Giulio Rucellai
Il misantropo
a caso maritato
o sia L’orgoglio
punito
Commedia
a cura di Monica Bisi
Biblioteca Pregoldoniana
lineadacqua
2020
Giulio
Rucellai
Il misantropo a caso maritato o sia L’orgoglio punito
a
cura di Monica Bisi
©
2020 Monica Bisi
©
2020 lineadacqua edizioni
Biblioteca
Pregoldoniana, nº 27
Collana
diretta da Javier Gutiérrez Carou
Comitato scientifico: Beatrice Alfonzetti,
Francesco Cotticelli, Andrea Fabiano, Javier Gutiérrez
Carou, Simona Morando, Marzia Pieri, Anna Scannapieco
e Piermario Vescovo.
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Venezia
- Santiago de Compostela
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ISBN
dell’edizione completa: 978-88-32066-32-6
La presente edizione
è il risultato delle attività svolte nell’ambito del progetto di ricerca Archivo del teatro pregoldoniano
(ARPREGO
I: FFI2011-23663, finanziato dal Ministerio
de Ciencia e Innovación; ARPREGO II: FFI2014-53872-P,
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della collana.
Biblioteca Pregoldoniana,
nº 27
Nota al testo
Per il testo de Il misantropo a caso maritato di Giulio Rucellai l’edizione di riferimento
è quella realizzata nel 1748 dalla stamperia bolognese di Lelio dalla Volpe.
Per
quanto concerne i criteri grafici di trascrizione si seguono le Norme filologiche
generali previste dell’Edizione Nazionale di Carlo Gozzi, che aggiornano la
grafia del testo in tutti quegli aspetti mancanti di implicazioni fonetiche.
Giulio Rucellai
Il misantropo a caso maritato
o sia L’orgoglio punito
Commedia
PERSONAGGI
alceste, misantropo,
nipote di
pandolfo, un vecchio gentiluomo.
argante, un vecchio cittadino, padre di
doralice.
elvira, padovana sotto il
nome d’Elisa.
scappino, normanno sotto il nome del marchese della Source.
lisca, italiano sotto il nome di Valerio maggiordomo di
Scappino.
crespino, servitor vecchio di casa di Pandolfo.
La scena è in una villa intorno a Firenze e tutta l’azione si
consuma nel Museo d’Alceste.
Protesta l’autore
che qualunque parola o sentimento che avesse del gentilesimo ed alla nostra santa
fede non fosse conforme debbesi considerare come detto e sentimento di personaggi
gentili, o come usati ornamenti e frasi de’ poeti, protestando egli d’essere e di
voler morire, col divino aiuto, buono e vero cattolico.[1]
PROLOGO
Spettatori,
silenzio; e se tra voi
èvvi a chi l’arte di tacer sia ignota,
che
cerchi il riso osceno e veder brami
il
reo costume inghirlandato in scena,
5 lungi
sen vada a queste soglie. Io scorgo
che
questo sol già attrista e che la noia
turba
importuna a qualchedun la faccia.
V’ha
chi sbadiglia in mezzo del teatro:
chi
storce il labro, altri incaverna il ciglio
10 e
partir brama. O voi, che la disgrazia
avete
d’esser presso a questo volgo,
siate
or cortesi, date luogo, ond’egli
senza
rossore e tacito si possa
involarsi
al suo tedio e girne altrove
15 il
tempo ad ingannar. Costui si cerchi
l’esca
pel suo palato o in vil taverna,
o
dentro lo squallor d’un lupanare. [2]
Lo
spettacol, ch’arrischia la mia truppa
oggi
alla scena, esser non può giocondo,
20 ch’all’uom
da ben che faccia suo piacere[3]
il
diventar miglior. Già il primo oggetto
della
greca commedia, il di cui padre
Menandro
fu, donde n’attinse il Lazio[4]
quelle
favole sue che come questa
25 si
facean pregio coll’istesso gioco
di
sparger semi di virtù robusta
dentro
i teneri petti che natura[5]
al
piacer più che alla fatica accende.[6]
Il
titol della favola ch’io v’offro,
30 spettatori
gentili, è il Misantropo
a
caso maritato. Alceste ha nome.[7]
È
questi di Firenze un gentiluomo,
di
quelli ancor che non credeano un fregio
d’antica
nobiltà rozza ignoranza.[8]
35 Fe’ già suoi studi in Pisa, come gli altri
in
quel tempo faceano e lusingato[9]
dal
bollor giovenil si fe’ orgoglioso
di
suo saper; credè sua gloria il vizio
sprezzar
dovunque ei s’annidasse; e giunse
40 per
diverse avventure ch’ei sofferse
a tediarsi del mondo, a odiar sé stesso.
E
già sul punto di troncare il filo
della sua vita, ei s’innamora e sposa
un’ignota
che fu serva d’Argante;
45 un
vecchio di campagna onesto e ricco,
di
cui la figlia erede era l’oggetto
di
tutti i nostri avari, altiera e vana.
Insomma, io vel dirò, una di quelle
ch’ hanno la vanità
d’esser brillanti
50 e di fare ogni giorno
una conquista.
Donne
gentili, ch’oggi il mio teatro
arder
già fate d’amorosa luce,
ditemi,
a sorte, conosceste mai
uno
spirto simil? Ch’io dir non l’oso?
55 Dunque
donna sì fatta è alfin sul punto
di
sposare un normanno già lacchè
che
un gran signor si finge e ’l fatal nodo
infelice
stringea, se dal suo fianco
nol rapia la giustizia per un furto
60 che
in Napoli già fece; ond’a lei nasce
vergogna
e pentimento nel vedersi
esposta
all’altrui riso in faccia a Elisa,[10]
ch’era
sua serva già stata e l’oggetto
di
sua vendetta, e ch’or la vede sposa
65 d’Alceste
e intende i suoi natali stessi
farla
degna di lui. Ne gode e quieta
soffre la legge
ch’il destin l’impone,
ch’è il fin della
commedia,
in cui non resta
di
mal umor ch’un certo tal... Pandolfo
70 è
’l nome suo ed è d’Alceste zio.
E
ben gli sta, ché questi, ancorché ei sia
di buona nobiltade, è un vecchio ingiusto,[11]
pien
di superstizion la lingua e ’l petto;[12]
finto,
ignorante, vil, superbo, avaro.
75 E
i due impostori, che tra lacci avvinti
gemono
nell’orror delle lor colpe;
che
non vedrete più dopo il quart’atto.
È
nuova la commedia. E che ridete![13]
Io
m’aspettava già questo susurro
80 e
che doveste rinfacciarmi tosto
esser gran tempo che la Francia seppe
osar
la prima effemminar lo spirto
de’
misantropi che dal suol brittanno
le piacque trapiantar nelle sue scene;[14]
85 ove
si vide poi tingere il viso
di
rossore a’ filosofi severi,
perché
amanti o mariti. Ancor non voglio
farvi
risposta infin che la commedia
non
abbia corso tutto ’l circo intiero.
90 Or
credete che è nuova a chi vel dice.
Poi
vi diranno ancor quei che l’han lette,
esser la prima volta che la scena
vide al vivo dipinto
un misantropo.
L’italo
genio non è estinto ancora,[15]
95 che
debba mendicar l’aure di vita
fin
nell’arti di pace in stranio lido,[16]
per
ritornare al suo diritto antico.
Ma
già sen viene a questa volta Alceste.
Or
vi piaccia inspirar, cortese udienza,
100 agli
attori coraggio col silenzio
e
qualche volta col giulivo plauso,
che
del vostro piacer sia certa prova,
come
del cor gentil che regna in voi.[17]
ATTO
PRIMO
SCENA
PRIMA
Alceste
e Crespino. Museo d’Alceste che dà sopra un giardino con libri ed altre cose naturali,
disposte alle muraglie e sparse pel pavimento.
Alceste
entra pensoso nella scena; si pone al tavolino colla testa appoggiata alla mano
in atto di pensare e Crespino servitor vecchio di casa.
alceste Adunque ella è così?
crespino Appunto.
alceste Ed io
dovrò soffrir che in queste
stesse soglie
Doralice
in quest’oggi a insultar venga
la
sofferenza mia?
crespino Tutto
dovete
5 al
vostro zio Pandolfo.
alceste E che
vuol mai?
Soffro
che ingiusto i beni miei s’usurpi;
soffro
gli suoi deliri, i suoi trasporti;
li cedo il campo; e in questo asilo angusto
studio
occultar me stesso e l’arte apprendo
10 di
scordarmi del mondo, e render lieve
l’affanno
della vita, e farmi insieme
innocente
piacer la varia scena
che
con prodiga mano e ricca al pari
volge
natura nelle sue bell’opre.
15 Non
mi invidi il riposo e almeno in questo
misero
avanzo delle sue rapine
lasci
ch’io regni in libertà.
crespino Ma
ancora,
dopo tanto studiar,
vi è ignoto ch’egli
vuol
che sposiate Doralice, erede?
20 alceste Questo non sarà mai; n’io son sì vile
d’abbassarmi
cotanto e men son uso
l’ingiurie ad obliar.
crespino Pandolfo
al certo
è
più buono di voi, che tutto cede
al merito dell’oro.
alceste Ei tutto
ceda
25 e
lasci ch’io nol curi, e che detesti
chi
delle brutte azioni il fa pretesto.
crespino Ciascun l’intende a modo suo; ciascuno
crede
d’aver ragion. Ma alfin mi dica,
che
far deggio? Pandolfo, ch’è il padrone...
30 alceste Di’
ch’il dritto n’usurpa.
crespino Io non so altro;
so
ch’ei mi paga.
alceste Ma col mio.
crespino Ei
dunque,
che
pur padron non è, comanda ch’oggi
sempre
fia del giardino aperto il varco
a
Doralice.
alceste Ed io
dovrò soffrirlo?
35 Ah
fiero mio destino! Invan detesto
il
dì ch’io rimirai donna sì indegna!
Chi
allor creduto avria che s’ascondesse
sotto
un giovine ciglio alma sì rea?
Perfida!
E che non disse e che non fece?
40 Per
lusingarmi allorch’io era ritroso?
Che
non tentò per espugnarmi il cuore?
Finse
languir d’amor: pietà m’accese
per
forzarmi ad amarla ed a bramare
fin
le sue nozze. Ond’io mi vidi in rischio
45 allora
di piegare al giogo odiato
del
matrimonio il collo altiero e vidi
vacillar
mia ragione e i certi mali
più
non curar ch’entro un piacer fallace,
com’angue in erba
suol, si stanno ascosi.[18]
50 Mi
pospose a un ignoto, a un uom del volgo,
oggetto
di disprezzo e di viltade
ha
reso altrui il mio amore, i sensi occulti
del cuor, ch’io le fidai ne’ miei trasporti,
tutti
ha svelati, ond’io mi veggio omai
55 favola
al volgo istesso.[19]
Si rizza infuriato da sedere, come
un uomo che non sappia cosa risolversi.
Ah
potess’io
tormi col prezzo ancor della mia vita
la
memoria crudel che mi tormenta!
crespino Ma
infin, che far degg’io? L’ora s’appressa;
qui
rimedio non v’ha, né ho visto mai
60 trovarlo
a quei che dal destin l’aspetta.
alceste Al mio ritiro in faccia osa tranquilla
l’ore passar nel folle riso, insieme
colla
sua turba insana.
crespino E come allegra!
alceste E non contenta può schernirmi, e puote
65 fin
quest’albergo mio sacro alle muse
con
sacrilego piè farlo profano?
E
quando mai conoscerotti appieno!
crespino Sì la vedrete or or, se voi indugiate;
intanto
ecco Pandolfo che sen viene
70 a
questa volta.
alceste O ciel che veggio
mai!
Meglio
è ch’io parta e che l’incontro eviti.
crespino Io m’aspettava già questo compenso,
che
nulla fa chi molto pensa e parla.
SCENA
SECONDA
Pandolfo, Crespino.
pandolfo E ben dimmi, Crespino, hai tu eseguito
quel
che ti comandai?
crespino Io l’ho servita.
pandolfo E che risolve Alceste? Io più non voglio
sospeso
stare.
crespino Ei non rispose nulla.
5 pandolfo Nulla?
crespino Cioè a dire, ei molte cose disse
ch’io
ridirvi non so.
pandolfo Ma tanto basta,
son
le solite nenie; ei t’avrà detto,
me
lo suppongo già, che ’l Sol sta fermo,
che
la Terra si muove... e che so io?
10 Follie
simili a queste. Oh che gran pazzo![20]
Oh
che strano cervello!
Gira intorno l’occhio rimirando la
muraglia.
E
come mai
questa
sala ha ridotta? Ella par proprio
un
arsenal da rigattiere, appena
restavi
luogo da posare il piede.
15 Che
confusione! Oh che galanterie!
Questi
son sassi!
Con un piede rovescia una cesta di
corpi marini impietriti.
crespino Affé l’avete detta! (ironicamente)
senza
saperlo, ardiste calpestare
i libri ove si
legge il mondo eterno;[21]
o
almen che fanno fede ch’il diluvio
20 sugli
alti monti fe’ notare i pesci.
pandolfo Il malan che ti colga
e te e lui.
Oh
che pazzie! Si può sentir mai peggio?
Sia
maladetto chi mi mise in testa,
credo
che ’l Diavol fosse dall’Inferno,
25 a
Pisa di mandarlo. In questo punto,[22]
per
quel che v’è di sacro al mondo, io giuro
di
diredar tre mesi avanti almeno
chi
de’ miei discendenti, anco per giuoco,
apprende
l’alfabeto. Or basta; io voglio
30 finirla
in questo giorno e s’ ei recusa
di
prender moglie a mio piacer...
crespino
Qui appunto
sta
il male.
pandolfo O questo poi, padron
son io.
Io
vo’ scer la nipote, e non vo’ ch’altri
m’insegni
fare i fatti miei; so io
35 quel
che conviene a me e alla famiglia.
Scuola
non vo’ cangiar, sono all’antica
e
non ho vanità, né ad altro penso
ch’all’interesse
della casa, ch’era
ne’
tempi miei l’ultimo scopo e ’l primo.
40 Ora
già il so: tutto è cangiato e a forza
d’apprender
l’arte di pensar, s’impara
a
vivere a capriccio. Oh sia per sempre
pur
benedetta cento volte, e mille
la
mia ignoranza! Io senza studio e solo
45 col
lume di ragion che la mia balia
m’accese
in testa allorch’io le succhiava
il
primo latte, il bene e ’l mal discopro.[23]
E
veggio che alla fin più l’indovino,
che
van di bene in meglio i fatti miei,
50 ma
tu non se’ di ciò capace. Attendi
a
quel ch’io dico e studia di far bene.
Sarà
qui Doralice tra momenti.
crespino Ma Alceste poi...
pandolfo Chi parla
a te d’Alceste?
Io
qui comando; or tu trattarla dèi,
55 come
se fosse la padrona istessa
di
questa casa; come fosse sposa....
crespino Di
chi?
pandolfo Tu lo saprai.
crespino Ma perché dunque...
pandolfo Il perché lo so io. Saper dovresti
che
non rendo ragion di quel ch’io voglio
60 a
verun, nonché a te.
crespino Ma s’è permesso
al
vecchio della casa il metter bocca
ne’
fatti del padron, direi che, quando
ad Alceste pensaste, invano
il tempo
gettate
e la fatica. Alceste al certo
65 mai
non la sposerà.
pandolfo Alceste
è un pazzo,
ei
faccia quel che vuol, che non per questo
la
casa finirà. Tu adunque pensa
a
farmi onor. Come da te, dirai
ch’
io ricco son, che posso far del mio
70 quel
che mi pare.
crespino E
che sapete ancora
tenerne
conto.
pandolfo È ver, non mi vergogno
d’avere
economia; ma dille insieme
che
so spenderlo ancor, quando bisogna:
anzi
non sfuggo mai spesa veruna,
75 purché
steril non sia. Tu lo sai pure,
io
spendo tutto il mio a capo all’anno;
compro
ogni dì de’ fondi; e ’l mio danaro,
guardimi ’l ciel, ch’io lo ritenga in cassa
né
pure un sol momento.
crespino È ver, lo date
80 subito
a frutto.
pandolfo Tra’ pensieri miei
quest’è il minore; io prendo
l’interesse,
sol
perché il debitore abbia presente
il
merto del danar, principio e
fine,
di
ciò ch’il mondo move; abbia un motivo
85 di
più, oltre il dover di risparmiare,
per
renderlo più presto, e torsi un giorno
dal
debito, ch’alfine è la rovina
delle
case più ricche. Ma tu insomma
intendere
non puoi queste materie.
90 Vanne,
fai quel che ho detto.
crespino Or l’obbedisco
(parte)
pandolfo Vorrei pur che costui facesse bene!
Crespin, senti, vien qua.
crespino Sono a’
suoi cenni.
pandolfo Io so che Doralice è alla custodia
d’una
serva, vorrei che tu studiassi
95 di
far seco amicizia; e quando ancora
si
dovesse comprar, sappi ch’a tempo
non
mi duole il danar; che queste serve
avide
sono ed use di parlare
con
le padrone lor sempre a favore
100 di
chi meglio le paga.
crespino Io
non intendo.
pandolfo No no, non parlar più. Fai quel che ho detto,
che
a questa volta io venir veggio Argante.
SCENA
TERZA
Argante, Pandolfo.
argante Che superbo giardin! Che bel palazzo
ch’è
questo! Io mi rallegro, egli è ben degno
di
voi signor Pandolfo.
pandolfo Era una
volta,
o
caro amico mio, ma da quel tempo
5 che
la filosofia lo fe’ suo albergo,
è
ridotto un serpaio; è già qualch’anno
che
non vi misi il piede e v’assicuro,
appena
il riconosco; in ogni parte
vedete
qui, son sparsi e sassi e terre,
10 scheletri,
legni, erbacce e sucidume,
che
fan brillar per tutto la pazzia.
Ma
questo è poco mal, già penso avanti
ch’io
mi parta di qui di fare un caos
di
tutta questa inutile materia,
15 per
seppellirlo in seno al vicin fiume.
Ma
caro Argante mio, purtroppo è vero,
ciascun
deride la follia dell’altro,
poveri
noi! E tutti al par siam folli![24]
Ed
io più ancor lo son, ch’il cuor mi limo[25]
20 col
continuo pensar nel tempo stesso
che
meco piango la famiglia estinta
e
veggio che i miei ben serviran forse
per
comprarmi un erede ingrato ch’osi
farmi
oggetto di riso in su la scena.[26]
25 argante Ma
perché invan vi tormentate il core?
Sì
fuor di tempo e per un male incerto?
Se
in casa avete un giovine che puote
veder
nascere i figli ed i nipoti.
pandolfo Deh non parliam di
lui, anzi su questo
30 appunto
bramo aver vostro consiglio.
argante Male s’addrizza a me.
pandolfo Deh via
lasciamo
i
vani complimenti. In confidenza
io
vi dirò ch’il mio nipote Alceste,
ebro
d’insano orgoglio, ha osato alfine
35 di
schernir mie minacce e miei consigli
e
dichiarar che al coniugale stato
sdegna
il collo piegare.
argante È gran disgrazia!
E
del vostro dolore io sono a parte.
pandolfo Appena or posso raffrenare il pianto.
40 Ma
quel che più m’affligge è ch’in onore
e
in coscienza ancor costretto io sono,
come
m’ha detto un uom saggio e da bene,
a
diredarlo ancora.
argante E che mai dite?
Giusto
è pensarvi meglio e vi sovvenga
45 che
i beni son d’Alceste a voi fidati
dal
suo buon genitor.
pandolfo Diceste
bene,
fidati
alla mia cura, alla mia fede,
quasi
presago, il pover uom, che il figlio
tutto
perder dovea col cieco orgoglio
50 e
beni e schiatta e forse ancor sé stesso.
argante Ignoto m’è quel che pensasse allora
ch’ei
dal mondo partiva; ho ben presente
che sol vi scrisse erede...
pandolfo O questo
è certo.
argante A condizion che con sincera fede
55 tutto
rendeste al figlio suo, qualora
fosse
giunto all’etade, in cui le leggi
lasciano
all’uomo il governar sé stesso.
pandolfo Questo non mi sovviene e so che scritto
nelle
carte non è.
argante Ma
è però vero.
60 E mi ricorda fin che lo giuraste
a quell’istessa luce, ove l’estremo
atto
firmossi che vi fece erede,
nel
qual fui testimonio con Crespino,
il
vostro servo, che piangente avea,
65 ei mel ricorda ancor, per mano Alceste.
pandolfo Son cose già passate e tanto antiche,
ch’appena ed in confuso ho la memoria
ch’erede
mi lasciò col solo scopo
ch’il
figlio suo e mio nipote Alceste
70 dovesse
umil con ubbidienza e ossequio
vivere
a me soggetto. Ei la paterna
legge
già ruppe, or io punir lo debbo
per
quest’istesso.
argante Il
mio rispetto vieta
replicarle
di più.
pandolfo Ma insomma, io scopro
75 dall’istesso
tacer come pensate;
quel
che s’occulta in cuore; io pur vi giuro,
credeva
come voi, pareami ingiusto
diredare
un nipote e mille vani
rimorsi
l’alma mia faceano inquieta.
80 Conscio
di mia ignoranza andai cercando
chi
seco dileguasse il mio timore.
Corsi
all’oracol di Calcante, quelli
che
potria col suo senno e ’l suo sapere
render
le leggi al mondo, se per caso
85 ei
perdute le avesse, e sarian certo
e
più giuste e più pie di quel che sono.
Ei
tosto dubitonne e quest’istesso
nuova
ragion fu al mio timor; ma quando
impugnò
la dialettica faretra,
90 tosto
il dubbio fugò, che spesso il vero
in
caligine involve, e allor decise
ch’io
dovea diredare il mio nipote.
Esser
pietade disarmar la mano
a
un furibondo che delira e gode
95 d’errar
seguendo di sapienza insana
l’orgoglioso
furore.
argante Io mi conosco
ignorante
per me.
pandolfo Lo sono
anch’io
e
perciò mi consiglio con chi è dotto.
argante Ma mi contento di seguir l’interno
100 moto che al ben mi
sprona e che m’addita
la dritta via che l’uom conduce
al giusto.[27]
pandolfo Io scrupoli non voglio e s’io lo debbo
diredar,
pazienza! Umilio il capo
e
l’amara bevanda in pace io bevo.[28]
105 Ma
quel che più m’affligge e mi tormenta
è
ciò che ’l buon Calcante allor mi disse.
argante E che vi disse mai?
pandolfo Ch’io dovea poi
al
mondo ed a me stesso, ad ogni prezzo,
anche
della mia quiete e della vita
110 conservar mia famiglia,
ond’io dubbioso
sto
dentro me, se debba un uom di senno
ora
adottarmi in figlio, o se piuttosto
io
prenda moglie.
argante Come?
Al matrimonio
pensate
in quest’età?
pandolfo Son nato
presto,
115 è
ver, ma forte mi ritrovo e sano;
e
grazie al cielo, io dell’etade il peso
non
sento ancora. Il sangue nelle vene
freddo
affatto non è.
argante Signor Pandolfo
passata
è già nostra stagione.
pandolfo È
vero.
120 Fo
un sagrifizio alla famiglia.
argante È grande![29]
pandolfo Ma che far ci poss’io?
Son questi i frutti
che
si posson sperar dal mondo d’oggi.
Forse
la sanità, questo vigore
che
per dono del ciel mi brilla in volto
125 opra non è del caso; e penso insomma,
che
se m’adotto un figlio, io metto in casa
tosto
un padron severo, a cui mill’anni
parranno ogni
momento di mia vita.[30]
argante Tutto è meglio che moglie a un uom d’etade,
130 se
debbo dir quel ch’io ne penso.
pandolfo È
vero,
ma
erede io la vo’ fare e grazie al cielo
il
titolo d’erede in casa mia
non
sarà un nome van senza soggetto,
onde
non possa meritar la pena
135 d’esporsi
al rischio di soffrir per poco
il
maritale impaccio!
argante Eh, ne convengo,
ma
la donna però lascia rapirsi
dal
presente piacer, né sa soffrire
quel
che le pesa del futuro in grazia.
140 pandolfo Sì sì tutto va ben, ma la ricchezza,
che
lusinga ogni cor, sempre conquista
lo
spirto femminil.
argante Superbo
è amore.
Dona
il nettare suo, nol vende altrui
e
se merce divien, cangia natura.
145 pandolfo Ma nulla importa ciò, s’hanno de’ figli
anco
senza l’amore e l’uom ch’è saggio
per
senno si marita e lascia poi
che
l’insensata gioventù deliri
e
creda che d’amor sincero il foco
150 la
face accenda a ogni imeneo giulivo,
ch’in un due cuori annodi e di desio
arder
gli faccia e nel piacer languire.[31]
argante Almeno il rischio è grande.
pandolfo Il
bene e ’l male
dalla
scelta depende.
argante O questo è vero.
155 pandolfo E qui la vostra mano, amico caro,
mi
bisogna per farla.
argante Eh, voi dovete
contar
d’aver quel che da me depende.
pandolfo Vorrei che questa scelta il premio fosse
del
merto e che la scelta e i beni miei
160 fosser dono a un amico.
argante È di voi degno
un
simile pensier.
pandolfo Già m’intendeste?
argante Al certo io non intendo.
pandolfo Io non
ho al mondo
altro
amico che voi.
argante Un tanto onore
non
merto.
pandolfo Or via mi spiegherò
più chiaro:
165 scerrò la figlia vostra in sposa e erede.
argante Signor, che dite mai?
Deh mi perdoni,
non
merta un sì gran dono.
pandolfo Ella
vi è figlia,
vostra
erede sarà.
argante Troppo presente
ho
il grado mio.
pandolfo Ed io pur
ho presenti
170 di
vostra figlia i pregi.
argante Il suo costume,
dirò
per mia disgrazia, è troppo alieno
dall’antico
pensar, da’ nostri tempi,
non
può punto piacere al genio vostro;
piena di vanità,
profusa e vaga
175 di brillare ogni dì
tra mille fole.
Infine,
ella è alla moda d’oggi giorno
e
’l matrimonio aborre al par d’Alceste.
Troppo
amico vi son per non tradirvi.
Infelice
sarei, se un dì vi fosse
180 ingrata.
pandolfo Io son già preparato a tutto
e
tutto vo’ soffrire in grazia vostra.
Incognito
piacer già in cuor mi nasce,
or
ch’io trasformo il nodo d’amicizia
ne’
doveri del sangue e che vo a farmi
185 vostro
figlio per scelta.
argante E che mai dite?
Voi
mi fate arrossir per la vergogna!
pandolfo Voglio che s’architetti un testamento
ch’accenda
invidia all’avarizia istessa.
Avrete
in me l’erede, io avrollo in voi.
190 De’
nostri patrimoni un corpo solo
con legal nodo formerem ch’ad onta[32]
delle leggi lo
faccia eterno e passi
da
figli a figli e a chi verrà da quelli.
E se fortuna mi torrà
la prole
195 e
con essa l’erede, i nostri beni
avrà
la figlia vostra e ’l mio cognome.
argante Obbligato vi sono e mi dispiace
non
poter meritar le vostre grazie.
Vo’
che mia figlia si contenti e voglio
200 ch’ella
scelga un marito e non un padre.
Possibile
non è, n’io vo’ forzarla
a
giurarvi la fé per ingannarvi.
pandolfo Nulla m’importa ciò, lo fanno tutte;
debbo
sacrificarmi alla famiglia.
205 Pensate
un poco e risolvete poi.
argante Già risoluto sono.
pandolfo Un sol
momento
di
sofferenza ancor. Dite alla figlia
questo
pensiero mio. Chi sa che forse
ella,
ch’è accorta quanto noi, non vegga
210 quel
ch’ora perda in rifiutar mie nozze?
argante Così non pensa, il so ch’il suo capriccio
troppo
spesso è sua legge.
pandolfo E
poi vorrei
metterle
in vista ancor ch’io vecchio sono:
presto
debbo pagare alla natura
215 il
sol debito ch’ho dal dì che nacqui.
Giovine
ricca in vedovile ammanto[33]
è
di tutti l’amore e le delizie.
argante Guardimi il ciel ch’io le fomenti in
cuore
un
sì ingiusto pensier.
pandolfo Son uomo
franco;
220 io
non ho pregiudizi e son sicuro
che
non s’accorcia della vita il filo,
perché
da altrui si brami.
argante Io pur son franco,
per dirvi che
non vo’ mai dar la mano
per far mia figlia
e voi favola al volgo.
225 Ma s’Alceste sposar
la vuol, felice
io sempre mi dirò,
purché un verace
amore il nodo
infiori e ch’io non debba
forzar sua libertà.
pandolfo Da un vecchio
amico
una
simil risposta?
argante Al mio sincero
230 cuor
la dovete ed al mio amore istesso.
pandolfo Ma sdegnarmi non vo’, l’impegno accetto.
Parlate
con la figlia, come il padre
deve
parlar, che ’l modo so ben io
di
forzar mio nipote ad esser savio.
235 argante Tutto
farò per voi. Servo le sono. (parte)
pandolfo Qui poco s’è concluso; e con quel pazzo
miglior
sorte non spero. E dovrò dunque
vedermi
tòr di man questa fortuna?
