scale di Santa Maria Novella l’anno passato, tanti maggio, maestro Manente medico abitante nella via de’ Fossi;
e d’avervi ben sigillata la lapida per il fetore pestifero ch’e’
rendeva.
Noi,
Meo Fossa, Sandro Camiciotta, becchini attuali.
manente (a parte) (Quanti giuramenti falsi!)
notaio Fede
del sagrestano di Santa Maria Novella.
15 manente (a parte) (Anche
il sagrestano spergiuro!)
notaio Die
etc. mense Maio etc. anno etc.
Ego
infrascriptus fidem facimus, iuramento protestamus, qualiter dominus quondam magister de Manentis
doctor in utroque physicus,
et cerusicus, qui habitationem
habet in via Fossorum, sepultus fuit in avello scalarum nostrae ecclesiae intitulatae S. Maria Novella
anno passato mense Maio, die etc. cum
solemnitatibus, et exequiis
ritualiter celebratis supra cadaver antequam
sepeliretur. In quorum fidem
etc.
Datum
ecclesia parochiali S. Mariae Novellae.
Nos
Procopius Saccagnella praesbiter laureatas, eiusdem ecclesiae sagrestanus.[119]
manente Costui ne sa tanto di latino, quanto noi
altri medici.
notaio Fede del vicinato…
sindaco Basta
così. Che ne dì tu, Manente?
20 manente Dico, protesto, e giuro a dispetto
di tutte codeste fedi false ch’io sono Manente, e che fui sempre vivo, come ora
lo sono.
sindaco E tu, Michelagnolo?
michelagnolo Ed io rispondo che sono fedi
legitime, che sono vivi, e sani quei che me le hanno fatte.
sindaco Qui c’è sotto qualche tradimento.
Orsù confessate chi era quel morto che fu seppellito per Manente.
michelagnolo Manente medesimo.
25 manente Tu se’ un bugiardo, ch’io son
desso, né morì mai.
sindaco Or saprassi
la verità. Caporale, dagli a costui della fune, e poi all’altro, e sieno collati, finché confessano il vero.[120]
(Vien legato
Manente.)
manente Ah spettabilissimi sindici, qual colpa è la mia? Perché ho
io a soffrir la tortura? Come poss’io sapere chi si fosse
quel cadavere portato alla fossa in mio scambio, s’io mi stava rinchiuso allora
non so dove? Ahimè infelice, e sventurato? Dopo un anno intero di tante tribolazioni,
dopo aver perduta e moglie, e roba, e tetto,
ho a esser legato come un malfattore, e mi si aranno di più a slogare l’ossa
per non poter dire ciò ch’io non
posso sapere?[121]
SCENA
OTTAVA[122]
Nepo e detti.
nepo Discostatevi,
discostatevi, uomini, ch’io vengo per favellare alli sindici,
e per iscoprire la verità.[123]
sindaco Chi è? che vuole costui? Sospendi,
caporale.
manente Ah profeta falso.[124]
nepo Non disperar,
Manente.
5 michelagnolo Ecco lo stregone
in suo aiuto.
nepo Acciocché
la verità, come piace a Dio, sia manifesta a tutti, sappiate, come maestro Manente
costì non morì mai; e tutto quello che gli è intervenuto, è stato per arte magica,
per virtù diabolica, e per opera mia, che sono Nepo da
Galatrona.[125]
sindaco Nepo
da Galatrona? Guai a noi.
nepo Sì Nepo da Galatrona son io, il quale
fo fare alle demonia ciò che mi pare, e piace; e così
fui quello che lo feci, mentr’egli dormiva su di un pancone
in San Martino, portar da’ diavoli in un palazzo incantato,
e nel modo appunto che da lui avete udito, lo tenni per infino che una mattina in
sul far del giorno lo feci lasciar ne’ boschi di Vernia,
avendo fatto a uno spirito folletto pigliare un corpo aereo simile al suo, e fingere
che fosse maestro Manente ammalato di peste; e finalmente mortosi fu in vece di
lui sotterrato; onde di poi ne nacquero tutti quanti quegli accidenti che voi vi
sapete.[126]
sindaco (a parte) (Gran Nepo onnipotente!)
10 manente (a parte) (Potea farmi di peggio?)
nepo Tutte
queste cose ho fatte far io per far questa burla, e questo scorno a maestro Manente
in vendetta d’una ingiuria ricevuta già nella pieve a Santo Stefano da suo padre,
non avendo potuto valermene seco, perch’e’ morissi sul
punto ch’io volea vendicarmene.[127]
manente (a parte) (Fosse vissuto egli un po’ più.)
sindaco (a parte) (Che odo mai!)
michelagnolo (a parte) (Ora sono spacciato.)
15 nepo E perché
voi conosciate che le mie parole sono verissime, mandate ora a scoprire l’avello,
dove fu sotterrato colui che fu creduto il medico; e se voi non vedete segni manifesti
della verità di quel ch’io v’ho favellato, tenetemi per un bugiardo e per un giuntatore,
e fatemi mozzar il capo.[128]
sindaco No, no, non abbisogniamo di
segno alcuno: troppo c’è noto il potere, e la virtù di Nepo
da Galatrona.
nepo Dicovi che mandiate pure a scoperchiar
quella fossa; ch’io vo’ vederne pienamente persuaso questo Michelagnolo,
che tuttavia n’è dubbioso.
michelagnolo Credo, credo ogni cosa.
sindaco Andate via, caporale, e notaio;
scoprite l’avello, tornate tosto, e riferite.
20 manente (a parte) (Me n’addiedi già ch’egli aveami fatto l’incanto.)[129]
michelagnolo (a
parte) (Io non so più dove ascondermi dalla vergogna, e dalla rabbia.)
manente Tu se’ molto infocolato Michelangnolo: hai finito
il bel tempo ne’?[130]
michelagnolo Potevi restartene dove tu eri.
manente Per far piacere a te eh tristo?
25 michelagnolo Se tu sei briaco sempre
come monna; tuo danno.[131]
manente Che n’è a te, dì, s’io beo,
e mi briaco ancora? Tu c’hai per questo a usurpar la mia
donna?
michelagnolo Non è più tua, quando tu se’ morto.
manente Chi t’ha detto ch’io sia morto
mai?
michelagnolo Tutta Firenze.
30 manente Tu, e
Firenze, tutti bugiardi.
michelagnolo Chi lo
sapeva che tu fossi vivo a casa del diavolo, e che avessi a tornar al mondo?
manente Né tu, né io; ma dovevi lasciare
star la mia moglie.
nepo Orsù datevi
pace. Ti basti, Michelagnolo, d’esserti finora servito
della donna, e della roba, di Manente, come di cosa tua. Rinunziala di buon grado
a chi n’è il legitimo padrone, se non vuoi ch’a te n’avvenga
peggior danno, e vergogna.
michelagnolo Piglisi pure ogni
cosa.
35 manente Sto a veder che vi borbotti
su ancora.
nepo Manente, racconsolati, e impara a rispettare gli uomini
grandi, e di virtù sovrumana.
manente In che t’offesi io mai?
nepo Della
colpa dei padri ne portano soventemente la pena i figlioli. Servati d’esempio. Guardati
dal provocar l’ira de’ potenti almeno per pietà della tua prole, quand’anche tu
potessi sottrartene. Orvia, già scoperto è l’avello: già
apparvero i segni: già i messi ritornano. Uditene, uditene le voci. (s’odono clamori di dentro)[132]
SCENA
NONA
Caporale, notaio e detti.
caporale,
notaio Miracolo, miracolo.
sindaco Che avvenne?
notaio Io non ho
più fia…ato.
caporale Io tre… mo tutto.
5 nepo (a parte) (Io crepo dalle risa.)
sindaco Su via narrate, vigliacchi.
manente (a parte) (Che sia mai?)
notaio Appena il
sagrestano, attaccatovi l’uncino, tirò su la lapida, che ’n un tratto preso il volo
all’insù ahi spavento… s’escì dalla sepoltura un mostro
nero nero come la pece, e visibilmente poggiando verso
il cielo andò tanto alto, che egli scoperse Careggi, e dociando
poi si difilò a quella volta, dove fu in meno d’un’ottava d’ora. Non saprei dire la confusione,
la maraviglia, il terrore di tutti i circostanti, che
gridando «aita», «misericordia», correano, e non sapean
dove. Il sagrestano per la paura cadde all’indietro, e tirosse
la lapida addosso, che tutta gl’infranse una coscia. Li frati, e preti chi qua,
chi là come pecore scompigliate dal lupo. Infatti tutta Firenze
a romore.[133]
sindaco Ma che avete veduto? Che mostro
era egli?
10 notaio Chi diceva
che quello era uno spirito in forma di scoiatolo con l’alie:
chi un serpente che aveva gittato fuoco: e altri vogliono
che sia stato un demonio convertito in pipistrello. Ma vi so dir io, ch’egli era
un diavolino vero, e reale.
caporale Diavolino, e come!
Hogli vedute io le cornicina,
e il piè d’oca.[134]
michelagnolo Egli è peggio di Simon Mago questo Nepo.[135]
sindaco Io ne resto sbalordito. Ora
parmi che questa lite per essere tanto intricata, e frammischiata
co’ diavoli, sia bene rimetterla al Magnifico Lorenzo,
che oltre l’averne egli piacere grandissimo, e’ sarà appunto giudice ottimo di sì fatte cause.[136]
nepo Saviamente
vi consigliate; ed ei solo può darne sentenza sopra che buona sia.
15 sindaco A voi frattanto, Michelagnolo, e Manente, doniamo la libertà, e comandiamo che
niuno sia ardito d’appressarsi a cento braccia nella via de’ Fossi, né di favellare
alla Brigida sotto pena delle forche, infino a tanto la lite non sia giudicata,
e non riceviate la sentenza del Magnifico, che vi sarà per il notaio recata.[137]
(S’alzano,
e partono.)
michelagnolo (a parte) (Non posso darmi pace
che colui sia Manente: ma non sono ancora disperato.) (via)
nepo Vedi, Manente, s’io n’ho attenuta la parola?
manente Che tu sii benedetto, Nepo miracoloso. Ma Lorenzo? Posso sperare?
nepo Sta di buon animo: deciderà a tuo favore.
20 manente Io parto tutto consolato.
SCENA DECIMA
Nepo.
Io
non ne poteva più dal prurito di ridere; e mi credo che Lorenzo se ne sgangheri
tuttavia le mascella; che già d’ora in ora vien minutamente
ragguagliato d’ogni particolarità. Se l’hanno pure ingozzata codesti ciondoloni.
Quanto fa travedere la guasta fantasia!
Il diavolino ch’escì dell’avello altro non fu che un colombaccio
nero come carbone arrecato da Careggi, e messo celatamente in quella sepoltura a
questo fine. L’animale ingordo, ch’era stato parecchie ore al buio senza beccare,
veduto il lume, ti so dire con che impeto sarà sbucatone fuori, e che spavento avrà
messo ne’ circostanti. Infatti il valoroso principe pensò, governò, e a fine condusse
la beffa da par suo. Sedò col mio mezzo ogni litigio, e tolse ogni disordine che
potea nascerne. È nota a tutti la
mia possanza, e facilmente ognuno presterà
fede a’ miei detti; ma più d’ogni altro Manente, ch’è
di sì buona pasta, come Martino d’Amelia.[138]
ATTO QUINTO
SCENA
PRIMA
Strada.
Brigida
in porta.
Vorrei
pur vedere, se ritorna ancora quella tapinella di Vespina con qualche nuova di Michelagnolo.
Io n’ho tale angoscia al cuore, che parmi d’avere a restar
vedova un’altra volta; né credo che siavi donna al mondo più di me tribolata. Dopo quella lettera
io non ebbi più pace: perdei la fame, il sonno, l’amore alla casa, al figliolo,
alle faccende, al lavoro, infatti non son più Brigida. Non è momento ch’io non m’abbia
dinanzi agli occhi quel fantasima di Manente; né fo passo
ch’io non l’oda e non mel senta a’ fianchi. Chi sa ch’ei
non m’abbia preso a perseguitare per la fede violata di non unirmi ad altr’uomo
dopo di lui? Ma quant’altre rompono tutto giorno sì fatti voti, e pure si dormono
i loro sonni tranquilli? A me sola tocca l’esserne punita. Ma confido in Dorotea,
che mi placherà con le sue orazioni, come m’ha promesso, quell’anima. Che quanto
a ciò che mi riferì Vespina d’ordine del negromante, sono
tutte fole, menzogne, imposture. Che negromanti? Ciarlatani, che voglion farla da Nepo da Galatrona esigliato già da questa città a milanta
mille miglia. Il mio Michelagnolo, questo mi preme, che
non posso indovinare, perché sia stato catturato: e quella ragazza non vien mai
con qualche risposta. Chi sa quanto avrò
a dormir sola! Ma… lo veggo io? sì è desso. Oh come torbido
se ne viene, e pensieroso![139]
SCENA
SECONDA
Michelagnolo e Brigida.
michelagnolo Quanto instabile, o
cieca fortuna! Eccomi rapito a un tratto ogni tuo dono.
brigida Michelagnolo mio, ti riveggo pur liberato.
michelagnolo Ahimè chi incontro! Pena le forche: svigna,
svigna. (fugge via)
brigida Che vedo? che
ascolto? È Michelagnolo quegli? Son io Brigida?
Sogno? vaneggio? Quand’io sperava ch’ei mi corresse tra le braccia, da me si fugge,
come diavolo dalla croce? Mi sono io forse in qualche mostro orrido trasformata?
Ahi me infelice! dov’è uno specchio?[140]
SCENA TERZA
Vespina e Brigida.
vespina Buone nuove,
buone nuove.
brigida Vespina, dimmi, guardami,
son io dessa?
vespina Come, se siete
dessa?
brigida Son io Brigida
la tua padrona? Ho io la mia solita sembianza? Che ti par di vedere veggendo me?
5 vespina (a parte) (Io trasecolo. Che sia impazzita
poverina?)
brigida Non mi rispondi?
Non mi guardi? Ah meschina me! Qualche fattucchieria m’è stata fatta, qualche incanto:
Dorotea, Dorotea.
vespina Fermatevi:
ditemi, che vi sentite?
brigida Ah ch’io non
sono più io: son tradita, son rovinata. Dorotea, dico.
SCENA QUARTA
Dorotea e dette.
dorotea V’ho sentito a chiamarmi in fretta;
che c’è di nuovo, figliola?
brigida Vien qua,
Dorotea mia, osservami bene.
dorotea Vi vedo.
brigida Che ve ne pare?
5 vespina (a parte) (Io
non so ancora dov’ella se l’abbia.)
dorotea Parmi
di veder Brigida; e bene?
brigida Brigida vera
e reale?
dorotea Che dimande
sono queste?
vespina (a parte) (Da pazza.)