Mi
crepa il cuore in sen; ma a questa volta
240 la
serva vien; chi sa che forse il cielo
pietoso
a’ voti miei qua non la guidi?
Tentiamla; e che sarà?
SCENA
QUARTA
Pandolfo, Elisa.
pandolfo Buon giorno,
Elisa;
appunto
ti cercava.
elisa Io le son serva.
pandolfo Che fa la tua padrona?
elisa Ella a momenti
viene
a goder questo gentile albergo.
5 pandolfo Tale paresse a lei, ch’io sarei lieto.
perché
tu sai ch’io la sospiro e bramo
donna
della mia casa.
elisa Il ciel lo voglia.
pandolfo Lo voglia pure e ’l faccia; io tanto il bramo,
che
sto per dir, la sposerei io stesso.
10 elisa Davver?
pandolfo Non scherzo; il tuo
favore imploro.
elisa Nella sua etade è un grand’amore
al certo!
pandolfo Ma tu ti maravigli
ed hai ragione.
Or
via parliam più chiaro, io non cerc’altro
che
Doralice erede. Or se tu puoi
15 far
sì...
elisa Che sposi Alceste?
pandolfo Alceste?
Ma... se...
Tu
lo conosci pure? Ei s’ostinasse
in
negar di sposarla? Or dì, Lisetta,
non
si farà per questo? Infin tu sai
che
un filosofo egli è, cioè a dir, brutale.
20 elisa Come?...
pandolfo Ma sia quel che si vuol, padrone
io
sono in casa mia, n’ancor sì vecchio,
che
non possa pensare...
elisa A che, signore?
pandolfo A diventar marito.
elisa Or via, si spieghi.
Parla
da senno?
pandolfo Al certo.
elisa Ha un gran coraggio!
25 pandolfo Son animoso; è ver? Tu m’hai scoperto! (ride)
elisa Che n’ha parlato a Argante?
pandolfo In
confidenza
or
ti dirò che ho fatta una scoperta.
elisa E che rispose mai?
pandolfo Tu lo conosci;
un
galantuom egli è, pensa all’antica;
30 e
meco parla, com’un uom suo pari.
elisa Son di natura i sensi ognor gl’istessi,
o
che trionfi in libertà sul trono,
o
che in spoglia servil gemma avvilita.
pandolfo Ma ch’ella spiega con diversa lingua,
35 se
parla da monarca, o da plebea.
Or,
cara Elisa, in mio favor t’adopra;
fidati
ch’io non sono avaro e a tempo
so
gettare anco il mio; la serva accorta
sa
trovare il momento e fa sovente
40 prezzo
del suo piacer la sua padrona.
elisa Tanto
spirto non ho.
pandolfo Ci siamo
intesi.
elisa Quanto s’inganna mai!
pandolfo Quanto
se’ scaltra!
Serve
che voglia quel che puoi: ti giuro
che
tu avrai sempre la mia casa aperta.
45 E
se... basta... Se segue il matrimonio,
la
dote ti vo’ dar; vo’ farti sposa
del
mio vinaio.
elisa La ringrazio assai.
pandolfo Tu forse nol conosci?
È un uomo ricco,
economo
e da bene.
elisa Io ne son certa.
50 pandolfo Ed è trent’anni almen
ch’è al mio servizio.
elisa Ma non vo’ maritarmi.
pandolfo Or via
concludi,
sarà
mia cura il far la tua fortuna,
se
tu non vuoi marito. Elisa, addio. (parte)
elisa O che bella fortuna! Alle mie vesti
55 debbo
questi rossori. Ahi me infelice!
Chi
vi conosce Elvira? I miei natali;
la
prima educazione; ora son esca
a’
rimorsi ch’il cuore, anco innocente,
deve
soffrir, come se reo egli fosse,
60 fino
che vagabonda e sconosciuta
lungi
men vo dalle paterne mura.[34]
Ma qua sen viene Argante.
SCENA QUINTA
Argante, Elisa.
argante Or dimmi, Elisa,
noi siam pur soli.
elisa Noi lo siam, ché or ora
Pandolfo si partì.
argante M’ascolta. Io voglio
ch’in questo dì la figlia mia risolva;
5 ché non vo’ più
questo imbarazzo in casa.
elisa Giusto è quel che chiedete.
argante Da quel punto,
in cui le venne
intorno il forestiero,
ogni scompiglio
è nato; e fin sto in dubbio,
se sia padrone,
o no. Sdegnossi Alceste...
10 elisa Ed a ragion.
argante Lo credo; e nuove scene
nate sono ogni
giorno; io voglio il nodo
disciorre alfin, le ho detto già che
pensi
od a scersi uno
sposo, od un convento;
ch’oggi incomincio
a diventar padrone;
15 che non vo’ più quel
forestiero in casa;
seguane ciò che vuole; io già son pronto
a far quel che
conviene e così voglio.
Intendiamola,
dico!
elisa Invan s’inquieta
meco, di sua ragion
convinta sono.
20 Ma il forestier non v’è, né Doralice;
io non so poi...
argante Di che dubiti ancora?
elisa Se parlerà così davanti a loro.
argante Sì sì, noi lo vedrem; non mi conosci?
Certo non vo’
forzar sua libertade;
25 ma se d’intorno il
forestier si tolga
e un dì l’uscio
si chiuda a vagabondi,
spero che tosto
di ragione il lume
sciorrà la folta nebbia e allor potremo
con profitto parlar
d’Alceste seco.
30 elisa Eseguirò ben volentier;
ma pure
un non so che
già mi predice al cuore
che vacillate
già, che al primo pianto
della figlia cadrete
ed alla fine
l’istessa vostra
autorità paterna
35 vittima si farà delle
sue voglie;
ch’io ben presto
sarò di sua vendetta
segno infelice;
il vagabondo accolto
ed Alceste schernito.[35]
argante Ah,
me ne rido!
Non ci pensare,
io parto, e tra momenti
40 verrò per la risposta.
SCENA SESTA
Doralice,
Elisa.
doralice O
che gran tedio!
Più soffrir non lo
posso e già mi sembra
mill’anni ogni momento. È dunque
questo
il carcer dove regna Alceste? Il trono,
5 dov’è servo il
mio re dei suoi furori?
Rimira intorno
osservando.
E che ne pensi,
Elisa?
elisa Io per me dico
che qui tutto sorprende
e tutto mostra
il senno del padron.
doralice Come se’ folle!
Come se’ folle mai!
elisa Quanto beata
10 quella saria che in sì leggiadro albergo
fosse fida compagna
a quei che regna
in questo sacro delle
muse asilo!
doralice Quanto ti compatisco!
elisa Io lo confesso,
sento rapirmi il cuor.
doralice Questi libracci;
15 questi sucidi marmi
e queste sparse
reliquie dell’età,
preziosi alberghi
de’ ragni industri
e questi alle muraglie
scheletri appesi,
ch’i trofei di morte
cantano al cuor con
lugubre silenzio,
20 a chi non sveglieriano amore in petto?
Quanto è scaltro
mio padre! Egli in un punto,
chi il crederia? Così m’ha acceso in cuore,
dolce fiamma d’amor
pel caro Alceste?
elisa Eh sì. Schernite pur quel che vi è
ignoto;
25 forse l’inganno scopriravvi un giorno
il tempo, che
nemico al nostro sesso
sdegna adularci e
ci conquista in mezzo
anco alla pompa de’
trionfi nostri.
doralice Da te non vo’ consigli e non gli chieggo,
30 io già t’intendo,
sì, vorresti ch’io
avvilissi la man,
per darla in segno
della mia fede a Alceste;
a quell’Alceste,
ch’umile e rispettoso
a’ piedi miei
sospirò un dì l’onor d’essermi amante.
35 elisa
Io lo confesso, il bramo, e son
rapita
dalla virtù, ch’in lui risplende; è vero,
io godea già che voi tra le lusinghe
d’una turba infedel di folli amanti
pur l’ammiraste e
mi pareva insieme
40 seco vedervi in dolce
nodo avvinta.
doralice Ah che ben m’accorgh’io da quest’istesso
che tu pensi col volgo
e che non leggi
questo mio cuor; semplice,
se ti credi
ch’io possa amar chi
mi sospira in moglie!
45 Ch’io possa amare
Alceste e voglia farmi
vittima volontaria
a un uom selvaggio,
che tutto ’l giorno
vi stordisce e inquieta
col nome di Penelope
e che sprezza
tutto quel che non
è del genio suo.
50 elisa Ma Alceste è un uom pien di buon senno e saggio,
ch’i doveri ed il giusto intende e adora.[36]
doralice Che sogna tra i doveri della sposa,
il primo quello di
pensare a’ figli,
alla casa, alla serva
ed al lavoro,
55 come fanno le donne
della plebe.
elisa Ma sì gran sdegno contro un uom che
forse
arde ancora per voi;
che fors’in questo
istesso punto ei vi
sospira in moglie?
doralice Io moglie? Io moglie? E che ti pensi, stolta,
60 ora parlar con una
del tuo rango?
elisa Un dì l’amaste pure e li giuraste,
col labro almeno,
eterno amore e fede?
doralice Taci
una volta; se’ volgare e pensi
come pensavan già l’atave nostre.
65 Credi di me quel
che ti pare e piace.
Se pur l’amai,
or lo detesto e aborro.
L’amai per vanitade, o ’l finsi almeno,
finché il credetti
amante e ch’ei m’amasse
per un furore e non
con altro scopo,
70 ch’ognor d’amarmi; e sospirai il trionfo
di
trasformarli il cuore atroce e schivo
in quel d’amante timido e geloso;[37]
di posporlo a un ignoto
e di ridurlo
ad offrirmi sue nozze,
pel piacere
75 di rifiutarle.
elisa Oh Dio, che sento mai!
Deh per pietà
di voi non vi fidate
a un mare infido e
di perigli pieno,
cognito sol per li naufragi.
doralice Eh via
lasciane a me la cura:
e i tuoi precetti
80 vanne a spacciar
tra gl’infelici spirti
che fansi amar per vendersi a un marito.
elisa Dunque qual sarà mai de’ vostri amori
l’ultimo oggetto?
doralice La conquista
istessa[38]
e il bel piacer di
far vedere un giorno
85 come l’orgoglio uman da noi si domi.
elisa È troppo dubbio il giuoco e troppo
grande
il mal cui vassi incontro, ed il trionfo
non vale il rischio.
doralice Io me ne rido e godo
di scherzar col periglio;
ognor sicura
90 sempre ch’inesorabile
disprezzi
l’altrui lusinghe
e fisso in cuor mi tenga
esser tiranno l’uom;
ch’altero in cuore,
vil schiavo a noi si
finge, a solo oggetto
della conquista, ognor conscio a sé stesso
95 quanto debole sia,
se lusinghiere
s’osi irritarli
l’amorosa sete
e schive in cuor l’onda
si nieghi, ond’egli
nelle sue furie di
desio languisca.
elisa Sogni son questi; ché infelice preda
100 sempre noi siam delle
lusinghe altrui
e nostra pena
è la vittoria istessa,
s’a un prezzo tale
ella comprar si dee.
doralice Sì, t’intendo, vuoi dir che dassi luogo
al volgo di parlar;
ch’a nulla serve
105 l’essere onesta allorch’altri nol crede.
È ver, tu dillo,
io ti ringrazio ancora.
elisa Tanto non oserei... Ma solo...
doralice Eh
dillo,
ch’io tel perdono, e in quest’istesso ammiro
il tuo buon cuor.
Tu parli, come forse
110 nel sordido tugurio
a te parlava
la povera tua
madre, a cui dovea
gran fortuna parer
di farti moglie,
allorché t’insegnava
a un fioco lume
filar la lana, ripulire
i panni
115 e le vivande preparare
al foco
che dovean far brillar la parca mensa.
elisa È ver, così dovrei pensare in questo
stato, ove sono, in
cui la maggior pena
è il conoscer me stessa
in quest’albergo.
120 doralice Ma intanto
e che risolvo? In questo giorno
vuol
mio padre che scelga il mio destino:
o un convento, o un marito? Oh Dio! Oh trista
condizion del sesso nostro! Qui dunque
non mi resta che scer la
minor pena.
125 O
un carcere, o un tiranno. Io comprar deggio
colla
mia libertà, con i miei beni
oggi il dritto fatale, o di languire
disperata nel tedio, o d’avvilirmi
a saziar l’altrui voglia in stranio letto.
130 elisa Ma perché non v’accende il ben che
puote
render felice
il maritale stato?
L’innocente piacer...
doralice Che bel piacere!
s’io do la fé di sposa, ecco che tosto
mi confondo coll’altre
e perdo il pregio
135 d’essere il fuoco de’
sospiri altrui.
Dunque non fia mai ver, tutto si soffra;
si contenti il mio cuor... ma se ricuso
d’umiliarmi alle
nozze, il padre irato
prenderà moglie,
o si farà un erede.
140 Dunque son io sì vil, che voglia a un basso
interesse svenar
gli affetti miei!
Perdere il bel
piacer d’esser tiranna
di tant’anime
amanti?
elisa E
chi vi dice
che ciò non sia
un inganno? E non sien queste
145 rapite dal desio de’
vostri beni?
doralice E s’io tradita fossi e quale Arianna
anche sul lido
abbandonata? Dunque
dovrò perder coraggio?
Andrei raminga
per boschi e per
foreste incontro al fato;
150 forse chi sa? Che un
dì non fossi anch’io
degno soggetto
d’amorosa istoria?
elisa Romanzo dir volete; e qual furore[39]
v’agita il cuor? Deh
via lasciate, o cara,
simili fole e di virtù
robusta
155 cingete il petto omai.
doralice Dunque
la gloria,
ed il valor son
fole?
elisa Anzi son fregi
dell’alma
che l’etade e la fortuna
vincer non può, ma
degli eroi lo spirto,
perdonate signora
all’amor mio
160 questi di verità liberi
sensi,
ben sovente degenera
in follia.
doralice Dunque folli saran
tutti gli eroi?
Gli Orlandi, gli Amadis
ed i Ruggier[40]
e chi gli ammira e
chi gl’imita, come
165 il mio caro marchese
della Source?
Che per affar
d’onor dal patrio nido
esule sen va errando
tralle genti?
Quei che al favor
del suo coraggio istesso
tra diverse avventure
or liete, or triste
170 si è formato il suo
cuore? È saggio Alceste,
che sepolto in un angol della terra
ch’occhio appena trovar
può sulla carta,
sempre involto de’
libri nella polve,
piange ch’in oggi non si pensi o viva,
175 come già in Grecia
o in Roma?[41]
elisa Io non lo
dico;
ammiro Alceste;
il forestier m’è ignoto.
doralice Noto lo rende ognor
l’aria sua stessa
ch’a suo favor
previene.
elisa Io nol conosco.
doralice So ben che Alceste, allorché mi giurava
180 d’arder per me d’amor,
giurommi insieme
di amarmi sol
per ottenermi in moglie.
elisa Dunque quest’è delitto? E come mai
i sogni de’ romanzi
alla ragione
puon far sì cruda guerra?
doralice Ah
che tu pensi
185 povera femminuccia,
com’il volgo
ed io vaneggio
allorché parlo teco. (parte)
elisa Chi vide mai genio simile a questo?
Sprezza Alceste, ch’è
saggio, perché l’ama;
e adora intanto un
vagabondo ignoto,
190 perché si giura amante.
SCENA SETTIMA
Elisa
e Lisca sotto il nome di Valerio maggiordomo del marchese della Source.
lisca O bella Elisa:
pur ti riveggio alfine.
elisa Io le son serva.
lisca E come in questo loco?
elisa E chi può dirlo?
lisca Ti giuro sul mio onor ch’un freddo
orrore
5 improvviso m’assale,
allorché io penso
che Doralice ricercare
io debbo
in queste soglie;
in queste soglie istesse,
ove delira Alceste!
Il mio padrone...
elisa Il tuo padron troppo è a sé stesso noto,
10 per non temer d’Alceste;
e troppo accorto,
per diffidar di
Doralice.
lisca Anch’io
lieto sarei, se
lo credesse il cuore!
elisa Perché tanto ti preme?
lisca Eh,
ben tu sai
quanto difficil sia girare intorno
15 ad un padron che
l’amorosa fiamma
rende impaziente,
sospettoso, inquieto.
elisa Ma infine e che bramate?
lisca È ver; torniamo
a quel che importa.
Il mio padron m’invia
a Doralice, per saper
sue nuove
20 e dirle ch’ei l’adora.
elisa In questo giorno
l’istesso ha fatto
per la sesta volta.
lisca Quest’è il dover d’un cavalier d’onore,
che porta la divisa
d’una dama,
spedire ogni mezz’ora
in diligenza
25 o un biglietto amoroso
o un’imbasciata.
elisa Oh che legge severa! O quant’è grave
amor, s’a un prezzo
tal nutrir si dee!
Ora volo a servirvi...
lisca Elisa,
ascolta;
ma dimmi qui tra noi:
puossi sperare,
30 che ’l mio padron
concluda il matrimonio?
elisa Il matrimonio? E chi dentro ’l futuro
legger può suo destino?
lisca E pur mi pare
già già di travedervi un certo dubbio...
Infin non mi lusingo.
elisa Un uom di senno
35 deve sempre temer
nelle fortune.
lisca Il tuo parlare istesso, io tel confesso,
il sospetto m’accresce
e mi consola.
Potremmo esser felici
e tu nol vuoi!
elisa Io null’altro non bramo.
lisca Ah se tu il brami,
40 e perché non fissare
in questo punto
la ruota fuggitiva
alla fortuna?
elisa Dunque tanto poss’io?
lisca Lo puoi, se ’l vuoi.
elisa E indugio ancor?
lisca Tutto da te depende.
elisa E pur nol veggio.
lisca Serve sol ch’il
nodo
45 tra Doralice e ’l
mio padron si stringa.
elisa Ma se questa è fortuna, ell’è per loro.
Noi servirem, come finora.
lisca E pure
intendere non vuoi,
o non conosci
né me né ’l mio padron?
Non ti se’ accorta,
50 quel che tu puoi
su questo cuore? O ’l fingi?
Sappi almen quel che perdi, il mio padrone,
ch’è al par d’un Cesar
liberale e ricco;
ed io sollo per prova;
che per dirla
in confidenza a te
m’ha già donato
55 tanto da viver da
par mio; ch’in mano
tutto mi fida
il suo denaro e mai
non mi ricerca il
conto, e quel ch’io spendo,
è sempre bene speso;
e far lo puote,
ch’ei mi conosce ed
a ragion si fida.
60 Iersera appunto,
mille e mille lodi,
che ridirti non
vo’, di te mi fece,
che giunsi infino
a sospettarlo amante.
elisa Non fate sì gran torto a un cavaliero
sì illustre.
lisca Il primo non sarebbe, o cara,
65 che preferisse al
suo dover l’amore.
Voi siete bella
ed il mio cuor lo prova.
elisa Non mi lusingo tanto.
lisca Infin giurommi
ch’ei vivere non vuol,
se viver dee
senza l’amata Doralice
in braccio.
70 Ch’altra speme non
ha, ch’il tuo favore;
che ti farà felice,
allorché vogli
impiegar l’opra tua; e questa gemma
dal dito si cavò,
perch’io l’offrissi
a te mio ben, di sue
promesse in pegno.
75 Prendila, e in questa...
elisa Mi maraviglio
assai.
Non fia mai ver che la mia man tradisca
i sensi del mio cuore.
lisca Eh via, noi siamo
del mestiero; t’arrendi.
elisa Già m’accorgo
ch’il tuo padron
non mi conosce ancora.
80 lisca Guarda come sfavilla; eh via la prendi,
e voglia il ciel
ch’ella presagio sia
di quella ch’io spero
fidarti un giorno,
che non l’invidierà.
Ve’ com’è bella!
Sveglieria l’appetito a una
duchessa!
85 elisa Deh più non mi noiar, da me t’invola.
lisca Non ti sdegnar perciò, sempre avrai
tempo
di far la generosa;
almen ti muova
or la pietà di chi
languisce e muore.
elisa Ma come un tanto amor nacque improvviso?
90 L’immagini chi vuol,
ch’io non lo credo.
lisca Credilo a me ch’il giuro; ell’è così.
Io di più ti dirò,
mia cara Elisa;
e che non puote amor ne’ nostri petti!
In quest’istesso giorno, allorch’in
preda
95 del
suo disio scriveva a Doralice,
da
un trasporto d’amor tutto rapito,
come baccante dalle furie scossa,
di Venere e di Bacco; in piè levossi,
e tutti i fogli che teneano
ascosi
100 i
sospiri e l’amor delle più belle
donne
che fan più vago il secol nostro
dette alle fiamme ch’egli accender volle
co’ suoi sospiri istessi e tramischiando
di Doralice il nome, «a te consacro»,
105 dicea, «il mio cuor; su questo rogo istesso
l’idea
d’ogn’altra bella incenerisco
che non sia Doralice; e vo’ ch’il cielo
cenere mi riduca in un baleno,
come in cenere van gli accesi fogli,
110 se
mai più ardissi di cangiar mia voglia».[42]
elisa Oh questo è molto! Io ne stupisco
al certo!
lisca Tutto ciò che riguarda Doralice,
è un idolo per lui;
oh quante volte
rammenta il nome tuo!
Basta... se... infine...
115 Propizio amore il dolce
nodo stringa,
credimi, tu sarai
felice oggetto
dell’invidia altrui
ed io sarollo teco.
elisa Deh più non si vaneggi; assai di tempo
abbiam perduto insieme;
ora men volo
120 a portar l’imbasciata.
lisca Elisa, ascolta;
m’ascolta, Elisa,
ancor.
elisa Partir mi lascia.
lisca Io sospiro per te la notte e ’l giorno.
elisa So di non meritarlo e mi conosco.
SCENA OTTAVA
Lisca
e Scappino sotto il nome del marchese della Source.
scappino E ben, Lisca, che fai? Comprasti Elisa?
Vi è
luogo da sperare?
lisca Il gioco è dubbio.
Troppo mi pare accorta
e direi quasi
o ch’altri l’ha tirata
al suo partito,
5 o che scoperti
ci ha.
scappino Quanto ci vuole
per vincer la miseria
al giorno d’oggi!
lisca Purtroppo è ver.
scappino E se un del rango nostro
le chiome afferri alla fortuna, tutti[43]
ci fan la guerra,
coll’augusto nome
10 di virtude, occultando quell’invidia
che dentro il cuor
gli rode.
lisca Ogni piacere
ci funesta il timor.
scappino Finch’un felice
ardir tanto c’innalzi,
che trasformi
la prima nostra condizione
in quella
15 che muta il biasmo in lode e fa tacere
le leggi istesse e
chi pon mano ad esse.[44]
lisca Quando verrà questo felice giorno?
scappino Verrà, non disperar. Ma dunque Elisa
non cede alle
lusinghe?
lisca Ella resiste.
20 scappino Resisterà a suo danno, e se recusa
superba di servire
alle mie trame,
resterà oppressa nelle
sue rovine.
lisca Scappin, se’ troppo franco e troppo avvezzo
a fidarti tu se’ della
fortuna!
25 Pensa dove noi siam;
qui vive Alceste;
del tuo rival questa è la reggia e quivi
c’invitò Doralice;
e pur tu ridi?
scappino Sì; ridere mi fai, che temi sempre,
ove timor non è. Quando
mi veggio
30 tra queste mura,
in luogo di temere,
parmi d’essere in porto e mi figuro
tra gemiti de’ vinti
ed il confuso
plauso de’ vincitori,
ora calcare
con piè superbo il
campo, ch’il nimico
35 cedè già debellato al mio valore.
Canto le mie vittorie
all’armonia
de’ bellici instrumenti, assiso all’ombra[45]
della sua tenda istessa
e in queste piume
lasso di trionfar
prendo riposo.
Si getta a seder
sulla sedia d’Alceste in atto di dormire.
40 lisca Così tenti ingannare i tuoi rimorsi
con temerario ardire!
Alfin noi siamo,
benché in suolo nimico,
in libertade;
s’osi svelar del cuor
gli occulti arcani.
scappino Col dritto ch’ha sul vinto il vincitore
già mi fo ricco di
sue spoglie e godo
45 di violarli, impunito,
avanti agli occhi[46]
………………………………………………………….
lisca Sì sì; godi pur di delirar, mentre io
impallidisco e tremo
al nuovo rischio,
cui senza pensare
andiamo incontro.
Un grand’impegno è
questo, di rapire
50 un erede. Da far
molto ci resta
ed il più periglioso.
Si leva da sedere.
scappino
Oh; se’ codardo!
Dieci anni son che
la livrea cangiammo
in quelle spoglie
che al padron rapimmo,
allorché, come sai,
ei gli occhi chiuse!
55 lisca Purtroppo l’ho presente; andiamo avanti!
scappino Finor si è speso e s’è burlato il mondo,
Lisca da maggiordomo,
ed io in quest’aria.
lisca È ver; ma tu non di’ ch’in questo
tempo
per dieci volte almen, non si sa come,
60 abbiam scampato il
laccio o la maniglia.
scappino Quanto industre tu sei per tormentarti!
Ti rammenta piuttosto
i giorni lieti;
di’ che noi siam qui
salvi e alla vigilia
di cangiar stato;
e di’ ch’io solo alfine
65 di tanti rischi la
memoria porto;
ch’a cagion di quel caso maladetto
che m’arrivò nel gioco
di Torino,
soffrir dovei d’esser
bollato in fronte.
lisca E fu gran sorte quest’istesso!
scappino È vero:
70 lunga e difficil’è quest’arte e a forza
di perigli s’apprende;
oh quanto costa
il farsi esperto!
Ma l’industria umana
che far non può? Questa
disgrazia istessa
ho trasformata in
marca di coraggio;
75 onde al presente
ciascun crede e giura
ch’ella sia il frutto
d’un affar d’onore.
lisca Confesso anch’io ch’un fortunato ardire
rapiti ci ha finor
da ogni sventura
ma importuno timore
il cuor m’assale
80 e m’avvelena ogni
piacer presente;
onde parmi sentire a ogni momento
intorno al collo un
moribondo gelo
che mi tronca il respiro
e la parola.
scappino Eh questa è ipocondria! Viviam, compagno,
85 e non pensiam più oltre. È della vita
a tutti un fine istesso
e son contento
che sia come si voglia;
ognor che possa
brillar nel mondo;
né vo’ render tristo
tutto il corso vital per un sol punto.
90 Spendiam, se v’è denaro, e s’egli manca...
lisca Tu se indovino a fé!
scappino Si pensi tosto
come buscarlo.
Alò; coraggio!
lisca Invero
quest’è prudenza!
Che nell’arte nostra
il denar fa denaro; e solo in rischio
95 siamo allor ch’egli
manca.
scappino E per trovarlo
convien crescere il
lusso e raddoppiare
la spesa in ogni parte,
che sovente
il credito s’aumenta,
a proporzione
ch’il debito si cresce;
e questo è certo!
100 lisca Serio è l’affare; e se sposar tu puoi,
fingendoti il marchese
della Source,
questa giovine erede,
in un istante
ci additeranno per
esempio altrui
forse gl’istessi ch’or
con sopracciglio
105 mala voce ci danno
e mille biasmi.
scappino Purtroppo è ver, ma fidati una volta.
Alfin dirai che non si
è perso il tempo.
lisca Ma se fortuna assiste, in questo giorno
vo’ che s’esca di
gioco; e vo’ che ’l frutto
110 ci dividiamo delle
nostre industrie;
vo’ gire in loco,
ove sicuro possa
vivere occulto anco
a me stesso.
scappino È
giusto.
Io pur penso così.
lisca Perché ora mai
son stracco di soffrir
questi timori.
115 scappino Or via fatti coraggio! Apriam la scena.
Giuochi ciascun di
noi ben la sua parte.
Io da marchese e tu
da maggiordomo.[47]
Fine
del primo atto.
ATTO
SECONDO
SCENA PRIMA
Alceste, Crespino.
alceste Non mi parlar di
moglie; io son convinto
ch’è la maggior follia ch’uom faccia al mondo.
Pandolfo mi diredi e s’altro puote
inventar di più ingiusto, il metta in opra.
5 Finché
libero son, sarò felice;[48]
se l’uomo esser lo può, che non lo credo.[49]
crespino E pur voi nol dicevi or fa due anni,
allorché...
alceste Doralice il cuor m’accese!
È vero; io lo confesso
e mi vergogno
10 spesso meco medesimo.
E come quei,[50]
che in porto mira
l’orrida tempesta
con occhio indagator,
gode in vedersi
lungi al periglio;
or la catena istessa[51]
che pendea dal mio piè lieto rimiro
15 e devoto al mio genio
in voto appendo.[52]
crespino Ma se così gli padri nostri un giorno
avesser fatto; non saremmo
e ’l mondo
già finito saria.
alceste Cioè, questa nostra
specie maligna, misera
e proterva;[53]
20 cioè sarebbe quest’immenso
spazio
senza delitti e forse
illustre albergo
di sostanze più pure
ed innocenti,
com’era un dì, pria
che l’umana schiatta
tutto servir facesse
al suo capriccio!
25 Che quanto costi
alla natura, appena
puossi idear su’ laceri
frammenti,
preziosi avanzi d’infinite
etadi
che sepolte si stan sotto l’immense
rovine in sen della
gran madre, donde
30 gli tira il tempo
ad illustrar gl’ignoti
sospirati finor fasti
del mondo.[54]
crespino Basta, non ne so altro e non ne cerco,
ma s’io voi fossi,
in luogo d’impazzire,
vorrei godere il mondo, com’è
fatto,
35 scermi una sposa...
alceste E
che di’ tu idiota?
Che vuoi goder nel
mondo? E che vuoi scerre?
crespino Voi dite ben; non scelgono i par vostri
le spose; è ver; quest’è
un’usanza appena
sofferta in oggi tra
quei del mio rango.
40 alceste È ver quel che tu di’; ma questa scelta
nulla giova alla fin,
qualor sia forza
sempre di scerre un mal. Ma tu col volgo
vaneggia pur, che
spesso è l’ignoranza
il punto, ove s’aggira
la sognata
45 nostra felicità.
Mi lascia in tanto[55]
in questa pace amara,
e sol mi turba,
s’a caso torna a funestarmi
il giorno
quella perfida donna,
ond’io mi cerchi
sicuro asilo entro
al mio asilo istesso.
50 crespino Tutto al certo farò per obbedirvi;
ma facile non è.
alceste Lasciami in braccio
alla mia noia ed una
volta parti!
SCENA SECONDA[56]
Alceste.
Che trista condizion! Che far degg’io?
Tutto intorno m’è
orror! Tutto congiura[57]
a farmi odiar la vita
ch’io respiro!
Si getta a
sedere sopra la sedia, appoggia il gomito al tavolino e la testa sopra la mano in
atto di pensare; e dopo un breve silenzio con voce concitata seguita a parlare.
Purtroppo è ver, l’uomo
è infelice: il giuoco
5 di quella forza
che timore inspira,
occultando sé stessa
a’ sensi nostri!
Dal momento ch’ei nasce, egl’incomincia
tosto a morir: tutti
gli oggetti intorno,[58]
col continuo cangiar,
li sono agli occhi
10 trista immagin di morte: ognor lo punge
fiero disio di vita
e a sua difesa
non ha ch’i sensi;
e questi sensi istessi
inermi, s’il dolor si tolga loro,
per cui fievoli sono
e ognor fallaci,
15 robusti sol quando
diventan armi
delle passioni, per
far serva vile
nostra ragion superba,
anco nel tempo
che regina l’appella
il nostro orgoglio!
E schiavo vil di sue catene al suono
20 pur cantar osa libertade e insieme
vantarsi ch’al suo
piè tutto è soggetto;
mentre ch’intanto
questo re superbo
col suo giumento istesso
i suoi sudori
divide e colla man
di scettro vana
25 fin gli apre il tempio,
ov’il piacer s’accende
della Venere sua procace
e schiva!
Mentre che teme tutto
quel che ignora
e cerca nelle leggi
il proprio asilo,
senza scoprir che
queste istesse o sono
30 parto dell’impostura,
o ch’impotenti
s’usurpano il timor,
se in faccia a loro
sa l’uomo esser malvaggio ed impunito.
Già incomincio a scuoprirmi entro il cuor mio,
veggio alfin che la vita è una follia,
35 che tutto è inganno,
ed il piacere istesso
nasce e finisce nel
dolore.
SCENA TERZA[59]
Pandolfo,
Alceste.
Pandolfo
entra in camera senza esser osservato da Alceste.
pandolfo E
bene; signor nipote caro, ha ella ancora
pensato e risoluto?
Io mi lusingo
che tra questi suoi
libri avrà scoperto
il suo oroscopo.
alceste E chi creduto avria,
5 che la ricchezza
d’una donna ignota...
pandolfo Si parla di ricchezze! Manco male?
Vi è luogo da sperar.
alceste Tanto
dovesse
lusingar di mio zio
l’ingiusto cuore?
pandolfo Stiamo a veder ch’è qualche stravaganza!
10 Non merita la pena;
e forse i beni
d’Argante sono un
nulla? Ove siam noi?
Oh che secolo è questo?
Alceste
si rizza da sedere, quasi riscosso.
alceste O Dio
che veggio?
Come? Voi siete or
qui? Credeami solo.
pandolfo Sì, mi credeva anch’io che foste un pazzo;
15 un pazzo da catena,
e non m’inganno.[60]
È questo il frutto
degli studi vostri?
alceste Sì; da’ miei
studi ho appreso di soffrire,
senza turbarmi il cuor, gli altrui trasporti.[61]
pandolfo Bene: per forza anch’io apprendo l’arte
20 ognora di soffrir,
ma non so quanto
vorrò durar così.
alceste Peggio per voi.
pandolfo E chi lo sa? Vedrem
chi di noi due
meglio l’intende;
e se si muti usanza,
onde un ricco ignorante
oggi lezione
25 faccia a un dottore?
Or via venghiamo al fatto.
Ho già concluso il
vostro matrimonio.
alceste Di ciò non mi parlate. Io non vo’ moglie.
pandolfo E qual è la ragione?
alceste Oh; tante sono,
che non mi fido di
ridirle a mente.
30 Già ne ho tessuta
a mia difesa in queste
carte la vera lacrimosa
istoria;[62]
convinto ne sarete.
pandolfo Io non ne cerco,
contento di saper
ch’il matrimonio
è un uso antico assai
e se è cattivo,
35 lo sia: non l’ho
mess’io; ed a me basta
di non sbagliare in
quel ch’importa e certo
io son che ho scelta
un’occasion da re.
Seguane ciò che può; questa
ragazza
porta seco un tal
ben, da far beate
40 tre case almen, nonché la nostra; or quando
puosi mutar fortuna in
questi tempi
a spese altrui, credo
che lo faria
il vostro Plato ancor,
se pur non era
alla moda de’ savi
d’oggi giorno.
45 alceste Io non mi vendo altrui.
pandolfo Tutto
ha ’l suo prezzo.
alceste Né so pensar così.
pandolfo Lo veggo anch’io;
e qui appunto sta
il male.
alceste E se dovessi
al laccio marital piegar
la mano,
mai nol farei, se un vivo
amor sincero
50 non
rapisse a me stesso il voler mio.
Se di mia libertà, della mia fede,
prezzo non fosse e libertade,
e fede
di quella che m’accende e ch’essa pure...
pandolfo Oh quante belle cose! Ed io all’incontro
55 senza tanto studiar,
so ben ch’il caso
fa i matrimoni e la
prudenza umana
parte alcuna non v’ha,
se le si tolga
l’esame della dote
e de’ natali.
Doralice...
alceste Ma che? Di chi parlate?
60 Dunque vi sono ignoti
i suoi natali.
pandolfo Ma ella è ricca.
alceste Il suo
costume?
pandolfo Adesso
ricercar non ne voglio
e la suppongo
appunto come l’altre; e pur son mogli.
alceste Cioè?
pandolfo Cattiva, e come son le donne;
65 e più, se più volete;
ma ell’è ricca,
che l’altre non lo sono; e la ricchezza,
per chi ha giudizio,
ogni gran merto eguaglia.
alceste Ma se tal è l’inevitabil
legge
del matrimonio; oh
quanto sarei folle,
70 se convinto ch’è
un male e che non puote
cangiarsi in ben,
se la virtù non muti
l’affannosa catena
in dolce nodo
d’amicizia e d’amore;
ad onta ancora
della ragione e del
mio cuore istesso
75 sol pago d’un inganno
eguale al mio
con labbro mentitore
ora giurassi...
pandolfo Eh che queste son fole! Al giorno d’oggi
quando la sposa si
trasforma in moglie,
tosto s’agghiaccia
ogni cocente cura
80 ed è più saggio chi
può obbliarsi il primo.
alceste M’incenerisca il ciel, s’io...
pandolfo Uh che rovine!
alceste È vero, io credo il matrimonio un male,
sol per colpa dell’uom,
che rende all’arte
schiava natura; ma
rispetto e adoro
85 in esso quel principio,
onde l’umano
germe perpetuo fassi; onde le leggi
eterne son che per
ignote vie
trasforman quel disio che ci
trasporta
solo ad amar noi stessi
in quel sociale
90 amor che tutto l’universo
informa
e in eterna alleanza
unisce e lega.
pandolfo Oh che linguaggio è questo! Io non intendo,
né vo’ tornar
su quest’etade a scuola;
contento di seguir
quei che san fare,
95 senza tanto saper
bene i lor fatti,
dico ch’un si marita a solo oggetto
d’aver un figlio o
due, che porti il nome
della famiglia un
secolo più oltre;
che la moglie alla
fin dev’esser donna;
100 e a fé, s’è donna e moglie, una val l’altra;
onde vi torno a dir
che quando è ricca,
nulla deve importare
a chi ha giudizio.
Se sia di schiatta
illustre o della plebe;
se bella o brutta,
se malvagia o buona.
105 alceste Dunque
per voi le Veneri impudiche
e le caste Giunoni
hanno egual merto?
Sono una cosa istessa?
pandolfo E che so
io
che cosa vi dichiate?
Io non darei
un soldo sol di tutti
i vostri libri.
110 Senza studiar so che
chi è accorto tira
profitto ognor da tutti i casi umani.
E se la moglie a caso
è buona, puote
fare il marito da
tiranno; e s’ella
è come l’altre o li sia a peso, accorto
115 può rinchiuderla tosto
in un convento
a titol d’onestade e di decoro
e così ritornar quasi
alla prima
libertade e sgravarsi delle
spese,
far degli avanzi e
ridersi del mondo.
120 alceste Oh
che massime ree! Ma per far questo
ci vuol in petto un
cuor di fiera!
pandolfo
Eh; appunto!
Piuttosto per far
questo aver bisogna
cervello in testa
e meno stravolture,[63]
far quel che fan gli
scaltri e non cercare,
125 se detto l’abbia Seneca o l’Ariosto,
Bertoldo, l’Alcorano, od
il Boccaccio![64]
alceste Che confusion!
Qui non vi è senso! E come
posso sprezzar della
ragion le voci
ch’al cuor mi grida
il giusto e mi minaccia,
130 se le sue leggi offendo,
eterna pena
negli eterni rimorsi?[65]
pandolfo E siam
da capo!
Dunque chi si marita
il giusto offende?
alceste L’offende, s’altro scopo che l’amore
scambievole l’accenda.
pandolfo E siam
da capo!
SCENA QUARTA
Crespino e detti.
crespino Compatite, Signor, s’io v’interrompo:
un lacchè forestiero,
impertinente,
pien di superbia e carico
di penne,
ch’io parlar non intendo,
alfin m’ha fatto
5 capir con gran
fatica e con gran pena
ch’io render vi dovea questo biglietto.
alceste Chi ’l manda?
crespino Non lo so; dopo le molte
m’ha detto un nome
che non è de’ nostri:
ma sia pur chi si
voglia, io v’assicuro
10 che un’altra volta...
a fé ch’io non la soffro
e li risponderò
con un bastone.
pandolfo E che cosa è seguito? Ei forse cerca
di qualche cosa?
crespino Oh, senza dubbio i’ credo
che, s’è venuto,
qualche cosa e’ voglia.
15 pandolfo Male!
alceste Dov’è costui?
pandolfo L’hai chiuso
fuori?
alceste L’hai messo in casa?
crespino (a
Pandolfo)
Signor sì.
(a Alceste) Signor no.
alceste Vanne; digli...
Anzi no... fallo passare. Nell’i-
stesso
pandolfo Ah furfante che sei... serralo fuori. tempo.
crespino Che imbroglio è questo mai? Che far degg’io?
20 Voi mi fate girar...
Non so che farmi.
Finiamola una volta!
pandolfo Io qui
comando;
mettilo fuor dell’uscio.
alceste Eh;
non conviene!
pandolfo State a veder che questo punto ancora
decider s’ha con qualche
libro antico?
Alceste prende
il biglietto e l’apre.
25 alceste Quest’è un lacchè di monsieur della Source.
pandolfo E ben stia fuor questo signor monsù;[66]
ma che vi turba mai?
alceste Or via
leggete.
pandolfo E che diavol sarà?
Crespin va’, presto,
serralo fuori, o almen fagli la guardia.
30 Io non sto quieto;
infin che sia sicuro
ch’egli fuori non
sia o ben guardato.
crespino Subito vado.
alceste Io spero alfin che voi
conoscerete Doralice...
pandolfo Eh là!
Eh là!
Crespin, Crespin...
crespino Signor?
pandolfo Se
tu non puoi
35 serrarlo fuor, tien gli occhi aperti.
crespino Ho
inteso.
pandolfo Bada; di te mi fido.
crespino Ho inteso, dico.
SCENA QUINTA
Pandolfo, Alceste.
pandolfo Ah, ben. Eccomi a voi. Che foglio è questo?
alceste Leggete alfin.
pandolfo Non può sapersi insomma,
che cosa sia?
Io non ho occhiali;... e poi
la man mi trema
e son fuor d’esercizio.
5 alceste Or via leggerò io.
pandolfo Si serva
pure.
alceste (legge
il biglietto) «Con mia sorpresa in questo giorno apprendo
come,
irato ch’io adori Doralice,
osaste
ritirar la man che offriste.
D’un
trasporto simil ragion domando
10 e
vi dichiaro intanto in questa carta
ch’io
sospiro il suo amor, non le sue nozze.
Ma
se sia mai che ardiste oggi un pretesto
far
quest’istesso, per mancar di fede,
pria
converrà che un ferro micidiale
15 decida
il nostro fato e che s’ascolti
lo
spirto fuggitivo d’un amante
di
Doralice l’adorato nome
sparger
pel corso immenso e sconosciuto
ch’alla
sede fatal l’alma conduce.
20 Io
la risposta attendo e questa sia
o
quali conviene a un reo che pietà chiede;
o
d’accettar l’onor di pugnar meco.»
pandolfo E bene? E che pensate?
alceste È questo
scritto
di Doralice alla toilette;
forse
25 ella stessa dettollo; ed il sigillo
che questa carta chiude,
impressa porta
l’impronta della gemma
ch’io le diedi
in pegno di mia fé, dell’amor mio.
Perfida!
pandolfo Eh questo non importa molto.
30 Frutto è bensì dell’imprudenza
vostra.
Ma, si taccia; per
or convien pensare
ad uscir con onore
e senza danno
da un simile imbarazzo.
alceste E che
mai dite?
Come? Di che son reo?
Già mi protesto
35 che risoluto sono,
io non la voglio:
seguane ciò che vuol. Non
fia mai vero
che ceda per viltà.
Non sa ’l mio cuore
che sia temer.
pandolfo Pian pian, non tanta fretta.
Andiamo a quel che
importa; io non ci veggo
40 gran mal fin qui.
Una gelosa furia
v’agitò il cuore e
trasportovvi al segno
di rifiutar le nozze
che bramaste
un giorno e ch’io
per voi fermate avea.
A tutto v’è rimedio.
alceste E qual
fia mai?
45 pandolfo Lasciatemi parlare alla buonora;
basta che mantenghiate la parola;
è disciolto l’impegno.
Ei si dichiara
non ambir le sue nozze.
alceste Ma... leggete.
Dice però che
l’amor suo pretende.
50 pandolfo Oh; lasciate ch’ei l’ami.
alceste Eh via
tacete.
pandolfo Eh via; doniamo a’ cavalieri erranti
battersi per l’amor delle lor belle![67]
alceste Un pensiero sì vil
detesto e aborro.
pandolfo Dunque perder volete un certo bene
55 a prezzo ancor d’espor
la vita al rischio?
alceste Io non curo la vita
e ben felice
sarei di darla cento
volte e mille,
piuttosto che sposar
donna sì rea.[68]
pandolfo Eh queste son pazzie! Un giorno solo
60 di vita val quel che più spiace al mondo.
alceste Io non penso così, né l’amo tanto,
da preferirla all’onor mio.
pandolfo Oh,
questo
è facile a salvarsi.
alceste A me
la cura
lasciatene, vi
prego.
pandolfo E ci vuol
tanto?
65 Basta metter l’affare
in un duellista
ch’esperto sia: ei ben troverà il modo
di scior l’impegno a forza
di parole,[69]
senza perder l’onore
e senza sangue.
alceste Io non cerco di questo e non lo voglio:
70 voi propor lo dovete
a chi desia
celar sotto la spoglia
di valore
la viltà, la paura.
pandolfo Oh, pazienza!
Andiamo a scuola ancor!
Stiamo a vedere,
finor tutti han sbagliato.
alceste Io
non rispondo
75 d’altri che di me
stesso e sol vi dico
che sono a’ miei diritti
ognor difesa
le leggi e non l’arbitrio; e solo allora[70]
ch’altri ingiusto
le offenda e in danno mio
le faccia mute o inermi,
io mi difendo.
80 pandolfo Ma infin...
alceste Ma infine vi ritorno a dire,
che son stufo del
volgo e ch’io mi rido
de’ suoi vani rumori.
È già un gran tempo
ch’ho risoluto di
voler far uso
della mia libertade; ogni consiglio
85 è vano; ogni ragion
si taccia; a costo
della mia vita istessa.
Io Doralice
non voglio in moglie
e quest’istesso ho cuore
di replicare al folle
vagabondo.
pandolfo Facciamola finita: è
giusto ancora
90 che
di mia libertade anch’io mi serva.[71]
alceste E chi vel niega mai?
pandolfo Lo credo
certo,
che alcun farlo non
osi. Io dunque penso
di non lasciarvi nulla;
a questo prezzo
siate stravolto pur
quanto a voi piace.
95 alceste Per qual delitto mai merto tal pena?
pandolfo Ogni consiglio, ogni ragion si taccia!
Ho risoluto anch’io
di far quest’uso
della mia libertà.
alceste S’a voi non preme
d’esser ingiusto, converrà ch’io soffra
100 questo
colpo fatale, a me più lieve[72]
che d’esser vile e
d’umiliarmi al segno
di chieder per timor
le odiate nozze.
pandolfo Io nel vostro piacer provo contento.
alceste Saravvi ognor presente che mio padre
105 lasciovvi i beni, onde voi ricco siete.
pandolfo Eh figlio mio, ogni dì più m’avveggio
che invecchio assai;
quasi perduta affatto
ho la memoria e mi
ricordo appena
che posso far del
mio quel che m’aggrada.
SCENA SESTA[73]
Alceste solo.
Vanne, stolto
che sei, dove ti guida
il tuo cieco furor; fa’ quel che puoi;
che non avrai lo stolido
piacere
di farmi vil. Sì; vincerò mia sorte!
5 E se ne’ crudi
fati miei fia scritto
che ceder debba, in
mia virtude involto,
senza temer, con volto
indifferente
mi opprimeranno le
rovine istesse.
Fine
dell’atto secondo.
ATTO TERZO
SCENA PRIMA
Doralice,
Elisa.
doralice Sì; a momenti l’attendo. Io vo’ ch’appunto
in quelle istesse
soglie ei mi sorprenda,
perché è importuno
a Alceste e perché un giorno
gli fu rivale ancora.
elisa E non v’arretra
5 solo il pensar
quanto sia ingiusto il passo?
E come mai; violar
gli altrui Penati?
Il sacro dritto dell’ospizio?
Doralice ride.
doralice Io
rido
di codesti tuoi sogni;
e penso solo
a rendere men grave
il pigro corso
10 di questo dì, che
sciolga il tristo esiglio,[74]
in cui non trovo
altro piacer ch’il vano
trionfo di vedermi
in quelle mura
a dispetto d’Alceste;
e farmi un giuoco
lo schernir questo
Diogene feroce;
15 e render la sua botte oggi il teatro[75]
dell’amorose fole.
elisa Eh via che dite?
Deh cangiate consiglio;
e vi spaventi[76]
quella pena ch’è sempre
amaro frutto
de’ falli istessi.
Io per voi tremo, allora
20 che leggo nel futuro
il fato acerbo
che vi formate. E voi ridete?
Doralice ride.
doralice Io
rido!
Oh ve’ quanta dottrina!
E pure io posso,
se mi salta il capriccio,
impastoiarla
tutta di poca stoppa entro un pennecchio,[77]
25 pettegola che sei!
elisa Troppo s’avanza;
ma questo pure
alle mie vesti il debbo!
doralice Elisa,
alfin convien venire a’ patti;
s’ami d’essermi cara
e di star meco,
non vo’ più rimostranze;
io non ti chieggio
30 consiglio sulla scelta
de’ miei amori.
Pensa come conviene
al grado tuo;
pensa ch’il mio non
è.
elisa Ma è però certo
che Argante, a cui...
doralice Che? Elisa,
ho inteso già.
Meglio di te conosco
il padre mio.
35 È ver, molto è mutato.
Io non vorrei
ch’un imprudente zelo...
E che fia mai?
Tu cangi di color?
Mi guardi? E taci?
elisa Voi non credete già ch’io...
doralice Io
credo solo
quello che veggio.
elisa No; non dico questo.
40 Dico che non vorrei
che v’ingannaste,
pensando ch’il timore
o l’interesse
possa farmi tacer
quel che dir deggio;
possa farmi obbliare
il dover mio.
doralice Fa’
pur quel che ti piace; io me ne rido.
45 Conta alla fin del
giuoco... Sta’; mi pare
che fermi una carrozza!
Ah non è altro!
Guarda
l'oriuolo.
L’ora è passata già
di due minuti.
Ogn’indugio mi è pena.
elisa Ah si consoli;
certo non mancherà.
doralice Eccolo
appunto.
50 Non m’inganna il mio
cuore. Io qui m’assido
sopra il trono d’Alceste;
e qui vogl’io
(si mette a
sedere sulla sedia davanti al tavolino)
esser sorpresa
in atto di spedire
un dispaccio amoroso.
Incontro vanne,
Elisa, e dilli ch’io
per lui sospiro.
55 elisa Volo a servirla. Ecco una nuova scena!
SCENA SECONDA
Doralice.
Prendiamo ormai la
penna: ed una volta
s’incominci il biglietto.
«Anima mia.»
Doralice
guarda la penna e ride.
E che direbbe Alceste?
Or s’ei vedesse
ch’io calpesto così
suo fiero orgoglio
5 e ch’ardisco atterrar
con man profana
entro i suoi Lari
il suo Palladio istesso?
E che non pagherei
pel bel piacere
che scriver mi vedesse
col suo inchiostro,
coll’istessa sua penna
al suo rivale?
10 «Anima mia»? Ma pian; sto dubbia ancora,
s’io fingere mi debba
per l’indugio
sdegnata, o lusinghiera.
I vezzi sono
l’armi che die’ natura
al nostro sesso,
ch’espugnar sanno
uomini e dèi; talora
15 un opportuno sdegno
esca è all’amore;[78]
s’adulto sia; ma è
troppo rischio ancora.
Dunque serviamo all’arte
e si prescelga
la lusinga per or;
fregiamo il foglio
d’amorosa divisa.
«Anima mia.
20 Questa carta amorosa a te sen vola
sull’ali del desio...» Ma, come mai
un indugio sì lungo?
Ancor non viene!
Era pur d’esso! Ah,
non vorrei ch’Elisa
facesse la vestal per ingannarmi.[79]
Si
leva da sedere e va frettolosamente verso la porta in aria di voler sentire.
25 Pur non lo sento
ancora... Al certo Elisa
mi contrasta il trionfo!
Sta’... ch’e’ viene.
Ritorna nuovamente a scrivere.
«Sull’ali del desio. Forse nel tempo,
barbaro
che mi fuggi e che m’obblii...»
SCENA TERZA
Scappino, Doralice,
Elisa.
scappino Bellissima mia dea, in questo loco;
nella tenda nimica;
io non sperava
un momento sì lieto
e sì felice!
doralice «Barbaro
che mi fuggi e che m’obblii.
5 Se
tu sapessi, oh Dio! Qual pena senta
per
l’indugio crudel...»
scappino Di che ti lagni?
Chi mai t’offese?
doralice «Per l’indugio crudel
quest’alma
mia...»
scappino Deh,
bella Doralice,
deh ritorna in te
stessa e rendi a questa
10 misera salma mia
l’aura di vita!
Doralice
si leva da sedere.
doralice Oh Dio! Che veggio? E qual sorpresa è questa?
E che faceste Elisa?
elisa (a parte) (Oh che gran caso!)
Io non volea; m’opposi; ma...
scappino Impaziente
tutto vinse il mio
amor.
doralice Deh perdonate;
15 improvviso piacer
muta mi rende.
scappino Perché improvviso mai?
doralice L’indugio
vostro
freddo timore in sen
mi sparse; ond’io
tradita mi credea.
scappino Nel tempo istesso
ch’in casa al mio rival tutta rapita
20 d’un’estasi d’amore
io vi sorprendo
a scrivere un biglietto!
Ah; ch’io m’avveggio
che invan mi lusingai!
doralice Questo
rossore,
che molesto le guance
or mi dipinge,
tradisce il mio
tacer; leggete in esso
25 quel che spiegai
nel foglio; i vostri indugi...
scappino Gl’indugi miei son prova del mio amore.
doralice Come prova d’amor?
scappino Nel tempo istesso
che il piè volgea a questo loco, Alceste...
doralice Alceste? E che fia
mai?
scappino S’ardì spedirmi
30 in questo foglio
la risposta ch’io
pria di leggerla ancora
a voi consacro,
anima mia, al vostro
nume.
elisa O;
caro!
Così si perde il senno!
doralice Ascolta,
Elisa,
e ridi. (Doralice ride)
Alceste alfin rispose; io rido. (Doralice ride)
35 Io rido, imaginando i suoi trasporti.
scappino Ed a ragion. Ma via, su; aprite il foglio,
o bella Doralice.
elisa Inutil
opra
parmi d’aprir la carta; abbiam già riso:[80]
ch’importa più chiarir
s’egli lo merta?
40 doralice Oh quanto se’ noiosa! Or da te stessa
ti disinganna alfin. Prendilo e leggi.[81]
scappino Ma pria veggiam di noi chi l’indovina.
doralice È vero; aspetta ancora.
scappino Ei pietà chiede.
doralice Il credo anch’io.
scappino Il giurerei; già godo
45 d’aver scoperto sua
viltà, ch’a voi
dà il bel trionfo
di sprezzarlo e insieme
punirlo col rifiuto.
elisa E
che direste,
se poi così non
fosse? Udite, io leggo:
«Mai
sposerò chi il suo dover non cura;
50 non
temo che le leggi e a queste io servo;
così
risponde a un temerario Alceste.»
E bene? E che ne dite?
Or via si rida;
Alceste si disprezzi!
scappino Oh quest’è troppo!
doralice Quanto è villan!
scappino Quanto
è codardo! Insomma
55 ei ricorre alle leggi.[82]
doralice Ed
il cimento
d’onor fugge così!
scappino Di pugnar meco
al certo indegno egli
è.
doralice Purtroppo
è vero.
scappino Chi si rifugia delle leggi all’ombra,
merita di spirar l’anima
vile
60 a colpi di bastone.
elisa Oh che lezioni!
scappino Ed io giusto sarò, che penso or ora
per man del mio lacchè
d’ornargli il viso
con cento colpi almen di questa canna.
doralice Sì sì, questo va bene.
elisa E che mai dite?
65 Siete in casa d’Alceste.
doralice Io mi
vergogno
di quest’istesso;
è un vile!
scappino Egli è un codardo!
elisa Come codardo e vil chi ardisce
dire
non temer che le leggi?
doralice Oh quanto
è lunga?
La vuoi finir?
scappino Non sono al mio paese
70 le damigelle tanto
ardite.
doralice Il credo;
ma questi, o caro,
no; non son paesi;
gran tempo è ch’io
lo dico!
elisa Il dico anch’io
che non s’usa così
trattar gli amici;
Alceste infine un
giorno vi fu caro
75 e forse amante.
doralice Come? Ora m’avveggio
che mi conosci male;
altro ci vuole
per accendermi il
cuor, che un uom del volgo.
scappino E poi meco è l’affar. Son pronto ancora
farli l’onor di Doralice in grazia
80 in quest’istesso
loco (batte il piede in terra),
assiso a questa
tavola (batte la mano sulla tavola) offrirgli
un colpo di pistola
che or di nostra ragion
decida. Il rendo
così eguale a me stesso;
e quando piaccia
la mia causa alla
sorte, avrà la gloria
85 almeno di morir da
cavaliere
chi finor visse ignoto;
e se ricusa
un tanto onor, non dee lagnarsi poi,
se lo tratto da vile;
anzi contento
goda comprarsi a spese
del suo dorso
90 vita ch’è a lui sì
cara.
doralice Oh quest’è
meglio.
Facciam così: ch’ei viva
a questo prezzo,
che la viltà non disonora
il volgo.
elisa Mi sento inorridir! Come potete
pensar così d’Alceste?
In questo punto
95 voglio che sappia
Argante il suo periglio
in quello della figlia.
doralice Oh vanne
pure,
un piacere mi fai.
scappino (a parte) (Parla d’Argante!
lusingarla convien.)
doralice Stolta,
se pensi
d’atterrirmi così!
Dilli in mio nome
100 che Alceste è un vile.
Ch’io...
scappino Alceste è un vile?
Ma s’egli ebbe
l’onor di farvi corte?
S’ardì fissar
in voi le sue pupille?
Se lo soffriste;
o lo fingeste almeno?