10 brigida Quella di prima?
dorotea Quellissima. Voi vi sentite in fregola ne’, figliola mia, e
vorreste un po’ baloccarvi?[141]
brigida Né ritrovate in me alcuna mostruosità?
dorotea Mi par che vo’ siate più bella,
e rubiconda che mai; che Dio vi benedica.[142]
vespina (a parte) (Se non fosse briaca.)
15 brigida E pur me l’ha
trovata testé Michelagnolo.
dorotea Che? è uscito già di prigione?
Me ne consolo, me ne consolo in conscienza mia. Dov’è
egli?
brigida L’ho veduto
io or ora, se pur non era la sua ombra.
dorotea Voi avete, Brigida mia, il cervello pieno zeppo di fantasimi.
vespina (a parte) (E di pazzia.)
20 dorotea E a liberarvene sarebbe a proposito
per trentasette mattine un sciloppo d’erba cacciadiavoli con una certa orazioncina
ch’io dirovvi sopra il cаро.[143]
vespina Insegnatela
anche a me, che siate santa, codesta vostra orazione.
dorotea Ci hai fede mò?
vespina Che sono una
luterina io?[144]
dorotea Basta, te la dirò, ma tenterai
a impararla. Uditela voi ancora, Brigida.
25 brigida Dite pure;
ma sbrigatevi.
dorotea Bada bene.
vespina Son tutta qua.
dorotea Procummanaramingo
andève nosenomina
defrollo de sofritto
monine chenche suppile.[145]
vespina (a parte) (Non par la Sibilla?)
30 dorotea Che ne dì, Vespina?
vespina Uh che orazionaccia indiavolata!
dorotea Non te l’ho detto io, che la
sarà scabrosa per te? E così, Brigida, che v’ha detto in fatti Michelagnolo vostro?
brigida Detto? Mi vide
appena, che quasi veduta avesse la Befana, o la tregenda mi volse le spalle, e fuggissi
n’un baleno strillando come spaventato. Temo perciò di non esser diventata qualche
mostro.[146]
dorotea Io ne resto maravigliata; né valmi qui, s’ho a
dirla, né meno quel po’ di spirito profetico ch’io ho.[147]
35 vespina (a parte) (Oh la profetessa che salta nelle
stoppie.)[148]
dorotea Per altro assicuratevi su la
mia coscienza che sete quella di prima.
brigida Che ho a credere
io mai?
vespina E per questo
sete così sgomentata? Badate, badate a me, che senza tanti spiriti di profezia dirovvi io la faccenda com’è.
brigida Lo sai tu dunque,
e non mi dì nulla?
40 vespina Come avea a dirvelo, se appena qua capitata mi assaliste con cento
interrogatori, perdonatemi, da farnetica, né mi lasciaste dir parola?
brigida Su via dì tosto.
dorotea Sii buona zita: ci vuol carità:
bisognava subito trarla di pena.[149]
vespina Vi direi il
nome delle feste io, mona salamistra santinfizza.[150]
dorotea Ah linguaccia, linguaccia da
forno![151]
45 brigida Vuo’ tu finirla.
vespina Sappiate che
Michelagnolo fu lasciato in libertà dagli Otto con espresso
comando, pena le forche, che non debba accostarsi alla vostra casa, né parlate con
voi, finché non è giudicata la lite.
brigida Che lite ha
egli con chi?
vespina Ora vengono
le buone nuove.
dorotea Ora via consolala un poco.
50 vespina Quell’anima
che voi avete scongiurata, fu messa in ceppi.
brigida Dì tu vero?
vespina Verissimo.
brigida Ringraziato
Iddio, che non mi verrà più a inquietare.
dorotea Vado tosto a far cantare il
Tadeo alle mie discepole.[152]
55 vespina Aspettate che
non v’ho detto il meglio.
dorotea Vedete, Brigida, se quello era
un baroncione, come vi dissi da prima?[153]
brigida Domine fallo tristo.[154]
vespina (a parte)
(Adagio, disse Biagio.) E quell’anima
fu che fece catturare anco Michelagnolo.[155]
brigida Ah ribaldo:
perché?
60 vespina Perché pretende d’esser il vero vostro Manente. C’è Nepo da Galatrona per testimonio,
ch’è quel negromante ch’io vi dissi.
brigida Che ascolto!
dorotea Oh Signor Iddio!
vespina Michelagnolo lo smentisce con certe scritte. Gli Otto stanno
sospesi. La causa è rimessa al principe, e se ne attende a momenti la sentenza.
Andate ora, madonna, a far cantare il Tadeo.
dorotea Se non si canterà adesso, si canterà dopo la sentenza, saccentina.
65 brigida Ahimè, chi
te le ha dette queste cose?
vespina Ser Rampicone
notaio or ora, ch’è tutto mio.[156]
brigida E queste sono
le buone nuove?
vespina Buonissime
dico. Ricuperate pure un marito che piagneste tanto.
brigida Piansi il canchero
che ti divori. Nacqui io pure sfortunata!
Ch’io abbia a riunirmi con quel vecchio?
70 dorotea Vi compatisco, figliola, perché
po’ poi quel Michelagnolo era altra cosa: ve l’ho proposto io. Nonostante
bisogna rimettersi al voler del Cielo. Non piagnete figliola
mia: il caso non è tanto disperato: il diavolo non è sempre così brutto, come si
dipinge. Via, diamo che Manente sia risuscitato; che si abbiano a rompere con Michelagnolo i legami congiugali;
e per questo? non possono restar tuttavia i legami geniali? Non potete amarvi nonostante
l’un l’altro? tener segreta corrispondenza? carteggiare? appostar i vostri congressi, e sollazzarvi? Sono forse massime
nuove queste? Fino i bottegai le sanno, non che i dottori. Fidatevi di Dorotea;
e non dubitate, ch’io non sono mai per mancarvi della mia debole assistenza, e direzione.[157]
brigida Certo che di
tante belle cose ch’io sentiva narrarmi di suo marito dalla comare Pipa, e da tant’altre
ammogliate, vi giuro che con quel vecchio rantacoso io
non ne assaggiai mai stilla, se non dopo ch’io conobbi Michelagnolo:
e averlo così a perdere…[158]
dorotea Vi dico che ci sarà il suo rimedio.
Si tratta della vostra salute; cappita, ci arei carico
di coscienza a non aitarvi.
brigida Voi sola potete
consolarmi.
vespina Un’altra Dorotea
poi così caritatevole non v’è al mondo.
75 brigida Tira via di
qua tu, cianciona, con le tue buone nuove.
vespina Io sperava
d’averne la mancia.
brigida La mancia sarà
un randello d’in sul capo, se non taci.
dorotea Via siate buone: andiamo.
vespina (a parte) (Tutta la sua ira è quel vecchio.)
SCENA QUINTA
Manente.
Infatti
è vero che sovente tal pera mangia il padre che al figliolo allega i denti. Mira,
se quel Nepo se la prese con me da maladetto senno, per non aver potuto raccattarsi con mio padre! Tenermi un anno intero in un
palazzo incantato! Palazzo di vero. Diemeneguardi da tai palazzi. Catapecchie, tombe piuttosto. Egli è però un negromante
discreto, e pietoso. Che s’ei non veniva a rivelare il mistero, io non mettea certo più piede in mia casa. E per questo canto io gliene
so grado; e vo’ farmelo mio particolar avvocato, e protettore. Mandar così senza
che se n’avvedano le persone invisibilio? Lo chiamo far
miracoli io.[159]
SCENA
SESTA
Burchiello
e Manente.
burchiello Sono omai stanco dal cercarti. Mi consolo, caro
amico, che tu sarai tra poco fuor de’ triboli.
manente Che te ne pare eh di quel Nepo? Potea egli farmela più solenne?
burchiello (a parte) (Gran babbocchio!) E tu se’ pur fermo ch’ella sia stata arte di Nepo?[160]
manente E di chi poi?
5 burchiello Di Lorenzo ti dico; e non sono io
solo di questo parere.
manente Tu mi faresti ridere. Che? Son
io nato ieri sera, che non m’accorgessi delle beffe ch’un vuol farmi? Ma dove c’entrano
diavoli, e incantesimi chi può avvedersene? Vedrai, vedrai le maraviglie che se ne farà il Magnifico, quand’e’
venga a risaperlo, e quanto glien’increscerà per mia parte.
burchiello (a parte) (Egli è un lavar carboni con costui.) E Michelagnolo che ne dice?[161]
manente Michelagnolo mi guarda in cagnesco, e sbuffa d’ogni parte. Ma voglia, o non voglia, converragli star alla sentenza.
burchiello Eccolo appunto a questa volta. Scostiamoci
un poco, ch’ei vien tra sé borbottando; e lasciati regger da me.
10 manente Come tu vuoi.
SCENA SETTIMA
Michelagnolo e detti.
michelagnolo Non posso a meno di non passar di questa via; con tutto che dovrei starmene
lontano. Il piede istesso non volendo mi ci porta. Non intesi mai dolore sì acerbo,
come questo d’avermi a distaccar dalla mia cara Brigida. Quanto m’amava ella mai!
quant’io lei! Che piaceri, che dolcezze faceami fruire! Cosa più dolce a’
miei dì non gustai di quella.
manente (a parte) (Ah ghiottone ribaldo.)
burchiello (a parte) (Statti cheto.)
michelagnolo E pur conviene darsi pace. Altri che il
demonio con le sue corna non ci potea entrare a rovinarmi.
E non si ardono vivi codesti stregoni? Se pur non si aspetta che mandino in fumo
la città tutta сol territorio.
5 burchiello (a parte) (Vien pur meco.) Michelagnolo, la
cosa è ormai in termine che ti converrà far di necessità virtù.
manente Buona sera, Michelagnolo. (a parte)
(Mira viso arcigno!)
michelagnolo Tu vedi, Burchiello, lo stato mio. Se colui
è Manente, io sono al lumicino: perduta moglie, sostanze, e tutto.[162]
manente Contentati, che n’hai avuto
il possesso tanto tempo. Tu strigni i denti?
burchiello Non lo aizzare tu. Ad ogni modo io voglio che voi facciate una bella paciona
assieme; che Manente poi è uomo discreto né vorrà in tutto
il tuo danno.
10 michelagnolo Io mi rimetto in te.
manente Che viene a dire?
burchiello Odi, Manente. Comunque ita sia la
faccenda, tu di Michelagnolo non hai che dolerti. Fece
egli ciò che tu medesimo fatto avresti, in simil caso. Tu vedi dall’altro canto
quante perdite ei viene a fare. Non mi sembra ragionevole ch’egli innocentemente
scapiti tutto.
manente Che? ho a lasciargli la moglie
tuttavia?
burchiello Non dico io ciò. Ma di marito che l’era, fallo diventar suo compare.
15 manente Come ciò?
burchiello Sai ch’ella n’è rimasta già gravida.
Il bambino che nascerà, levalo tu alla fonte; e strignete
così tra voi una parentela spirituale.[163]
manente Questo può farsi. Ma non vo’
io già che quel figliolo sia a mio conto.[164]
michelagnolo Né men io lo voglio. Egli è mio sangue,
e sarà mio. E se a Dio piace, cresciuto ch’egli sia, vo’ botarlo
fraticino di Santa Maria Novella, e che si chiami fra’
Succhiello, che fu già un solenne predicatore della mia casa.[165]
burchiello Sia in buon’ora. Oltra di ciò parmi bene che quel po’ di dota che diegli
Brigida, tu gliela lasci di buon grado, ond’ei seguiti
a far bene i fatti suoi con Niccolaio tuo cognato.
20 manente Vedrò che dota ella è.
michelagnolo Non m’ha dato già un regno.
burchiello Basta; le cose si accomoderanno.
SCENA
OTTAVA
Notaio e detti.
notaio Ho piacere
di trovarvi amendue assieme, presente anco Burchiello,
che farà testimonio ch’io v’ho consegnata, e clara voce letta,
spiegata, dichiarata eccetera la sentenza definitiva, precisa, inappellabile del
nostro magnifico principe.
burchiello A’ notai non mancano certo ciarle.
manente Lodato il Cielo, escirò di travagli una volta.
michelagnolo Udiamo per la sentenza.
5 burchiello Leggi, Rampicone.
manente Aspetta, aspetta, ch’io vo’
in ogni modo che sia presente anco mogliema, perché non
ci sia infine da che dire.
burchiello Sta bene: chiamala.
manente Brigida, Brigida. Mi par mill’anni d’abbracciarla. (Picchia alla porta)
SCENA NONA
Brigida,
Dorotea, Vespina e detti.
brigida Ahimè, Dorotea.
manente Ancora dubiti? O moglie mia
sospirata. (l’abbraccia)
brigida Ho a creder
dunque che tu sii il vero Manente?
burchiello Accertati ch’egli è desso.
5 brigida Posso fidarmi,
Michelagnolo?
michelagnolo Puoi sì; purtroppo.
vespina Se ve lo dissi
io.
dorotea Risparmierai, Michelagnolo, le messe dei lunedì per un’altra volta.
michelagnolo Vanne in malora, cacatessa
gabbadei.[166]
10 manente Sei qua eh, pinzochera? Ci riparleremo
poi. Cara la mia Brigida.
dorotea Domine aiutaci. È meglio andarsene a salvummefacche.
O mondo, mondo. (va bel bello
a casa sua)[167]
vespina Mi consolo, padron mio antico.
manente Addio, Vespina.
Vieni, Brigida, odi tu pure la sentenza del nostro Magnifico. Leggi tu.
notaio Noi Lorenzo de’ Medici
signore di Firenze, ec.
Essendosi trovato che maestro Manente creduto già morto,
e sotterrato, è vivo tuttavia, e sano; e volendo noi giusta le leggi della nostra
equità riparare i disordini avvenuti in tutto il tempo che da Nepo negromante da Galatrona egli fu tenuto rinchiuso nel palazzo incantato…
15 brigida Che odo mai!
manente Vedi, Burchiello, se fu opera
di Nepo?
burchiello Non vo’ garrire ora. Segui.[168]
notaio Dichiariamo, sentenziamo,
vogliamo ex quacumque etc. non obstante
etc. prout etc…
manente Tu hai pieno il foglio di cetere,
e di sonagli.[169]
20 notaio Formole sagrosante. Primo, che per tutto il vegnente giorno Michelagnolo debbia aver cavate le robe ch’egli vi portò di casa maestro Manente…
manente Che vi ha portato egli?
michelagnolo Lo vedrai.
notaio Secondo, che la Brigida
con quattro camicie solamente, colla gamurra, colla cioppa se ne vada a stare
a casa del fratello Niccolaio per infino a tanto che ella partorisca.
brigida Quattro camicie sole per quattro mesi?
25 manente Via, ti starai a letto finché
si fa il bucato. Ci sono altre signore, che te, che fanno così.
notaio Terzo, che fatto ch’ella
abbia il bambino, stia in arbitrio di Michelagnolo a torlo,
o no; e non lo volendo, lo possa pigliare il medico…
manente Dicovi
che non vo’ bastardelli per casa io.
notaio Non m’interrompere. Se non, si mandi agl’Innocenti.
brigida Che innocenti, che innocenti?