Quest’istesso
è suo pregio. Elisa, forse,
105 (a parte) (perdonate al mio amor, bella mia fiamma,
s’io parlo contro
voi) Elisa forse
qui non ha torto.
elisa (a parte) (Oh ve’ come d’Argante
il nome sol fa
ritornare al cuore?)
scappino Forse, per questo sol far mi dovrei
110 a lui difesa; il vostro
onore, il mio
vuol ch’io sublimi,
ad onta del mio sdegno,
questa materia
inerte; e ch’io lo renda
anco eguale a
me stesso!
doralice Oh
quest’è troppo!
Quanto siete gentil,
quanto vi debbo!
115 scappino Lasciamo agl’italiani
empir le carte
di
vani complimenti; io son contento[83]
d’amare per amar.
Sia sempre premio
dell’amore
l’amor, né
basso oggetto[84]
avvilisca giammai
gli affetti nostri.
120 doralice Quest’è
pensar che non s’impara a scuola.
E che ti pare
Elisa?
elisa Esser non posso
io giudice di
ciò.
doralice Quanto è mai bello!
«Sia
sempre premio dell’amor l’amore.»
scappino Deh mia cara, non più. Tinger mi sento
125 le guance di rossor.
doralice «Né basso oggetto
avvilisca
giammai gli affetti nostri!»
Quanto è sublime!
scappino Eh via, l’ho detto a caso.
Tutta è vostra bontade.
doralice Alceste,
o Elisa,
non parleria così.
elisa D’Alceste il labbro
130 spiega il suo cuore
e del suo cuor le voci
d’innocente natura
i moti sono.
scappino (a parte) (Qui non c’è il conto mio,
convien ch’io pensi
a variar tema). Perdonate,
s’io
v’interrompo importuno.
Io vorrei pure
135 ad Argante parlar.
doralice Qui tra
momenti
l’attendo.
scappino Il tempo vola ed un affare
altrove mi richiama.
doralice Ah veggio
bene
che qui tutto v’annoia;
Elisa, vanne,
presto, cerca d’Argante.
elisa Io
non vorrei...
140 doralice Vanne,
eseguisci e taci; a chi dich’io?
elisa Obbedisco.
SCENA QUARTA
Scappino, Doralice.
scappino Partì pur una volta!
Cara, lasciate alfin di sospettare
del sincero amor mio!
È già gran tempo
che sospiro il momento
fortunato
5 d’aprirvi in libertà
questo mio cuore.
doralice Spiegatevi mio ben.
scappino Fiero sospetto
mi fa temere Elisa
per nemica.
Mi fa temer che forse
ell’abbia in capo
qualche segreto scopo.
10 doralice E qual saria?
scappino Io dir nol so; son forestier; ma pure
giurerei...
doralice Che?
scappino Che macchinasse forse...
doralice Forse di maritarmi a modo suo?
scappino Potrebbe ciò seguir... ma... chi sa? Basta
15 non vo’ far mal altrui;
potrei ingannarmi.
doralice Dunque m’amate; e ciò che mi riguarda
nasconder mi potete?
scappino È un mio sospetto;
son uomo delicato
e non son uso
giudicar mal d’altrui.
doralice E per
sospetto
20 prender saprò quel
che mi dite; io voglio
dunque saperlo; io
dirò ben che sia
inerme l’amor mio,
s’ei non conquista
l’inutil repugnanza.
scappino Io tutto cedo
a quell’amor ch’al
mio volere impera.
25 Ecco il mio cuor
vi svelo. Io per me temo
che pensi Elisa forse
in casa vostra
come acquistarsi sopra
voi l’onore
de’ materni diritti.
doralice E che
fia mai?
Sorpresa io sono;
e quale in me si forma
30 trista serie d’idee?
Già già mi piango
in questo estremo
mal sommersa; e parmi
vedere il genitor prestar la mano
alla vil donna; e rinnovarmi insieme
quel laccio, da cui
piacque alla natura
35 di sciormi allorché mi rapì la madre.
scappino Ma forse invan vi tormentate; è questo
un mio sospetto; e
sul mio onor vi giuro
che non so nulla.
doralice Ahi, che
purtroppo il male
s’avvera. E tutto
al cuor me lo predice.
40 Quel suo altero contegno!
scappino E
più il vedere
che conta sempre di
dispor d’Argante
a suo talento.
doralice E quell’opporsi ognora
alle mie voglie.
scappino La continua lode,
con cui lo stato maritale
inalza,
45 prova per me, ch’ardentemente
il brama.
doralice E poi, voi ben sapete, tra le donne
plebee si è sempre
il primo scopo quello
di farsi moglie.
scappino L’animo servile
non può pensar ch’a
servitù.
doralice Mio
padre
50 è vecchio.
scappino
Sì; ma le due etadi estreme
sono al pari in amor
fatali all’uomo,
perché deboli al pari.
doralice E che
far deggio?
Chi mi consiglia?
scappino Parlerò più chiaro;
ma tutto in confidenza.
doralice Io vi
prometto
55 un eterno segreto.
scappino Il cuor d’Elisa
tentai già con lusinghe;
il vinsi alfine,
e ne tirai l’arcano;
or lascio a voi
farne buon uso. Argante
è padre e v’ama;
voi dovete contar
sopra ’l suo affetto;
60 sopra il semplice
cuor; dovete insomma
far sì ch’Elisa vada
fuor di casa;
e libera sarete.
doralice Io già v’ho inteso.
ma ciò facil non è.
scappino Lo veggio anch’io.
doralice Pur non perdo il coraggio e pronta sono
65 a tentar tutto.
scappino Almen s’inutil fia,
il sospetto sarà sempre più giusto
perché... Ma vo’ tacer.
doralice No no
vi prego.
scappino A me non pare...
doralice Eh parlate di grazia.
scappino Vostro onor di soffrir sotto una serva,
70 quel che non soffrirebbe
una novizia
da
una maestra vecchia e scrupolosa,
che sempre trista
e di cattivo umore
faccia pompa sprezzar
quel che le tolse
l’etade istessa.
doralice Ad onta del mio duolo[85]
75 il vostro brio quasi
mi sforza al riso.
Ma tosto torno al
mio dolore e penso
che in vista a un
mal estremo ognor si tace
la prudenza, il dover.
Che giusto infine
è il tentar tutto;
e ogni rimedio estremo
80 necessario diviene.
scappino Ancorché fosse
la fuga istessa l’arme
più possente
che possa usar contro
il rigor paterno
una donzella!
doralice Ho tal coraggio in
petto
di farlo ancor, se
il genitor mi niega
85 quel ch’è mia voglia.
scappino Io nol
dirò giammai.
Ma sappiate, mio ben,
che son costante;
che seguirovvi in ogni rea fortuna;
che pronto sono in
mezzo a mille spade
spirar l’alma per
voi. Io ve lo giuro
90 sull’ara
del mio cuore al vostro nume.[86]
Ecco la mano in pegno.
doralice Ed io l’accetto.
E giuro...
scappino Sì; che parlerò ad Argante.
Sì; potrete cacciar
di casa Elisa.
Lo spero almen; ma; viene il padre vostro.
95 Ritiratevi, o cara,
e me lasciate
in libertà un momento.
doralice Il piacer
vostro
sempre sarà mia voglia.
Io parto. Addio.
scappino Tiriamoci in disparte.
SCENA QUINTA
Argante,
Scappino.
argante Ognor mill’anni
parmi: che il dì finisca!
E che disciolto
l’impegno con Pandolfo,
egli mi lasci
alfine in libertade, ond’io ritorni
5 con la figlia ed
Elisa in casa mia.
scappino Oh
lieto incontro!
argante Che diavol vuol costui? Ma; pazienza!
Oh mio padron debb’io servirla in nulla?
scappino Gran tempo è già che sospirava avere
10 l’onor di tributare al merto vostro
gl’incensi del
mio ossequio.
argante O
mio signore,
ella mi sbaglia al
certo. Argante io sono
e so non meritar quest’espressioni.
scappino Forse vi è ignoto il nome mio? Il nome
15 du
marquis de la Source?
argante Oh mio
padrone!
Umilissimo servo.
scappino Io quelli sono
che in casa vostra
meritai l’onore
d’essere spettator
di meraviglie
nuove a quest’occhi istessi, ancorché avvezzi,
20 sul teatro del mondo
a non curare
quel ch’a ogn’altro
è sorpresa.
argante Eh via, di grazia
avverta non sbagliar;
mi chiamo Argante,
né so d’aver nel mio
tugurio nulla
che possa meritar
lode simile.
25 scappino Sì; tugurio eh? Vi piace scherzar meco?
Tugurio, che in
sé chiude le più belle
opre che mai sapesse industre
mano[87]
di fiammingo pittor
segnare in tela?
Che ricoperto di preziosi
arazzi
30 quasi fa invidia
ad un regale albergo!
Ricco di porcellane
e di lucenti
veneti specchi, di
metalli e marmi,
ne’ quali il minor
pregio è quel valore
che lor natura infuse.
argante Io non ci ho parte.
35 tutto debbo all’industria
ed all’amore
d’un mio fratel
maggior, che fe’ il mercante
in Ostenda gran tempo,
e dove ei chiuse
l’estremo dì, che
mi lasciò suo erede.
Or padron mio, le
son molto tenuto.
40 Debbo servirla in
altro?
scappino E voi volete
che in oscuro
silenzio or lasci ingiusto
quel che sovra degli
altri vi distingue?
Che faria insuperbir...
argante Che sarà mai?
Ancor non mi ritrovo...
scappino Infin, ch’io lasci
45 di nominar la vostra
figlia, a cui
questi son pregi
esterni e ognor minori
di quel che merta e che il suo spirto adorna?
argante Il ciel lo voglia. Ardentemente il bramo.
50 era l’istessa avanti
ancor che avesse
queste speranze;
e pure allor veruno
non s’era accorto in lei di queste doti,[88]
che or sono a tutti
maraviglia e invidia.
scappino Ma voi mostrate sospettar ch’io sia
55 un vile adulatore,
un uom venduto:
e che qualche
interesse il cuor mi punga,
fuor che l’amor del
vero?
argante Eh mio signore
giammai non dirò questo.[89]
scappino Or io vi voglio
appien disingannar, son
persuaso,
60 voi sospettar dovete
che la corte
ciascun vi faccia
per avere in sposa
la figlia vostra,
perché è sola e erede.
Ma simili sospetti
ingiurie sono
ad un del rango mio,
che mai non dee
65 sé medesimo obbliare.
argante Eh mi perdoni,
non son uso a
trattar con gran signori;
non credei farle offesa,
onde il mio errore
colpa non ha, se involontario
il feci.
scappino Sì sì; lo veggio anch’io; e ciò mi sveglia
70 ora in cuor la clemenza
e quest’istessa
virtù divien,
che in altro caso fora
viltà, quand’io m’umiliassi
al segno
di farne dono a chi
padre non fosse
di Doralice, che ogni
merto eguaglia.
75 argante Le son molto tenuto e finch’io spiri
l’aure del giorno, la memoria eterna
avrò di quest’onor; ma se si degna
d’accordarmi la grazia,
io partirei.
scappino Non ho finito; anco un momento io voglio
80 da voi.
argante Sono a’ suoi cenni.
scappino Or vi confido
che parto tra
momenti, un alto affare
mi chiama ad una corte.
argante Un buon viaggio
di cuor le auguro,
o mio signore, e insieme
tutto le offro me
stesso.
scappino E voi? Partite
85 pria che vel dica?
argante Nel
mio partir credea
d’obbedirvi, signor.
scappino Voi
v’ingannaste.
Mi resta ancor d’incaricarvi
a dirlo
alla mia bella fiamma:
a Doralice.
argante Volo a servirla.
scappino Ancor non ho finito.
90 Dite che ’l mio destin vuol ch’io m’involi
così dagli occhi
suoi; perché il mio cuore
senza scuoprir sua debolezza estrema
soffrir non può l’ultimo
addio. Voi dunque
restate in pace e
alfin sicuro e quieto,
95 ch’è ben lungi il
marchese della Source,
d’innalzare al
suo talamo la figlia
d’Argante.
argante Il veggio anch’io ch’ella nol merta,
né mai sì folle da
sperarlo io fui.
scappino Ella n’ha tutto il merto; i suoi natali
100 solo le vietan di poggiar là, dove
giunger non puonno con gli alteri vanni,[90]
ch’aquile generose.
argante Ah; pazienza!
Convien che ciascun sia contento e pago
della sua condizion.[91]
scappino Voi dite bene,
105 ma l’onor de’ natali, ancorché sia
dono del caso,
in cui parte non avvi
quei che lo gode;
e che sovente debba
sostener l’ombre ed occultar ben spesso
anime vili, idolatrar
si dee
110 come s’ei fosse appunto
un don del cielo.
argante Sia pur come si voglia.
scappino E vostra figlia
è troppo savia per
esporsi al rischio
del matrimonio, ch’infelice
preda
la faria d’un avaro, o d’un villano.
115 argante Cotanto saggia non la bramo; al segno
d’aborrire uno
sposo; e sol desio;
pria che s’arresti
di mia vita il corso,
vederla e sposa e
madre.
scappino Io non condanno
il vostro amor paterno,
ancorch’ammiri
120 lo spirito viril di vostra figlia:
entro ne’ vostri
sensi e voglio farvi
l’ultima confidenza
e poi vi lascio.
argante Faccia come le piace.
scappino Al fatal
nodo
ella già mai non presterà
la mano,
125 fino che resti in casa
vostra Elisa;
e che voi...
argante Ch’io? Or più non mi ritrovo!
scappino Sì, sì; che voi...
argante Resto sorpreso ancora!
scappino Che voi più non pensiate a farvi sposo;
darle una matrigna.
argante In quest’etade
130 ch’io pensi a pigliar
moglie? Io, che nol feci
quando ancor giovinezza
per le vene
lieta scorrea, sol per lasciarmi erede
la figlia mia?
scappino E pur v’ha chi pretende
di poterlo sperare,
or che degli anni
135 il tristo incarco già v’opprime il dorso.
argante Eh, quest’è un sogno.
scappino Anzi dirovvi
ancora,
esservi fin chi vanta
aver diritto
di forzarvi ritroso.
argante È
un mentitore
chi l’osa dir. Svelatemi,
vi prego,
140 chi sia costui.
scappino Giurar vi posso, amico,
che più non mi
sovvien. Son forestiero;
non conosco la gente;
e meno i nomi.
Ma, parmi... eh no... non mi ricorda... è certo
però, che tutta la
città lo crede.
145 Anzi di più... or mi
ritorna in mente;
io vel dirò sincero e son sicuro
di confidarlo a un
uom del mondo esperto:
insomma ad un amico,
che buon uso
farne saprà a suo
tempo.
argante Io ve lo giuro;
150 e poi, se in quest’età
non fossi ancora
atto a frenar
me stesso e non sapessi
tranquillo riguardare
i casi umani,
avrei ben poco appreso
in questa scuola,
in cui del viver mio
la miglior parte[92]
155 persa v’ho già, che
poco più mi resta,
per far pompa
dell’arte o averne il frutto.
scappino Dunque di voi mi fido e infin dirovvi
che tra molt’altri, che or non ho presenti,
l’istessa Doralice
a me lo disse.
160 argante Doralice? E può dunque ancor mia figlia?
Ingrata all’amor
mio...
scappino Vi sia presente
che mi giuraste
d’ascoltar tranquillo
ciò ch’io dir vi volea; o ch’io mi taccio.
argante Ma Doralice poi...
scappino Sì;
Doralice
165 l’arcano mi fidò. Io
nol credei; e parmi
che fin giungesse
con un certo foglio...
di cui non mi sovvien...
So ben ch’allora
restai convinto, o
almen mi parve.
argante Un
foglio?
scappino Sì; un foglio; insomma, or più non mi ricorda:
170 ma poco importa ciò.
Creder mi giova
che com’uom saggio
e ben nell’arte esperto
di governar la casa,
in favor vostro
volger saprete questo
caso istesso.
argante Tanto confuso son dentro al cuor mio,
175 che non so più che
farmi.
scappino E se volete
tutto saper, da
Doralice istessa
facil vi fia.
argante Non
mi ritrovo ancora!
scappino Con dubbio ragionar date la vita
al suo sospetto istesso;
e fate ch’ella
180 accetti in don quel
che bramate ognora;
quel che voi stesso
prendereste in dono,
s’ella il chiedesse
a voi: nulla si nieghi
a Doralice, purché
alfin s’umili
a farsi sposa.
argante È vero; ora comprendo
185 tutto il mister de’
vostri detti. È vero...
scappino Infin dirovvi, e fatene buon uso,
non vi fidate a Elisa.
argante Come? Elisa?
scappino Elisa è come l’altre; e non dic’altro.
Amico, addio. (lo prende per la mano)
argante Di grazia mi togliete
190 il sospetto dal cuor.
scappino Bastivi solo
quest’avviso;
di più dirvi non posso.
Già veggio ch’un de’
miei lacchè sen vola,
e seco il mio destino;
ahi tutto è pronto
per la partenza! E
sol questo mio cuore
195 or la contrasta, oppresso
dal disio
di voi, di vostra
figlia, a cui darete
questa gemma per me,
che le sia prova
ch’io già partii e
dolce pegno insieme
dell’eterno amor mio;
ditele come
200 la man vi strinsi e
che giurai, piangendo,
lasciar seco di
me la miglior parte,[93]
bench’il mio fato mi rapisca
altrove.
SCENA SESTA
Argante.
Quest’è un intrigo strano!
Oh va’ a fidarti!
Ora comprendo in parte
quel che accende
la furiosa tempesta
in casa mia!
Or mi dispiace che
costui si parta.
5 È forestier; m’è ignoto; ma è partito.
E quest’istesso ogni
sospetto toglie
che m’abbia detto
il falso! Ed a che fine?
Ei parte; e già non
vuol la figlia mia:
quest’istesso smentisce
ogni sospetto
10 ch’altri ha sparso
di lui, chi sa a qual fine?
Basta! convien finirla;
e veggio insomma
che rimedio non v’ha,
se non si forza
la figlia o con preghiere,
o col paterno
dritto a finire il
giuoco; a far la scelta
15 d’un che sposo le
sia ed a me erede.
Fine
dell’atto terzo.
ATTO QUARTO
SCENA PRIMA
Doralice,
Elisa.
doralice Alfin son stufa
di garrir più teco!
Una volta t’acquieta:
ho già scoperte
tue vili brame e quel
che in cuore ascondi.
Tanto ti basti e trema.
elisa Impallidisca e tremi[94]
5 chi all’inganno
si affida. Io per me godo...
SCENA SECONDA
Argante,
Doralice, Elisa.
argante E che rumore è questo?
doralice È qui
presente
il genitore?
argante Amata Doralice,
e chi ti turba? E
perché mesta affliggi
il tenero amor mio
col tuo dolore?
5 Parla. Tu taci
ancor? Spiegami, Elisa,
l’enimma, e che seguì?
elisa Signore...
doralice Eh taci;
frena l’ardire; o
almeno il tempo aspetta
d’averne il dritto
ambito! E soffri intanto
che parlar possa al
genitor la figlia.
10 Padre, e signore,
emmi già noto alfine
ciò che nel cuor vi bolle.
Io troppo stimo
questa mia libertà,
per non curarla;
e troppo v’amo, per
voler che costi
la quiete e ’l piacer
vostro.
argante Io nulla intendo
15 da sì dubbio parlar.
doralice Voi già
volete
che in casa ella
stia.
argante Io lo voglio al certo.
doralice Ma dov’è Elisa, esser non può contenta
Doralice giammai.
elisa Ma Elisa è pronta
tosto a partir, se
il suo partir la quiete
20 render vi puote in sen, torvi d’affanno.
argante Non fia mai ver.
doralice Non fia mai
vero ancora
che Doralice soffra
il duro giogo
d’una serva invanita
e che pretenda
d’uscir del rango
suo.
elisa Ma torno a dire...
25 argante Tacete entrambi; almen
per un momento
lasciatemi parlar.
doralice Tutto m’è noto.
argante E che sapete voi? Non potrà il padre
ottener da una figlia
che l’ascolti
tranquilla e rispettosa?
doralice Io più
non parlo.
30 argante Elisa ti ritira.
elisa Ell’è
servita.
SCENA
TERZA
Argante, Doralice.
argante Figlia, poss’io sperar che in te ritrovi
favor l’affetto mio?
doralice Sempre
mi è legge
il genio vostro.
argante Ad una figlia il padre
può in grazia domandar
che a suo piacere
5 uno sposo si scelga?
E questi sia...
doralice Sì sì, v’ho inteso già; che questi sia
prezzo alla libertà
che voi bramate.
argante Lasciam ch’ella s’inganni.
doralice È
ben contenta
la figlia d’obbedir.
10 argante Da te
dipende
la scelta omai. Non arrossire e svela
ad un padre che t’ama
e per te vive
quel che di più segreto
in cuore ascondi.
Son uomo anch’io,
e condannar non oso
15 una bella passion ne’ tuoi freschi anni.
doralice Amor punge ogni etade,
e quei che langue
tra’ lacci suoi,
più la pietà che invidia
merta di risvegliare. Io non la chieggio,[95]
ché amor non sento,
se d’amore il premio
20 è il giogo marital...
argante Dunque al mio affetto
l’osi negar? Negalo
al padre ancora.
Io tel comando.
doralice Altro non vuole il
padre,
il so, che tor di casa sua l’impaccio
d’una figlia; ed è
giusto ch’ella sia
25 vittima sacra alla
paterna quiete;
beata ancor, s’ella
il riscatto fia
della sua libertade, ancorché un chiostro
fosse il suo fato,
purché il padre possa,
senza arrossire, ad
una figlia in faccia
30 stringer la mano
alla novella sposa,
innalzar all’onor del proprio letto
una... meglio è ch’io
taccia...
argante Eh parla pure,
tutto donar ti vo’.
Tue fole istesse
oggi mi son trastullo.
Or di’ chi sia
35 questa mia sposa.
doralice Voi vi
fate un giuoco
invan di me; piuttosto
di voi stesso
pianger dovreste.
argante Il
mio piacer m’invidi?
doralice Nulla v’invidio al certo!
argante Or lascia dunque
che ancor io rida;
e ben, chi è questa bella
40 tua futura matrigna?
doralice Ah voi
tentate
troppo una figlia
e ’l suo rispetto! A Elisa
dimandarlo vi piaccia, ella
diravvi
ciò che ad altri vantò.
argante L’arcano dunque
tutto è svelato a
Elisa? Or via si chiami.
45 Più gentile sarà.
doralice Tutto l’è noto.
Ingannarsi non può,
purché non speri
di comandare a Doralice.
Questa
sola lusinga è vana.
argante Se non fosse
la tua matrigna Elisa.
doralice Oh lo
sia pure,
50 che Doralice sa spezzare
i lacci
tesi al suo piè dalla
malizia altrui.
argante Colla scelta d’un chiostro!
doralice E
se fia grave
un carcere onorato,
ella ha il coraggio
di gir ramminga e di sprezzare i colpi
55 di nimica fortuna,
ognor contenta
della sua libertade e più superba
ancor della cagion del suo soffrire.[96]
argante Or via finiamo il giuoco. Io t’amo troppo,
per fare un mio piacere i tuoi sospetti.[97]
60 Son risoluto già
farmi in quest’oggi
l’erede; a te ne do
la scelta; e voglio
che quest’istesso oggi il tuo sposo sia.
Dunque tu scegli e
in quest’istesso mira
quanto cara mi sei;
quanto t’inganni.
65 Altro da te non chieggio; e se mel nieghi,
non ti lagnar, s’io
mi farò l’erede,
a costo ancor di quel
che temi e aborri.
doralice Ahi dura condizione! Almen
si dia
tempo a pensar.
argante No no, la legge è scritta.
70 In questo punto elegger
dèi lo sposo.
doralice Legge crudel!
argante Ma che da me si vuole.
doralice E s’obbedir degg’io,
almen vi chieggio
prima una grazia.
argante Or
via nulla si nieghi
a Doralice ubbidiente;
parla.
75 doralice Voi mi giurate secondar mia voglia,
amato genitor?
argante La mia parola
val quanto il giuramento.
doralice Umil domando
ch’Elisa in questo
punto esca di casa.
argante Ma che ti fece mai?
doralice Troppo
m’offese.
80 argante Sentiam prima sua
colpa.
doralice Io
vi ricordo
la data fede; è rea;
vo’ che punito
resti il suo orgoglio; io lo giurai; vel chiesi;[98]
ad una figlia lo promise
il padre;
questa promessa il
giuramento eguaglia.
85 argante Promisi, è ver, di secondar tua voglia,
purché giusto ciò
sia.
doralice Purtroppo
è giusto
quel ch’io domando!
E poi, io vo’ ch’Elisa
esca di casa,
o ch’io...
argante Frena lo sdegno;
si troverà riparo;
a me la cura
90 ne lascia. Elisa
partirà.
doralice No; dico,
ora deve partire. Io stessa
voglio
la libertà di farlo;
e scelga poi
lo sposo alla sua
figlia il genitore.
argante Or via fa quel che vuoi. (a parte) (Convien soffrire
95 colle donne, e talor
vince chi cede.)
Elisa forse placherà
il tuo sdegno.
doralice Questo non sarà mai.
argante E se non fia,
so quel che far io
deggio.
doralice Amato
padre,
mille grazie vi rendo.
In quest’istante
100 volo a punir questa
superba.
argante Adagio. Prima lo sposo nominar tu dèi.
doralice Io dopo lo farò, non ritardate
a quest’alma il piacer
della vendetta.
argante Deh conosci te stessa e quanto lungi
105 al giusto ti trasporti;
or via t’acquieta,[99]
rasserena il tuo cuor,
scegli uno sposo.
Queste dolci d’amor
tenere cure,
forse, chi sa? Ti
cangeranno il cuore;
placheran le tue furie.
doralice E ben,
scegliete.
110 Purché una volta vendicar
mi possa
con Elisa!
argante Tu attendi; or fo la scelta.
Che dici?
doralice Io son contenta.
argante Alceste sia.
doralice Alceste? O ciel!
argante Sì, Alceste, e che ti turba?
doralice Già questi osò di rifiutar mie nozze
115 ch’io non li offersi mai.
argante Fe’ un gran delitto! Di cui però facil
l’emenda fia.
doralice Ma; Alceste... padre... lo volete dunque
per vostro erede?
argante S’ei sarà tuo sposo.
doralice Ma se... amato padre...
argante Sì, via t’intendo;
120 più non t’accende Alceste.
doralice È
ver, non puote
finger questo mio
cuore.
argante E pure un tempo
non parlavi così.
doralice S’io pur l’amai,
ora l’aborro, né ragione
io veggio
dell’improvviso cangiamento.
argante Dunque,
125 tu vedi, io non so
scer; meglio è che faccia
da te stessa la scelta.
doralice E dovrò
dirlo?
Se pur deggio obbedire; e s’è ne’ fati,
ch’io perda alfin mia libertà natia;
e ch’io m’abbassi
al coniugale impaccio;
130 vorrei...
argante Via parla, al genitor disvela
tutta l’anima tua.
doralice Vorrei che fosse
lo sposo mio quel
forestier...
argante Chi mai?
Il marchese?
doralice Sì;
quelli; il di cui genio
toglie l’orror della catena istessa
135 che nello stato maritale
aborro.
argante Convien pensare ad altro.
È questo un sogno.
Conoscersi bisogna;
eh; ch’è follia! E
poi vo’ tu lasciarmi in quest’etade?
doralice Tanto confido nel suo amor, che spero
140 ch’ei seguirà mia voglia
e son sicura
che noi vivremo insieme;
e chi potria
distaccarmi da voi?
argante Figlia t’inganni,
credilo al padre tuo;
il mondo ancora
conoscer tu non puoi.
Quei che lo giura,
145 sempre amante non è.
Alle tue spese
imparerai che v’è
l’inganno, o almeno
che l’uom s’asconde
altrui; or sappi dunque
ch’il marchese partì.
doralice O ciel!
Che sento!
Creder nol posso.
argante Ei stesso a me lo disse;
150 e con volto d’amor
tutto dipinto
pregommi a dirlo a te.
doralice Creder
nol voglio.
argante Dunque creder nol vuoi?
doralice No: ch’io non
posso
supporre un cuor sì
reo.
argante Facciam così:
se il forestier non è partito; e s’egli
155 non sdegna d’abbassarsi
alle tue nozze;
di tornar in mia casa;
io son contento
della tua scelta e
di chiamarlo erede.
Ma se ciò non sarà,
vo’ che tu scelga
tosto in consorte
Alceste.
doralice Io
son contenta;
160 ch’esser non può ch’egli
tradito m’abbia.
Troppo il conosco
e troppo ei m’ama.
argante Ah
figlia
troppo ci vuol per
discoprir l’interno
del cuor uman. Credi che sol per giuoco
parlò teco d’amore.
doralice O caro padre,
165 perdonatemi, ancor
creder nol voglio.
argante Credilo a questa gemma ch’ei ti dona
per la mia mano.
doralice Oh Dio!
Che veggio mai?
Quest’è la sfinge
che il suo dito ornava.
Dunque vero sarà?
E come? E quando
170 del tradimento suo
lasciolla in segno?
argante Ei me la diè partendo.
doralice È questa,
oh Dio!
La bella fé che mi giurasti, ingrato!