30 michelagnolo Non dubitare, Brigida, che non vi andrà: lo
vo’ per me.
notaio Quarto, che le spese del parto in tutti i modi vadano addosso a Micbelagnolo…
michelagnolo Questo carico di più?
manente Che? Holla
ingravidata io?
notaio Se voi altercate, non ne
verremo mai a capo. Quinto e ultimo, che il maestro Manente si ritorni a casa
sua a godere col figliuolo; e che dipoi uscita di parto la Bigida
si torni a maestro Manente, ed egli la debba pigliare per buona, e per cara.
Datum
Palatio etc. die etc. anno etc.
In
quorum fidem etc. sigillo nostro etc.[170]
35 burchiello Dalla là, ser Cetera, al maestro,
e vanne pe’ fatti tuoi.
notaio E
la mia fatica?
burchiello Sarà rimeritata. Tira via. Che vi pare di tal sentenza?
michelagnolo (a
parte) (Crudele.)
manente La non può esser più giusta.
Andiamo in casa, Brigida mia, che t’ho a narrare un fascio d’accidenti li più strani del mondo.
40 brigida Quanto ci piangi,
il mio babbo!
vespina (a parte) (Lo dica Michelagnolo.)
manente Ed ora riderai. Mira fardello
che hai fatto tu! Hai caricata, ti so dire, la dose, Michelagnolo.[171]
burchiello Vo’ prima che tu lo abbracci, e che vi riconciliate assieme.
manente Orsù sia pace tra noi.
45 michelagnolo Sia. (s’abbracciano)
manente Sarà tuo compare, Brigida.
brigida L’arò caro,
(a parte) (ma più marito).
manente Vieni pur, Michelagnolo, e tu Burchiello, che ceneremo per questa sera
tuttassieme, e faremo un po’ di baldoria.[172]
vespina Ringraziato
il Cielo! Sono svaniti i fantasimi, e terminò ogni cosa
in lieto fine, toltone quel po’ di rancoretto della padrona
per il vecchio. Voi potete girvene, o spettatori, a vostro agio; e s’evvi piaciuta la novella, datene qualche segno.[173]
FINE
del
Fantasima
Bibliografia
Bibliografia su e di Vincenzo
Rota
Carrer, Luigi, Biografia
degli italiani illustri nelle scienze, lettere ed arti del secolo XVIII e
de’ contemporanei, a cura di Emilio de Tipaldo, Venezia,
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Cicogna, Emanuele Antonio, Saggio di bibliografia
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Fanzago, Francesco, Memorie dell ab. Francesco Fanzago, Padova, Conzatti,
1798.
Ferrari, Giovanni Battista, Vitae virorum illustrium Seminarii Patavini, Typis Seminarii, 1815.
Rota, Vincenzo, La zoccoletta pietosa, Venezia, Occhi, 1743.
______________, La morta viva, Venezia, Occhi 1747.
______________, Il pastor geloso. Favola boschereccia
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______________, Il Lavativo. Racconto burlesco, Venezia, Colombani, 1767.
______________, L’Incendio del Tempio di sant’Antonio, poema in VI canti in ottava rima, Roma, stamperie di s.
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______________, L’arte del disamorarsi tratta
da Ovidio alla moderna gioventù, Parma, Carmignani,
1759.
Postumi:
Rota, Vincenzo, L’Encomio della
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Rota, Padova, tipografia del Seminario, 1818.
______________, La Noce di Ovidio. Versione
in terza rima dell'abate Vincenzo Rota, Padova, Minerva, 1819.
______________, Il Gallo. Dialogo di Luciano tradotto da Vincenzo Rota, Venezia, Tipografia d’Alvisopoli, 1818.
______________, Baccanale, in cui si tratta
che devesi vivere allegramente, Padova, Minerva, attribuito a Rota, ma senza nome dell’autore e senza data.
Salvadé, Anna Maria, Travestimento e contaminazione: le scritture teatrali di Vincenzo Rota
(1703-1785), in Goldoni «avant la
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Scifoni, Felice, Dizionario
biografico universale contenente le notizie più importanti sulla vita e sulle opere
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Vedova, Giuseppe, Biografia
degli scrittori Padovani, Padova, Minerva, 1836, vol. 2.
Altri saggi
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beffa ne «Le Cene» di A. F. Grazzini, in Le
forme del comico. Atti delle sessioni parallele del XXI Congresso dell’ADI
(Associazione degli Italianisti) Firenze, 6-9 settembre 2017 a cura di Francesca
Castellano, Irene Gambacorti, Ilaria Macera, Giulia Tellini,
Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2019 (consultabile on line all’indirizzo
https://www.italianisti.it/pubblicazioni/atti-di-congresso/le-forme-del-comico/21_02_favaro_amaduri.pdf).
Bárberi Squarotti, Giorgio, Struttura e tecnica delle novelle del Grazzini, in «Giornale Storico
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Bruscagli, Riccardo, Un modello bipolare
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Matarrese, Tina, Il Settecento, Bologna, il Mulino, 1993.
Quondam, Amedeo, La vittoria del «Novellino» nella tradizione delle forme narrative brevi, «Carte Romanze» 7/1 (2019), pp. 195-253.
Stäuble, Antonio, Antecedenti boccacciani in alcuni personaggi della commedia rinascimentale,
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Opere citate
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Fanfani, Pietro, Vocabolario della lingua italiana, seconda edizione, Firenze, Le Monnier, 1865.
Grazzini, Antonfrancesco, La prima e la seconda cena. Novelle di Antonfrancesco Grazzini detto il Lasca alle quali si aggiunge
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si dà alla luce; colla vita dell'autore; e con la dichiarazione delle voci più difficili, Londra, appresso
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_______________________, La Pinzochera: comedia d’Antonfrancesco Grazini, academico
fiorentino, detto il Lasca, Venezia, Bernardo Giunti e fratelli, 1582
_______________________, The story of doctor Manente, being the tenth and
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D. H. Lawrence, Firenze, Orioli, 1929.
«Novelle della Repubblica Letteraria per l’anno MDCCIL», n.
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«Novelle letterarie pubblicate
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Lawrence, David Herbert, Phoenix. The Posthumous Papers of D. H. Lawrence, edited and with an introduction
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Vocabolario degli accademici
della Crusca (1612-1738)
Zeno, Apostolo, Lettere di Apostolo Zeno
Cittadino Veneziano Istorico e Poeta cesareo […]. Seconda
edizione, in cui le lettere già stampate si emendano, e molte inedite se ne pubblicano,
6 voll., VI, Venezia, Sansoni, 1785.
Tavola delle abbreviazioni
GDLI = Grande dizionario della lingua italiana,
fondato da Salvatore Battaglia, completato sotto la direzione di Giorgio Barbèri Squarotti, Torino, UTET, 1961-2002, 21 voll. + 2 voll.
di Supplementi (2004-2009).
Grazzini, Le cene
= Antonfrancesco Grazzini (Il Lasca), Le cene, a cura di Riccardo Buscagli, Roma,
Salerno Editrice, 1976 (si cita indicando il numero della cena, della novella e
del paragrafo).
LEI = Lessico etimologico italiano, edito per incarico della Commissione per la filologia romanza
da Max Pfister; [poi] edito per incarico della Commissione
per la filologia romanza da Max Pfister e Wolfgang Schweickard, Wiesbaden, Reichert,
1979- (30 voll. previsti, in corso di pubblicazione).
Rohlfs = Gerhard Rohlfs, Grammatica storica
della lingua italiana e dei suoi dialetti [ed. or. Historische
Grammatik der Italienischen Sprache und ihrer Mundarten, 1949], trad. di Temistocle Franceschi,
Maria Caciagli Fancelli, [Salvatore Persichino], Torino, Einaudi, 1966-1969, 3 voll.
(si cita indicando il numero di paragrafo).
T-B = Niccolò Tommaseo
e Bernardo Bellini, Dizionario della lingua
italiana, Torino, UTET, 1865-1879, 4 voll.
[1]
Lo stampatore non è indicato, ma grazie
alle ricerche di Anna Maria Salvadè (Travestimento e contaminazione, cit., p. 649) è possibile identificarlo con la ditta Agnelli di Lugano, come
si evince da Callisto Calderari, Bibliografia luganese del Settecento, vol.
I, Le edizioni Agnelli di Lugano. Libri, periodici, Bellinzona, Casagrande,
1999, pp. 376-377.
[2] Lettere di Apostolo Zeno
[…], seconda edizione, cit., vol. VI, Venezia, Appresso Francesco Sansoni, 1785, p. 390.
[3] Drammaturgia di Lione Allacci accresciuta e continuata
fino all’anno mdcclv, Venezia, Presso Giambattista Pasquali, 1755, col. 877: «Il Fantasima. Commedia
(in prosa). – in Lugano nella Stamperia
Helvetica. 1748 in 8 – dell’Abate Vincenzo Rota».
[4] Salvadè, Travestimento
e contaminazione, cit., p. 649.
[5] Il motto propriamente
recita: ὁ σοφὸς
εὐθυρρημονήσει.
[6] Lettere di Apostolo Zeno, cit., vol. VI, p. 325.
[7] La più leggiadra […] del mondo: l’autore dichiara in apertura le fonti
dell’inventio della commedia che presenta ai lettori, il cui argomento è
tratto dalla decima novella della terza Cena di Antonfrancesco
Grazzini, detto il Lasca, ricevuta tramite Apostolo Zeno (cfr. qui Introduzione).
Unica resa pubblica fra le novelle che avrebbero dovuto costituire la terza cena,
la decima racconta una «beffa» ordita da Lorenzo vecchio de’ Medici ai danni di
un medico presuntuoso. ♦ Entrommi […] il baco: modo di dire che significa
«mi venne forte desiderio», analogo all’espressione «avere il baco di», che Crusca
IV scioglie con «avere pretensione di»; «avere genio di». ♦ Chi ha
letta la novella, vedrà quello, ch’io giudicai bene ometterne, e quello, che aggiungervi:
l’autore omette il minuzioso racconto dell’ordirsi della beffa, i particolari del
processo e il destino del figlio di Brigida e Michelagnolo;
mentre aggiunge numerose scene di cui protagonista è Dorotea, rappresentante dell’atteggiamento
superstizioso di cui l’autore vuole mettere in luce la gravità. ♦Pregovi solo […] all’udire in bocca della pinzochera sconciatamente
poste parole sacre […] di non iscandolezzarvi:
consapevole delle critiche che avrebbero potuto anche a ragione sollevarsi dagli
ambienti ecclesiastici che ben conosceva, Rota specifica fin da subito che le giaculatorie
e le formule di preghiera latine pronunciate con troppa disinvoltura e con evidenti
errori dalla pinzocchera non sono da considerarsi irriverenti
nei confronti della religione cattolica, ma strumenti per porre in ridicolo chi
impiega formule legate alla liturgia senza comprenderne il senso e stravolgendone
la forma, con il risultato di tradire la propria ignoranza e la propria incompetenza.
♦ schifalpoco: aggettivo nella tradizione cinquecentesca,
solitamente attribuito a monna: donna che simula ostentatamente falsa modestia,
ritrosia, riservatezza. Ma nel Grazzini è attestato
l’intento ingiurioso dell’attributo, qui certamente condiviso da Rota (GDLI, vol. X, p. 811, voce Monna).
♦ specchio dei costumi: giusta la celebre formula tradizionalmente
attribuita a Cicerone (De re publica, IV, 11).
Il libro, come è noto, ci è giunto frammentario e l’attribuzione si trova negli
scritti di Elio Donato che nel Rinascimento accompagnavano un’edizione delle commedie
di Terenzio (De Comoedia et Tragoedia, I, 22).
[8] Non è commedia: il prologo – qui nella forma prolago, regolarmente attestata in Crusca IV
– si apre con l’esplicita presa di distanza del testo rispetto alle commedie sue
contemporanee, in voga a metà del Settecento. A dispetto delle mode, Il fantasima non è né vestito di stracci – con polemico
riferimento alla Commedia dell’Arte – né si pone al livello delle commedie volgari;
né, si vedrà, è soverchiamente addobbato di retorica.
[9] tattere: minuzie, masserizie di poco conto; cianfrusaglie
(cfr. Crusca IV, ad locum). Nel contesto teatrale termine è utilizzato,
probabilmente per traslato, per indicare gli stracci con cui venivano confezionati
alcuni costumi. Nel Tommaseo-Bellini si trova un riferimento al linguaggio comico
di Giovanni Battista Fagiuoli: «Io non ho bruscoli, nè tattere,
l’onor mio è più limpido» (Gl’inganni lodevoli,
III.10), dove «tattera» assume il significato di «Tacca» (Crusca IV), cioè
di difetto, di vizio, di magagna. Dicendo che Il fantasima
non è vestito di tattere, l’autore intende forse qui dire che è privo di quei difetti
che normalmente presenta una commedia comune, ordinaria, di quelle cui il pubblico
è abituato.
[10] Da capo pur a’
piè disaminatela: inizia
con questo invito la lunga metafora continuata, subito volta in prosopopea, intessuta
di malizia, che, invitando gli spettatori ad analizzare la commedia in ogni sua
parte, la paragona ad una giovane donna nubile, con numerosi riferimenti alla sfera
dell’eros e della corporeità. La descrizione dei costumi della commedia-giovane
donna lascia intendere che l’opera non ha orpelli inutili, né ornamenti retorici,
ma la sua vicenda aderisce il più possibile al reale (ovvero ai fatti raccontati
nella novella del Lasca da cui trae origine). La sua veste si chiama infatti «Verità»:
verità nella rappresentazione dei costumi e dei vizi umani. Nell’esclusione di una
retorica elaborata si potrebbe forse riconoscere, per contrasto, un riferimento
all’arte della parola esercitata con estrema perizia dal celebre personaggio di
fra Cipolla, e dunque, per metonimia, un riferimento sia all’orizzonte della novella,
sia a quello della critica alla religiosità bigotta.
[11] Che un fido e rilucente specchio nitido: unico monile che pende dal collo della
Commedia-giovinetta, correlativo oggettivo della funzione della commedia già ricordata
dall’autore.
[12] Una fontana a un tratto ti fa nascere: metafora continuata che indica le lacrime
cui portano le risa.
[13] ecco la Cupola […] finchè
qui sete, vagheggiatela, / che doman non c’è più, ma ritroveretevi / piantato invece il gran Salon di Padova, / o
di Venezia il Campanile: incursione metateatrale con
la quale l’autore rompe per un attimo l’illusione ricordando al pubblico che quello
che vede è una scenografia che cambia con il trascorrere dei giorni e delle rappresentazioni.