Furie, ch’il cuor
mi lacerate in seno,
deh per pietade, almen per un momento
175 lasciatemi in riposo,
o più pietose
troncate il fil di
questa vita amara.[100]
argante Oh via, non tanto mal! Già i tuoi trasporti
immaginati
avea. T’acquieta, e credi[101]
che tra momenti muterai
linguaggio.
180 doralice Dunque
vi par che a torto mi lamenti?
argante Dirò come tu vuoi.
doralice Talora
offende
la compiacenza istessa.
Il mio dolore
ed il mio sdegno ora
a partir mi forza;
amato genitor, lo chieggio in dono;
185 permettete ch’io parta e che in remota
parte pianga me stessa
e ’l mio destino.
Forse, chi sa? L’istesso
sfogo e ’l tempo
aprirà i lumi alla
ragione oppressa. (parte)
argante Eh quest’è un mal che finirà; tra tanto
190 l’impensato accidente
e ’l tempo forse
le torrà di pensar a Elisa, ch’io
creder non voglio
ancor che sia malvaggia.
Al certo esser non
può, ch’è troppo onesta:
almen parve finora. Ecco
Crespino.
SCENA QUARTA
Argante, Crespino.
argante Crespin che fai? Che fanno i tuoi padroni?
crespino Dirovvi il ver: Pandolfo pensa al modo
di farsi vostro erede;
e Alceste, a quello
di cacciarvi di qui;
per goder poi
5 nella sua libertà
questi suoi libri.
argante Egli ha ragion, lo compatisco; io stesso
soffro un rossore
estremo; ma per forza
volle Pandolfo ch’oggi la mia figlia
qui venisse a turbare il suo riposo.
10 Ma che sarà? Veggio
ch’Elisa viene
a questa volta frettolosa:
al certo
ha lo sdegno e l’amor ceduto il campo,
nel cuor della mia
figlia, alla vendetta.[102]
SCENA QUINTA
Elisa, Argante,
Crespino.
elisa Signor, finito è il giuoco; Elisa alfine
obbedisce alla figlia;
al suo destino
ora sen va; contenta
di sapere
ch’innocente si parte.
argante Hai tu finito?
5 elisa Nulla mi resta a far.
argante Trattienti
ancora,
soffri un momento
più; lascia ch’io parli.
Si quieterà il tumulto;
e se non fia
possibil di calmar questa
tempesta,
so il mio dover; sarà
mia cura allora
10 di renderti contenta.
elisa Io nulla chieggio,
e v’ingannate, se
credete Elisa
capace di viltade. Io già prevista
avea questa mia sorte,
e voi il sapete.
argante Eh via t’acquieta, a me il pensier ne
lascia;
15 altro alfin non sarà; tu pur dovresti
conoscer Doralice.
elisa Io sol me stessa
conosco e so ch’in casa vostra il piede
mai più metter non
voglio.
argante Or lascia almeno
che parli alla mia
figlia; io tra un momento
20 ritorno. (parte)
elisa È van, che tanto il suo consiglio
cangiar non vuole
Elisa; il passo è fatto.
SCENA SESTA
Elisa, Crespino.
crespino Dunque tu se’ fuor di padron?
elisa Lo
sono;
ma nulla importa ciò.
crespino Giurato avrei
che tu di casa la
padrona fossi.
Ma infin non può fidarsi;
è gran disgrazia
5 viver col pan d’altrui.
elisa Dover servire
chi non ha cuor, né
senno! Dimmi, Alceste
dove si trova? E che
fa mai?
crespino Sepolto
vive Alceste tra i
libri; ognor soffrendo
tranquillo dello zio
l’ingiusto cuore,
10 contento di quel
poco che li lascia
l’ingorda fame di
quel vecchio.
elisa Or dimmi,
poss’io sperare il tuo favor,
Crespino?
crespino Parla, tu puoi pensar, servo ancor io,
tenero son delle disgrazie
altrui
15 e più di quelle de’
miei pari. Io pure
son nell’istessa nave
e può seguirmi
quel ch’oggi t’arrivò,
forse dimani.[103]
elisa Vorrei per mezzo tuo parlare a Alceste,
domandarli un consiglio.
crespino È dura impresa,
20 impossibil lo credo; egli ha vietato
l’ingresso a ogn’uom.
elisa Ma pur Crespin t’ingegna.
Fammi questo favor,
ti sarò grata.
crespino Io ti vorrei servir; ma penso al modo;
e quanto più ne cerco, io
men lo trovo.
25 Tu donna sei; ei
l’odia, e tu sai bene
s’ei d’odiarle ha
motivo.
elisa È ver, ma tutte
fatte non sono a un
modo.
crespino Ei non lo crede:
e poi, m’ha comandato
espressamente
di nulla nominar ch’anco
da lungi
30 Doralice ricordi.
elisa Egli ha ragione.
Ma fammi questa grazia.
crespino Io vo’ piuttosto,
da che mi vuoi tirare
in quest’imbroglio,
lasciarti aperto il
varco del giardino
questa sera, se pur
questa canaglia
35 se n’anderà di qui; se pur la sorte
una volta per noi
sarà pietosa;
tu lo sorprendi allor,
quando del giorno
lasso, sen viene ad
ammirar del cielo
il teatro ch’a noi
natura scuopre
40 nel ciel fiorito di lucenti stelle.[104]
elisa Oh sì, tu dici bene, al mio disegno
opportuna è la notte,
e già ho pensato
di mutar veste e nome.
crespino E perché questo?
Io non vorrei...
elisa Crespin
di me ti fida,
45 onorata son io. Chi
sa che forse
quel che chieggio ad Alceste, alfin non sia
opra del ciel, per cui
renda felici
Crespino, Alceste,
Elisa?
crespino Il ciel lo voglia;
sì poco uso son io
alle fortune,
50 che appena so il
lor nome.
elisa A me ne lascia
la cura; or vado a
preparar la scena.[105]
Elisa più non son,
chiamami Elvira.
crespino Dunque tu far non puoi, s’Elisa fossi,
quel che far puote Elvira.
elisa Oh quest’è
certo.
55 Una volta di me ti
fida! E presto
vedrai ch’io non t’inganno.
Elisa al certo
nulla può far di quel che puote
Elvira.[106]
crespino Ciò mi sembra un intrigo; io non vorrei
mettere il piede in
qualche labirinto
60 che, come arrivar
suole a’ pari nostri,
alla galera mi conduca,
o almeno
a’ colpi di baston.
elisa Di me ti fida;
tu pensa a mantener
la tua parola,
vedrai chi Elvira
sia! (si parte)
SCENA SETTIMA
Crespino solo.
Chi
Elvira sia?
Di ciò nulla comprendo;
e perché mai
più Elisa esser non
vuol? Forse tediata
si è del primo suo nome
e vuol mutarlo,
5 pel piacer di cangiar,
seguendo l’uso
dell’altre donne
che il presente annoia.
Ma sia ciò che si vuole; io per me voglio
questa volta veder quel che riesce.[107]
SCENA OTTAVA
Lisca, Crespino.
lisca Amico, ben trovato!
crespino Io nol
conosco.
Che cerimonia è questa?
lisca Saria forse
di Doralice lo
scudiero?
crespino Ell’erra.
Questo scudier chi è? Nol vidi mai.
5 Padron mio non
lo son. (a parte) (Parla costui
di Doralice. È meglio
ch’io mi parta
per uscir d’imbarazzo.)
SCENA NONA
Lisca.
Oh
che villano!
Appena m’ha risposto;
ei nulla intende.
SCENA DECIMA
Argante, Lisca.
argante Oh, ecco un viso nuovo; io credo al certo
ch’oggi d’intorno
a me passi in rivista
tutto il genere uman.
lisca Questi mi sembra
Argante.
argante O mio signor, son per servirla.
5 Che domanda da me?
lisca Sol bramo offrirle
l’umil rispetto mio.
argante Troppo m’onora.
lisca Aspetto il mio padron.
argante Ne godo assai.
Chi è questo suo padron?
lisca Questi è il marchese
della Source, di cui
godo l’onore
10 d’essere il maggiordomo.
argante Già suppongo
ch’egli partito sia.
Ne ha buone nuove?
lisca Signor, partimmo, è ver, ma occulta forza
ci costrinse a tornar,
sicché al presente
è qui con Doralice!
argante Come? In casa?
15 lisca Così vuol suo destin, cui l’uom
non puote
negar
cieca obbedienza.
argante Ah; convien
dirlo.
Purtroppo è ver! Ma
qual fu questa occulta
forza, di cui mi parla?
SCENA UNDECIMA
Doralice, Scappino,
Argante, Lisca.
doralice Eccomi, padre,
vostra mercé son pur
contenta; alfine
vinsi colle mie preci,
e più col pianto,
quei riguardi che
feano il cuore schivo
5 al marchese, che
già la man di sposo
è pronto a dare; or
la promessa attendo
dall’amor vostro.
argante È vero, io lo promisi,
negar nol posso, ma sapere io bramo
(si volta a Scappino)
come siete ancor qui?
Come in un punto[108]
10 obbliate voi stesso?
Ho pur presente
ciò che diceste già.
scappino Che dir poss’io?
Ciascuno ha scritto
in cielo il suo destino.
Partii da voi, ma
appena il piede io posi
fuor dell’albergo,
ignoto gelo al cuore[109]
15 mi corse per le vene
e a ciascun passo
pareami di veder cieca caverna
aprirsi avanti a me.
La mia vettura
tutta si ruppe ed
un de’ miei cavalli
cadde in terra e morì;
a un mio lacchè
20 una gamba si ruppe,
un braccio all’altro.
Tosto mi parve ch’un
orribil spettro
il varco mi chiudesse e acuta spada[110]
mi presentasse al
petto; in quest’orrore
lieta voce sentii
che al cuor mi disse:
25 ritorna a Doralice
e ti ricorda
la data fede; i giuramenti,
e quando
io rivolgei verso l’albergo il piede
tutto si dileguò l’interno
orrore;
e rise il ciel di
luce e di sereno.[111]
30 Infine...
argante Infin voi siete sano e salvo
tornato a favorirci!
doralice E che
può l’uomo
far contro il suo
destino? Io stessa il cuore
sentii cangiarmi e
dissiparsi tosto
l’orrore al matrimonio.
argante Or via contenti
35 siamo tutti per or;
non so che dirmi.
doralice Dunque, mio genitor,
la scelta mia
già vi piace approvar?
scappino Lasciate ch’io
padre vi chiami alfine
e che la destra
umil vi baci di mio ossequio
in segno.
40 argante Oh via non più, lieti vi faccia il cielo.
Tutto di gioia ebbro
mi sento il petto,
che in lacrime per gli occhi si discioglie.[112]
Quando farem le nozze?
scappino A voi, signore,
sta il comandar; per
me farei la scritta
45 in quest’istessa
sera.
argante Oh; troppo presto!
In simile occasion convien pur fare
qualche festa in mia
casa.
lisca A dirla schietta
io già ci avea provisto e tutto è pronto.
doralice (ad Argante) Vedete voi? Or che ne dite?
argante Al
certo
50 sorpreso son.
doralice Questi davver si ponno
chiamar uomini. Par
che i nostri sieno
che tutto gl’imbarazza
e gli confonde.
scappino Molto fa l’esser uso; ho chi mi serve.
Non mi costa che dir:
voglio una festa,
55 per averla ben fatta.
doralice (si volta ad Argante) E che ne dite?
argante Per me confesso che non ne so nulla.
scappino State a veder quanto pensier mi prendo.
Valerio già intendesti;
il tutto appronta,
sia tuo pensier di far quel che conviene
60 al rango mio.
lisca So quel che deggio
fare.
scappino Vanne pur, fai che sia degna memoria
di giorno a me sì
lieto; invitar voglio
tutta la nobiltà,
tutto il paese
e i forestieri ancor.[113]
lisca Tosto
men vado
65 a servirla signor.
scappino Vedrete
or ora
quanto capace sia.
doralice Io ne
son certa,
ma pensiamo a fuggir
questo noioso
esilio che m’opprime;
andiam, mio caro,[114]
alle paterne mura.
scappino È tutto pronto.
70 argante Piano; bisogna prima ch’io riveggia
Pandolfo e seco faccia
i miei doveri.
doralice Fate quel che volete, io già mi parto
lieta d’avere in quest’istesso
giorno
nella magion d’Alceste alfin concluso
75 il matrimonio mio
col suo rivale;
che auspice mi sia
stato il mio destino.
Prende per mano
Scappino.
Mio ben, più non
s’indugi.
scappino Anima
mia,
andiamo pur dove ci
guida Amore.[115]
argante Qui riparo non v’è, forz’è ch’io dica
80 che in cielo era
già scritto. Or ora voglio
dire a Pandolfo quest’istesso;
il veggio,
forse si sdegnerà;
ma alfin si sdegni,
s’egli sdegnar si
vuol; so che di lui
io bisogno non ho:
che far poss’io,
85 se non vuol la mia
figlia il suo nipote?
E se il destin l’ha fatta sposa a un altro?
Fine del quarto
atto.
ATTO QUINTO
SCENA PRIMA
Alceste, Crespino.
alceste Quante volte roversciar
debb’io
i fieri assalti di
fortuna? Forse
superba or freme,
nel veder che mentre
l’universo divide
a suo capriccio;
5 che fa servir gli
eroi, regnare i servi;
in mezzo a un mondo
vil ch’empio idolatra
timido ognor l’adora, io solo ardisca
sprezzarla amica e
non temerla irata!
T’umilia alfin, nume protervo, e apprendi
10 una volta ch’io regno
a tuo dispetto
e che non puoi, benché
tremar tu faccia
fin gli armati tiranni
a ogni tuo cenno,
farmi pentir s’ora
t’insulto; alfine[116]
Doralice partì. Dimmi
Crespino,
15 lieta di sua follia?
crespino E come? Lieta
come le spose son.
alceste Vedrai
ben presto
in lacrime cangiarsi
il riso insano.
crespino Egli è pur tanto ch’io vi sento fare
un augurio simil che
poi non veggio
20 avverarsi giammai.
Pandolfo è un goffo.
Voi siete scaltro;
ma v’usurpa il vostro
e pensa a diredarvi
e a farsi sposo.
Voi soffrir lo dovete?
alceste Eh tu
non vedi
la pena d’un ch’è
reo, e quel che soffra
25 ne’ suoi giusti timori!
crespino Io v’assicuro,
non par ch’ei
se n’affligga, anzi direi
che ogni momento ingiovenisse.
alceste Pria
ch’il sol ritorni a illuminare il mondo,
se Doralice ha stretto
il fatal nodo,
30 vedrai...
crespino Che vedrò io? Quel che ho veduto
nel tempo già passato,
cioè a dire
che solo i furbi san godere il mondo
alle spese di quei che non lo sono.[117]
alceste Sì sì, delira pur, tu chiudi, intanto
35 che vo a goder del
vicin prato erboso
l’aure odorate, il varco a ogni mortale;[118]
onde l’impero di me
stesso io possa
godere in libertade.
crespino E se Pandolfo...
alceste Pandolfo non ardisca in questa reggia
40 offender la maestà
delle mie leggi;
tema la mia ragione
e le sue colpe.
SCENA SECONDA
Crespino, Elisa.
crespino (ride) Or s’è provvisto a tutto. In questa
reggia
egli solo comanda
e le sue leggi
veruno offenda. (ride) Impallidisca e tremi[119]
il mondo in faccia
a lui; e intanto il giuoco
5 egli è di tutti
ed alle spese sue
(ride) gode ciascuno. Or voglio ardire il primo
offendere i suoi bandi.
Va verso la porta,
ed introduce Elvira con abito diverso di quello d’Elisa.
Elvira
vienne.
Son
uom di mia parola. Or via t’affretta.
Ch’Alceste già s’appressa.
elisa Il ciel ti renda
10 per me grazie, o
Crespin; per te poss’io
muovere il piede in
questo sacro asilo,
ove virtù s’adora.[120]
Volge il guardo
intorno alle muraglie, come sorpresa.
Oh
che beato
ritiro è questo!
crespino Elvira, ora ti lascio:
di te mi fido. Io
non vorrei che fosse
15 questa pietade alfin la mia rovina.
elisa Che beato ritiro!
crespino Io per me credo,
che facciano impazzir
queste muraglie!
elisa Tal era appunto quel del mio buon padre,
dove mia fresca etade alla virtude,
20 formar solea, talor per vezzo aprendo
i puri fonti di sapienza
ascosi
nelle latine e nelle
greche carte.
Rimembranza crudel, che mi rinfaccia
il mio passato error, quanto m’affliggi!
25 Nel tempo istesso
che a quest’alma i vanni
disciogli, ch’ora
in quest’albergo augusto
già già incomincia a ravvisar sé stessa.
crespino Se ’l dico, affé, che son queste muraglie!
Sentite come parla?
Alceste istesso[121]
30 parmi che sia, né più distinguer posso
tra questi due l’original.
elisa Qui dunque
Alceste regna. (Crespino ride)
crespino Ecco che già su regni
si comincia a sognare.
elisa E quivi forse
col profondo pensar
fatto orgoglioso...
35 crespino Ora, tant’è, da lungi veder voglio
la scena, e pria
che ci sorprenda Alceste
penso partire. (parte)
elisa Ei fece a’
suoi trasporti
servir la sua ragione.
Ah potess’io
calmare il suo furor! Ch’io mi direi
40 felice, e più felice
ancor, se seco
potessi respirar tutti
i miei giorni.
Ma sola io son. Chi
m’impedisce il guardo,
sulle carte gettar?
Prende un libro
manoscritto.
Son
queste scritte
dalla mano d’Alceste.
(legge) Oh ciel che leggo!
45 Il titolo dell’opra è un tristo augurio
alle speranze mie!
«Doveri, o esame
del maritale stato,
in cui si prova
che sempre è un
certo mal che...» Alceste viene.
Rimette il libro.
Tiriamoci in disparte;
or mai si tenti
50 questo cuor di macigno,
affatto privo
d’ogni dolce passion; si accenda in esso
pietà, timor,
disio; se il suo costume
fiero di suo saper
potrò addolcire
e insieme profittar
de’ suoi furori,
55 sarà forse pietà
l’inganno istesso,
degno di lode,
o di perdono almeno.
SCENA TERZA
Alceste.
Entra
con passo concitato, leggendo un foglio.
Ch’io lasci questa
casa? E che or la ceda
all’avaro mio zio
dentro due ore?
Che prepotenza è questa?
E i tribunali
prestansi a ciò? Così s’abusan dunque
5 del sacro nome
di giustizia? Al certo
tutto al mondo è impostura,
e son pretesto
fin le leggi più sante
a più potenti
d’ogni ingiusta oppression! Che far degg’io?
Questo colpo, il confesso,
agli altri unito
10 troppo è fatal per me! quasi direi
ch’il coraggio mi lascia, o ch’è minore
della sventura mia! Son uomo anch’io;[122]
l’imparo in questo
punto. Un nome vano
è l’istessa virtù ch’altri superbo
15 lungi
al periglio inutilmente vanta.[123]
Si getta a sedere, come abbandonato.
E dopo un breve silenzio, batte la mano sul tavolino, esclamando:
Sì, ch’io ho ragion!
Degno d’un odio eterno
è l’uom! Non v’ha
nel giro della Terra,
nel vasto mar, nel
baratro d’Averno
mostro simile a lui!
Prato che asconde
20 tra l’erbe e i fior baratri, spine ed angui.[124]
Orrido labirinto,
in cui sicuro,
quasi in sua reggia,
ogni delitto annida.
Gran tempo è già che
in libertà racchiuso
in queste anguste mura, ov’io re sono,
25 peno col mio pensar,
barbaro mostro,
sol per odiarti, di
svelar tua faccia.
Detesto il dì che
da quel nulla ignoto
fui tirato a spirar
l’aure del giorno,
di tutti i mali miei
principio acerbo!
30 Ma di che mi lagn’io? Se mi è la vita
pena, perché soffrirla? La
natura
non ha che un varco
sol per gettar l’uomo
nella scena del mondo
e mille vie
per uscirne, qualor grave divenga
35 il viver, sempre
appeso a un debil filo
ch’a noi stessi confida.
Io dunque sono
di me stesso e tiranno
e servo insieme,
se codardo troncar non oso il filo
d’un mal che m’ange,
e s’or col prezzo vile
40 d’un ignoto dolor che soffrir deggio
per un sol punto più,
pena egli stesso,
se di mia vita è parte, ancor
pavento
di trasformare in
libertà giuliva
questo servaggio indegno,
in cui languisco
45 senz’altro scopo
mai che d’esser fiero
pasto di morte un
giorno! È la materia[125]
per sé medesma inerte, esser non puote
né infelice, né lieta; ognor l’istessa,
o formi un re superbo,
o un vil giumento,
50 o il loto oscuro,
o di sua luce onusta
una stella nel cielo;
e quel principio,
che per entro si muove,
è in sé medesimo
sempre beato, ancorché
ignoto; ei verna
d’immortal gioventù, sempre costante,
55 anco tra l’urto d’infiniti
mondi,
e nell’istesso lor
naufragio ancora![126]
Perché dubito, vile?
Or via si spezzi
una volta per sempre
il laccio indegno!
E quest’acuto
Tira fuori un
pugnale, e lo guarda.
acciaro
inesorabile
60 l’ancora sia di libertade! Io stesso
della nemesi mia sull’ara
atroce
vittima sono e sacerdote. L’alma[127]
sicura in sé medesma al ferro in vista
già gode lieta di
vedere il fine
65 della sua servitù,
se le apre avanti
nuovo immenso orizzonte
che finora
tra dense nubi la
materia istessa
ha saputo occultar!
Ma! Qual mi sento
serpeggiar per le
vene ignoto orrore?
Posa il pugnale
sul tavolino e lo guarda fisso, tacendo.
70 No; non ho vinto
ancora! Il frale mio[128]
mi contrasta il trionfo!
Ah quale or soffro[129]
vivo assalto d’affetti!
Io così cedo
dunque il campo al
nemico? E questa vile
materia affievolisce
il mio coraggio
75 coll’idea del dolore?
Ah no, che il tristo (riguarda il pugnale)
istrumento di morte
ora tranquillo
già posso rimirar;
già sento il cuore
rinnovarsi in sua
forza, e torna l’alma
intrepida a bramar
di sciorre il volo.[130]
80 Dunque vinto non
son; se indifferente[131]
almeno a vivere o
morire. Il dubbio
si sciolga in questo
punto.
Stende la mano
per prendere il pugnale, e nell’istesso tempo si scuopre
Elvira e corre verso Alceste.
SCENA QUARTA
Elvira,
Alceste.
elvira Alceste, ferma:
tu l’abuso non hai
della tua vita,
ch’al mondo la devi
e a me.
Alceste si
rizza infuriato per fuggire.
alceste Oh ciel, ch’ascolto mai?
Qual spettro mi
minaccia? A me t’invola
5 tristo oggetto
d’orrore e di tormento!
elvira Deh t’arresta,
ti prego; un’infelice
ascolta per pietà.
alceste Parti
malvaggia:
non
mi turbar l’amara pace, in cui
vivo penando, ha già gran tempo! Ah parti!
10 o ch’io...
elvira Crudel,
che far mi puoi, che sia
più
grave del dolor che m’ange e opprime?[132]
Vuoi tu sbranarmi il cuore? Ecco ch’il
petto[133]
offro ignudo a’ tuoi sdegni.
S’apre la veste.
Or
scaglia il colpo.
alceste Barbari numi! Ah tradimento indegno!
15 Chi m’addita lo scampo? E chi mi toglie
questa furia o la vita? Olà! Crespino,[134]
Crespino, e dove sei?
elvira E
perché indugi
a lacerarmi il sen? Forse tu aneli
a
calpestar fumante il sangue mio?
20 Guarda, crudel!
Prende il pugnale
di su la tavola d’Alceste.
Già
franca impugno il ferro
micidiale
che tua viltà già fece
cader dalla tua mano imbelle; apprendi
il coraggio da me.
alceste Oh ciel, che miro?
Chi
mi dà aita? E chi mi dà consiglio?
25 Chi questa furia a funestarmi il giorno
contro m’attizza?
elvira E se pietade or nieghi,
tu
l’omicida sei, dovrai ragione
delle leggi al rigor rendere un giorno,
se in quest’albergo e col tuo ferro istesso
30 naufraga
nel mio sangue io cadrò estinta.
Il colpo, ecco, mi vibro.
Alceste le
prende la mano.
alceste Ah ferma, indegna!
elvira Lascia ch’io
mora.
alceste Ah ferma! Ingiusto fato!
E pur dovrò in quest’oggi a mio dispetto
porger
aita all’uom per mia difesa!
35 elvira Forse m’invidi il colpo? E del mio duolo
un barbaro piacer l’alma si crea?
Tu mi rimiri e taci?
alceste E quale in petto
insolito
spuntar moto mi sento
che, quasi volea
dir, pietà mi sembra.
40 elvira Un lampo di piacer tutto
improvviso
come richiama a desiar la vita
l’alma mia di dolore oppressa e carca?[135]
alceste Temer ti deggio, e pure odiar non
t’oso;
se
infelice tu sei, lo sono anch’io.
45 elvira Dunque se giusto hai
’l cuor, mira i miei mali
coll’istessa pietà ch’io miro i tuoi.
alceste Dunque ti calma, qua t’appressa e siedi.
Dimmi i tuoi fati.
Si mettono
a sedere sull'istesso canapè.
elvira Elvira
è il nome mio.
alceste E lascia intanto ch’in mirarti io
goda
50 un piacere improvviso e affatto nuovo
all’alma mia, che tra l’idee più triste
da gran tempo si lima.
elvira I lumi al giorno
in Padova gia apersi...
alceste Oh com’io sento
tutto cangiarsi in me! Per tuo piacere
55 mi
dice al cuor l’orgoglio, i fior, l’erbette
spirano i lor profumi e i folti boschi
fan gli augelli suonar de’ loro amori.
Il rio col dolce mormorar dell’onde[136]
lusinga i tuoi riposi; il ciel di luce
60 smaltan le
stelle; e sol per te l’armento
fassi fecondo
e sotto il duro aratro
geme
stupido il bove; e l’uomo istesso,[137]
già il primo segno a’ miei fatali orrori,
or mi sveglia un amor; ma tra gli oggetti[138]
65 tutti, che mi circondan
di piacere,
La
prende per la mano
tu
il primo sei, e un non so che d’ignoto
ad
amarti mi sforza.[139]
elvira Ed
un istesso
orgoglio il sen m’infiamma di speranza
che
se’ fatto per me, ch’in te degg’io
[140]
70 trovar mia quiete e che tu solo puoi
far beati i miei dì.
alceste Ma quel desio,
che molce il
cuor l’inquieta ancora e il dubbio
istesso di calmarlo è nuova pena.
elvira Dunque
l’amare, e ’l non amar t’affligge?
75 Forse la libertade
è all’uom talora
impaccio; o ch’ei sempre s’inganna, quando
la crede un ben?
alceste Delira, allorché
ardisce
di libero vantarsi; ei solo
ignora
la
forza che il fa schiavo.
elvira E la catena
80 che insieme avvince con fatali
anelli
tutto
quel ch’è natura, e forma a noi
l’inesorabil
fato.
alceste Ei sol mi forza
ora a donarti quel che l’uom
superbo,
quanto
imbecille libertade appella.
85 Rapir mi sento; io deggio amarti; or vivi.
elvira Dovrò dunque fidarmi?
alceste Io del
mio nuovo
laccio son vano, come fui in un tempo
d’una sognata libertà.
elvira Puoi
dunque
sparger d’oblio...
alceste Deh non svegliar, ti priego,
90 la trista idea de’ miei passati errori!
Sì, vivi; intanto in questa destra il
pegno
ricevi di mia fé;
lascia ch’io t’ami;
ch’al sen ti stringa e in questo bacio
stempri
tutta l’anima mia su la tua mano.
SCENA QUINTA
Alceste, Elvira e
Pandolfo che entra all'improvviso nel tempo che Alceste in atto d’abbracciarla le
bacia la mano.
pandolfo Che spettacol vegg’io! Sogno, o son desto!
Arrischiatevi
pur, fatevi cuore,
leggiadri giovinetti!
Alceste e Elvira si
rizzano da sedere taciti, abbassando gli occhi a terra.
Oh
quest’è altro,
che odiare il matrimonio!
In casa mia
5 dunque così si
vive?
Si volta a Elvira.
E
tu, sfacciata,
lascia, non dubitare,
il premio avrai
di tue fatiche.
Il silenzio (a Alceste), il
rossore (a Elvira)
già vi condanna entrambi.
alceste E
ben per questo,
che dir volete?
In queste soglie io regno.
10 Qui son legge a me
stesso; e questa legge
è il mio piacer.
pandolfo Quest’è filosofia!
Anima rea, dove
apprendesti mai
scuola sì indegna?
alceste E chi può dire ingiusto
un dolce amor?
Chi vieta al moto interno
15 di natura servir?[141]
pandolfo Le leggi istesse,
che tuo malgrado impallidir ti fanno,
ti rinfacciano
ancor ne’ tuoi rimorsi
che sempre ingiusto
è amor, se non è figlio
d’un pudico imeneo.
alceste Calmate
dunque
20 il vostro zelo omai! Questa è mia sposa.
pandolfo Come?
alceste Non più, dammi la mano Elvira.