[14] Or torno a bomba: modo di dire di origine antica, almeno
latina, che in senso figurato indica l’intenzione del parlante di tornare al punto
di partenza del discorso. Se ne trovano occorrenze nella letteratura rinascimentale
(Pulci, Stanze carnacialesche e Pietro Aretino,
I ragionamenti, viii,
210, Buonarroti il giovane, cfr. GDLI,
voce Bomba; Monica Quartu - Elena Rossi,
Dizionario dei modi di dire, Milano, Hoepli, 2012, voce: Bomba).
[15] L’autor […] questa
favola / vestì alla foggia di quell’aureo secolo, / che le parole eran non più che femmine, e i fatti maschi; e le cose chiamavansi / col nome suo senza veruno scrupolo: il detto popolare che attribuisce al
genere femminile le parole e a quello maschile i fatti si trova in Boccaccio, Decameron, 2.9; 2.10; 5.10 (cfr. Teodolinda
Barolini, Le parole son femmine
e i fatti son maschi: Toward
a Sexual Poetics of the Decameron,
«Studi sul Boccaccio», 21 (1993): 175-197), riferimento che rinsalda il
legame fra la commedia e la tradizione della novella. Al di là dello specifico significato
leggibile nel Decameron, nel particolare contesto del Prologo Rota sposta
l’attenzione dalle differenze fra le attitudini di genere alla questione importante
del rapporto fra parole e cose, tra linguaggio come strumento di rappresentazione
e realtà come materia rappresentata, come esplicitano i versi che immediatamente
seguono la citazione e che trasportano il lettore da un contesto noto improntato
a faceta leggerezza ad una riflessione filosofica sulla portata del linguaggio,
inaspettata quanto straniante nel prologo della commedia.
[16] Per altro ei si protesta e giura d’essere
/ quanto Carlo, e Pipino, Cristianissimo: ironica iperbole attraverso la quale si richiama l’attenzione
sull’appartenenza religiosa dell’autore, accostato nientemeno che a Carlo Magno
e a Pipino il Breve (per l’identità fra autore e colui che pronuncia il prologo,
l’ironia è in realtà autoironia). La necessità della precisazione viene dalla preoccupazione
di Rota di evitare fraintendimenti, come lasciano intendere chiaramente i versi
successivi.
[17] Questo il dice perché,
s’alcun malevolo / volesse giudicar da’ panni il monaco: i messaggi importanti
del prologo sembrano in gran parte affidati alla condivisa sapienza dei proverbi.
Non giudichino l’autore i critici sulla base di una lettura superficiale e letterale
della figura di Dorotea: il testo non intende porre in ridicolo le pratiche religiose,
ma la deriva di tali pratiche verso atteggiamenti superstiziosi.
[18] gl’insegniate a prendere / non per la punta
il ferro, ma pel manico:
le raccomandazioni ai lettori di non proceder a giudizi frettolosi proseguono sempre
sulla scorta della saggezza popolare, che questa volta attinge al lessico del duello
attraverso una forma proverbiale che varia sul più noto Prender qualcosa di punta.
[19] Manente vestito da marinaio: come da consuetudine, uno dei topoi della commedia è la perdita dell’identità originaria
e il travestimento, intenzionale o subìto.
[20] Dov’è la mia toga il mio collare, i miei
batali? Collare:
striscia di panno lino, che si porta dagli uomini attaccata alla
goletta (Crusca IV). Batalo: anche batolo: striscia
di panno attaccata alla toga, che magistrati, avvocati, dottori portavano, pendente
sulla spalla, come segno del loro grado (Aldo
Gabrielli, Grande dizionario italiano, Milano, Hoepli,
2020). Crusca IV, che lo definisce come «Falda del cappuccio, che copriva
le spalle», riporta come esempio un’occorrenza
del termine nel Decameron, dove appare come parte dell’abbigliamento proprio
di un medico.
[21] (a parte) (Gran bietolone!):
persona insulsa e sciocca, semplicione (vocabolario Treccani).
[22] la favola dell’uccellino: con questa espressione, o con l’analoga
canzone dell’uccellino, i
fiorentini intendono una situazione di dialogo nella quale si dubita continuamente
o ci si beffa l’uno dell’altro o si formula sempre la medesima domanda riportando
la discussione al punto di partenza, tanto che non se ne viene mai a capo (cfr.
Le origini della lingua italiana compilate dal s.re Egidio Menagio, gentiluomo francese, Ginevra, Chouët, 1685, p. 19, che per un esempio dell’espressione rinvia al Dialogo di
Messer Benedetto Varchi intitolato l’Ercolano, 1570, trattato pionieristico
nel contesto degli studi sulla lingua italiana).
[23] per uno di quelli
di via de’ Servi: la via fiorentina che unisce piazza Duomo a piazza dell’Annunziata,
dove trovava sede l’Ordine dei Servi di Maria, congregazione religiosa nata a Firenze
nel XIII secolo.
[24] Io che vedeva la fame nell’aria: espressione popolare, ma cfr. Pulci,
Morgante XVIII, 196.
[25] nella coda sta il veleno, dicea colui: ancora una volta il dettato sia affida ad un’espressione popolare, in questo
caso derivata dalla tradizione latina (in cauda venenum).
Riferita letteralmente alla conformazione dello scorpione, che nasconde il proprio
veleno nella coda, è impiegata in senso figurato per indicare l’inaspettato inasprirsi
di un discorso che proprio nelle battute finali voglia rivelare il suo carattere
polemico.
[26] Mogliema: mia moglie, nella forma del possessivo
enclitico. Occorrenze in Boccaccio, poi diffusa prevalentemente nelle zone meridionali
d’Italia.
[27] riavrai e moglie, e casa, e roba: riferimento antifrastico all’elenco di
quanto verrà restituito, insieme alle persecuzioni, a coloro che avranno lasciato
tutto per seguire il Signore (Mc 10,30).
[28] Cacalocchio: interiezione popolare,
esclamazione di stupore. Composto dall’imperativo di cacare e da occhio
(GDLI, vol. II, p. 474).
[29] Che venga il vermocane: imprecazione di origine antica che augura
all’interlocutore un accidente, corrispondente al plautino Dii
te perdant. Il vermocane è appellativo popolare di
una malattia in grado di colpire animali e uomini, che prende il nome dell’anellide
polichete marino Hermodice carunculata, noto anche come verme di fuoco, comune
nel Mediterraneo, errante, carnivoro, con il corpo rivestito di ciuffi di setole
che, penetrando nella pelle, possono infiggere punture dolorose (cfr. Dizionario
della Lingua italiana Treccani, ad locum) ♦dar il lustro a marmi co’ ginocchi:
espressione popolare che, con evidente ironia,
indica e critica la pertinacia del soggetto nell’inginocchiarsi a terra nelle chiese.
Il Vocabolario degli accademici della Crusca, alla voce Lustro riporta
l’espressione «dare il lustro a’
marmi co’ ginocchi» occorrente nel poema eroicomico di Lorenzo Lippi, Il Malmantile
racquistato (Firenze 1688, ma sotto pseudonimo già 1676). Cfr. Crusca
IV, vol. 3, p. 105. ♦ Pinzochere: l’origine del termine sembra provenire dal latino medievale
Pinzocarus affine a Bizochus
(pizzocco è forma originaria di bizzoco, a
-zz si sotiuisce poi il nesso
nasale –nz, sec. XIII), che indicava persona
appartenente, come laico, a un ordine o a una congregazione religiosa e conducente
vita devota di preghiera e carità. Per estensione il termine è passato ad indicare
persona che ostenta una religiosità puramente esteriore, dunque sinonimo di bacchettone,
bigotto (cfr. Dizionario della Lingua italiana Treccani). Il dizionario etimologico
rende ragione anche dell’identità fra pinzochero e bigotto: pinzochero
è colui che «porta abito di religione stando al secolo; così appellato a ragione
dell’abito color bigio, detto in Francia biset»,
che in italiano diventa bizzo (bigio),
poi allungato in bizzocco, che equivale a pizzo,
poi alterato in pizzocco e infine pizzocchero
(Bonomi, Dizionario etimologico
della lingua italiana, ad locum). Il termine pinzochero in contesto
burlesco e nell’orizzonte dei modi di dire popolari occorre già in Decameron
VIII.9.
[30] Conferenza di spirito: espressione che almeno fino al XVIII secolo indica un momento di meditazione
personale e di preghiera le cui illuminazioni sono poi condivise in gruppo e, per
estensione, anche la meditazione predicata da un sacerdote a un pubblico di devoti
(cfr. Giuseppe Maria Prola, Guida a’ Congregati
di Maria, Roma, Bernabò, 1709; Daniello
Bartoli, Della Vita e dell’Istituto
di S. Ignazio Fondatore della Compagnia di Gesù, Roma, Domenico Manelfi, 1650).
Evidente qui l’intento dissacrante dell’autore, tramite il personaggio di Vespina, nei confronti della deriva di una pratica cardine della
spiritualità non solo gesuitica, divenuta col tempo appannaggio indebito di chiunque
voglia ostentare una sorta di confidenza con Dio. La banalità dell’equivoco costruito
dalle battute della serva è la controparte retorica della banalizzazione cui è stato
ridotto l’esercizio di meditazione spirituale, così come rimette in discussione
la profondità della dimensione spirituale anche la battuta di poco successiva.
[31] C’è ben tutta spirito la mia padrona, anzi,
per dirla, spiritata,
con cui ancora Vespina, definendo la propria padrona,
accosta indebitamente lo spirito in quanto contrapposto al corpo al participio spiritata
nel suo significato di ‘sconvolta, fuori di sé’.
[32] ch’è tenuta una Magnificatte,
e un’Alleluia: duplice esempio di storpiatura del lessico liturgico. Il
cantico del Magnificat che fa parte della preghiera dei Vespri e l’acclamazione
Alleluja che introduce la proclamazione della Parola
di Dio sono impiegati qui come metaforizzanti per caratterizzare una donna e, inoltre,
il congiuntivo latino che apre il cantico di Maria è volgarizzato in un’espressione
che vorrebbe avvicinarsi all’italiano ma che in realtà non esiste. ♦ lo so la sua coscienza più del Paternostro: modo di dire che ancora una volta introduce nelle figure del
linguaggio colloquiale (nel caso specifico nella costruzione di un’iperbole) il
lessico evangelico e liturgico.
[33] che avanza a voi più senno, che cresta
all’oche: proverbio popolare
toscano, intessuto di ironia, in prima battuta per la contrapposizione fra l’area
semantica del senno e quella invece legata, sempre nella tradizione popolare, all’oca,
animale cui non vengono attribuite particolari doti di intelligenza; all’opposizione si associa, in seconda battuta, il
paradosso, in quanto, non appena vi si ponga mente, si deve osservare che le oche
non hanno la cresta, la quale dunque non può esser d’avanzo.
[34] in inferno nullasteredentio?
[…] e gli ho detta la requie: storpiature
dal linguaggio ecclesiastico, tratte dall’Officio dei defunti, III.7.
[35] filosomia: popolare per fisionomia, come
registra anche il Tommaseo nel suo dizionario, contrassegnando il lemma come caduto
in disuso. Crusca IV registra una occorrenza del termine nel Granchio,
commedia di Lionardo Salviati (1566), dato che, tra gli
altri, conferma il legame fra la commedia di Rota e il clima culturale del XVI secolo.
[36] Fraveggole: è una forma arcaica (e probabilmente
scorretta) per ‘traveggole’, che compare ad esempio nelle vecchie edizioni
delle Cene del Lasca (cfr. Pietro Fanfani, Vocabolario della lingua italiana, seconda edizione, Firenze, Le Monnier, 1865, s. v.).
[37] Acquietatevi in nome di S. Fermo: la pinzochera sceglie con cura il santo
a cui votarsi. Basandosi non tanto sulle caratteristiche del Santo, quanto, con
ironia dell’autore, sul principio di somiglianza che lega il suo nome alla grazia
richiesta, per ottenere quiete Dorotea invoca san Fermo. ♦ rechiesca:
consueta italianizzazione della preghiera latina.
[38] Vermi, vermi e non
homo: cfr. Salmo 22.7: Dorotea inserisce in un contesto del tutto corporeo, che
ponga davanti agli occhi dell’interlocutrice il presunto avanzato stato di decomposizione
del cadavere del marito, la citazione dal salmo di Davide – ben più complessa nel
suo significato – in cui l’identificazione con i vermi è anche metafora del legame
con la terra, e dunque con il peccato. Si noti ancora una volta la tendenza del
personaggio a frammischiare latino e italiano e a interpretare arbitrariamente
il testo sacro, tanto da tradurre il latino «vermis»,
al singolare, e che l’autore biblico riferisce a sé stesso in senso morale, con
l’italiano «vermi», al plurale e con l’enfasi di una ripetizione che contribuisce
a dare forma all’immagine, tutta materiale, del processo di corruzione della
carne.
[39] poi ci sono de' teolaghi,
che accordano […] non tengo più a memoria cotai
frottole; le so ben per isperienza: Dorotea enuncia qui il principio su cui
basa la propria condotta: noncuranza delle indicazioni e delle regole codificate,
definite qui «frottole» in nome dell’esperienza – approssimativa – di pratiche a suo avviso cristiane.
Nel suo atteggiamento l’autore esemplifica e pone evidentemente in discussione quello
di molti.
[40] E ne nos induca: come di consueto, Dorotea inserisce nel
flusso del discorso citazioni latine, frammischiandole confusamente a parole italiane
[41] né men voi sete farina da cialde no. O
fragilità umana!: detto passato nell’uso popolare che significa
non essere del tutto mondi, immuni da sporcizie (morali in questo caso). La farina
per le cialde deve invece essere pura e bianca più d tutte le altre (Crusca,
alla voce Farina). Crusca riporta
come riferimento letterario il Morgante (XVI, 58) di Pulci.
[42] ci vuol altro per esser sante, che darsi
delle massima culpa nel petto. Non mi badate,
[…] Ch’io lo fo così per uso:
nella involontaria verità dell’enunciato tutta l’ironia dell’autore che si prende
gioco del personaggio della pinzochera, facendole pronunciare una frase il cui contenuto
letterale corrisponde al giudizio dell’autore, e la cui effettiva intenzione, nei
desideri del personaggio, è di ostentare un’umiltà che in realtà mira al plauso.
Massima culpa, come è noto, è espressione che fa parte del Confiteor,
preghiera che si recita durante l’atto penitenziale del rito della santa
Messa, che, in concomitanza con la triplice ripetizione del termine «colpa», prevede
un triplice gesto con cui ogni membro dell’assemblea si batte un pugno sul petto
in segno di autoaccusa. ♦ vi dico da farne
degli Agnusdei: l’Agnus Dei, oltre che incipit di una formula
liturgica appartenente sia al rito della s. Messa, sia alla preghiera del Rosario,
è anche un sacramentale, cioè un oggetto di devozione cui si attribuisce valore
non autonomo, ma in relazione allo stato di grazia dell’anima di colui che lo porta
o ne fa uso. Nello specifico, l’Agnus Dei ha la forma di un ovale
di cera candida, recante sopra una delle facce l’impronta dell’agnello pasquale,
simbolo del Cristo, accovacciato sul libro dell’Apocalisse dai sette sigilli,
e reggente con le zampe un vessillo crociato. Lungo l’orlo dell’ovale corre la scritta
più o meno abbreviata: Ecce agnus Dei, qui tollit
peccata mundi (Giovanni, I, 29). L’altra faccia solitamente porta impressa
l’immagine di uno o più santi, iscrizioni, simboli sacri oppure lo stemma del papa.