Son lasso di soffrir
le sue follie.
elvira Lieta seguo il mio fato. (a Pandolfo) Io le son serva.
SCENA SESTA
Pandolfo.
Dammi la mano, Elvira! Io le son serva!
Disgraziato Pandolfo!
E chi è costei?
Parmi averla veduta e pur non posso
tra quelle vesti
ravvisar chi sia.
5 Nulla di buono
al certo; e se non altro
sarà un’ignuda,
avanzo delle zanne[142]
d’orrida fame
almeno! Ecco Crespino,
s’egli non è d’accordo,
ei potrà tutto
or l’arcano svelar.
SCENA SETTIMA
Crespino, Pandolfo.
crespino Non
ci ho che fare:
il giuro, innocente son io.
pandolfo Ah
sì; tu sei
innocente? Mi
di’, ch’intrigo è questo?
crespino Io mi credei far bene!
pandolfo E che vuol
dire
5 questo far ben?
Ti spiega!
crespino Io poveretto
pensai ch’ella
parlar volesse a Alceste
di Doralice.
pandolfo E dove salti indegno?
Qual parte ha
Doralice in questa scena?
Io vo’ saper chi
questa Elvira sia?
10 Che con Alceste insieme
or ho sorpresa?
Tu mi fai lo stordito!
crespino Io dico bene,
Elisa... cioè
Elvira... perch’Elisa infine
non è più dessa.
pandolfo Affé, ch’ora
ritrovo
in quelle vesti
e sotto il finto nome
15 chi si nasconda!
È la serva d’Argante
Elisa. Oh ciel!
crespino Sì ben, vedete voi,
s’io dicea ’l ver.
pandolfo Ma non partire indegno!
Dimmi, che venne
a far? Parla ti dico;
Perché nome cangiò?
Come d’Alceste
20 è sposa?
crespino Che
dite voi di sposa?
Io non so nulla.
pandolfo Indegno!
SCENA OTTAVA
Argante, Pandolfo,
Crespino.
argante E che
vi turba,
signor Pandolfo
mio?
pandolfo Io non
so ancora
chi di noi due
sia il più infelice segno
a’ furori del ciel, voi nella figlia,
5 io nel nipote.
crespino Oh, ch’occasion
mi s’offre
dalla fortuna
per uscir d’imbroglio! (si parte)
argante Come? Che vi è di nuovo? Io per me sono
contento e volea dirvi...
pandolfo O voi felice!
Così dir non poss’io, ancorché in casa
10 v’abbia la sposa
già, io mi confondo
che non possa
scoprir che intrigo è questo!
argante Ma, come? Alceste dunque alfine ha vinto
l’orror del matrimonio?
pandolfo E ha scelto
bene!
argante Eh come ha scelto, poco importa; insomma
15 ei ci deve pensare.
pandolfo Affé, ch’io
credo
che il mondo tutto
impazzi e noi con lui.
Egli ha sposata
Elisa.
argante E che mi dite!
La serva mia?
pandolfo Almen la chiama sposa.
Se pur del nome
sacro ei non s’abusa,
20 per mascherar la
colpa agli occhi altrui.
argante Questo sospetto è ingiurioso a Elisa.
Troppo ella è
savia e onesta.
pandolfo Io
non so altro.
So d’averla sorpresa,
e ’l suo rossore
anco nel suo tacer
scuopre il delitto.
25 argante Non so che dirmi; io son confuso, e dico...
pandolfo Lasciate esserlo a me; ma in questo punto
giuro che vo’
d’entrambi aspra vendetta
farne, ch’esempio
sia. Oh quest’è troppo!
Che una serva
pezzente osi macchiare
30 mia
antica nobiltà.
argante Vi compatisco,
entro ne’ vostri
sensi; ma conviene
usar virtù, soffrendo
quel ch’all’uomo
non lice d’evitare.[143]
pandolfo Ognun consiglio
altrui sa dar.
Si tratta d’interesse
35 e dell’onore.
argante È ver, l’affare è grave.
Persuadermi non
so che un sì gran sbaglio
abbia commesso
Elisa, dal momento
che si partì dalla
mia casa.
pandolfo Dunque
non è più in casa
vostra? Ho inteso tutto.
40 La fame è stata a
questo matrimonio
la pronuba infelice.
argante E se rimedio
non v’ha, per
consolare il giusto duolo,
dir si può ch’Elisa
è onesta e buona. Che...
pandolfo Ch’importa a me, sia pur quel che si vuole,
45 ell’è un’ignuda; e se verrà l’usanza
di lasciare impunite
le mendiche,
ch’oneste e buone
osan macchiar gl’illustri
talami geniali;
o cara merce
ch’è la vile onestà
della canaglia!
50 argante Ma pur, se v’è conforto al vostro male,
quello esser dee
che in essa il merto estingua
la colpa di fortuna.
pandolfo Altro bisogna
che queste fole,
per rifare il danno!
S’ella è onesta;
è per sé. Dunque per questo
55 non è colpa la colpa?
Ove siam noi?
argante Nol dirò mai. È
vero, un grave fallo
commesso ha Elisa
e Alceste; e voi dovete,
se possibile sia,
a costo ancora
d’ogni prezzo
disciorre il nodo ingiusto.
60 Ma...
pandolfo No, non dite più, che già v’intesi.
Non si parli di
dote; io non darei
né pure un soldo,
perché quest’istesso
è un invito a
fallir; vo’ che il gastigo
sia vendetta al
delitto. I tribunali
65 ne hanno solo la
colpa, Argante mio!
Che importa a
me che ognor si sputin bandi,
perché il pan
sia di peso e perché il vino
si venda a prezzo
vil; perché il denaro
a usura non si
dia? Leggi sol buone
70 a tor l’industria e favorir la plebe,
ond’abbia da saziar l’ingorde canne[144]
con piccola fatica
a spese nostre!
Questi delitti
sono! E che delitti!
So che costei
alla mia casa fura[145]
75 la dote almen di venti mila scudi.
Se misfatto non
è, s’egli è impunito;
perché le leggi
son? Dican più tosto
che s’abusan di lor per farci eguali
col nostro alla
vil plebe, e che si vuole
80 che al par di noi
i suoi penati ell’abbia.[146]
argante È giusto il vostro sdegno.
pandolfo Il credo anch’io!
argante Veggio che non è tempo; ma di grazia
scusatemi.
pandolfo Perché? Parlate pure.
argante Alfin mia figlia è sposa...
pandolfo E di chi mai?
85 argante Del marchese...
pandolfo Di quel signor sì ricco?
argante Appunto.
pandolfo Ah... pazienza! Mi
rallegro.
Fortuna sua! La
merita. Egli è ricco!
Questi signori,
che han giudizio e mondo,
prendon l’eredi e lasciano le serve
90 povere e ignude alla
filosofia!
argante Io per me sempre avrei prescelto Alceste. Ma...
pandolfo No; la figlia vostra ha ben ragione;
ha fatto un buono
scambio; è ricco;
ed è saggio da
ver, che senza libri
95 si è fatto vostr’erede.
argante A me dispiace,
e ’l ciel lo sa,
s’avrei prescelto Alceste!
Ma se dirovvi la fatale istoria,
direte che non
è l’opra dell’uomo...
pandolfo Sarà pur ver ch’i matrimoni sempre
100 o son opra del cielo, o sono il frutto
della follia,
com’è quel del nipote.[147]
SCENA NONA
Doralice, Argante,
Pandolfo.
doralice Padre non più; questo rossore istesso
discuopre il mio rimorso; errai.
argante Mia figlia,
che
v’è di nuovo? Un freddo gelo turba
tutta l’anima mia.
doralice Avess’io
fatto
5 quel
ch’Elisa volea!
argante Morir mi sento.
Dimmi,
che seguì mai?
doralice Manca lo spirto.
Io
cado esangue; oh Dio!
pandolfo Questo mancava.
argante Figlia, fatti coraggio.
pandolfo Olà, Crespino!
Alceste! Olà, presto porgete aita.
10 Credo che in questo dì l’Inferno tutto
sia venuto a danzare in queste mura. (parte.)
argante E dove langue in sì grand’uopo, o figlia,
tuo vantato valore?
SCENA DECIMA
Elvira entra, correndo, in camera.
elvira Oh ciel, che veggio?
doralice Ah, ch’or purtroppo imparo esser diverso
l’immaginar
dall’eseguir? Ma come
Elisa è qui.
elvira Sì, la creduta Elisa
5 è
a’ cenni vostri, amica ognor
sincera,
come già vi fu serva.
argante Or via
t’arrischia:
di’
tutti i mali tuoi.
doralice Ma non è questa
d’Alceste
la magione?
Entra nella
scena Alceste.
alceste E quest’istessa
con
chi dentro vi vive è a cenni vostri.
10 doralice Alceste, Elisa a Doralice intorno
ch’ora è bersaglio di nimica sorte,
oggetto son di confusione, è pena
la rimembranza del passato.
argante Eh
lascia
sì
triste idee. Tu sei col padre tuo.
15 alceste E
con Alceste, che nel petto nutre
un
magnanimo cuore.
elvira E
con Elvira,
che v’ama ancor, come v’ha sempre amato.
argante Dunque quel che t’affligge alfin ci svela.
doralice Quanto mi costa il mio obbedir, se debbo
20 rinnovar mia vergogna. Allorché vana
men giva in cocchio aurato alla magione,[148]
armata
squadra presentossi avanti:
il varco chiuse e tosto intorno farsi[149]
vidi di fiera gente una muraglia:
25 d’un
pallor criminal tingersi il
volto
al
forestier, ch’era al mio fianco; e tosto
(a
parte) (ah; non l’avessi conosciuto
mai!)
tentar la fuga; e nell’istante io vidi
lanciarli al collo un laccio, che la
terra
30 gli fe’ morder
co’ denti; allor Valerio
tosto v’accorse colla spada ignuda,
e seco i suoi lacchè: fremere il cielo
di bestemmie sentii: vidi una turba
di disperati in duri lacci avvinta
35 strisciare il suolo, e dal tumulto istesso
poco mancò ch’io non rimasi oppressa.
argante Figlia, pianger mi fai, né so, se il pianto
sia parto del dolore, o della gioia
nel mirarti salvata dal periglio.
40 doralice Amica mano in sì grand’uopo accorse;
sollevommi
da terra; e allor potei,
dall’urto popolar rapita, il piede
quivi gettar, senza saper dov’era.
Tosto pien
di timor mi volsi addietro,
45 come
fa quei che l’onda perigliosa
guata dal lido; e tra i confusi suoni[150]
intesi risuonare, o almen mi parve,
che d’atroci delitti egli era reo.
Infine; ahi, che ’l rossor mi tarpa l’ali
50 alla parola!
SCENA UNDECIMA
Pandolfo e detti.
pandolfo Or tutto vi dirò, ch’io
l’ho saputo da
quel che fa il processo.
Il caso è strano.
doralice A mia confusion.
elvira Che
fia?
pandolfo Normanno è quei che si fingea
marchese:
5 Scappino è il nome
suo. L’altro è italiano.
Lisca s’appella.
Entrambi la livrea
han portata in
Parigi, ove fu varia
la lor fortuna;
infin Scappino...
doralice Oh Dio! Ch’io mi sento morir dalla vergogna!
10 argante Or via t’acquieta.
alceste Oggetto di piacere
si
fa il periglio istesso a chi n’è lungi.[151]
pandolfo Dunque questo Scappino entrò al servizio
di segretario
d’un signore e Lisca
maggiordomo divenne;
uniti insieme,
15 sui monti che all’Italia
usbergo fanno
tolser la vita al lor padrone e i beni;
e con i beni il
nome.
elvira Ah
scellerati!
Io ben leggea ne’ volti lor la frode.
doralice Ah creduto l’avessi!
pandolfo Allora
ardiro
20 finger diversi nomi
e far da grandi
nelle città più illustri, che teatro
furon ben tosto de’ misfatti loro.
Tutto
fer pel denaro e col denaro
s’apriro il
varco a nuovi falli, e ’l fero
25 prezzo d’impunità. Lisca ha due mogli;
tre
n’ha Scappino.
argante Ed or
volea la quarta!
pandolfo Infin l’ira del ciel,
che mai non lascia
d’incalzar
l’empio, benché agli occhi nostri
lenta sembri talor muover il passo,
30 qui gli ha colpiti per un furto illustre
in
Napoli commesso or fa due anni.
doralice Ah me infelice, e che di più mi resta?
Chi
m’addita lo scampo? Ah che d’intorno
tutto mi fa arrossir, tutto rammenta
35 il fallir mio. S’errai; perché non lice
spezzar
questa prigion che l’alma chiude,
piuttosto che soffrir le mie vergogne?
alceste Perché tanto dolersi? Ah che sovente
l’uomo
non sa perché si cruci il cuore.
40 E cieco a torto il suo destino incolpa
nel tempo ancor ch’egli al suo ben lo spinge.[152]
argante Purtroppo è ver; quel che t’opprime, o figlia,
cangiar
lo dèi in piacer. M’inonda il petto
la gioia nel pensar da qual periglio
45 fuori ti veggia e che tu forse in questa
scuola,
col solo prezzo d’un rossore,
apprendi l’arte di condur la vita.
alceste Il nostr’orgoglio sol, quel che ci
nuoce
vuol
che sia mal; senza avvertir che sempre
50 all’universo è un ben; ch’esserlo puote
altrui; che forse un dì sarallo
a noi.[153]
pandolfo Poss’io parlare ancor? Già già t’intendo,
con
questo tuo ciarlar, nasconder pensi
la tua vergogna, e far pretesto il fato
55 istesso alla tua colpa. Infin tu sei
marito
d’una serva, e senza dote!
Questa al certo
è pazzia. Forse in un tempo,[154]
quando
gli uomini andran su nella Luna,
un oracol sarà![155]
alceste Godo che alfine
60 filosofo
vi fate!
pandolfo Il ciel mi scampi
da
simile sventura!
alceste Io
me n’accorgo;
pur
avete una volta appresa l’arte
di leggere or le
misteriose cifre,
sparse in quest’universo, con cui sono
65 scritti
dal fato istesso i casi umani.[156]
pandolfo Mi maraviglio! Non ho perso il senno;
non
è tempo di giuochi; or ti risolvi
a sciorre il
nodo ingiusto, o ch’io ti tolgo
tutta l’eredità. Non voglio in casa
70 una ch’è senza dote e ch’è plebea.
elvira Giusto è quel che chiedete.
alceste Amata Elvira,
soffrite
ancor. Lasciate che i sinceri
sensi del cuor li scuopra. È vero, errai
ne’ miei trasporti allorch’io nol credea;
75 fino me stesso odiai, per aver dritto
d’odiare altrui. Questa che qui vedete
con
un pietoso inganno a mia ragione[157]
rese la libertà. Vidi il mio stato
e
n’ebbi orrore, e fin d’allora in petto
80 moto svegliossi
che divenne amore.
Mi lusingò sua dolce forza; infine[158]
mi trovai stretto in nuovi lacci allora
che meno lo temea; senza vedere
la tempra lor per umiliar mio orgoglio,
85 mi vidi la conquista d’una serva.
Nel suo gioir ne gemè il cuor, ma
indarno,
ché il giuramento e la mia data fede
tarpavan l’ali
a ogni speranza; ond’io
potessi ritornare al primo stato,
90 alla mia libertà.[159]
pandolfo Ma tutto questo
altro
non è che l’infelice istoria
d’un matrimonio fatto colla serva,
ch’io già sapea e ch’io non voglio.
alceste È vero,
qui
riparo non v’ha; per mia difesa
95 dir vi potrei che non è serva Elvira;
che i suoi natali, a sua virtude
uniti,
degna
la fan de’ miei sinceri affetti.
Mi conosco; non so mentir, né voglio
farmi merto di ciò ch’io debbo al
caso.
100 doralice Padre,
per quali vie l’uom si conduce
al
suo destin![160]
argante Purtroppo è vero!
elvira E
come
talor
felice si è l’istesso errore![161]
L’istoria mia il vostro duol conforti,
amata Doralice; e dolce speme
105 vi
sparga in sen di miglior sorte. Udite.
Padova mi fu patria, ove mio padre,
ch’io più non so se viva, era lettore
di
quell’arte che all’uom prescrive il giusto;
con un fratello mio, ch’unico avea,
110 insieme m’educò; non come suole
educarsi
dal volgo il sesso nostro.
Tra li uditori suoi un gentiluomo
di Messina v’avea. L’età, gli studi
ci
reser lieto il conversare insieme;
115 e il conversare istesso amore in petto
nascer ci fece; al padre mio mi chiese
in
sposa; ei far nol volle. Il suo rifiuto
più c’infiammò d’amor, dolce lusinga
seppe accendermi in sen delle sue nozze
120 col
suo consiglio io preparai la fuga.
Folle sedotta fui. Lasciai la gonna,
cinsi la spada ed a Venezia io corsi.
Quivi
seco m’ascosi, infin che un legno
sopra l’ali de’ venti mi rapisse
125 lungi dal patrio nido, il di cui amore
allor
solo provai che vidi il lido
agli occhi miei fuggire inesorabile.
Allor scopersi del mio error la
faccia
e
allor solo conobbi, benché tardi,
130 ch’ei non amava in me ch’il suo piacere.
Fui difesa al mio onore e quest’istesso
sua
voglia estinse e tramischiolla al tedio.
Infin poté obbliarmi e al primo porto,
ove il legno approdò, barbaro, infido,
135 lasciommi;
appena ritenere il pianto
posso nel ricordar la mia sventura.
Abbandonata
e sola allor giurai
di non tornare alle paterne mura,
di
non cercar giammai del sangue mio,
140 finché far nol
potessi con onore;
finché alla mia famiglia il mio ritorno
non
togliesse ogni macchia; in altro legno
ardii fidarmi allor, giunsi a Livorno
or fa cinqu’anni appunto, ove ripresi
145 l’antica
gonna, di cangiar contenta
il mio nome d’Elvira in quel d’Elisa.
In quell’albergo, ove portommi il
caso
io
vi trovai...
argante È ver, presente ho
il fatto.
Io
v’era colla figlia e con mia sposa,
150 per aspettar l’arrivo della nave,
che d’Ostenda spedita a questa volta
dovea portare il ben che mio fratello
m’avea lasciato;
s’ammalò mia moglie,
Elisa tosto offrì la man pietosa
155 a custodir mia figlia.
doralice Io mi ricordo
di
sue lusinghe ancora e de’ suoi vezzi,
con cui seppe ingannar la mia sventura.
argante La madre tua morì nel giorno istesso
che
la nave arrivò. Il tuo conforto
160 e ’l mio fu Elisa allora.
elvira E questo caso
guidommi in
casa vostra e a questo io debbo
la mia sorte presente.
doralice Oh cara Elvira,
quanto
ti debbo! E qual piacere io provo
nel tuo goder, nello sperarti amica,
165 al segno d’obbliare i miei trasporti.
elvira Tutto farò per voi;
vorrei potere
quel
ch’il mio cuore ardentemente brama.
pandolfo Infin nulla può farsi, Argante mio.
Veggo che tutti son contenti, e
solo
170 per noi scampo non v’ha. Che dovrem dunque
accomodarci al fato; io nel soffrire[162]
una nipote senza dote! E voi...
argante Doler non mi poss’io;
non ebbi al mondo
simil
fortuna a questa, di vedermi
175 scampato da un naufragio, a solo prezzo
d’un rossor brieve.
pandolfo Ah; mia disgrazia! Dunque
qui
sarò il solo disgraziato e il tristo
scopo all’ira del cielo?
alceste E tutti insieme
esempio altrui che spesso il nostro orgoglio
180 inganna la ragione e ci fa oggetto
di riso e di pietade al volgo istesso.[163]
Fine del quinto
ed ultimo atto.
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[1] Protesta
l’autore […] buono e vero cattolico: consueta rassicurazione da parte
dell’autore in merito alla propria ortodossia, secondo un costume molto diffuso
nelle stampe delle opere teatrali nel XVIII secolo, tanto che la si ritrova
anche nelle traduzioni italiane soprattutto di Corneille,
nelle quali al lettore è raccomandato di intendere i riferimenti al «fato», al «destino»
o a idee paganeggianti «come naturali espressioni di personaggi non cattolici,
o come ornamenti dello stile, non già come sentimenti di chi si protesta d’esser
cattolico» (questa la dicitura, più ricercata, che precede Attila re degli
Unni. Tragedia di P. Cornelio, Bologna, Longhi, 1718, ma si vedano anche la
Surena generale de’ Parti, Bologna,
Longhi, 1719, Il Vincislao, Bologna, Longhi, s.d.). Analogo avvertimento
nell’Ormisda di Apostolo Zeno (stampa bolognese di Saffi,
1722) e nelle Commedie di G. B. Fagiuoli
(Firenze, Mouecke, 1734-1736, 6 voll.), in cui fato, destino,
sorte e i nomi delle divinità classiche sono definiti rispettivamente «sentimenti
poetici» e «semplici abbellimenti e frasi poetiche e comiche e non sensi di
mente cattolica» e dove non si trova il riferimento alla prospettiva dei
personaggi non cattolici. Nella formula apposta da Rucellai al Misantropo sono
assenti i richiami alle divinità e alle categorie pagane, ma le «naturali
espressioni di personaggi non cattolici» e i «sensi di mente cattolica» sembrano
precisarsi, con rinnovato accento sulla prospetticità,
in «detto e sentimento di personaggi gentili». La formula si inserisce dunque
all’interno di una tradizione consolidata e caratterizzata da molte varianti:
quello che è forse più interessante notare è che Rucellai, diversamente da
quanto fa in altri contesti citazionali, non crea la propria dicitura variandone
una già data, ma riproduce pedissequamente quella che il gesuita Giovanni
Granelli prepone alle proprie tragedie, dal Manasse re di giuda
(Bologna, G.M. Fabbri, 1732) alle raccolte pubblicate più volte nei vent’anni successivi.
Si potrebbe indurre che Rucellai, spesso in attrito con le gerarchie
ecclesiastiche per la propria attività di legislatore e conscio delle critiche
che avrebbe potuto suscitare la dottrina professata dal misantropo Alceste –
nonché quella contenuta nella Prefazione alla traduzione del Tamburo
di Addison, due anni dopo – ostenti la propria ortodossia facendosi scudo delle
parole di un predicatore appartenente all’ordine gesuita e faccia propria anche
la di lui umiltà nella chiusa della protesta: umiltà che, nella penna di
Rucellai, assume forse i connotati dell’ironia. Se, infatti, le formule
preposte alle traduzioni di Corneille e alle opere di
Fagiuoli definiscono senza dubbio «cattolica» la
mente dello scrittore, quella di Granelli chiede l’aiuto divino per mantenere
fino alla morte la fedeltà al cattolicesimo: espressione di consapevolezza del
proprio limite e dunque di umiltà consona alla figura di un religioso, ma che
appare quantomeno esibita con troppa disinvoltura dal giusnaturalista Rucellai.
[2] vv. 15-17: il riferimento è forse alle rappresentazioni della
Commedia dell’Arte.
[3] vv. 1-20: dopo aver sgombrato il campo da tutti gli effetti
che non si troveranno nella commedia ed aver escluso dalla sua fruizione coloro
che cercano un divertimento volgare e fine a sé stesso, l’autore ne dichiara lo
scopo educativo ed edificante, che essa può raggiungere solo in relazione ad uno
spettatore che congiunga il piacere all’utile inteso in senso morale. Il prologo,
secondo un costume diffuso fra il Rinascimento e la riforma goldoniana, è insieme
espositivo e argomentativo: inserisce, infatti, l’anticipazione della trama nella
cornice di alcune considerazioni sulla corretta ricezione della commedia, sui costumi
del pubblico, sulla novità del testo (cfr. Massimo
Palermo, La deissi nei prologhi delle commedie, dal teatro rinascimentale
a Goldoni, in Testualità. Fondamenti, unità, relazioni, a cura di Angela
Ferrari, Letizia Lala, Roska Stojmenova,
Firenze, Franco Cesati, 2015, pp. 307-324).
[4] il cui padre /
Menandro fu: Menandro (342-290 a.C.) è dunque considerato fondatore della tradizione
comica cui Rucellai si ispira per questo lavoro. ♦ donde n’attinse il Lazio:
Lazio è naturalmente metonimia per Plauto (259-184 a. C.) e Terenzio (190-159
a. C.) riconosciuti come i più importanti autori di commedie della tradizione latina.
[5] teneri petti:
cfr. Giovanni Boccaccio, Elegia di Madonna Fiammetta,
cap. I, 24 e Stefano Guazzo, La civil
conversazione, libro III.
[6] vv. 21-28: l’autore inscrive la propria opera nella tradizione
della commedia greca, soprattutto la commedia cosiddetta «nuova» rappresentata dal nome di Menandro, e poi latina, che
esercitavano il loro intento formativo nella denuncia dei vizi della società e dei
singoli ed erano caratterizzate da un certo scavo psicologico dei personaggi, assente
dalla commedia greca antica e dalla commedia dell’Arte.
[7] Alceste ha nome:
come il protagonista del Misantropo di Molière, con il quale, tuttavia, non
ha null’altro in comune, se non il disprezzo per il genere umano.
[8] vv. 33-34: se nei versi d’esordio erano state prese di mira
le «basse voglie» di un generico «volgo» che cerca nella commedia mera e impudica
evasione, in questi versi viene colpita in particolare la nobiltà che non dimostra
una cultura all’altezza del proprio rango sociale. Il tema è oggetto di attenzione
da parte di Rucellai probabilmente anche in virtù della sua parabola personale di
appartenente ad una famiglia nobile decaduta, che, grazie ai propri studi, riesce
a guadagnare una posizione di spicco nel governo granducale e molti rapporti intrattiene
con una nobiltà con la quale talvolta si scontra.
[9] Fe’ già suoi studi
in Pisa, come gli altri / in quel tempo faceano: caratteristica
che il protagonista ha in comune con l’autore, e che costituisce uno fra i più rilevanti
indizi a favore di una identificazione fra i due, senza contare i pur ingentiliti
riferimenti al carattere iracondo di Rucellai nelle Historiae
Pisanae (Angelo
Fabronio, Historiae
Academiae Pisanae, Pisa,
Cajetanus Mugnainius, 1795,
vol. III, pp. 337).
[10] vv. 60-62: la vergogna e il pentimento nascono dal riso – non
dal rimprovero – altrui. Il particolare pone in risalto ancora una volta la specificità
educativa della commedia, la quale, muovendo al riso sui difetti degli altri, deve
spingere l’uomo a ridere anche dei propri e dunque a diventare egli stesso oggetto
della propria vergogna.
[11] ché questi, ancorché
ei sia / di buona nobiltade, è un vecchio ingiusto:
la critica alla nobiltà sposta il proprio obiettivo dal tema più generale dell’ignoranza
a quello che forse sta più a cuore all’autore: la giustizia, che in questi versi
va considerata quale virtù personale.
[12] pien di superstizion la
lingua e ’l petto: cfr. Francesco Petrarca,
Triumphus cupidinis,
(1374, princeps 1470), I: «pien di filosofia la
lingua e ’l petto» e poi Pomponio Torelli,
La Merope, (1589), p. 71: «Tu che per don del ciel, per studio hai colmo/
di saper, di parlar la lingua e ’l petto» e, in un contesto decisamente più vicino
a quello del nostro autore, Alessandro Tassoni,
La secchia rapita, 1614, c. VII, ott. 20: «pieno d’astrologia la lingua e
’l petto».
[13] È nuova la commedia:
Rucellai non solo esplicita nel prologo la propria intenzione di mettere in scena
un’opera che disattende le aspettative di chi trova nel teatro uno strumento di
mero divertissement, ma afferma addirittura il carattere di novità della
propria commedia, forse in dialettica rispetto alla moda ancor diffusa della commedia
dell’arte. In questo desiderio di novità, certamente proiettato sul teatro d’autore,
si intravede la consonanza rispetto a Goldoni. Nello specifico, tuttavia, il novum che Rucellai attribuisce alla propria opera sembra
risiedere nella rappresentazione del tema della misantropia, con straniante provocazione
rispetto ad una inveterata tradizione che la ha già consacrata quale fortunato e
sempre attuale oggetto di commedia («Esser la prima volta che la scena / vide al
vivo dipinto un misantropo», vv. 92-93). Non viene anticipato
nient’altro, lasciando giustamente allo spettatore che vorrà ascoltare fino alla
fine la curiosità di comprendere i motivi di una affermazione così audace.
[14] esser gran tempo
che la Francia seppe / […] / le piacque trapiantar nelle sue scene: Rucellai
è consapevole della reazione critica che la propria pretesa di novità può suscitare
nel pubblico. Il tema della misantropia, infatti, non solo trae origine dalla tradizione
antica della commedia di Menandro, ma gode di grande successo anche sulle scene
europee durante il XVII secolo: la versione moderna più celebre è attribuita a Shakespeare:
si tratta del Timone d’Atene (1608), opera complessa, difficile, che pare
sia stata rappresentata alle Inns of Court dove avrebbe
riscosso successo presso un pubblico di nicchia composto da giovani avvocati (cfr. Rolf Soellner,
Timon of Athens: Shakespeare's Pessimistic Tragedy, Columbus, Ohio University Press, 1979, p. 207). Il particolare
non è trascurabile, in quanto deporrebbe ulteriormente a favore della possibilità
che anche Rucellai, giurisperito, abbia potuto conoscerla ed apprezzarla. La versione
shakespeariana diviene poi modello per numerose riprese: in Inghilterra da parte
di T. Shadwell, (The History of Timon of Athens the Man-hater, 1678), in Francia
ad opera di L.-S. Mercier (Timon d’Athènes. En cinq actes en prose. Imitation de Shakespeare,
Paris, 1795), e poi di É. Fabre (Timon
d’Athènes, Paris, Stock, 1899); famosi adattamenti
musicali si devono invece a Louis Grabu (1678) e a Henri
Purcell nel 1694. La più celebre delle riprese è certamente il Misantropo
di Molière (il giudizio di Rucellai in proposito si rivela in quel «effemminar»
e poi «trapiantar» ai vv. 82 e 84), che edulcora il rigore
del personaggio inglese e mostra sin dall’inizio il proprio protagonista Alceste
innamorato di una donna. Di Molière Rucellai conserverà, infatti, solamente il nome
del protagonista e alcuni tratti del suo carattere, discostandosi dalla pièce
francese per quanto riguarda la fabula, i personaggi secondari, lo spessore culturale
del protagonista e la filosofia a cui egli si ispira.
[15] italo genio:
un’occorrenza interessante ne Il genio divertito di Giovanni Prati (1609),
dove l’autore sbeffeggia la mollezza dei costumi italici di contro alla fierezza
di quelli dei nemici ottomani. Incapace di difendere i propri confini e la propria
fede è più esplicitamente l’«italo genio» delle Odi di Carlo de’ Dottori (1664).
[16] L’italo genio
/ […] / stranio lido: con questi versi, che si rifanno ad un’illustre
tradizione (v. note precedente e successiva), l’autore rivendica l’originalità
della letteratura italiana, in particolare per quanto riguarda la produzione
teatrale, che non ha bisogno di prestiti dalle letterature europee. Non è
difficile scorgere dietro questa programmatica affermazione la presa di
posizione di Rucellai nell’annosa questione dell’antagonismo fra classici e
romantici che nel Settecento aveva animato la polemica Orsi-Bonhours
(cfr. sotto III.3.115-116).
L’autore si schiera qui evidentemente a favore della superiorità della cultura
italiana, radicata nella tradizione classica, tanto che cita esplicitamente
Menandro quale padre della commedia greca, mentre rende anonimi Molière e Shakespeare
assimilandoli e riassorbendoli metonimicamente alle loro rispettive patrie
(«Francia», «suol britanno»). ♦ stranio lido: cfr. Francesco Petrarca, A Federico Aretino
(23 agosto 1362), in Epistole senili, IV.5, poi espressione
frequente nella poesia secentesca e arcadica.
[17] cor gentil: richiamo conclusivo – ironico? – ad un determinato tipo di letteratura e
di società – forse irripetibile? – in
cui affonda le proprie radici la tradizione italiana.
[18] com’angue in erba
suol, si stanno ascosi: similitudine che indica la
vischiosità dei mali legati allo stato maritale, nascosti da un piacere che ne ammorza
il rigore. L’immagine vanta un’illustre tradizione, da Virgilio, Bucoliche, III, 93 («latet
anguis in herba») a Dante, Inf
VII 84 («Che
è occulto, come in erba l’angue», detto dell’ordinamento che la fortuna dà al mondo),
riferimenti che qui servono probabilmente a nobilitare le parole di Alceste, proiettate
su un orizzonte ben più circoscritto.
[19] ond’io mi veggio omai /
favola al volgo istesso riproduce, con parole analoghe, il sentimento e le circostanze
del sonetto petrarchesco Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono, e in particolare
i vv. 9-10 «al popol tutto / favola fui gran tempo». Anche
in questo caso, infatti, il parlante si vergogna dei suoi passati errori amorosi.
Si noti la studiata corrispondenza che fra i due luoghi viene stabilita attraverso
la precisa collocazione in enjambement di «favola», in posizione enfatica
di inizio verso.
[20] ei t’avrà detto,
/ me lo suppongo già, che ’l Sol sta fermo, / che la Terra si muove... e che so
io? / Follie simili a queste: già in principio della scena Pandolfo rivela la
propria ignoranza e la propria superbia mettendo in ridicolo le convinzioni scientifiche
di Alceste, che rispondono a quelle copernicane. Alceste assume dunque per via indiretta
i tratti dell’intellettuale incompreso e perseguitato, mentre Pandolfo appare come
rappresentante del sapere vetusto e radicato nella tradizione tolemaica. Probabilmente
una stoccata dell’autore nei confronti della Chiesa, contro i cui privilegi si batte
nel suo ruolo di funzionario del granducato di Toscana.
[21] i libri, ove si
legge il mondo eterno: così Crespino definisce i corpi marini impietriti che
Pandolfo calpesta. L’espressione rimanda naturalmente il lettore a filosofi del
calibro di Galileo, e ancor prima, di Campanella e di Telesio: il mondo è un libro
di cui lo scienziato è in grado di interpretare il linguaggio. Crespino si pone
qui dalla prospettiva di Alceste, sottolineando invece l’ignoranza di Pandolfo (grazie
anche alla didascalia ironicamente).
[22] Sia maladetto / […] / a Pisa di mandarlo: Pandolfo maledice
il consiglio che lo ha indotto ha mandare il nipote a studiare a Pisa. Forse una
nota autobiografica e autoironica da parte dell’autore, che a Pisa aveva studiato
diritto e si era laureato.
[23] I.2.34-47: in aperta
antitesi rispetto ai vv. 23-25 e non senza riferimenti
petrarcheschi (Benedetto sia ’l giorno, e ’l mese, e l’anno, in Rerum Vulgarium Fragmenta, LXI,
d’ora in avanti RVF), Pandolfo benedice la propria ignoranza e, inoltre,
allinea l’interesse e la convenienza della casa con principi di buon senso ricavati
dal solo nume naturale: in pochi versi l’autore prende di mira, insieme, l’ignoranza
dei nobili (come nel prologo, del resto); la visione gretta dell’utile; la teoria
rousseauiana dello stato di natura.
[24] ciascun deride
la follia dell’altro, / poveri noi! E tutti al par siam folli! Nella sua volgarità,
Pandolfo svilisce, amplificandolo, un topos della filosofia occidentale,
riportato all’attenzione soprattutto fra il XVI e il XVII secolo, per cui coloro
che sembrano pazzi sono in realtà i veri saggi (si pensi almeno alla figura di Socrate
e cfr. anche Tommaso Campanella, Poesie,
n. 13).
[25] ch’il cuor mi
limo: espressione probabilmente divenuta colloquiale, che vien fatta derivare
da un adagio da molti moralisti attribuito (senza fondamento) a s. Agostino: «omne verbum prius
veniat ad limam, quam ad linguam», espressione interpretata
da Alonso Rodriguez come: «Prima ch’eschi dalla bocca, [la parola] s’ha da registrar
dentro nel cuore, e limarsi colla regola della ragione» (Essercitio
di perfettione, e di virtù christiane,
1617, vol. II, p. 130).
[26] farmi oggetto
di riso in su la scena: con questo riferimento metateatrale,
che provoca divertito straniamento e cattura l’attenzione del fruitore,
l’autore definisce la propria posizione rispetto al personaggio di Pandolfo,
ironizzando su di lui e attribuendogli inconsapevole autoironia. Se egli non
verrà messo in ridicolo da un erede «comprato», lo sarà per mano dell’autore:
fra tutti i personaggi della commedia, Pandolfo è infatti quello su cui
maggiormente si esercita la critica di Rucellai, che ne pone in luce
l’ingiustizia, l’ignoranza, la presunzione e l’egoismo, fino ad escludere lui
solo dalla possibilità di comprendere l’insegnamento morale dell’opera.
[27] seguir l’interno
/ moto che al ben mi sprona e che m’addita /la dritta via: nella sua semplicità
Argante si fa pacato portavoce di una posizione filosofica improntata al sistema
di Telesio, per cui anche in ambito morale è lo spiritus,
l’inclinazione naturale, una sorta di moto interno, dunque, a spingere l’uomo al
bene e al giusto e a farlo fuggire dal male.
[28] Umilio il
capo / e l’amara bevanda in pace io bevo: dissacrante parodia del momento
culminante dell’agonia di Gesù sulla croce (cfr. Gv
19, 29-30).
[29] È grande!:
l’andamento del dialogo indurrebbe il lettore ad aspettarsi piuttosto un «E
grande», in continuità con la battuta precedente. Tuttavia l’espressione di
Argante, nella sua inattesa forma di predicazione, potrebbe costituire un
ricalco ironico dell’«è vero» pronunciato da Pandolfo al v. precedente e ripetuto
poi al v. 130.
[30] mill’anni / parranno ogni momento di mia vita:
rovesciamento di un passo della Sacra Scrittura, abbassato all’orizzonte terreno
e utilitarista del parlante (cfr. Salmo 89 (90), v. 4 «Ai tuoi occhi, mille
anni sono come un giorno»).
[31] Ma nulla importa
/ […] / languire: l’opposizione fra l’utilitaristica e gretta concezione
del matrimonio difesa da Pandolfo e quella ‘delirante’ che viene attribuita ai giovani
è espressa con un lessico alto, proprio del genere tragedia (foco, face, imeneo,
desio).
[32] un corpo solo
/ con legal nodo formerem:
l’unione delle ricchezze è espressa nei termini degli sponsali.
[33] in vedovile ammanto:
«Non pervertes iudicium
advenae et pupilli nec auferes pignoris loco viduae vestimentum»
(Deuteronomio XXIV, 17). L’espressione
ricorrerà in Vittorio Alfieri, Timoleone (1788, p. 152).
[34] I.4.54-61: la serva
Elisa rivela qui – a fruizione del solo lettore – le proprie nobili origini, che
verranno rese note ai personaggi della commedia solo in V.11.
[35] I.5.30-38: il buon
senso e il sano realismo della serva si manifestano anche in questa previsione,
che in effetti in parte si realizzerà, per poi essere smentita nel finale della
commedia grazie al concomitare di cause esterne, non certo per la fermezza di Argante
né per la virtù di Doralice.
[36] ch’i doveri ed
il giusto intende e adora: le qualità di Alceste sembrano rimandare a quelle
per cui è lodato l’autore stesso, come testimonierà, dopo la morte di lui, Angelo
Fabronio, Historiae
Academiae Pisanae,
cit., vol. III, pp. 337).
[37] e sospirai il
trionfo / di trasformarli il cuore atroce e schivo / in quel d’amante timido e geloso:
nella Locandiera, II.19 Mirandolina realizza di
fatto questo auspicio di Doralice, dicendosi vittoriosa e quasi trionfante per avere
infiammato il cuore del presuntuoso Cavaliere per il mero gusto di avvilirlo, come
del resto il Cavaliere stesso le rinfaccia in V.18.
[38] la conquista istessa:
evidente nell’atteggiamento di Doralice la traccia della figura di don Giovanni,
che ispira, dopo Tirso del Molina, anche Molière e, nel 1730, Goldoni. L’idea della
punizione, ben presente in queste opere, non solo viene ripresa nel titolo del Misantropo
e proiettata sul destino del protagonista, ma si affaccia in questi versi come
presagio di quella che sarà la sorte di Doralice stessa. La donna, che afferma di
proporsi come scopo quello di «far vedere un giorno / come l’orgoglio uman da noi si domi» (I.6.84), al termine della commedia sarà
essa stessa punita nel proprio orgoglio perché posta di fronte alla propria imprudenza
e alla vanità dei propri desideri.
[39] E s’io tradita
fossi […] / […] / Romanzo dir volete: ironico inserto metaletterario in cui
Doralice ricorda le note vicende di alcune famose donne innamorate – vicende che
toccheranno anche a lei, in una dimensione ben più circoscritta – e che la serva
colloca immediatamente nel genere letterario che a loro conviene, non senza quella
punta di ironia con la quale il genere romanzo viene identificato con il racconto
di amori vacui e sfortunati e, indirettamente e qualche verso più sotto, con delle
«fole» (v. 153).
[40] Gli Orlandi, gli
Amadis ed i Ruggier: esplicito
riferimento ai protagonisti di celebri romanzi cavallereschi provenienti da tradizioni
europee che risalgono anche a molti secoli prima della composizione dei più noti
Orlando innamorato (1495), Amadigi di
Gaula (1508) e Orlando furioso (1516).
[41] I.6.162-175: tirata
di Doralice che confronta le figure dei cavalieri erranti, cui assimila il suo presunto
innamorato, con Alceste, sempre chiuso nel proprio studio e nostalgico della classicità.
L’angustia della prospettiva della donna pone superficialmente in antitesi i valori
veicolati dalla letteratura dei poemi cavallereschi e quelli della tradizione greca
e latina, prediligendo evidentemente i racconti di quête
amorosa, il cui spirito non può essere conciliato con le esigenze – ragionevoli
– del matrimonio, come invece auspica la serva Elisa.
[42] da un trasporto
d’amor tutto rapito / […] / se mai più ardissi di cangiar mia voglia: Lisca
cerca di trascrivere in forme pompose il topos letterario del fuoco d’amore,
frammischiandolo a quello del sacrificio sull’altare dell’amore stesso, ma senza
riuscire a creare nessuna figura retorica degna dell’argomento, se non il paragone
classicheggiante con le baccanti e l’identificazione della donna con una dea cui
si consacra il cuore (si apprezzi, comunque, l’insistente allitterazione sia del
suono affricato palatale /t∫/ sia di quello occlusivo velare /k/, soprattutto
ai vv. 102-108).
[43] le chiome afferri
alla fortuna: fin dall’antichità classica, la fortuna è rappresentata iconograficamente
con un ciuffo di capelli sulla fronte e la nuca calva, per significare che l’uomo
può arraffarla solamente quando essa gli è di fronte. In epoca moderna si trovano
molti corrispettivi letterari di questa immagine: tra i maggiori Ludovico Ariosto, Orlando furioso, XXXVIII, 47, Torquato
Tasso,
Rime d’amore, n. 81, Alessandro
Tassoni, La secchia rapita, II, XIX.
[44] e chi pon mano ad esse: cfr. Pg
XVI 97, un passo in cui Dante mette a fuoco in modo decisivo il problema del
rapporto fra libero arbitrio individuale e legge positiva che regola il
consorzio umano. In queste battute sembra che Scappino, con le sue
affermazioni, si ponga esplicitamente in una prospettiva opposta rispetto a
quella del Marco Lombardo dantesco.
[45] de’ bellici instrumenti: cfr. Torquato
Tasso, Gerusalemme liberata, I, 71 (d’ora in avanti GL). L’espressione
si trova al culmine di una metafora continuata per cui l’amante vittorioso sull’antagonista
veste i panni di un generale trionfante.
[46] il verso resta
sintatticamente incompleto e nella stampa è seguito da una riga di punti che
indicano probabilmente versi illeggibili. Il particolare induce a supporre che
lo stampatore bolognese abbia licenziato l’opera senza la supervisione o
quantomeno senza un’ultima revisione da parte dell’autore.
[47] Apriam la scena / […] / e tu da maggiordomo: Scappino inaugura
un’ulteriore finzione nella finzione scenica, espressa intenzionalmente in termini
teatrali. La dinamica si ripete in altri luoghi del testo: III.1.55; IV.6.51;
V.2.36; V.7.8.
[48] Finché libero
son, sarò felice: affermazione, per contrario, della schiavitù che il matrimonio
impone. Al v. 13 il termine «catena» rinforzerà nuovamente per via simbolica la
medesima idea.
[49] se l’uomo esser
lo [felice] può, che non lo credo:
Alceste esplicita qui la portata universale del proprio pessimismo: non solo il
matrimonio è un carcere e rende infelici, ma addirittura non esiste nulla che possa
rendere felice l’uomo in modo duraturo. Si riascoltino nella prosodia di questo
verso gli echi danteschi di Tanto gentile e tanto onesta pare («che ’ntender no la può chi no la prova», v. 11).
[50] e mi vergogno
/ spesso meco medesimo: variazione sul noto verso petrarchesco (cfr. Voi
ch’ascoltate in rime sparse il suono, RVF I 11).
[51] E come quei […]
/ lungi al periglio: ripensando al rischio, corso qualche tempo prima, di maritarsi,
Alceste si paragona al saggio epicureo rappresentato da Lucrezio nel De rerum
natura (libro II, vv. 1-4). D’altra parte, il protagonista
risponde al ritratto del saggio lucreziano anche nel suo preferire decisamente «bene
quam munita tenere / edita doctrina
sapientium templa serena» (II,
vv. 7-8).
[52] or la catena
istessa / […] / in voto appendo: Alceste costruisce la metafora continuata
sulla base dell’antica tradizione – classica, ma poi in parte anche cristiana –
per cui, come ringraziamento alle divinità per lo scampato pericolo, si
appendevano negli spazi sacri oggetti che ricordassero il rischio da cui si era
stati preservati. In questo caso, l’accostamento inusuale fra la consueta, poco
onorevole immagine della catena quale correlativo oggettivo del matrimonio e il
contesto nobilitante della pratica degli ex-voto genera una certa,
discutibile, comicità: l’effetto dissacrante risulta duplice e ricade sia sul
matrimonio, sia sulla pratica delle offerte votive.
[53] misera e proterva:
cfr. Tommaso Campanella, Scelta
di poesie filosofiche, n. 11, v. 5.
[54] Ma se così gli
padri nostri […] / sospirati finor fasti del mondo: si confrontano il buon senso
del servo preoccupato per la conservazione della specie umana e la più complessa
prospettiva di Alceste, che pone in primo piano la nociva presenza dell’uomo nella
natura, capace di grandi meraviglie anche – e soprattutto – a prescindere da lui,
come dimostrerebbero i reperti delle antiche ere geologiche. Si noti al v. 31 l’allitterazione
della /f/ sottolineata dall’anastrofe. Il dialogo si pone in rapporto di
parallelismo rispetto a quello fra Doralice e la serva Elisa in I.6. Quanto alla
necessità o meno di maritarsi per conservare la specie, una interessante riflessione
di Pufendorf, teorico del giusnaturalismo certamente conosciuto
da Rucellai, invita a vietare la propagazione della specie attraverso accoppiamenti
licenziosi, avversi alle leggi del matrimonio, al di fuori delle quali non può aversi
una società umana e civile ben regolata. D’altra parte non deve nemmeno sussistere
l’obbligo di coniugarsi, soprattutto se manca l’occasione favorevole; e se il singolo
individuo ritiene che il proprio celibato sia utile alla società, può astenersi
dal matrimonio, senza temere per la propagazione della specie (cfr. Samuel Pufendorf,
De officio hominis et civis
iuxta legem naturalem, 1673, libro II, capo II, § 3). L’atteggiamento
di Alceste è paragonabile a quello dell’Ippolito senecano, che preferisce la vita
ritirata dei boschi a quella della reggia e guarda con nostalgia ai costumi prischi
degli uomini, a quando ancora la fame dell’oro non li aveva resi nemici gli uni
degli altri (cfr. Seneca, Fedra,
I).
[55] che spesso è l’ignoranza
[…] / […] / nostra felicità: provocatoria presa di posizione del sapiente nei
confronti dell’ignorante che vanta una lunga tradizione nel pensiero occidentale
e nella quale il concetto di felicità è da intendersi nel limite dell’orizzonte
dei sensi (si veda per tutti Giordano Bruno, Degli eroici furori, in Id., Opere italiane,
2002, vol. 2, pp. 544-545).
[56] tutta la scena è
occupata dall’esposizione della teoria di Alceste sulla vita, visione che si rivela
permeata, prima ancora che dalla misantropia, dal pessimismo, di cui la misantropia
è forse solo uno degli esiti. Il divenire della storia; la signoria dei sensi, pur
fallaci, sulla ragione; l’illuso orgoglio della ragione e la presunzione dell’uomo
di poter dominare tutte le cose sono i motivi-cardine di una disincantata analisi
della condizione umana priva di prospettive di redenzione e che fortemente risente
sia dei portati del razionalismo cartesiano sia delle critiche ad esso mosse. L’aspetto
forse più interessante è la scarsa fiducia nelle leggi, che l’autore, giurisperito,
attribuisce ad Alceste (vv. 29-32) in versi che sembrano
mettere in discussione alcuni aspetti del contrattualismo hobbesiano.
[57] Tutto intorno
m’è orror: nel contesto del pessimismo
espresso da Alceste, l’espressione, nella sua icasticità, potrebbe rievocare
atmosfere barocche, visioni shakespeariane o, ancor prima, l’orrore, innato e
artefatto, della selva di Saron in GL XVIII,
dunque ricondursi al significato di «spavento o eccessiva paura, che nasce da
male che sia quasi presente» (cfr. Vocabolario degli accademici della
Crusca, IV edizione, 1729-1738, vol. III, p. 434, d’ora in avanti Crusca): lo confermerebbero
i luoghi del testo in cui l’orrore è legato a situazioni imprevedibili e al
limite del naturale o di grande tensione, come IV.10.23 e 28 e V.3.69. Ma si
tratta quasi sicuramente di un’iperbole, con la quale l’autore pone in ridicolo
le istanze misantropiche del protagonista, in quanto molto più spesso nelle
battute della commedia «orrore» ricorre con il significato di fastidioso incomodo
o di effetto legato alla sola idea del matrimonio (IV.3.134; IV.11.34; V.4.5;
V.4.63; V.8.13).
[58] dal momento, ch’ei
nasce, egl’incomincia / tosto a morir: cfr. la celebre
espressione senecana «cotidie morimur»
(Epistula ad Lucilium,
XXIV), divenuta poi una sorta di motto.
[59] la scena mette a
confronto la posizione già nota di Alceste e la prospettiva grettamente utilitaristica
di suo zio Pandolfo, che non esita a impiegare il termine «profitto» (v. 111) per
denotare i vantaggi del matrimonio, ascrivendoli senza equivoci al dominio dell’utile.
Alceste sembra aver qui interiorizzato la posizione di Crespino che lo aveva fatto
riflettere sulla necessità di propagare la specie: in tal caso il matrimonio è ammesso,
ma a condizione che i due contraenti siano liberi nella scelta e reciprocamente
innamorati. L’autore sottolinea più volte la presunzione di Pandolfo che «senza
studiar» (vv. 55 e 110) vanta una sapienza che vorrebbe
avvilire quella ben più solida del nipote. La trama lessicale del dialogo lascia
emergere anche la possibile reità della posizione di Pandolfo di fronte alla fedeltà
al diritto propria invece di Alceste ed esaspera la distanza delle due prospettive
facendo coincidere quanto Alceste imputa a un «cuor di fiera» e ciò che Pandolfo
attribuisce, invece, al «cervello» (vv. 121 e 123).
[60] pazzo da catena:
espressione divenuta proverbiale, la cui prima occorrenza è attestata nel contesto
drammatico di Iacopone da Todi, Laudi spirituali, I.7.39,
poi passata al vocabolario comico in Francesco
Berni, Rime burlesche, I, 3 (Crusca, vol. III, pp. 528-529).
[61] ho appreso di
soffrire, senza turbarmi il cuor, gli altrui trasporti: affermazione
degna di un saggio stoico.
[62] queste / carte:
sono quelle che troverà Elvira in V.2.42-48, carte scritte «dalla mano d’Alceste»
e recanti il titolo «Doveri, o esame / del maritale stato, in cui si prova /
che sempre è un certo mal…». Il loro contenuto si può indovinare alla luce delle
successive battute di Alceste, che ammette il matrimonio solo nel caso sia libera
scelta di due innamorati, e insiste sul carattere naturale – e dunque buono – della
forza che spinge gli uomini, ai fini della conservazione della specie, a superare
la dimensione dell’amore di sé per aprirsi all’amore verso gli altri.
[63] stravolture: stravolgimenti. Il termine compare per la
prima volta in Crusca soltanto a partire dalla IV edizione (vol. IV, p. 771).
[64] se detto l’abbia
Seneca, o l’Ariosto, / Bertoldo, l’Alcorano, od
il Boccaccio!: ancora una volta Pandolfo irride la cultura del nipote,
negando l’utilità di consultare le auctoritates.
Seneca è citato in quanto esponente dello stoicismo romano, le cui tracce sono già
emerse nelle battute di Alceste; Ariosto è ricordato non tanto quale rappresentante
della visione del mondo cavalleresca, i cui valori sono già stati posti in discussione
da Elisa di fronte a Doralice, quanto piuttosto come autore delle Satire,
in cui viene elogiata la vita nascosta e si parla anche di matrimonio (Satira
I e Satira V in particolare). Data la cultura filosofica di Alceste e
la compagnia degli autori con i quali viene annoverato, Bertoldo dovrebbe forse
essere identificato con Bertoldo di Moosburg: teologo
domenicano, filosofo neoplatonico, commentatore di Proclo,
insegnò a Colonia verso la metà del XIV secolo e la sua Exposito
super Elementationem theologicam
Procli è da considerarsi una sorta di summa del
neoplatonismo medievale, tanto da essere apprezzata e citata anche da Niccolò Cusano.
L’Alcorano è probabilmente menzionato in quanto veicolo
della cultura orientale: si tratta infatti dell’Alcorano
di Macometto, prima traduzione italiana (e in una
lingua europea) del Corano, realizzata da Giovanni Battista Castrodardo, stampata a Venezia da Andrea Arrivabene nel 1547
e fino a metà del XVII secolo unica edizione divulgativa dell’opera, pertanto molto
diffusa e celebre. Boccaccio viene probabilmente citato non solo per la sua riconosciuta
autorità in fatto di lingua, ma, in questo contesto, per la sua conoscenza – data
la rappresentazione che ne offre – dell’animo umano e del suo rapporto con le leggi
della società.
[65] II.3.128-131 Al termine
del dialogo Alceste ribadisce l’identità fra razionale e giusto e, anzi, fa del
giusto un imperativo della ragione, che minaccia castighi a chi non ubbidisce. La
posizione rispecchia, genericamente, la convinzione giusnaturalista secondo la quale
il diritto scaturisce dalla natura razionale dell’uomo.
[66] monsù:
tipico espediente per porre in ridicolo l’ignoranza del personaggio presuntuoso
– in questo caso Pandolfo – è l’attribuirgli una pronuncia approssimativa ed
errata di una parola straniera.
[67] Eh via; doniamo
a’ cavalieri erranti / battersi per l’amor delle lor belle!:
Pandolfo dimostra qui di condividere la superficiale interpretazione di Doralice
sulla figura del cavaliere errante (cfr. I.6.161-174).
[68] Io non curo la
vita / […] / donna sì rea: integrità di coscienza di Alceste.
[69] Basta metter l’affare
in un duellista / ch’esperto sia: ei ben troverà il modo / di scior l’impegno a forza di parole: espressione della generale
tendenza di Pandolfo ad aggirare quanto già pattuito e dunque, in senso più lato,
a trovare stratagemmi per non rispettare le leggi e non prendersi la responsabilità
delle conseguenze delle proprie azioni.
[70] che sono a’ miei diritti ognor difesa / le
leggi e non l’arbitrio: all’atteggiamento di Pandolfo risponde Alceste ribadendo
la propria fedeltà alle leggi, le quali, a loro volta, trovano fondamento nella
razionalità dell’uomo.
[71] Facciamola finita:
è giusto ancora / che di mia libertade anch’io mi serva:
in vendicativa correlazione simmetrica, Pandolfo piega al proprio utile l’impegnativa
difesa della libertà individuale intrapresa dal nipote, abusando però del proprio
ruolo.
[72] S’a voi non preme
/ d’esser ingiusto, converrà ch’io soffra / questo colpo fatale: con un tono
che vorrebbe forse ricordare addirittura il Socrate dell’Apologia, Alceste
si sottomette all’esercizio della libertà dello zio, nonostante lo riconosca ingiusto,
e continua a preferire l’ascolto della propria coscienza e la conservazione della
propria libertà di scelta piuttosto che rinnegarsi e chiedere in sposa Doralice.
[73] la scena conclusiva
del secondo atto mostra un Alceste in veste e toni da tragedia ed è forse la sua
eccessiva serietà a suscitare il divertimento del lettore. Egli si presenta nell’atteggiamento
del saggio stoico che resiste ai colpi della fortuna grazie alla sua virtù e alla
consapevolezza che di essa ha. Nelle sue parole riecheggia nientemeno che l’alto
modello di Orazio: «Fortuna saevo laeta negotio
et / ludum insolentem ludere pertinax / transmutat incertos honores, / nunc mihi nunc alii benigna. // Laudo manentem; si
celeris quatit / pinnas, resigno quae dedit et mea / virtute me involvo probamque /
pauperiem sine dote quaero» (Orazio,
Odi, III, 29). Sarà forse interessante notare come l’espressione «in sua virtude
involto», che torna variata in II.6.5, si trova nella Giunone in danza che
Gianbattista Vico compone in occasione delle nozze di Giovanni Battista Filomarino e Maria Vittoria Caracciolo. Il componimento è pubblicato
nella Raccolta dedicata a tali nozze, stampata a Napoli presso Felice Mosca nel
1721 (poi in Giambattista Vico, Opuscoli,
Milano, Classici italiani, vol. VI, pp. 385-408: 395). Nel testo di Vico, «in sua
virtude involto» è un poeta, «il buon Sersale» (v. 379),
compositore di sonetti per matrimoni, come ad esempio quello compreso nei Varii componimenti per le nozze di Nicolò Parisan Buonanni ed Erberta Vitilio, stampati sempre
a Napoli, presso Felice Mosca qualche anno prima, nel 1717.