In fondo alla faccia dove si trova l’agnello si appone il nome del pontefice regnante,
con la data del pontificato, la quale viene talvolta ripetuta anche nell’altra faccia
(cfr. G. Cast, ad vocem, Enciclopedia
italiana Treccani, 1929). L’evidente
iperbole, che fa della balia una santa tale da poter comparire su una delle facce
di tali medagliette, tradisce naturalmente l’ironia dell’autore nei confronti, probabilmente,
dell’uso che di questi sacramentali veniva fatto. ♦ Grillanda: forma antica e popolare ottenuta per metatesi
da ghirlanda. L’espressione «morir con la grillanda»
significa «morire vergine», che, seguita in questi versi dal commento «poverina»
lascia intendere che Dorotea abbia quantomeno le idee un po’ confuse per esempio
sul significato della verginità in relazione alla santità e, d’altra parte, che
la sua scelta di ritirarsi dal mondo e non aver più mariti non corrisponde ad un
atto di volontà, ma all’accomodarsi ad una situazione effettiva. Crusca nella
lessicografia riporta un esempio letterario dell’impiego dell’espressione
in Il marmantile racquistato, poema eroicomico
composto da Lorenzo Lippi a metà del Seicento ma pubblicato solo nel 1676, poi nel
1750 a Firenze per i tipi di Nestenus e Moücke. Nelle note al Marmantile
si legge infatti: «Morir colla ghirlanda. Significa Morir vergine. A coloro
che muoiono in concetto di vergini, quando si portano al sepolcro, costumasi di porre in testa una ghirlanda di fiori in segno
della loro castità. Qui il poeta scherza, come è solito farsi, quando si discorre
d’una donna impudica, che si dice: Ell’ha giurato di morir
colla ghirlanda: ed è detto ironicamente, e per intendere: Ella vuol portare il
vanto e la corona delle donne impudiche» (2, 861). La nota di commento crea un contesto di riferimento
che getta luce sulla prospettiva anche di Rota nei confronti di figure femminili
simili a Dorotea e alla sua balia. ♦
Io so quel che dico, quando dico torta: detto popolare originato da un verso poetico. Il Biscioni,
infatti, ricostruisce così le origini del detto, che non rimanda ad altro che all’attestazione
rimarcata della consapevolezza del parlante sulla materia di cui tratta: «siccome
noi amiamo molto di parlare con parole alludenti a’ detti
de’ Poeti; quindi è che, volendo noi dire: so quel che dico: si è detto con
quel verso del Berni che include questo sentimento; e quel: quando dico Torta,
non v’ha che fare, ma perché sta accoppiato in quel verso, è divenuto un detto comune»
(la citazione dal Biscioni è riportata in Sebastiano
Paoli, Modi di dire toscani ricercati nella loro origine, Venezia,
Simone Occhi, 1740, CLXXIII, p. 287, che allega riferimenti letterari quali, ancora
una volta, Pulci, Morgante [XVIII, 116 per il primo verso, ma nel canto non
si ritrova l’espressione «quando dico torta», e infatti manca anche il riferimento
al numero dei versi] e Lippi, Il malmantile racquistato,
I, 19). ♦ Diessira: accorpamento in
un’unica parola e contestuale storpiatura dell’espressione latina dies irae, celebre incipit
di una delle cinque sequenze della Messa per i defunti in latino secondo il rito
tridentino, da recitarsi al termine della funzione. È attribuita a Tommaso da Celano
e una versione rivista è presente anche nella Liturgia delle ore. I versi
in rima baciata venivano dapprima cantati secondo la melodia gregoriana; poi furono
materia di numerose opere in musica. All’epoca della stesura della commedia il Dies
irae aveva già conosciuto diverse trasposizioni musicali
che ne avevano certamente aumentato la notorietà fra il pubblico. L’operazione di Dorotea rispecchia la tendenza,
molto diffusa nel popolo, di ripetere le espressioni latine della Messa senza comprenderne
il significato, con il rischio di creare espressioni e immagini prive di corrispettivi
nella realtà, cui tuttavia era facile dare credito.
[43] Non v’è donna che m’andasse più a sangue
di lei: Crusca IV riporta:
«Andare a sangue, vale Piacere, Sentirsi l’uomo inclinato a porre
amore a quello, di che si tratta» e trae esempi di questa espressione dalle commedie
La Trinuzia di Agnolo Firenzuola (1551) e Il donzello di Giovanmaria Cecchi (1585), nonché dalla
traduzione secentesca degli Annali di Tacito (in Opere di Bernardo Davanzati.
Volgarizzamento dell’opere di Cornelio Tacito, Nesti, Firenze, 1637). ♦ Scombuiarmi la moglie: «scombuiare» significa porre in disordine, dissipare. L’esempio riportato
da Crusca III e IV è ancora ripreso dalla traduzione secentesca di
Tacito, questa volta dalla Vita di Giulio Agricola. ♦ Un tranello ordito per uccellarci: il verbo «uccellare», letteralmente «tendere insidie agli
uccelli» per catturarli, giusta Crusca, è impiegato in senso figurato già
nelle novelle del Boccaccio nel significato di «beffare» e «burlare». Con inconsapevole rovesciamento dei termini, Michelagnolo interpreta come una burla la legittima difesa della
propria identità da parte di Manente, il quale, per contro, interpreta come evento
(incomprensibile) la beffa di cui è vittima lungo tutta la commedia. ♦ Una ne pensa il ghiotto, e l’altra il cuoco: variazione con decezione finale
della più canonica forma proverbiale «una ne pensa il ghiotto, e l’altra il tavernaio» riportata in
Crusca IV con il corredo di alcuni esempi, tratti in parte dall’orizzonte
burlesco, come le novelle del Pecorone o la commedia La Clizia, ma
anche da un’opera come la Storia fiorentina di Varchi, profondo conoscitore
del linguaggio popolare e autore di commedie, che così introduce il proverbio: «Ma come
dicono i volgari con quel proverbio plebeo» (15.600). Il
significato è analogo a quello del detto «fare i conti senza l’oste», che sottolinea
la distanza di due modi di pensare indipendenti e spesso contraddittori rispetto
ad una medesima questione.
♦
Ci arò a esser anch’io in
codesta danza: a partire da Crusca
IV il detto proverbiale «essere in danza», o «entrare in danza» assume, oltre al significato letterale di farsi
vedere in scena, quello traslato di «ritrovarsi in qualche affare impacciato»; da
cui l’analogo «Essere in ballo»
(cfr. Crusca I e poi IV alla voce «danza»).
[44] Diacine: variante rara di «diancine». Esclamazione usata in luogo della parola «diavolo»,
solitamente per esprimere meraviglia (Crusca III). ♦ questa faccia, questo sopraciglio, questa fronte, questi occhi sono pur quelli ch’io
m’ebbi sempre: consueto atteggiamento
di colui che nella tradizione burlesca è vittima di un cambio di identità e si meraviglia
di come i suoi amici e parenti non lo riconoscano.
[45] Costaggiù: avverbio di tempo attribuito alla tradizione
toscana e alla lingua letteraria.
[46] Sono io forse fradicio? giusta Crusca
III, ad vocem, «fradicio» o «fracido» significa
putrefatto, corrotto fisicamente, e qui, per traslato e in relazione al contesto,
invecchiato, non prestante. Il termine ben si inserisce nell’orizzonte concettuale
dei dialoghi delle scene precedenti, intessuti di terminologia legata alla putrefazione
della carne.
[47] Graffiasanti: nome composto che significa picchiapetto,
ipocrita (cfr. Crusca IV). Con la stessa immediatezza con cui unisce verbo
e sostantivo (il primo non senza iperbole, il secondo impiegato per metonimia: il
santo per la statua), il termine genera un’efficacissima immagine di facile riconoscimento
per la sua familiarità rispetto all’esperienza quotidiana popolare e descrive l’atteggiamento
di chi compulsivamente tocca le statue dei Santi in segno di (discutibile) devozione.
Anche nelle parole di Manente si riconosce la voce dell’autore, critico nei confronti
del tipo di devozione rappresentato dalla pinzochera.
[48] Siniquitate...: nel contesto della preghiera di intercessione
per i defunti che Dorotea immagina possa richiedere quella che presume essere l’anima
di Manente che vaga per la città, la pinzochera recita un famoso verso del Salmo
penitenziale 130 (129), conosciuto, dal suo incipit nella Vulgata,
come il De prufundis e previsto al termine della
Messa per i defunti. Si tratta del verso 3: «si iniquitates observaveris, Domine»: anche in questo caso l’espressione è storpiata nella impropria fusione di
congiunzione e sostantivo e così depauperata della sua sacralità.
[49] Messe di san Gregorio: prassi diffusa nella Chiesa intorno all’anno
Mille e legata ad un episodio della vita di san Gregorio Magno. Si tratta di trenta
Messe a suffragio dell’anima di un defunto celebrate per trenta giorni consecutivi,
soggette, però, nel tempo, ad interpretazioni non del tutto ortodosse e sconfinanti
nell’automatismo, tanto che il Concilio di Trento inserisce le Messe gregoriane
negli abusi da correggere (cfr. Acta Concilii Tridentini,
t. VIII, p. 743 e 917). Per questa presa di posizione da parte del Concilio, il
riferimento alle messe gregoriane appare nella commedia nella sua funzione, ancora
una volta, di critica nei confronti di pratiche che vorrebbero essere devote, ma
in realtà rispondono a meccanismi legati al calcolo e all’utile, in una dimensione
meramente umana e terrena.
[50] Voglio la fava: secca e volgare risposta alla domanda
«Vuoi le messe di san Gregorio?» che, per decezione, abbassa il discorso dall’orizzonte liturgico a quello
della sessualità più popolare che copre di metafore tratte dal mondo, in questo
caso, vegetale i riferimenti al rapporto fisico e agli organi della riproduzione.
Il desiderio di Manente è meramente corporeo, in netta opposizione rispetto a quello
attribuito da Brigida alla sua anima, opposizione che genera effetto comico e ridicolizzazione delle pratiche devozionali-superstiziose oggetto
di critica lungo tutta la commedia.
[51] Rechiesca, rechiescat
in pace. (facendo croccioni si ritira): ostinata
nel pensare che Manente sia un’anima e dunque incapace di prendere atto della realtà,
Brigida insiste nel voler pregare in suffragio di Manente e si ritira in casa ripetendo
la formula di chiusura della Requiem æternam, sempre parte
della Messa per i Defunti, italianizzandola come di consueto, e accompagnandola
con segni di croce la cui goffa amplificazione è sottolineata dall’autore nella
didascalia.
[52] Lusperpetua, lusperpetua
luceat ei: Brigida chiude la scena sulla scorta di Dorotea, recitando
il verso che precede immediatamente quello pronunciato dalla pinzochera, accorpando
ancora una volta, secondo un uso evidentemente molto diffuso nel sostrato popolare,
il sostantivo e l’aggettivo e sostituendo la x con la più famigliare s.
[53] Anima randaglia: forma rara per «randagia», che vaga ancora
in terra dopo la morte in attesa di una giustizia o di un’espiazione, secondo le
credenze pagane degli antichi rimaste in parte nella tradizione popolare. Anche
questa affermazione testimonia di diffuse convinzioni ben lontane dalla prospettiva
della fede cattolica, probabilmente condivise anche dalle donne che si dicono così
pie. ♦
Picchiapetto…spigolistre: il lessico impiegato da Manente è intriso del giudizio negativo
nei confronti di Dorotea e dell’universo morale – o immorale – che rappresenta.
«picchiapetto», che, come il precedente «graffiasanti»
unisce verbo e sostantivo evocando l’ipocrisia di gesti di pietà volutamente ostentati
o reiterati per abitudine, è qui abbinato a «spigolistro», vale a dire falso profeta,
ingannatore. Crusca IV riporta un’efficace descrizione di questo carattere,
tratta dalle Novelle di Agnolo Firenzuola (1552):
Spigolistro non importa altro
nella sua propria significazione, che una sorta di brigate superstiziose, alle quali
non bastano i vangeli, ma par loro poca la regola di san Benedetto, ed è come a
dire oggi pinzochere, o altri simili nomi dimostranti con gli atti esteriori più,
che con la verità, una professione di santa vita; e però disse il Boccaccio nel
luogo per voi allegato, spigolistre, a cui più pesano le parole, che i fatti, e
più di parer s'ingegnano, che d'esser buone; ma perchè
queste cotali ec. vanno disprezzate della persona, e cercan d'apparire magre, e pallide in faccia, acciocchè ec. la brigata creda, ch'elle
digiunino, queste magre, che non son se non la pelle, o l'osso, come è la fante
nostra, da quel tempo in quà furono chiamate spigolistre.
(Novelle, 6.258).
«Spigolistra» si trova in coppia con «picchiapetto» anche in una
novella del Decamerone: «E certo io starei pur bene, se tu alla moglie d’Ercolano
mi volessi agguagliare, la quale è una vecchia picchiapetto, spigolistra» (V.10)
♦ Ci sono tribunali
anche in Firenze; c’è la giustizia, e soprattutto un Principe […]. A lui, a lui ricorrerò
[…]. Possibile che nemmeno egli mi riconosca più? Ma così travestito ...
non vorrei che mi trattasse da pazzo: Manente
chiude l’atto con una serie di considerazioni involontariamente comiche, che tali
appaiono, infatti, solo agli occhi del lettore, progressivamente divertito dalla
pervicace ingenuità del protagonista. Vittima della beffa ordita da Lorenzo, Manente
si rivolgerà paradossalmente proprio a lui nell’intento di farsi fare giustizia.
[54] Le
prime battute presentano una tendenza al verso: le prime due sono
endecasillabi, la terza un settenario più un endecasillabo.
[55] refrigerio:
il significato è di «alleviamento della sofferenza morale, del dolore, dell’afflizione»,
ma uscito dalla bocca della devota Dorotea il termine indicherà più nello specifico
il «suffragio per un defunto, allo scopo di liberarlo dalle pene del purgatorio»
(GDLI, s. v.).
[56] rovine:
«frastuono, clamore confuso, suono sgradevole e disarmonico» (GDLI, s. v.).
[57] spasimata:
nel senso di ‘sconvolta’ (cfr. GDLI, s. v.: «Stravolto da un profondo turbamento»).
♦ giucassero:
forma arcaica del toscano, attestata, per esempio, in Boccaccio (cfr. Rohlfs, § 131).
♦ cancello: come fanno i piatti
a essere posizionati sopra a un cancello?