[74] tristo esiglio: se ne ricorderà forse il Manzoni nel Cinque
Maggio? O, ancor prima, nella Passione? Nella BIZ (Biblioteca
Italiana Zanichelli) non si trovano occorrenze dell’espressione prima di quelle
manzoniane.
[75] schermir questo
Diogene feroce / e render la sua botte oggi il teatro: nella sua superficialità,
Doralice assimila Alceste al filosofo Diogene, probabilmente sulla base della ricerca,
da parte di entrambi, dell’isolamento rispetto alla società, ma l’orizzonte filosofico
cui si ispira Alceste, come si è già accennato, è ben più ampio.
[76] cangiate
consiglio: cfr. Torquato Tasso,
Aminta, I, vv. 97-98; 129-130; 256-257;
297-298, dove viene ripresa, come in un
ritornello, l’esortazione di Dafne a Silvia «cangia consiglio».
[77] impastoiarla /
tutta di poca stoppa entro un pennecchio: l’immagine, riferita alla sapienza
della serva, è molto efficace in quanto rimanda all’idea di stringere e imbavagliare
tale scienza e, per metonimia, la serva stessa. Impastoiare: legare strettamente;
pennecchio: quantità di lana che si mette in una volta sulla rocca per filarla
(cfr. Crusca, vol. II, p. 736 e vol. 3, p. 547).
[78] cfr. Gian Battista Guarini, Il pastor fido,
CIXV, v. 7: «che s’è fatto d’amor
esca lo sdegno».
[79] facesse la vestal: «fare la vestale» è detto di chi assume
comportamenti intransigenti a tutela di un ideale, per lo più con grande rigore
e senza averne titolo. Doralice non si fida dei consigli prudenti della serva, come
dice esplicitamente al v. 26.
[80] Inutil opra […] / abbiam
già riso: espressione ironica
di Elisa, che disprezza così il riso di Doralice.
[81] Prendilo e leggi: parodia dissacrante del ben più alto
«Tolle, lege» agostiniano (cfr. Agostino
d’Ippona, Confessioni, VIII, 12).
[82] Quanto è codardo!
Insomma / ei ricorre alle
leggi: nel suo sistema
di valori improntato alla ‘furberia’, Scappino identifica il ricorso alle leggi
non con la giustizia, ma con la codardia. L’autore, portando alla luce la meschinità
del personaggio, denuncia la gravità di un costume probabilmente molto diffuso,
quello di chi svilisce l’autorità del diritto per legittimare l’infrazione di una
norma. Il dubbio sul valore delle leggi era già stato espresso da Alceste (II.2.29-32),
che per tutta la commedia continua comunque a sostenere la necessità di rispettarle.
[83] Lasciamo agl’Italiani
empir le carte / di vani complimenti: Scappino si finge un marchese francese
e con questa battuta richiama, avvilendola, l’annosa polemica letteraria cominciata
con il confronto Orsi-Bonhours sul dilemma della superiorità
fra la cultura francese e quella italiana e che affonda le proprie radici nella
più remota Quérelle des
anciens et des modernes. Cfr. Prologo, vv.
94-96.
[84] Sia sempre premio
/ dell’amore l’amor: cfr. i precedenti illustri Michelangelo Buonarroti, Rime, n. 45; Giambattista Marino, Adone, VIII,
116, che analogamente si esprimono, benché collocati in due contesti valoriali distanti.
Scappino è certamente prossimo alla concezione dell’amore veicolata dall’Adone
e il contrasto fra la raffinatezza di questi suoi versi – di cui non è consapevole
– e la viltà da lui finora dimostrata, misto all’affettazione del v. 127, lo mette
ancor più in ridicolo agli occhi del lettore.
[85] Ad onta del mio duolo: nel contesto doloroso di un amore non
corrisposto, l’espressione è impiegata dal protagonista maschile de La Rosaura
del conte Ottavio Malvezzi (1689, II.11.6).
[86] Io ve lo giuro
/ sull’ara del mio cuore al vostro nume: forse peregrino, ma interessante accostamento
è possibile rispetto ad inaspettati versi dell’Alcesti di Emanuele Tesauro
(1665): «Per quel tuo amor
che come nume adoro / giuro che su l’altar di questo cuore / arderà il fuoco eterno
/ del reciproco amore / che tu sola accendesti» (vv. 1649-1653). La disposizione
interiore dei due parlanti è molto diversa: sincera quella di Ameto, che giura eterno amore alla moglie; opportunista e falsa
quella di Scappino, spergiuro. Le analogie lessicali
e le immagini che inducono all’accostamento collocano nuovamente la viltà di Scappino
in un contesto letterario alto, in questo caso quello della tragedia, ponendo in
ridicolo l’ignaro personaggio.
[87] industre mano:
in analogo contesto di rappresentazione di un gesto artistico, cfr. Tasso, Rime, 46 (detto di uno scrittore)
e Marino, Adone, II, 22
(detto di un incisore).
[88] Ma dirovvi però che Doralice / […] / non s’era accorto in lei di
queste doti: il sano realismo di Argante mostra in una battuta tutta la vanità
delle lodi di Doralice, tessute da Scappino lungo molti versi con linguaggio letterario
e affettato.
[89] Ma voi mostrate
sospettar / […] / non dirò questo: si impone qui l’ironia dell’autore e dei
personaggi, che, attraverso le parole, e probabilmente con l’aiuto della mimica,
offrono al lettore/spettatore l’indizio della necessità di interpretare i loro detti
con segno rovesciato. L’ironia pervade tutto il seguito del dialogo fra Argante
e Scappino, fino al concludersi della scena, ed è sottolineata dalla – solo apparente
– deferenza del linguaggio dei due interlocutori.
[90] alteri vanni:
lessico aulico. Un’occorrenza si attesta in Guazzo,
sonetto Del signor Bonifacio Magnacavalli, in
La civil conversatione
(1574) e in Tasso, Nel Battesimo
del secondogenito del serenissimo signor duca di Mantova, in Rime spirituali
(1597).
[91] Convien che ciascun
sia contento e pago / della sua condizion: la battuta
di Argante riecheggia l’antico monito che viene dalla tragedia e dalla storiografia
greche, riassumibile nel celebre ne quid nimis latino,
riletto qui attraverso la lente dello stoicismo.
[92] del viver mio
la miglior parte: la giovinezza. L’espressione ha nobili origini: cfr. Sì
è debile il filo a cui s’attene,
RVF XXXVII 52.
[93] di me la miglior
parte: riprende le parole di Argante riproducendo, però, il verso esatto di
Petrarca: la ripetizione ha forse valore di una ironica correzione comprensibile
solo all’orecchio di un lettore esperto.
[94] Impallidisca e
tremi: lessico mutuato dalla tradizione religiosa e tragica. Cfr. Marco Antonio Rimena, La madre addolorata
(1697), V, ott. XLVIII.
[95] più la pietà che
invidia / merta di risvegliare: topos petrarchesco.
[96] E se fia grave / […] / del suo soffrire: pronunciati da
Doralice, questi versi risultano una sorta di parodia della figura del saggio stoico.
[97] Or via finiamo
il giuoco. Io t’amo troppo, / per fare un mio piacere i tuoi sospetti: in due
battute Argante traccia tutta la distanza fra sé e l’ipocrita Scappino, tra la figura
del padre rigido e autoritario, ma anche affettuoso e sincero, e quella dell’opportunista
che si compiace di confondere le proprie vittime. Contrariamente a quanto fa Scappino,
infatti, Argante insinua un dubbio in Doralice, per rivelarle ben presto la verità.
[98] vo’ che punito
/ resti il suo orgoglio: nella visuale retrospettiva di un lettore che conosce
il finale della storia, questa battuta rivela lo sguardo amaramente ironico dell’autore
sul personaggio: l’orgoglio punito del titolo viene qui proiettato sulla serva Elisa,
che in realtà al termine della commedia avrà la soddisfazione di sposare Alceste,
che ama ricambiata, mentre sarà proprio Doralice a veder abbattuta la propria presunzione
per la disillusione e la vergogna di fronte alla vera identità del marchese de la
Source.
[99] Deh conosci te
stessa e quanto lungi / al giusto ti trasporti: come già prima
aveva fatto la serva, anche Argante ricorda a Doralice la necessità di agire entro
i confini del giusto. Nel caso di III.1.4-5 si trattava di evitare una sorta di
ripicca; in questo caso è in gioco chiaramente una vendetta. Nelle parole di Argante
risuona il motto antico «conosci
te stesso», qui riferito in
particolare alla conoscenza delle passioni che possono offuscare la ragione.
[100] il linguaggio di
Doralice assume, iperbolicamente, i toni della tragedia, rimandando immediatamente
all’archetipo eschileo e, più vicino nel tempo, all’Armida abbandonata di
Francesco Silvani (1744), I.10.
[101] Oh via, non tanto
mal! Già i tuoi trasporti / immaginati avea: a fronte
del linguaggio e della posa tragici di Doralice, ancor più comica appare la battuta
di Argante, che non solo sdrammatizza, ma riconduce realisticamente ad una dimensione
più circoscritta e verisimile la sofferenza provocata dall’abbandono da parte di
un amante, non senza canzonare la figlia per i toni estremi – e da lui previsti
– della sua reazione.
[102] ha lo sdegno e
l’amor ceduto il campo / […] / alla vendetta: sdegno e amore, che qui, secondo
Argante, cedono alla vendetta, sono il seguito dell’Armida tassiana che, sconfitta
e timorosa di divenire schiava, fugge in un luogo solitario dove poi tenterà di
uccidersi (GL XX 117, 8: «Sdegno ed Amor quasi due veltri al fianco»).
[103] una carrellata di proverbi inanellati costituisce,
come da tradizione, il parlare del servo.
[104] nel ciel fiorito
di lucenti stelle: squisitamente secentesca la metafora del «ciel fiorito», introdotta dall’altrettanto
secentesca identificazione fra cielo e teatro al v. 38. Se ne trova analoga – ma
più complessa – occorrenza in Giovanni Vincenzo
Imperiale, Lo stato rustico, (1606): «e ciel fiorito / il bel prato stellato / […]. / Quel Toro, che […] / fiorio di stelle / e stelleggiò di fiori», parte X,
p. 446.
[105] or vado a preparar
la scena: espressione metaforica che diventa immediatamente anche riferimento
metateatrale (cfr. I.8.115-117).
[106] Dunque tu far
non puoi, s’Elisa fossi, / quel che far puote Elvira.
/ […] / Elisa al certo / nulla può far di quel che puote
Elvira: la confusione di Crespino nel ripetere le parole della serva mima la
confusione presente nella sua mente e, naturalmente, quella che sta per avvenire
nella scena successiva, cioè il travestimento col quale Elisa si presenta come Elvira. Travestimento che in realtà, però, è una rivelazione,
in quanto Elvira è il vero nome della donna, che i panni servili, col nome di Elisa,
hanno fino a questo momento coperto. Con sguardo ancora al Seicento, la verità e
l’illusione si scambiano i ruoli e si scopre esser vero quanto in prima battuta
si era creduto finto e falso quanto fino a questo punto della commedia si era creduto
vero.
[107] Ma sia ciò che
si vuole; io per me voglio / questa volta veder quel che riesce: si noti
nella parlata del servo l’inaspettata raffinatezza dell’allitterazione della /v/
al culmine di un breve discorso costruito intorno all’area semantica del volere.
[108] in un punto:
in un solo istante.
[109] ignoto gelo al
cuore: cfr. Virgilio, Eneide,
IX, 498.
[110] il varco mi chiudesse:
cfr. GL IV, 31. L’espressione si trova poi anche nel poema eroico di Giacomo Grisaldi,
Costantino il grande, ovvero Massentio sconfitto
(1620) canto V, ottava 51.
[111] IV.11.27-29: i versi
sembrano parodizzare l’uscita di Tancredi dall’incanto
della foresta di Saron in GL XIII 47-48.
[112] mi sento il petto
/ che in lacrime per gli occhi si discioglie: cfr. Purg XXX 97-99.
[113] Tutto il paese
e i forestieri ancor: la spavalderia di Scappino si spinge fino alla parodia
della parabola evangelica della festa di nozze (Mt 22, 8-9; Lc 16,21-23).
[114] noioso esilio:
espressione ricorrente nelle opere religiose per indicare la permanenza dell’anima
nel peccato, cioè lontano dal Signore, o nel corpo (cfr. ad esempio Luc Vaubert, La
divozione a Gesù Cristo nell’Eucarestia (1721); Lodovico Jacobilli, Vita del beato
Tomaso, detto Tomasuccio (1644).
[115] andiamo pur dove
ci guida amore: cfr. Serafino Aquilano,
Le rime, sonetto XXI, v. 1.
[116] monologo di Alceste
contro la tirannia del fato, intessuto naturalmente dei temi-cardine della filosofia
stoica, primo fra tutti la capacità di resistere attraverso la virtù ai colpi della
fortuna, che qui Alceste osa addirittura sfidare e umiliare.
[117] che solo i furbi
san godere il mondo / alle spese di quei che non lo sono: la prospettiva del
servo, esposta in poche righe e ben radicata nella sola esperienza sensibile, si
colloca in avvilente antitesi rispetto al monologo di Alceste che apre la scena.
[118] aure odorate:
cfr. Giambattista Marino, Il velo
e le aure in La lira, Torino, 1614. ♦ il varco a ogni
mortale: cfr. IV.11.22 il linguaggio di Alceste è sempre molto alto.
[119] Impallidisca e
tremi: cfr. IV.1.4.
[120] Ove virtù s’adora:
cfr. Componimenti poetici per le felicissime nozze dell’ill.mo signor Niccolò
Martelli con l’ill.ma signora Maddalena Tempi (1739), canzone I, vii.
[121] Sentite come parla?:
come era accaduto nel dialogo fra Argante e Doralice, il servo ridimensiona i toni
aulici del lamento di Elvira, modulato sulle armoniche sublimi della tragedia.
[122] ch’il coraggio
mi lascia, o ch’è minore / della sventura mia!: il saggio stoico viene
meno a sé stesso di fronte a quello che gli pare un affronto troppo forte da parte
della fortuna.
[123] Un nome vano /
è l’istessa virtù ch’altri superbo / lungi al periglio inutilmente vanta: la
tempra stoica esibita sin qui da Alceste si mostra in tutta la sua fragilità e
il personaggio è messo in ridicolo per la sua incapacità di tener fede alla
propria posizione filosofica al sopraggiungere di una difficoltà. D’altra parte è anche evidente la polemica nei confronti
della convinzione per cui la virtù possa vincere la fortuna, considerando i suoi
beni come indifferenti: agli occhi di Alceste appare ora chiaro che tale
indifferenza vale finché si osserva il pericolo da lontano, come nella condizione
del già ricordato saggio stoico del libro II del De rerum natura di Lucrezio.
[124] tra l’erbe e i fior, baratri, spine ed angui: cfr. I.1.49.
[125] fiero / pasto:
eco tragica da Inf XXX 1.
[126] V.3.47-56: esposizione
della dottrina atomista secondo cui gli enti in generale sono generati dal congiungimento
degli atomi e la loro fine coincide con lo scioglimento dei legami fra i medesimi,
che, così svincolati, sempre uguali a sé stessi, assumeranno nuove configurazioni
e daranno origine ad altri corpi. Per questo non si deve temere la morte: essa è
solo un disgregarsi di atomi, tanto che quando essa arriva l’individuo non esiste
più. La dottrina dei mondi infiniti appartiene già all’atomismo democriteo e giunge
fino a Giordano Bruno, il cui pensiero certamente l’autore conosceva.
[127] sull’ara atroce
/ vittima sono e sacerdote: parodia dissacrante della liturgia cattolica, nella
quale, nel Prefazio pasquale V, Gesù viene definito «altare, vittima e sacerdote».
[128] il mio frale: la parte caduca dell’uomo, il corpo.
[129] mi contrasta il trionfo: cfr. III.3.25.
[130] sciorre il volo: espressione aulica, cfr. Rime di Uranio Tegeo,
in Rime degli Arcadi, Roma, Antonio Rossi, 1716, vol. I, p. 318. Dietro
il nome di Uranio Tegeo c’è uno dei fondatori dell’Arcadia, Vincenzo Leonio (1650-1720),
come Rucellai dedito alla professione forense, oltre che appassionato letterato.
[131] indifferente: parola chiave dello stoicismo che qui riguarda
il dilemma radicale di Amleto, posto sullo sfondo del monologo di Alceste: vivere
o morire. Per il saggio le due strade sono ugualmente percorribili e di pari valore,
a seconda di cosa la propria virtù gli suggerisca. Emblematico a questo proposito è il pensiero di Montaigne: «La préméditation
de la mort est préméditation de la liberté. Qui a appris à mourir, il a désappris
à servir. Le savoir mourir nous affranchit de toute sujétion et contrainte. Il n’y
a rien de mal en la vie pour celui qui a bien compris que la privation de la vie
n’est pas mal» (Montaigne, Essais I, 87).
[132] V.4.9-12: espressioni
degne di un’eroina tragica, come la Fedra di Seneca e di Tesauro (cfr. in
particolare Emanuele Tesauro, Ippolito, IV, i, 1495-1497).
[133] sbranarmi il cuor:
l’espressione precisa si trova in Francesco
Loredano, Bigontio, commedia piacevole
e sentenziosa, 1609, II.2, ma
si veda ancora Tesauro, Ippolito:
«e quel tuo cor, che questo cor mi svelse, / del
voltoio infernale al ferreo rostro / sia trastullo dolente e pasto eterno» (V, iv).
[134] E chi mi toglie
/ questa furia, o la vita?: «Tu, quarta Furia, co’
cardassi adonchi» (Tesauro,
Ippolito, V, iv).
[135] oppressa, e carca:
come la navicella di Niceto, in Francesco
Bracciolini, La croce raquistata. Poema eroico,
Piacenza, 1613, libro 18.1.
[136] dolce mormorar:
cfr RVF CCXLV.
[137] e sotto il duro
aratro / geme stupido il bove; cfr. Virgilio,
Georgiche, I, 68-69.
[138] quadro idillico pastorale,
una sorta di visione, esito di un’improvvisa mutazione interiore del protagonista
che richiama da lontano la conversione della Clorinda tassiana (GL XII 64-69),
come conferma anche un sistema non casuale di corrispondenze testuali (cfr. vv. 65-66). Per i singoli topoi
(fiori, erbe, boschi, augelli, onde, rio, stelle, armenti), già diffusi nella poesia
latina e in particolare virgiliana, si veda Marino,
Rime boscherecce, I, cui questi versi sembrano conformarsi più da vicino.
[139] e un non so che
d’ignoto / ad amarti mi sforza: cfr. GL XII 66: «un non so che di flebile e soave / […]
/ e gli occhi a lagrimar gli invoglia e sforza».
[140] V.4.55 e 68-69:
per due volte, in un breve giro di versi, ricorre il termine «orgoglio», inteso
senza dubbio con identico significato (al vv. 68-69
Elvira dice «ed un istesso orgoglio»); un significato che, però, come si evince
dal contesto, è eccentrico rispetto a quello consueto, valido invece in tutte
le altre numerose occorrenze del testo. L’impiego inusuale e straniante del
termine induce a credere che, nel suo disvelarsi, il reciproco amore fra
Alceste ed Elvira, non trovando parole per definirsi, prenda a prestito un termine
chiave dell’opera e ne tenti una sorta di risemantizzazione,
poi fallita: l’orgoglio due volte ripetuto è infatti assimilato al «desio»
pochi versi dopo (v. 71), ma non più utilizzato nel seguito del dialogo. Il
venir meno dell’impiego della parola segna probabilmente la presa di coscienza,
da parte dei personaggi, della pericolosità dell’atteggiamento che le corrisponde,
e dunque della necessità di superarlo, come dimostrano le occorrenze successive
(tutte in bocca ad Alceste in V.11.48, 84, 179). Non si riscontrano in Crusca
attribuzioni di significato che pongano in risalto il rapporto orgoglio/desio
qui suggerita dai personaggi di Rucellai.
[141] V.5.10-15: di fronte
allo zio Pandolfo, Alceste afferma con sicurezza la propria posizione, facendo leva
su alcune convinzioni-cardine delle filosofie stoica ed epicurea: l’autarchia e
il dominio di sé che rendono l’uomo legislatore di sé stesso e l’identificazione
fra bene – e dunque giusto – e un piacere che non va inteso come meramente sensibile.
♦ E chi può dire ingiusto / […] / di natura servir?: il giusto è ancora
una volta identificato con l’inclinazione naturale (cfr. I.3.99-101).
[142] ignuda: «per estensione vale altresì povero», Crusca,
V edizione, vol. VIII, p. 37.
[143] V.8.31-33: anche
Argante sembra condividere la posizione stoicheggiante
di Alceste.
[144] ingorde canne:
«canne» per gole.
«Bramose» sono le canne di Cerbero in Inf VI 27.
Cfr. Crusca, vol. I, p. 534.
[145] fura: aulico
per «ruba». Crusca riporta alla
voce furare esempi di poesia alta. L’effetto comico risulta dalla sua attribuzione
all’astuta serva.
[146] V.8.66-80: in queste
battute Pandolfo rivendica una serie di privilegi sulla base di alcune inveterate
convinzioni della nobiltà, incarnandone così la voce più conservatrice, ottusa e
ingiusta, che confonde la realtà col proprio giudizio e nega valore alle leggi che
promuovono maggior uguaglianza all’interno della società. ♦ i suoi penati:
metafora che indica i beni da lasciare in eredità, in quanto i penati venivano tramandati
di padre in figlio.
[147] V.8.95-101: se Argante
sembra continuare a condividere la prospettiva stoica, dando corso al proposito
di accettare saggiamente il fato, Pandolfo ribatte con un buon senso quasi popolare,
per cui, nel governo del corso della storia, l’alternativa alla necessità fatale
non è l’opera dell’uomo libero, ma quella del folle.
[148] Cocchio aurato:
l’immagine è di consunta tradizione, ma l’espressione precisa ricorre, tra i contemporanei
di Rucellai, in una Canzonetta scritta in occasione delle nozze del cavalier
Tommaso Amati, nobile patrizio pistoiese, e della marchesa Laura Malaspina, contenuta
in Saggi di poesie diverse dell’illustrissimo Marcello Malaspina, accademico
della Crusca (1741), p. 125.
[149] il varco chiuse:
cfr. IV.11.22.
[150] mi volsi addietro,
/ come fa quei che l’onda perigliosa / guata dal lido: evidente rimando al ben
più drammatico Inf I 22-24.
[151] Oggetto di piacere
/ si fa il periglio istesso a chi n’è lungi: ancora un riferimento al prologo
del libro II del De rerum natura lucreziano, cfr. II.1.10-13.
[152] V.11.38-41: di fronte
alla superficialità dell’impulsiva Doralice che invoca il suicidio per nascondere
la propria vergogna, Alceste dimostra ancora una volta la sua inclinazione ad un
approccio filosofico alla storia individuale e invita la donna a considerare che
talvolta il destino, con la sua forza coercitiva, conduce l’uomo verso il bene,
salvandolo così dalle derive cui lo avrebbero portato una volontà e un desiderio
mal diretti. Nei successivi vv. 42-47 Argante mostra di
condividere l’insegnamento di Alceste e gli fa eco, ricordando alla figlia il vantaggio
che le viene dalla situazione che sta vivendo: di fronte ad un pericolo serio è
stata preservata, benché abbia perso quello che credeva essere l’uomo amato. Da
questa esperienza Doralice dovrebbe imparare a considerare i fatti della propria
vita e a modulare le proprie reazioni di fronte ad essi.
[153] V.11.48-51: Alceste approfondisce ulteriormente la
questione, ponendo l’attenzione sull’utilità – in termini psicologici ed etici –
che l’uomo potrebbe trarre dalla considerazione che quanto sembra un male da una
prospettiva individuale molto probabilmente è un bene da una prospettiva più ampia,
collettiva o addirittura universale. La dialettica fra microcosmo e macrocosmo,
punto di vista individuale e universale attraversa tutta la storia della filosofia
occidentale.
[154] V.11.52-57: come
di consueto Pandolfo ridicolizza la filosofia del nipote riportandola all’orizzonte
del presunto buon senso e del calcolo dell’utilità, per cui sposare una serva risulta
una vera follia: la stessa filosofia servirebbe ad Alceste solo per giustificare
il proprio comportamento, inspiegabile all’interno dei canoni dello zio.
[155] Questa al certo
è pazzia. / […] / un oracol sarà: inaspettata e curiosa
sorta di profezia che l’autore pone in bocca a Pandolfo, nella quale il viaggio
sulla luna è da considerarsi un adunaton e insieme
un’iperbole forse mirati a effetti di comicità, con uno sguardo d’intesa al lettore
accorto, che vi coglie il riferimento al viaggio di Astolfo sulla luna proprio con
lo scopo di ritrovare il senno di Orlando e dunque guarirlo dalla follia (Ludovico Ariosto, Orlando furioso,
XXXIV, 71-83).
[156] V.11.61-65: nel concitato
dialogo fra i due, Alceste risponde allo zio con la medesima sua ironia, riconoscendogli
quella vena filosofica che Pandolfo aborre. La lettura delle «misteriose cifre / sparse
in questo universo» è un chiaro rimando
alla filosofia naturale del XVI e del XVII secolo, che nella visione filosofica
attribuita ad Alceste si affianca alla già più volte ricordata tradizione ellenistica.
[157] pietoso inganno:
cfr. Guidubaldo Bonarelli, Filli di Sciro. Favola pastorale, 1620, I.2.
[158] dolce forza: in contesto significativamente analogo, l’espressione si trova in RVF
CXCIV 4.
[159] V.11.71-90: la parlata
di Alceste è costruita sulla base della dialettica fra servitù e libertà, dove la
servitù lascia il posto a risemantizzati lacci d’amore che, benché non siano frutto
di libera scelta, liberamente vengono accolti da una ragione cui la libertà è stata
appena restituita. La ragione, dunque, che per tutta la commedia era stata baluardo
contro il giogo con cui il protagonista identifica il matrimonio, diventa ora strumento
per riconoscere la necessità delle nozze prevista per Alceste dal destino. La medesima ragione, che egli aveva creduto seguire
nel suo atteggiamento di disprezzo nei confronti di tutti gli uomini e che per questo
era creduta strumento di libertà, si scopre allora essere stata ‘imbrigliata’, durante
tutto il corso della commedia, da quell’orgoglio ora finalmente umiliato, come Alceste
stesso riconosce al v. 79.
[160] nell’esclamazione
sorpresa di Doralice, che sembra qui per la prima volta prendere coscienza della
questione, si riconosce l’adagio senecano di matrice stoica «ducunt volentem fata, nolentem trahunt» (Seneca,
Epistole a Lucilio, 107,11). L’espressione sarebbe mutuata dal filosofo antico
Cleante, anche se l’attribuzione non è certa: si veda Stoicorum
Veterum Fragmenta, raccolti
da Hans von Arnim (1903), I, 527.
[161] talor felice si
è l’istesso errore: il riferimento archetipico è certamente la «felix culpa»
del Preconio pasquale, dove il peccato di Adamo è così definito in quanto meritò
Gesù Cristo come redentore. Nell’economia della commedia l’affermazione è probabilmente
da ricondurre alla dottrina già esposta da Alceste sulla capacità del destino di
guidare l’uomo verso il proprio bene, nonostante gli ostacoli posti dall’uomo stesso
(cfr. V.11.38-41).
[162] Che dovrem dunque / accomodarci al fato: Pandolfo sembra qui prendere coscienza della massima
stoica che Seneca avrebbe mutuato da Cleante (cfr. V.11.100-101), nella quale il
fato – è bene ricordarlo – corrisponde ad una razionalità divina. Tuttavia, pochi
versi dopo, egli si considera bersaglio dell’ira del cielo, smentendo dunque la
posizione espressa in questi versi.
[163] che spesso il
nostro orgoglio / inganna la ragione e ci fa oggetto / di riso e di pietade al volgo istesso: la battuta finale che contiene
la morale della favola chiude il cerchio rispetto al prologo, precipitando in poche
righe tutti i concetti chiave della commedia: l’orgoglio, la ragione, l’inganno,
il volgo, il riso e la pietà (il diritto, apparentemente escluso, sarà da comprendere
nella ragione). Pur in diretta relazione con
l’atteggiamento di Pandolfo, l’unico fra tutti i personaggi restio a piegarsi al
fato, la considerazione conclusiva interessa anche l’esperienza di Alceste, che
solo alla fine riconosce la servitù della propria ragione rispetto all’orgoglio;
tocca l’esperienza passata di Elvira; infine riguarda la condizione presente di
Doralice, il cui orgoglio viene umiliato in modo particolare, in quanto, al calare
del sipario, è stata delusa da un amante bugiardo ed ha visto uno dei suoi pretendenti
sposare una (presunta) serva.