Probabilmente indica l’anta che li tiene chiusi nella credenza: un significato che
sembra non avere altre attestazioni. ♦ spanto: «versato» (GDLI, s. v.), come conseguenza della «pentola rovesciata».
♦ né pur dipinta: l’espressione
proverbiale Non ci starei in quella casa neanco dipinto significa «Non mi ci potrei vedere a niun modo, Non ci vorrei neanco l’imagine mia» (T-B, s.
v. Dipinto).
[58] miracolosa pinzochera:
il personaggio di Dorotea corrisponde al tipo della «pinzochera», presa qui di mira
da Rota attraverso la sciocca credulità di Brigida, le velenose battutine a parte di Vespina
e le spazientite invettive di Michelagnolo. Miracolosa ha in questo senso un valore ironico,
a indicare come il popolo ritenga una santa quella che è appena una pinzochera,
che contribuisce, invece di testimoniare la verità, a fomentare l’equivoco stregonesco
di Manente fantasma.
[59] La
battuta, fortemente popolaresca, si ispira a un’ottava del poemetto comico La Bucchereide
di Lorenzo Bellini (1643-1704), uscito postumo nel 1729. Descrivendo le caratteristiche
burlesche della sua musa, Bellini scrive: «E dì s’ella non è una santerella, / e
un dì m’aspetto d’averla a vedere / tutta trinci la cresta, e la gonnella, / sforbicinata dalla devozione / tornare a casa senza ciapperone» (ed. Firenze, Giovan Gaetano Tartini e Santi Franchi, 1729, p. 81). Parafrasando la battuta
di Brigida, Dorotea è tanto santa, che un giorno la si vedrà tornare a casa senza
il cappuccio (cioppa, «mantellina che
si poteva rovesciare a guisa di cappuccio sul capo», GDLI, s. v.) e con la gonna
a pezzi (tutta trinci, cioè «[…] costituita
da tagli […] o orli frastagliati», GDLI,
s. v. Trincio) strappata (sforbicinata, nello specifico «tagliata con forbicine», GDLI, s. v., hapax di Bellini) dai devoti. Evidente l’ironia verso la devozione popolare
per le reliquie, tra le pratiche religiose che Rota sottopone a critica attraverso
il personaggio di Dorotea.
[60] garrire:
«chiacchierare» (GDLI, s. v.), con evidente valore ironico. ♦
concetto: nel senso di ‘senno, intelligenza’.
[61] la sconturbi:
nel senso di «turbare, agitare nell’intimo; mettere in apprensione o a disagio una
persona» (GDLI, s. v., con attestazioni quasi esclusivamente dalla letteratura comica).
Assieme ai neologismi metti confusione
e attizzafoco,
contribuisce a rendere con lingua espressionista l’agitazione di Michelagnolo.
[62] L’espressione
proverbiale Dormire tra due guanciali
significa «stare sul sicuro, senza pensieri» (T-B, s. v. Guanciale).
[63] Fate a vostra posta:
‘fate come avete deciso’.
[64] Bisogna che:
indica la causa necessaria (‘la ragione sarà che’). La battuta è ironica: Dorotea
starà dormendo come al solito.
[65] «Noce di Benevento.
Pianta rinomatissima, dove il volgo credeva che si radunassero i folletti e le streghe»
(T-B, s. v. Noce). Leggendo fra le righe:
più che una santa, il cui spirito in estasi raggiunge il paradiso, Dorotea è una strega, il cui spirito si credeva che raggiungesse
in sogno il luogo del sabba.
[66] Le
formule para-ecclesiastiche di Dorotea, sfruttate per tutta la scena, contribuiscono
a definire il suo carattere di fanatica, ottenendo un sicuro effetto comico. Il
suo fanatismo finisce per consolidare la credenza nel fantasma, nonostante i tentativi
da parte di Michelagnolo di mostrarne l’infondatezza.
♦ bespro:
così nel testo a stampa. La forma attesa è vespro,
ma più che di un refuso sembra trattarsi di un caso di regionalismo, dato che è
attestata la forma brespo
per vespro in veneziano e bèspro a Istria (cfr.
Rohlfs, § 167). Cfr. anche infra, V.7.18, l’uso di botarlo per votarlo.
[67] Dorotea
non manca di chiedere una crazia («moneta
toscana del valore di cinque quattrini, composta di una lega di rame e d’argento»,
dunque «moneta di valore minimo», GDLI, s. v.) per i servigi spirituali che potrebbe fornire, mostrando la sua
vera natura di pinzochera e di opportunista. Da notare la retorica della captatio benevolentiae
nella richiesta di una moneta di poco valore e nell’uso della formula per passaggio, cioè ‘se capita, senza impegno’. Retorica, però, subito smascherata da Michelagnolo nella battuta successiva («quanti inganni!»).
[68] gite:
‘andate’.
[69] tristo:
riferito al presunto fantasma, vale sia «cattivo, malvagio», sia «accorto, furbo»
(T-B, s. v.); ambiguità volutamente lasciata
aperta da Michelagnolo, che crede trattarsi di un inganno.
III.3.18. I nomi delle giovani seguaci di Dorotea,
che non entrano mai in scena, provengono probabilmente dal Decameron. La Niccolosa compare della novella
quinta della nona giornata, seducendo Calandrino per farlo cadere nella beffa organizzata
contro di lui dai faceti Bruno, Buffalmacco e Nello. Alibech
è la ben nota protagonista della decima novella della terza giornata, educata dal
monaco Rustico a pratiche più veniali che religiose. In entrambi i casi si tratta
di racconti incentrati su beffe e inganni, come lo è anche la commedia di Rota.
Da notare che le «discepole» di Dorotea, dedite alla «modestia» e tenute lontane
dai «fiutacupidi», vengono appellate con nomi che non
possono che rievocare due personaggi femminili che hanno invece ben poco di modesto
e di devoto. Un espediente ironico, stavolta più sottile, per prendersi gioco della
devozione fanatica e ipocrita della «pinzochera». ♦ gelosia: indicazione scenica che fa riferimento al «serramento di finestra
che permette di guardare dall’interno senza essere visti dall’esterno, costruito
su telaio fisso o mobile, con stecche inclinate (persiane) o incrociate fittamente
(grata) o anche con lastre traforate di legno o metallo» (GDLI, s. v. Gelosia2).
[70] tintin: «voce colla quale si esprime il suono del campanello» (T-B,
s. v.); onomatopea che sembra avere la
sua prima occorrenza in Dante, Paradiso, X, 143: «tin
tin sonando con sì dolce nota».
[71] fiutacupidi:
«rubacuori, seduttore» (GDLI, s. v.), termine coniato da Pietro Aretino.
♦ Delitta iuventuti: storpiatura
popolaresca del versetto biblico Delicta juventutis meae, et ignorantias meas, ne memineris, («Non ricordarti dei peccati della mia gioventù,
né delle mie trasgressioni», da Salmi, 25 [24], 7). Il latino storpiato è un sicuro
indizio della conoscenza sommaria dei testi sacri che ha Dorotea. ♦ rubrica: ancora un termine proveniente dal
lessico ecclesiastico, che indica, nei libri liturgici, una «norma cerimoniale distinta
per la scrittura rossa dalle formule di frequenza» (GDLI, s. v.). La parodia si
fa pesante: l’attività di Dorotea con le sue allieve viene connotata come un officio
sacro, al pari della messa.
[72] governo:
nel senso di ‘titolo, mansione’.
[73] Camaldoli
era (ed è ancora) la sede di un celebre monastero.
[74] chiocciola:
sarà una rara forma diminutiva (se non una storpiatura della servetta Vespina) di chioccia,
cioè «la gallina, quando cova l’uova, e guida i pulcini»
(T-B, s. v.), a cui è assimilata la figura
di Dorotea con le sue allieve.
[75] Altra
stoccata polemica di Rota nei confronti di una pratica religiosa attraverso il personaggio
di Dorotea, in questo caso la flagellazione corporale per espiare i peccati. Ma
non può non venire il sospetto che questa allusione, se sommata ai nomi parlanti
delle allieve, abbia anche un risvolto ironico più malizioso.
[76] L’imprecazione
con il ricorso a termini che indicano malanni, come fistolo (variante di fistola),
e nello specifico la febbre, come contina, è tipica del teatro comico. La formula «ti venga il
fistolo» (o «la fistola») si riscontra nella Lena di Ariosto (v. 1684) e nell’Idropica di Guarini (III.3.44). «Che le venga la contina!» è nella Mandragora
di Machiavelli (IV.8). ♦ vecchia ipocritona: la formula, indirizzata ancora al personaggio
della pinzochera, è già nella Zoccoletta pietosa di
Rota (Venezia, Simone Occhi, 1748, at. i, sc. i,
p. 11). ♦ machine: nel senso di «pensata
per nuocere altrui e giovare a sé» (T-B, s.
v.).
III.5. Tutta la scena segue da vicino la novella
del Lasca, ripetendo talvolta le espressioni così come sono. Rota affida al dialogo
tra Burchiello e Manente due porzioni del racconto: il rapimento di Manente, rievocato
dal protagonista per analessi, e l’incontro con l’amico Burchiello, successivo alla
sua liberazione.
[77] Cfr.
Grazzini, Le cene, III, 10, 116: «Tu solo, Burchiello, tra tanti amici e parenti
mi hai riconosciuto […]».
[78] Come mai:
‘come avrei potuto’. ♦ voglia di porco salvatico:
cioè a forma di porco selvatico. L’espediente di un segno della pelle che permette
il riconoscimento del protagonista e scioglie l’equivoco è tipico della commedia,
secondo il noto archetipo della cicatrice di Ulisse. Cfr. Grazzini, Le cene, III, 10, 115: «[…] quasi ridendo li prese la mano sinistra,
e mandatoli alquanto in suso la manica della camiciuola,
li venne a vedere rasente il polso una voglia di porco salvatico».
♦ trovare
stiva: «trovare il modo più idoneo per fare o risolvere
qualcosa» (GDLI, s. v. Stiva1, con
attestazioni nel Lasca).
[79] impappaficati:
«che hanno i capi avvolti in un cappuccio» (GDLI, s. v.). Il termine proviene
dalla novella del Lasca, usato appunto per indicare gli sgherri di Lorenzo de’ Medici
mandati a prelevare Manente (cfr. Grazzini,
Le cene, III, 10, 9).
[80] Rota
riscrive attraverso le parole di Manente il racconto in terza persona del Lasca,
mantenendo alcune porzioni di testo (rese qui di seguito in corsivo): «E così avendo
fatto bucare il palco di sopra, gli fece
acconciare una lampanetta,
che dì e notte sempre stava accesa, di maniera che rendeva la stanza alquanto luminosa.
Laonde il medico scorgeva quello che egli mangiava e ciò
che egli faceva, tanto che, per rimeritare in parte coloro che gli facevano quel
comodo, ancora che non sapesse chi egli si fossero, cantava sovente certe canzonette che egli era solito cantare a desco molle in compagnia de’ suoi beoni,
e diceva qualche volta improvviso. E perché egli aveva bella voce e buona pronunzia,
recitava spesso certe stanze di Lorenzo,
che nuovamente erano uscite fuora, chiamate Selve d’Amore […]» (Grazzini, Le cene, III, 10, 63-64). ♦ lampanetta: diminutivo di lampana, cioè «lampada, lucerna» (GDLI, s. v.), hapax del Lasca. ♦
Selve d’Amore: stanze di ottave scritte
da Lorenzo de’ Medici verso al fine del XV secolo.
[81] bendine:
forma toscana arcaica che corrisponde a ‘bandolo’ (cfr. LEI, vol. I/5, p. 775).
[82] Cfr.
Grazzini, Le cene, III, 10, 121: «Io me l’indovinai sempre, perché egli ti avessi
a fare una burla simile, d’allora in qua, che dicendo seco improvviso a Careggi,
tu li facesti quella villania». Careggi è il nome di un quartiere storico di Firenze.
[83] Cfr.
ivi, 122: «Il medico si scusava con dire
che le Muse hanno il campo libero, e che aveva mille ragioni […]». Le Muse hanno il campo libero, cioè i prodotti
dell’ingegno (compresa l’organizzazione di una burla) devono essere liberi, non
possono essere sottoposti a censura.
[84] Cfr.
ivi, 121: «maestro Manente, i prìncipi son prìncipi,
e fanno di così fatte cose spesso a’ nostri pari, quando
vogliamo stare con esso loro a tu per tu» e 120: «non sapete voi ch’egli non comincia
impresa che egli non finisca, e non ha mai fatto disegno che egli non abbia colorito?
E non gli venne mai voglia che e’ non se la cavasse? Egli è il diavolo
l’aver a far con chi sa, può e vuole».
III.5.14. barra:
‘bara’.
[85] Cfr.
Grazzini, Le cene, III, 10, 7: «[…] maestro Manente aveva tanto bevuto nell’osteria
delle Bertucce, che egli si era imbriacato di sorte che egli non si reggeva in piedi
[…]».
[86] III.5.18-19-20.
Le tre battute scorporano una porzione del testo del Lasca (in corsivo le corrispondenze
dirette): «Il medico, cotto non meno dal
sonno che dal vino, sentendosi menar via, pensò di certo che fussero i garzoni dell’oste, o suoi compagni o amici, che lo
conducessero a casa; e così, dormiglioso
ed ebro quanto mai potesse essere un uomo, si lasciava guidare dove a coloro
veniva bene» (ivi, 10). ♦ dormiglioso:
«che comincia a sentire gli effetti del sonno» (GDLI, s. v.).
[87] Cfr.
Grazzini, Le cene, III, 10, 15-17: «[…] contraffacendo la voce del medico chiamò
dalla finestra della corte una sua vicina, dicendo che si sentiva un poco di mala
voglia, e che gli doleva un poco la gola, la quale a bella posta si aveva fasciata
con stoppa e lana sucida. Era allora in Firenze sospetticcio
di peste, e se ne erano scoperte in quei giorni alcune case; […] per il che in vero
quasi tutti i vicini, e tutti dolorosi, pensarono che egli dovesse avere il gavocciolo».
Gavocciolo indica il «bubbone della peste»
(GDLI, s. v.).
[88] Cfr.
ivi, 19: «Il Magnifico disse che gli era bene mettervi chicchessia che lo governasse;
[…] e facessesi dare a messere un servigiale pratico e
sufficiente». Servigiale qui indica l’«inserviente
di un ospedale» (GDLI, s. v.).
[89] Cfr.
ivi, 123: «Ma nella fine, facendosi tardi, chiese parere e consiglio con esso loro
maestro Manente, in che modo si avesse a governare di questa involtura […]».
[90] agli Otto:
gli Otto di Guardia e Balia, magistratura dell’antica Firenze che si occupava di
giustizia criminale.
[91] sdilinquita
e cascatoia: endiadi di due sinonimi che
significano ‘illanguidita, svenevole’. ♦ squarquoia: «decrepita, rincitrullita dagli anni» (GDLI, s. v.). ♦ pissi pissi: voce onomatopeica che significa
qui «parlottio continuo, insistente» (GDLI,
s. v.), riferito probabilmente alle preghiere
di Dorotea. ♦ gli occhi in molle … in
lite: la bizzarra formula proviene dal Malmantile
racquistato di Lorenzo Lippi, II, 9, 7-8: «Tenendo gli occhi in molle e il collo
a vite, / e le nocca col petto sempre in lite». Secondo le note di Paolo Minucci,
le tre azioni significano «lagrimando», tenendo il «collo torto, come fanno i bacchettoni»,
e «dandosi delle pugna nel petto»; insomma, «intende che costui stava sempre orando, e descrive assai bene un ipocrito o devoto in apparenza, e falso» (Il Malmantile
racquistato di Perlone Zipoli, colle note di Puccio Lamoni
e d’altri, Firenze, Michele Nestenus e Francesco Moücke, 1731, p.
142).
[92] strolagare:
«esercitare l’astrologia» (GDLI, s. v. Strologare).
[93] portapolli:
«ruffiano» (GDLI, s. v.).
[94] menar come un bufalo:
«burlarlo, fargli fare quello che si vuole» (GDLI, s. v. Bufalo; espressione che torna in Goldoni).
♦ far cortesie: esercitare la prostituzione.
[95] ‘della mia cortesia me ne occupo io; non è minore di quella
delle nobili signore di Firenze’.
[96] Ripreso
a esercitare il mestiere di medico, Manente si dedica a un amico di Burchiello,
che gli chiede consiglio. L’occasione serve a Rota per sottoporre a critica i medici,
che spesso etichettano come «male maligno» cioè che non riescono a diagnosticare.
[97] dell’opera tua:
di medico.
[98] ciò che si pescano:
«Non sa quel ch’e’
si peschi, Non sa quel ch’e’ si faccia» (T-B, s. v. Pescare). ♦ sportula: «parcella spettante a un professionista»
(GDLI, s. v.). ♦ spillare la vena
al malato: critica la pratica diffusa dei salassi. ♦ st: suono onomatopeico che richiama al silenzio
su quanto detto.
[99] Ipocrasso:
forma storpiata di Ippocrate (che indica, per metonimia, le sue opere mediche),
presa da Boccaccio, Decameron, VIII, 9, 38.
[100] raccapezzava: ‘trovavo’. ♦ pizzicagnoli:
espressione comica per alludere «alla destinazione di testi letterari di scarso
valore (per avvolgere merci di pizzicheria)» (GDLI, s. v.). ♦ requiescarpe: Antonio
Maria Biscioni, nelle note al Malmantile racquistato,
rileva che «è uno storpiamento del latino Requiescat [dalla preghiera cristiana per i defunti], fatto dalla plebe, non già
per derisione delle cose sacre, ma per un certo suo modo di formare equivoci sopra
tali parole latine» (Il Malmantile racquistato,
cit., p. 160). Paolo Minucci nota invece che «possa aver origine dalla diligenza
che si pone nel fare che i morti, quando son portati alla sepoltura, abbiano, se
son uomini, un par di scarpe nuove» (ibidem).
[101] infradiciato:
«marcito, imputridito» (GDLI, s. v.).
[102] arammela:
‘me l’avrà’.
[103] sto su le mode:
propriamente significa «tenersi aggiornato sulle novità» (GDLI, s. v. Moda); nel discorso
di Manente vorrà dire ‘mi adeguo a quello che succede’.
[104] bel bello:
«dell’andare […] che non sia rapido e forte» (T-B, s. v.).
[105] Osmedio:
esclamazione che indica stupore sotto forma di invocazione. Non ho trovato altre
attestazioni.
[106] III.11.16-17.
Dorotea traduce sommariamente l’avvio del salmo 91 (90): «Qui habitat in adiutorio
Altissimi, in protectione Dei caeli
commorabitur», che significa propriamente: «Chi sta sotto
la protezione dell’Altissimo e dimora all’ombra dell’Onnipotente», alludendo al
fatto che le anime dei defunti se ne stanno in paradiso. Brigida completa quasi
in antifona il versetto, facendo notare che Manente sembra piuttosto uno spirito
che dimora nell’inferno, richiamando Isaia,
38, 10: «Vadam ad portas inferi».
Si tratta comunque di un’espressione popolare, che significa propriamente: ‘vada
all’inferno’ (cfr. GDLI, s. v. Andare).
[107] culifessa:
il termine compare in un sonetto del Lasca, Più
tosto in alto mar tra duri scogli, v. 9: «Le Muse spigolistre e culifesse». Lo stampatore Francesco Moücke
annota: «è posto qui come sinonimo di […] lezioso
e attoso, e
che faccia molti bisbigliamenti e pissi pissi; i quali si sogliono accompagnare,
particolarmente dalle donne pinzochere, con quei lezi e atti della persona, con
cui par loro poter ad altri persuadere la loro verità; parendo in verità, che siano
tutte quante dirotte dalla collottola fino alle parti deretane» (Rime di Anton Francesco Grazzini, detto il Lasca,
Firenze, Francesco Moücke, 1741, vol. I, p. 308). ♦
bizzocaccia:
dispregiativo di bizzocco,
«bacchettone, ipocrita» (GDLI, s. v.), derivato da pinzochero e attestato in Burchiello. ♦ non frusta più certo i mattoni: il termine frustamattoni compare nel Malmantile racquistato,
I, 67, 2, e secondo Paolo Minucci indica «quelli che giornalmente vanno in una casa
o bottega, e non vi spendono mai un soldo, o non vi portano utile alcuno […]; perché
non son d’altro giovamento che frustare,
cioè spazzare, e ripulire colle scarpe i mattoni,
i quali son quelle lastre, fatte di terra cotta, colle quali si lastricano i pavimenti
delle stanze» (Il Malmantile racquistato,
cit., p. 100).
[108] non do più né imbus, né imbas:
l’espressione, chiara storpiatura di termini latini, compare nella Fiera di Buonarroti il Giovane, di cui scrive
Anton Maria Salvini: «viene a tacciarsi la maniera di quei notai, che riempiono
i contratti di parole di simile desinenza, e le ripetono più volte, scrivendole
con abbreviature di lunghi tratteggi di penne» (La Fiera, commedia di Michelagnolo Buonarruoti il Giovane, e La Tancia,
commedia rusticale del medesimo, coll’Annotazioni dell’abate Anton Maria Salvini,
Firenze, Tartini e Franchi, 1726, p. 379). La battuta
di Manente significherà: ‘non capisco più nulla, sono confuso’.
[109] Badia, contrada delle prigioni in Firenze [nota dell’autore].
[110] Cfr.
Grazzini, Le cene, III, 10, 155: «[…] era grande della persona e ben fatto, di
carnagione tanto ulivigna che pendeva in bruno, aveva il capo calvo, il viso affilato
e macilente, la barba bruna e lunga per infino
al petto, e vestito di rozzi e stravaganti panni […]». Ulivigna vale ‘olivastra’.
[111] travedere:
«vedere una cosa per un’altra» (T-B, s. v.).
[112] disciolto:
«slegato, messo in libertà, libero» (GDLI,
s. v.).
[113] artieri:
«artigiani» (GDLI, s. v.).
[114] Il
giudizio temerario è «quello che la nostra mente forma senza ragione sulla vita
altrui» (T-B, s. v. Temerario). Si tratta
comunque di un concetto tradizionale della teologia (iudicium temerarium), come era prevedibile in una
battuta del personaggio di Dorotea.
[115] benedizioni:
si tratta ironicamente di compensi materiali, soprattutto vivande; Benedicite indica infatti la «preghiera che
fanno segnatamente i religiosi prima di mettersi a mensa; che le vivande nell’atto
del cibarsene siano da Dio benedette» (T-B, s.
v.).
[116] Alle
mansioni poco ordinarie (e poco cristiane) di cui Dorotea si è detta esperta (sogni, auguri, pronostici, ricette), ora si aggiunge anche il ruolo
di sensale, se non di ruffiana.
[117] tabacchina:
«sensale di matrimoni» (GDLI, s. v.). Gli insulti di Vespina riprendono nello specifico le mansioni non ordinarie
elencate da Dorotea. Ma si tratta anche di battute non nuove nella commedia per
denigrare personaggi simili; cfr. ad esempio Il Viluppo di Girolamo Parabosco: «Ah vecchia
porca, tu volevi adunque far diventare la mia padrona una femina
del peccato […]» (ed. Venezia, Gabriel Giolito de’ Ferrari, 1547, c. 44r). ♦ gaglioffa: «furfante, ribalda,
briccona (ed è spesso usato come ingiuria)»
(GDLI, s. v.). ♦ diavolesimi: «diavolerie» (GDLI, s. v.), con unica altra
attestazione nella Bucchereide di Lorenzo Lippi (ed. cit., p. 17).
[118] giuntatore:
«imbroglione, truffatore» (GDLI, s. v.).
[119] IV.7.12-16.
Le dichiarazioni giurate di coloro che hanno partecipato alla burla sono un piccolo
gioiello di realismo burocratico e al tempo stesso occasione di caricatura lessicale.
In particolare, Rota si diverte a creare nomi parlanti riguardo al mestiere che
ognuno esercita. Per i medici, si nota un contrasto tra i nomi di leggendari medici
dell’antica Grecia, Macaone ed Esculapio, e i cognomi, che indicano, rispettivamente,
una malattia venerea (gonorrea) e il bubbone
della peste (tincone). Dello speziale
è suggerita la disonestà attraverso il cognome (gabba, cioè «inganno, beffa», GDLI,
s. v.) e il luogo di lavoro (bugia significa sia ‘candela’, sia ‘menzogna’).
I becchini hanno cognomi abbastanza facili da identificare in base al loro lavoro,
come Fossa e Camiciotta («corto camice da lavoro»,
GDLI, s. v.). Un gioco di contrasti coinvolge il sagrestano, che porta il
nome di un celebre retore e teologo antico, Procopio di Gaza, e il cognome che allude
invece alla malavita (Saccagnella,
o da saccagnare,
«picchiare, malmenare», o da saccagno, «coltello», GDLI,
s. v.).
[120] Dar della fune
e collare sono termini che indicano la
tortura mediante la corda per ottenere una confessione: legate la mani dietro alla schiena con una fune, l’imputato veniva con
essa sollevato da terra e fatto cadere nel vuoto più volte. Si ricorderà la dura
descrizione della pratica giudiziaria che ne dà Manzoni nella Storia della colonna infame, ma forse non
è noto che nell’esemplare delle Cene del
Lasca appartenuto allo scrittore proprio il passo che allude alla pena minacciata
a Manente (III, 10, 130: «cominciarono a minacciare aspramente di volergli dare
della fune») è sottolineato e segnalato con un «nota bene» (cfr. La prima e la seconda cena. Novelle di Antonfrancesco Grazzini detto il Lasca, alle quali si aggiunge
una novella che ci resta della terza cena, Milano, Società Tipografica de’ Classici
Italiani, 1810, p. 426, esemplare conservato presso la biblioteca di Villa Manzoni
a Brusuglio, collocazione MANZ.BRU. A.07. 200; riproduzione consultabile nel portale
digitale Manzoni Online, url: https://www.alessandromanzoni.org/biblioteca/esemplari/9950
[u. c. 09/09/2022]).
[121] La
supplica disperata di Manente ha sicuramente una funzione teatrale precisa, quella
di creare tensione prima dello scioglimento nella scena successiva. Ma non si può
non apprezzare la forza delle parole che esprimono la protesta di innocenza e la
perplessità per tutto il male ricevuto, soprattutto considerando che la pratica
della tortura era ancora diffusa al tempo e che doveva passare ancora un quindicennio
prima che Beccaria pubblicasse il Dei delitti
e delle pene. In particolare la domanda finale, «mi si aranno
di più a slogare l’ossa per non poter dire ciò ch’io non
posso sapere?», sembra elevare per un attimo il personaggio comico e meschino di
Manente a una condizione universale che trascende i limiti della burla e della presa
in giro previsti da Rota.
[122] Per
le battute di Nepo, Rota si serve ancora una volta di
porzioni di testo prelevate direttamente dalla novella del Lasca.
[123] Cfr.
Grazzini, Le cene, III, 10, 154: «Discostatevi, discostatevi, uomini da bene,
fatemi largo, ch’io vengo per favellare al vicario, e per iscoprire
la verità».
[124] Riprende
il proverbiale monito evangelico: «Attendite a falsis prophetis» (Matteo, 7, 15).
[125] Cfr.
Grazzini, Le cene, III, 10, 156: «Acciocché la verità, come piace a Dio, sia manifesta
a tutti, sappiate come maestro Manente costì non morì mai; e tutto quello gli è
intervenuto, è stato per arte magica, per virtù diabolica e per opra mia, che sono Nepo di Galatrona […]».
[126] Cfr.
ivi, 156-158: «[…] sono Nepo di Galatrona,
il quale fo fare alle demonia ciò che mi pare e piace.
E così io fui quello che lo feci, mentre ch’egli dormiva in San Martino, portar
dai diavoli in un palazzo incantato; e nel modo appunto che da lui avete udito,
lo tenni per infino che una mattina in sul far del giorno lo feci lasciare nei boschi
di Vernia; avendo fatto a uno spirito folletto pigliare
un corpo aereo simile al suo, e fingere che fusse maestro
Manente ammalato di peste; e finalmente mortosi, fu invece di lui sotterrato; onde
di poi ne nacquero tutti quanti degli accidenti che voi vi sapete».
[127] Cfr.
ibidem: «Tutte queste cose ho fatte fare
io, per far questa burla e questo scorno a maestro Manente, in vendetta d’una ingiuria
ricevuta già nella Pieve a San Stefano da suo padre, non avendo potuto mai valermene
seco per cagione d’un breve, il quale egli portava sempre addosso, in cui era scritta
l’orazione di san Cipriano». Da notare il cambiamento nella trama fatto da Rota,
che sostituisce la scusa di un amuleto tra il sacro e il superstizioso con una scusa
più immediata, cioè la morte. ♦ morissi:
‘si morì’.
[128] Cfr.
ibidem: «E perché voi conosciate che le
mie parole sono verissime, andate ora a scoprire l’avello dove fu sotterrato colui
che fu creduto il medico; e se voi non vedete segni manifesti della verità di quel
che io v’ho favellato, tenetemi per un bugiardo e per un giuntatore, e fatemi mozzare
il capo».
[129] Me n’addiedi:
‘me ne accorsi’ (voce del verbo addare).
[130] infocolato:
«eccitato, irritato, turbato» (GDLI, s. v.). Lo scambio di battute mordaci tra
Manente e Michelagnolo è sviluppato da Rota a partire
da un breve accenno del Lasca: «infocolati e adirati,
si erano dette villanie da cani» (Grazzini,
Le cene, III, 10, 144). ♦ hai finito il bel tempo: espressione popolare
che si può rendere con ‘la tua buona sorte è finita’. ♦ ne’: forma contratta
e popolare per ‘non è vero?’.
[131] come monna:
espressione popolare che significa «ubriaco fradicio» (GDLI, s. v. Monna, con il significato di «scimmia»).
[132] Della colpa
… i figlioli: proverbio di origine biblica
(cfr. Esodo, 20, 5; Levitico, 26, 39; Isaia, 14, 21).
[133] Cfr.
Grazzini, Le cene, III, 10, 162-163: «[…] il
sopradetto sagrestano, attaccatovi l’uncino, tirò su la lapida, e in
presenza di più di mille persone scoperchiò l’avello; onde quel colombo, che aveva
nome Carbone, sendo stato parecchi ore al buio e senza
beccare, veduto il lume, ’n un tratto, volando, prese il volo allo in su, e si uscì
della sepoltura; e visibilmente poggiando in verso il cielo, andò tanto alto, che
egli scoperse Careggi, e docciando poi si difilò a quella volta, dove fu in meno
d’un ottavo d’ora: della qual cosa ebbero i circostanti tanta meraviglia e tanto
spavento, che ciascuno, gridando: – Gesù, misericordia –, correva e non sapeva dove.
Il sagrestano per la paura cadde all’indietro, e tiròsse
la lapida addosso, che tutta gl’infranse una coscia, della quale stette poi molti
giorni e settimane impacciato». ♦ docciando:
nel senso di «scendere, calare in basso» (GDLI,
s. v.). ♦ a romore: ‘in scompiglio’.
[134] IV.9.10-11.
Cfr. ibidem: «Chi diceva che n’era uscito
uno spirito, e in forma di scoiattolo, ma che egli aveva l’alie;
e chi un serpente, e che gli aveva gittato fuoco; altri
volevano che fosse stato un demonio convertito in pipistrello; ma la maggior parte
affermava essere stato un diavolino; ed eravi chi diceva
d’averli veduto la cornicina e i piè d’oca». Le cornicina (diminutivo di corna) e il
piè d’oca sono gli attributi popolari
del diavolo.
[135] L’espressione
proviene ancora dal Lasca, che l’attribuisce al popolo che osserva l’entrata in
scena di Nepo: «[…] mezzo mezzo
impauritine, non si arrischiavano a guardarlo fiso in volto, dubitando colla maggior
parte un altro Simon Mago o un nuovo Malagigi» (ivi, 160).
Nepo viene dal popolo accostato a Simon Mago, il quale,
secondo il testo evangelico, «già da tempo esercitava nella città le arti magiche
e faceva stupire la gente di Samaria, spacciandosi per un personaggio importante.
Tutti, dal più piccolo al più grande, gli davano ascolto […]. E gli davano ascolto,
perché già da molto tempo li aveva incantati con le sue arti magiche» (Atti, 8, 9-11).
[136] Cfr.
ivi, 135: «[…] li pareva fusse bene scriverne al Magnifico,
che si trovava al Poggio, e rimetterla in lui, per lo essere querela tanto intricata,
e malagevole a darvi sentenzia sopra che buona fusse.
Piacque a tutti quanti sommamente questo suo parere, dicendo che, oltre l’averne
egli piacere grandissimo, e’
serà appunto giudice ottimo di sí
fatte cause».
[137] Cfr.
ivi, 136: «[…] comandarono loro che niuno
fusse ardito d’appressarsi a cento braccia nella via de’
Fossi, né di favellare alla Brigida sotto pena delle forche, infino a tanto che
la lite non fusse giudicata, la quale avevano rimessa
nel Magnifico […]».
[138] l’hanno pure ingozzata:
‘ci sono cascati, se la sono bevuta’. ♦ ciondoloni: qui nel senso di ‘coloro che si fanno ingannare, abbindolare’
(cfr. T-B, s. v.: «persona dappoco per
lentezza di moti e di pensieri e di volontà»). ♦ Martino d’Amelia: uno sciocco, secondo un modo di dire popolare. Il
riferimento di Rota è forse La Calandra
del Bibbiena, commedia celebre del Cinquecento, in cui vengono accostati per la
loro stupidità e credulità Martino da Amelia, appunto, e un certo Giovanni Manente
(personaggio che compare già in alcuni componimenti burleschi dell’Aretino), nome
che non può non richiamare il protagonista della vicenda del Fantasima: «come il vulgo usa dire, se mangiasse
fieno sarebbe un bue: perché poco meglio è che Martino da Amelia o Giovan Manente»
(La Calandra.
Commedia elegantissima per messer Bernardo Dovizi da Bibbiena, a cura di Giorgio Padoan, Padova, Antenore, 1985, p. 79). Cfr. anche il
prologo alla commedia attribuito a Castiglione: «[…] Martino da Amelia (el quale crede la stella diana essere suo moglie […]». (ivi,
p. 61).
[139] millanta
mille: «mille volte mille, un
milione (per lo più con valore iperbolico, per indicare una cifra indeterminata
ed eccezionalmente elevata)» (GDLI, s. v. Millantamila;
prime attestazioni in Aretino).
[140] Sogno? vaneggio?:
riecheggia una battuta della Merope (1713)
di Scipione Maffei, IV.7.18: «Dove, dove son io? sogno? vaneggio?».
[141] fregola:
«voglia grande […]. Diciamo Andare in fregola de’ gatti, quando sono
in amore» (nota di Paolo Minucci, in Il Malmantile
racquistato, cit., p. 39). Dorotea pensa che Brigida sia in confusione d’amore
perché pronta già a prendere marito, e dunque voglia divertirsi con qualche scherzo
per svagarsi (baloccarsi).
[142] rubiconda:
‘rossa in volto’. Dorotea pensa perché innamorata, mentre
Brigida è solo confusa e agitata per il comportamento di Michelagnolo.
[143] un sciloppo d’erba cacciadiavoli: uno sciroppo di iperico, erba comunemente nota come cacciadiavoli.
[144] luterina:
‘seguace di Lutero, protestante’. Il termine sembra non avere altre attestazioni.
[145] L’«orazioncina» di Dorotea è un nonsense composto di evidente tracce comiche (defrollo e sofritto
appartengono, per esempio, al lessico culinario), che possono ricordare alcuni sonetti
del Burchiello. Sembra dunque più una formula magica da strega, se non un’affabulazione
da ciarlatana, che una preghiera devota, come nota Vespina
subito dopo.
[146] tregenda:
«convegno notturno di diavoli, streghe e altri spiriti», quindi per estensione «i
diavoli, le streghe, gli spiriti stessi riuniti» (GDLI, s. v.).
[147] valmi:
‘mi vale, mi basta’.
[148] salta nelle stoppie:
se le stoppie sono i gambi secchi rimasti
nei campi dopo la mietitura, saltarvi sopra significherà mettersi in difficoltà.
[149] zita:
«giovane donna, ragazza», ma anche «donna nubile» (GDLI, s. v.), a ribadire l’ambiguo
ruolo di sensale che Dorotea cerca di ritagliarsi, anche con la servetta.
[150] I
termini burleschi usati per offendere Dorotea provengono ancora una volta dal Malmantile racquistato. Secondo l’annotatore
Paolo Minucci, salamistra
significa letteralmente «maestra di sala»,
ma viene usato popolarmente per «una donna
saccente, dottoressa, affannona, e simili;
e per derisione diciamo madonna salmistra»
(Il Malmantile racquistato, cit., p. 268),
proprio come fa Vespina. Per santinfizza,
invece, «s’intendono certi torcicolli,
che stanno tutto il giorno davanti a una immagine d’un santo, perché si creda, che
essi facciano orazione», cioè degli ipocriti e falsi devoti (ivi, p. 563).
[151] Linguaccia significa
ovviamente «malalingua, maldicente» (T-B, s.
v.), ma la variante linguaccia da forno
sembra provenire dalla commedia Il don Pilone
(1711) di Girolamo Gigli, un adattamento in italiano del Tartuffe di Molière, nella battuta che la vecchia Pernella
rivolge alla servetta Dorina Zitella (cfr. sopra, IV.4.42): «Ah linguaccia da spazzare
un forno» (Il don Pilone, ovvero Il Bacchettone
falso. Commedia tratta nuovamente dal franzese da Girolamo
Gigli, Lucca, Marescandoli, 1711, p. 4).
[152] Ancora
una storpiatura del latino ecclesiastico per Dorotea: Tedeo sta per Te Deum, inno cristiano
di ringraziamento e di gioia.
[153] Baroncione:
peggiorativo di barone nel senso di uomo
disonesto e abile nella truffa (T-B, s. v.).
Il termine compare anch’esso nel Don Pilone
di Gigli, in una battuta di Dorina (ed. cit., p. 25).
[154] Domine:
‘oh Signore’, ancora un’invocazione latina dal repertorio ecclesiastico.
[155] Adagio, disse Biagio:
modo di dire popolare che compare nel Malmantile
racquistato, con una lunga nota di Paolo Minucci che tenta di spiegarne l’origine:
o «per causa della rima e del bisticcio», o per una storiella popolare che coinvolge
un contadino di nome Biagio che si trovò a gridare: «Adagio, adagio!» (Il Malmantile racquistato, cit., p. 617).
[156] Rampicone
significa propriamente «ferro grande uncinato» (T-B, s. v.): attribuito come nome al notaio, finora indicato in forma anonima,
alluderà alla sua rapacità e avidità. Cfr. a proposito V.9.36, dove il notaio, appena
concluso il suo compito, chiede subito: «E la mia fatica?».
[157] legami geniali:
se i legami coniugali sono quelli contratti
con la stipula del matrimonio, i legami geniali
sono quelli più pratici legati alla condivisione del letto matrimoniale. In poche
parole, Dorotea, da sensale e ruffiana qual è, suggerisce che Manente sarà marito
di Brigida sulla carta, ma Michelagnolo lo sarà nella
pratica, come amante.
[158] comare Pipa:
non può non richiamare alla mente i Ragionamenti
di Pietro Aretino, in particolare la seconda parte, in cui la Nanna e la Pippa,
appunto, discutono di prostituzione, di tradimenti e di ruffianeria. ♦ vecchio rantacoso:
espressione ingiuriosa diffusa in letteratura, a designare di solito un vecchio
ormai inadatto alla vita coniugale. ♦ non
ne assaggiai mai stilla: ‘non ne toccai mai neanche un pezzetto’, con evidente
allusione oscena.
[159] tal pera … i denti:
«proverbio che vale che de’ disordini e degli errori del padre ne tocca a far la
penitenza il più delle volte a’ figliuoli» (T-B, s. v. Allegare). Cfr. Grazzini, Le cene, III, 10, 177: «Maestro Manente credendosi veramente che la
cosa fussi passata come aveva raccontato Nepo, trovandosi a ragionamento, diceva spesso: – Tal pera mangia
il padre, che al figliuolo allega i denti – . Il qual detto,
riducendosi poi in proverbio, è durato per infino a’ tempi
nostri […]». ♦ da maladetto senno: «tremendamente» (GDLI, s. v. Senno). ♦
raccattarsi: forse nel senso di ‘ritrovarsi
e dunque risolvere la faccenda tra di loro’. ♦ gliene so grado: ‘gliene sono grato’ (sapere grado a qualcuno significa «attribuirgliene merito, dimostrarglisi
grato, esprimergli riconoscenza», GDLI,
s. v. Grado2).
[160] babbocchio:
‘babbeo, scioccone’.
[161] lavar carboni:
‘perdere tempo, fare un’azione inutile’.
[162] sono al lumicino:
«vuol dire essere in estremo di vita,
e viene dall’uso, che è nello spedale di S. Maria Nuova di mettere un piccolo lume
a un crocifisso al letto di coloro che sono agonizzanti» (nota di Paolo Minucci,
in Il Malmantile racquistato, cit., p.
533).
[163] levalo tu alla fonte:
‘fagli da padrino nel battesimo’.
[164] sia a mio conto:
‘io debba mantenerlo’.
[165] Cfr.
Grazzini, Le cene, III, 10, 178: «[…] fu poscia da Michelagnolo
preso e allevato per infino in dieci anni, e doppo, mortogli
suo padre, fu fatto da i suoi fraticino
in Santa Maria Novella; e col tempo venne molto litterato,
e diventò un solenne predicatore; e per gli suoi arguti motti e dolci piacevolezze
fu chiamato dalla gente fra’ Succhiello». ♦ botarlo: variante toscana di votarlo (cfr. Rohlfs, § 167), nel senso di ‘fargli
prendere i voti’.
[166] cacatessa:
«mala femmina» (T-B, s. v.). ♦ gabbadei: compare
nel Malmantile racquistato (VII, 68, 7),
accanto al già visto santinfizza;
Paolo Minucci annota: «rinnegato; uno, che gabba, cioè inganna le deità, adorandone oggi una, e domani
un’altra, rinnegando la prima» (Il Malmantile
racquistato, cit., p. 563).
[167] salvummefacche:
cfr. ancora Il Malmantile racquistato,
V, 47, 4, con la nota di Paolo Minucci: «parole latine corrotte [salvum me fac], e ridotte
in una, usate assai dalla plebe ignorante, per intendere andare in salvo» (ed. cit., p. 398).
[168] garrire:
‘litigare’.
[169] sonagli:
parole che suonano bene ma che significano poco o nulla. Come al solito, Rota si
diverte a restituire la forma realistica del documento notarile, così da poterne
criticare, attraverso le battute dei personaggi popolari, l’eccesso di formule latine
e di lessico burocratico.
[170] V.9.20-34.
Cfr. Grazzini, Le cene, III, 10, 170-171: «E di poi sentenziò
il Magnifico in questo modo: che per tutto il vegnente giorno Michelagnolo dovesse aver cavato tutte le robe, che egli vi
portò, di casa maestro Manente; e che la Brigida con quattro camicie solamente,
colla gammurra e colla cioppa se ne andasse a stare a
casa il fratello per infino a tanto che ella partorisse; e che di poi, fatto il
bambino, stesse in arbitrio di Michelagnolo a tòrlo o no; e non lo volendo, lo potesse pigliare il medico:
se non, si mandi agli Innocenti; e che le spese del parto in tutti i quanti i modi
vadano addosso a Michelagnolo, e che il maestro si torni
a casa sua a goder col figliuolo; e che di poi, uscita di parto la Brigida, ed entrata
in santo, si torni a maestro Manente, e che maestro Manente la debba ripigliare
per buona e per cara».
[171] La
battuta non è molto chiara, ma sembra che fardello
si riferisca alla gravidanza di Brigida.
[172] Cfr.
Grazzini, Le cene, III, 10, 172: «[…] la sera d’accordo cenarono tutti quanti
insieme con la Brigida in casa pure di maestro Manente in compagnia di Burchiello
[…]».
[173] Il
tradizionale epilogo è affidato alla servetta, che invita gli spettatori a battere
le mani, se la commedia è stata di loro gradimento. Da notare l’uso del termine
novella invece che commedia, probabilmente per richiamare i
debiti nei confronti del Lasca.